LUIGI CAPUANA PER L’ARTE Je te dis toujou la même chose, parce que c’est toujou la même chose; et, si ce n’étoit toujou la même chose, je ne te dirois pas toujou la même chose. Molière, Don Juan, acte II. CATANIA NICCOLÒ GIANNOTTA, EDITORE Via Lincoln, N. 271-273. 1885. Proprietà letteraria dell’Editore Niccolò Giannotta. PER L’ARTE Confesso ingenuamente che non mi ci raccapezzo più. Che cosa si vuole? Pare non lo sappiano, precisamente, nemmeno quelli che urlano più forte, tanta è la confusione delle idee. — Voi altri produttori — mi diceva uno qualche anno fa — avete il gran torto di badar troppo alla critica e al pubblico. Il vostro ufficio dovrebb’essere uno solo: produrre e bene. Ma come si fa? Quando il libro esce fuori a cercar II la ventura di un buon successo, è impossibile restar indifferenti, non tendere un orecchio a quel che si dice intorno ad esso da amici e avversari. Col suo lavoro, l’artista ha voluto produrre una ripercussione delle sue sensazioni, dei suoi sentimenti, delle sue idee. É riuscito? Sì o no? Mi par naturalissimo che egli cerchi di saperlo. Allora si accorge che il problema artistico (dell’arte della parola scritta) è, in Italia, immensamente più complicato che altrove. Infatti è un problema nuovo. — Come un problema nuovo? — mi par di sentirmi interrompere — Vorreste darci ad intendere che siate voialtri i primi ad occuparvi di arte in Italia? Non furono dunque scritti dei romanzi, delle novelle, delle commedie, delle tragedie, delle liriche assai prima che i vostri romanzi, III le vostre novelle, i vostri drammi e le vostre liriche venissero fuori? — Precisamente no, nel modo che intendiamo noi, fatte due sole eccezioni pei Promessi Sposi del Manzoni e per le poesie del Leopardi. Forse il D’Azeglio e il Guerrazzi badavan molto all’arte quando scrivevano i loro romanzi storici? Forse il Niccolini pensava, soprattutto, all’arte quando scriveva le sue tragedie? Forse i nostri poeti pensavano unicamente all’arte quando ripetevano in diversi toni: va fuori, stranier? No; congiuravano, battagliavano, agivano da patriotti; facevano forse, (ve lo concedo volentieri) qualcosa di più proficuo dell’arte; ma dell’arte, dell’arte pura e semplice, no davvero. Vinta la necessità politica, che n’è rimasto di IV tanti lavori? Nè una pagina, nè una scena, nè una strofa; dobbiamo avere il coraggio di affermarlo ad alta voce. Aprite la Battaglia di Benevento, l’Assedio di Firenze e, dopo lo sforzo di leggerne mezzo capitolo, vi sentirete cascar le braccia. Aprite l'Antonio Foscarini, il Giovanni da Procida, l'Arnaldo da Brescia e, dopo la gran fatica di declamarne una o due scene, non anderete più avanti. — Ah, vedremo poi che mai rimarrà del vostro famoso realismo! Una cosa sì, certamente: le sgrammaticature e i versi zoppi. — Nemmeno questi, aggiungo io, ma un grande insegnamento: l’amore, il rispetto, il culto disinteressato dell’arte. Vi par poco? Come vedete, non siamo superbi. Voi altri però siete ingiusti. Ci accusate continuamente V di far le scimmie ai francesi. Secondo voi, i nostri romanzi, le nostre novelle sono calcate sulla falsa riga dello Zola e compagnia bella. No, signori. La vostra accusa è vera fino a un certo punto, ed è un'accusa che ci torna a lode; possiamo farcene un merito. Prima di metterci a scrivere guardammo attorno, davanti, addietro a noi. Che vedemmo? Vedemmo il romanzo moderno già grande, già colossale in Francia, col Balzac, e neppur in germe in Italia. Sotto il piedistallo del monumento che il Balzac si è rizzato da sè aere perennius, vedemmo una schiera di scrittori di primo ordine che ha lavorato a ripulire, a migliorare, a perfezionare la forma lasciata a mezzo dal maestro: il Flaubert, i De Goncourt, lo Zola, il Daudet, e dicemmo risolutamente: bisogna VI addentellarsi con costoro! Ci mettemmo subito all’opera. Un’opera infernale. Pel nostro lavoro avevamo bisogno di una prosa viva, efficace, adatta a rendere tutte le quasi impercettibili sfumature del pensiero moderno, e i nostri maestri non sapevano consigliarci altro: studiate i trecentisti! Avevamo bisogno d'un dialogo spigliato, vigoroso, drammatico, e i nostri maestri ci rispondevano: studiate i comici del cinquecento! Parlavano sul serio. Noi li guardammo nel bianco degli occhi e facemmo una spallucciata. Fu forza decidersi a cercare qualcosa da noi, a tentare, a ritentare; quella prosa moderna, quel dialogo moderno bisognava, insomma, inventarlo di sana pianta. I toscani, che avrebbero potuto darci il gran soccorso VII della loro lingua viva, non facevano nulla; covavano Dino Compagni e la Crusca e in questo affare sudavano a goccioloni. Dovevamo rimanere colle mani in mano, aspettando la prosa nuova di là da venire? E ne abbiamo imbastita una pur che sia, mezza francese, mezza regionale, mezza confusionale, come tutte le cose messe su in fretta. I futuri vocabolaristi non la citeranno (eppure, chi sa? Fénélon disse: c'est dommage que Molière ne sache pas écrire, e Molière oggi è un classico); ma gli scrittori che verranno dietro a noi ci accenderanno qualche cero, se non per altro, per l'esempio di aver parlato scrivendo. Se voi sapeste che travaglio c’è costata questa prosa ora da voi fulminata con tanto disdegno! E se VIII voi sapeste come ne siamo scontenti! Ma è meglio che nulla. Mettetevi una mano sulla coscienza; ne conoscete un’altra che le stia a paro, per movimento, per calore, per colorito? Abbiate la bontà di mostrarcela. Con tutti i suoi difetti, con tutte le sue improprietà, con tutti i suoi francesismi, con tutti i suoi provincialismi, almeno essa è organica, è viva, è moderna. Se ha un saporetto acre, non è per ciò repugnante; se si mostra un po’ in disordine, è per effetto dei nervi irritati. Infine, è sincera. — Oh! Oh! E la prosa del Leopardi? — Senza dubbio, è ammirabile: un marmo greco; ma dà, convenitene, la sensazione fredda del marmo. Ci occorreva ben altro per descrivere le nostre sensazioni complesse, IX le nostre moderne passioni. Non siamo mica greci noi; siamo italiani di dopo il sessanta, e tali vogliamo apparire nell’opera d’arte, romanzo o novella.... Lasciatemi continuare. I nostri predecessori, i nostri maestri stranieri, quando noi ci mettevamo all’opera, avean già fatto molto anche per quel che riguarda l’osservazione, il contenuto dell’opera d’arte. Da gente abile, sperimentata, rotta al mestiere, si erano sbrancati qua e là, non avevano, si può dire, lasciato un pollice del cuore umano, da dissodare, da lavorare; avean messo tutto sossopra. Sul punto di imitarli, ci trovammo da questo lato in un grande imbroglio. La civiltà, questa inesorabile livellatrice, ci faceva apparire più imitatori di quel che non eravamo in realtà. Un torinese, un milanese, un fiorentino, X un napolitano, un palermitano dell’alta classe e della borghesia differiva, esteriormente e interiormente, così poco da un parigino delle stesse classi che il coglierne la vera caratteristica presentava una difficoltà quasi insuperabile, almeno a prima vista. Allora, per ripiego, rivolgemmo la nostra attenzione agli strati più bassi della società dove il livellamento non è ancora arrivato a render sensibili i suoi effetti; e vi demmo il romanzo, la novella provinciale, (più questa che quello) per farci la mano, per addestrarci a dipinger dal vero, per provarci a rendere il colore, il sapore delle cose, le sensazioni precise, i sentimenti particolari, la vita d’una cittaduzza, di un paesetto, d’una famiglia... Ingrati che siete! Non ce ne avete saputo grado. Non ci avete presi sul serio. Le XI vostre idee intorno all’arte non sono andate progredendo col progredir delle nostre. Arrestandovi alla buccia, incaponiti in quella fisima della nostra imitazione dei francesi, non vi siete nemmeno accorti che la novella italiana — questa novella che vi indispone, che v’irrita, che non volete più leggere perchè è corta quanto un motto da anello come diceva il Moro dello Shakespeare — non vi siete nemmeno accorti, ripeto, che la novella italiana è già riuscita ad essere un prodotto originale, una felice applicazione di quei canoni d’arte altrove adoperati più specialmente nel romanzo; qualcosa insomma da poter figurare benissimo in confronto delle tante ricchezze di arte di quel genere che le altre nazioni posseggon da un pezzo. Che possiamo noi farci, se non volete accorgervene? XII Continueremo a lavorare, colla certezza che, presto o tardi, ve ne avvedrete. — Ahimè!.. Questo diluvio di novelle dovrà dunque durare ancora? — Noi strabiliamo! Si è riuniti a far qualcosa di buono — lo riconoscono gli stessi stranieri che se ne intendono, se non per altro perchè hanno esercitato questo mestiere tanto tempo prima di noi — ed ecco che voi ci dite: auff! ne abbiamo fin sopra i capelli! — Ma noi vogliamo dei romanzi, delle opere di polso.... — Ah! noi vorremmo darvi un capolavoro al mese o, almeno, uno ogni sei mesi... — Ci contenteremmo di uno ogni tre anni. — Grazie: siete discreti! — Ma voi altri romanzieri italiani XIII avete il fiato corto. Messo fuori un volume, mediocre, vi par di aver fatto le dodici fatiche di Ercole e vi riposate, per degli anni; o state a ponzare, a ponzare. Il Carducci ve l'ha detto chiaro e tondo: l'ingegno italiano non ha reni e ha le tentazioni inutili e poco pulite dell'impotenza. La fantasia italiana è un utero ammalato... Il romanzo e il teatro sono per noi due baie peggio che quella di Assab... La poesia tira il gambetto... Gli credete al Carducci? — Lo rispettiamo e lo ammiriamo; e, se non sapessimo di farlo andare in collera, vorremmo dirgli, per esempio che la poesia, in Italia, non è sul punto di tirare il gambetto mentre vive chi ha saputo scrivere l'ode Alle Fonti del Clitummo, per citarne una sola. Lo rispettiamo e rammiriamo, anche quando il suo XIV sdegno generoso gli impedisce di osservar freddamente e giudicar con rettitudine. Il Carducci, per mostrarsi giusto, non dovrebbe far altro che voltarsi addietro e guardare il cammino che egli ha percorso prima di salire all’altezza dov’ora siede, solitario, come tutti i grandi ingegni. Egli è andato tentoni un gran pezzo, e soltanto da poco tempo in qua si è rivelato un vero poeta moderno. Che lavoro di assimilazione non gli è toccato di fare! Hugo, Heine, Musset, i parnassiani, gli ha dovuti digerire tutti, uno appresso all’altro, convinto che le forme poetiche avean già prodotto, fuori d’Italia, una rifioritura novella e bisognava tenerne conto. Perchè dovrebbe dispiacergli che altri, in una diversa branca d’arte, faccia ora lo stesso? E non vedete com’egli già ceda, come XV già pieghi anche nella prosa? Confrontate uno dei suoi primi lavori con uno degli ultimi delle Confessioni e battaglie, la polemica pel Ça ira. Qui è un uomo in carne e in ossa, un grande scrittore che parla; lì appena appena uno scrittore. Volete che ve la dica chiara e tonda anch’io? In questa sua recente prosa, tutta muscoli e nervi, acciaiata, penetrante come una lama di coltello, splendida di fascettature come un diamante di purissima acqua, la nostra prosetta arruffata, scorretta, ma sincera, ma viva... sì, sì, la nostra prosetta credo che c’entri per qualche cosa. Egli ci ha inteso balbettare e, dallo sdegno, ha buttato lì la sua zimarra a foggia classica e ci ha detto: grulli, ecco come dovreste parlare! Egli ha ragione, dovremmo parlare XVI quasi a quel modo... Ma abbiamo forse avuto il tempo di prender dei bagni di filologia? Abbiamo dovuto contentarci del poco, del press’ a poco. Eppure, con mezzi insufficientissimi, possiamo francamente gloriarci di aver già fatto qualcosina di discreto. Leggete qui, attentamente. Sull’imbrunire comare Maruzza coi suoi figlioletti, era andata ad aspettare sulla sciara, d'onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara, a quell'ora, parevano le anime del purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco alla povera donna, le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava XVII le canzonette colla voce tremola che sapeva di lagrime anche essa. Le comari, mentre tornavano dall'osteria coll'orciolino dell'olio, o col fiaschetto del vino, si fermavano a barattare qualche parola con la Longa senza aver l'aria di nulla, e qualche amico di suo marito Bastianazzo, compar Cipolla, per esempio o compare Mangiacarubbe, passando dalla sciara per dare un'occhiata verso il mare, e vedere di che umore si addormentasse il vecchio brontolone, andavano a domandare a comare la Longa di suo marito e stavano un tantino a farle compagnia, fumandole in silenzio la pipa sotto il naso, o parlando sottovoce fra di loro. La poveretta, sgomenta da quelle attenzioni insolite, li guardava in faccia sbigottita, e stringeva al petto la bimba come se volessero rubargliela. XVIII Finalmente il più duro o il più compassionevole la prese per un braccio e la condusse a casa. Ella si lasciava condurre, e badava a ripetere: Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria! I figli la seguivano aggrappandosi alla gonnella, quasi avessero paura che rubbassero qualcosa anche a loro. Mentre passavano dinanzi all'osteria, tutti gli aventori si affacciarono sulla porta, in mezzo al gran fumo, e tacquero per vederla passare come fosse già una cosa curiosa. — Requiem eternam, biascicava sottovoce lo zio Santoro; quel povero Bastianazzo mi faceva sempre la carità quando padron 'Ntoni gli lasciava qualche soldo in tasca. La poveretta che non sapeva di essere vedova, balbettava: — Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria! Dinanzi al ballatoio della sua casa XIX c'era un gruppo dì vicine che l'aspettavano e cicalavano a voce bassa fra di loro. Come la videro di lontano comare Piedipapera e la cugina Anna le vennero incontro, colle mani sul ventre senza dir nulla. Allora ella si cacciò le unghie nei capelli con uno strido disperato e corse a rintanarsi in casa. — Che disgrazia! dicevano sulla via. E la barca era carica! Più di quarant'onze di lupini. Rovistate pure tutti i nostri scrittori da trecent’anni in qua, i più puri, i più classici; e trovatemi, se vi riesce, due pagine che possano reggere al confronto di queste qui per evidenza, per colorito, per giustezza d’intonazione e di sentimento, per potenza d’arte. Io, francamente, ve li regalo tutti, in un mazzo, certo di comperare a buon mercato queste pagine di un barbaro XX che non sa — come va dicendo qualcuno — non che la lingua, neppur la grammatica! Come se lo scrivere un romanzo e una novella fosse soltanto un affare di stile e di grammatica! Ne conosciamo parecchi che maneggiano la lingua e lo stile con invidiabile bravura e, se scrivono un articolo di giornale o un discorso, incantano e fanno venir l’acquolina in bocca ai poveri diavoli che non sono da tanto. Ma i poveri diavoli si consolano qualche poco scorgendo che quello strumento non par più lo stesso (e neppure il suonatore) allorchè il virtuoso, così, come per chiasso, tenta di suonare la musica che quei poveri diavoli suonano efficacemente coi loro strumentacci dozzinali. Lo Stradivarius, in quell'occasione, non giova a nulla. Il virtuoso, che filava così bene le XXI sue melodie, non arriva a prendere l’intonazione giusta con quella musica che fa dei salti di quinta e di sesta come un diavolo scatenato. Nell’accuratissima interpretazione di lui le note ci son tutte fino a una, il tempo è marcato bene, ma, ma... manca un che, ddu certu non so chi dell’abate Meli. E i poveri diavoli che stanno a sentirlo, di tratto in tratto, pur ammirandolo molto, vorrebbero gridargli: o faccia una bella stonatura, in nome di Dio! È quel che ci vuole — E non glielo dicono per non parere presuntuosi. — Ma così vi fate i paladini della sciatteria dello stile, della licenza grammaticale, della prosodia zoppicante... — Niente affatto! Se dietro l’esempio, mal compreso, del Verga, una turba di scolaretti si è messa allegramente XXII a proclamare la Comune dalla sintassi, non c’è da farne gran cosa. Il Carducci (e dev’esserne arrabbiatissimo) ha dato la stura alla inondazione della metrica barbara; lo Stecchetti alla pioggia di fango dei sonettucci pornografici. Se il Rapisardi non ci ha covato una nidiata di poeti epico-didattico-materialisti, nemici personali di Dio e del Diavolo, dovete unicamente attribuirlo alla circostanza che dieci, dodici canti in verso sciolto, colle relative liriche intramezzate qua e là, non si buttano giù in poco tempo; e gli imitatori sono scanzafatica, altrimenti non prenderebbero quel comodissimo mestiere. Ed è per così poco che voi vi indegnate, che voi ingrossate la voce e predicate il finimondo? Guardate qui. Questa trentina di volumetti stampati a Pisa dal 1748 al 1799, sono XXIII il Parnasso degli italiani viventi. De Rossi, Bondi, Pignotti, Antinori, Anquillesi, Diodata Salluzzo, Cerretti... Chi ne sa oggi più nulla? E mezzo secolo fa eran così celebri da meritarsi una ristampa nel Parnasso degli italiani viventi insieme col Monti e col Parini!... Non mi fate divagare. Noi abbiamo avuto forse il torto di far un gran salto e pretendere che il pubblico lo facesse dietro a noi. Dal romanzo storico-politico, siam sbalzati, di lancio, al romanzo di costumi contemporanei; dalla forma tutta personale (dovremmo forse dire semplicemente: da un pretesto di forma) alla vera forma dove l’opera d’arte non vuol essere altro o, almeno, vuol essere innanzi tutto un’opera d’arte; e n’è nato un putiferio. La gente avrebbe dovuto discutere d’arte... XXIV e si è messa a strillar per la morale. Chi gliela maculava la sua morale? Avrebbe dovuto esaminare se noi facevamo bene ad assimilarci tutte le nuove ricchezze di forma del romanzo moderno, dovunque esse si trovavano, e ci ha sputato in faccia che non ci crede capaci di fare, impotenti lucidatori di disegni altrui, neppure uno sgorbio di nostro. Avrebbe dovuto incoraggiarci nell’arduissimo tentativo di ridurre a materia d’arte la vita italiana, ritraendola direttamente dal vero, e non co’ soliti cieli di carta turchina o colle solite campagne di verde inglese brizzolato di rosso e di giallo per simulare i crisantemi e i rosolacci, e non colle contadinelle di terra cotta e le signore vestite di cencio, dalla testina di cartone verniciato; e invece ha risposto col voltarsi in là, turandosi XXV il naso col fazzoletto.... Che si aspettavano dunque? Si aspettavano delle cose divertenti, da toccargli la corda sensibile; insomma non volevano annoiarsi (è la parola sacramentale) in compagnia di certa gentaglia. La critica, quella che giudica e manda secondo che avvighia, vorrebbe intanto una cosina da nulla, dei capolavori — Diavolo? Perchè non facciamo dei capolavori? — Sicuro; ce lo domandiamo anche noi: perchè non facciamo dei capolavori? Ma, santo Iddio, se incominciamo appena ora! Ma se non abbiamo avuto neppure il tempo di apprendere bene il mestiere, di scioglierci la mano! Dei capolavori? Si fa presto a dirlo. Dovreste piuttosto osservare che vent'anni fa l’Italia non aveva neanche questo pochino che noi, a furia di XXVI sforzi, abbiamo potuto apprestarle. Dal latte e miele del Carcano al pane nero del Verga la distanza è incredibile. — Ma noi cotesto pane nero non possiamo mandarlo giù. Dateci della briosche, se ne avete. Volete che ci spezziamo i denti con quelle pagnotte più dure dei sassi?... E poi, noi siamo pubblico, noi siamo lettori; non abbiamo molto tempo da perdere, e già ne perdiamo un buon poco stando a sentire le vostre eterne quistioni di realismo e non realismo, di naturalismo, di sperimentalismo, di arte personale o impersonale.... Una musica da gatti! Non siete di accordo fra voialtri critici e scrittori, e vorreste che noi vi si dèsse retta? — Qui avete centomila ragioni! — Per esempio: i vostri documenti umani... XXVII — Ah, non me ne parlate! Se un romanzo, una novella vi fa esclamare: Questo è impossibile! Questo non è vero! state sicuri che, novantanove volte fra cento, la colpa è tutta dello scrittore. I romanzi più impossibili sono quelli che accadono ogni giorno sotto i nostri occhi, attorno a noi, in alto e in basso. Non ci sarà mai nè un romanziere naturalista, nè un novelliere verista il quale, abbia tanto coraggio da inventar nulla che rassomigli, da lontano, alle continue e terribili assurdità della vita reale. E se il romanziere e il novelliere rispondono alla vostra esclamazione col mettervi dinanzi i documenti, per provarvi così che essi han narrato un fatto vero, replicate che la difesa diventa peggior dell’accusa. Vorrà dire che essi non hanno saputo XXVIII indovinare il segreto processo di quel fatto vero, che nella loro narrazione s’incontrano delle discontinuità, e quindi l'azione, i personaggi non sian riusciti organici, viventi! Vorrà anche dire: è solamente artista colui che ripete, nella forma letteraria, il segreto processo della natura. Ho qui un documento che dovrà far gola al Verga se gli capiterà sotto gli occhi. Viene da una cancelleria criminale e mi piace pubblicarlo intero, nel suo barbarico stile: « Da molto tempo Carmelo Maugeri di anni 42, campagnuolo da Biancavilla, viveva in illecita tresca con Giuseppa Puglisi, fu Pasquale, di anni 62 (all'epoca del processo. Dal processo si rileva che la Puglisi non volle mai sposare il suo amante). La Puglisi aveva una sorella nubile XXIX e per una di quelle inesplicabili anomalie dell’amore (l'osservazione è del cancelliere o del pretore) aveva costretto il suo amante a sposarla, imponendo però che i novelli sposi dovessero convivere con lei e far vita comune; così durava per conseguenza la unione amorosa con il Maugeri. « E durò finchè l’infelice moglie morì (sic). « Morta costei, continuava la tresca, quando la Puglisi volle che il marito impalmasse la pur troppo bella e buona ragazza Maria Greco. La dispotica Puglisi impose la stessa legge della connivenza sotto lo stesso tetto ed in unica economia. « La Puglisi, giova saperlo, era ricca, e il Maugeri era da lei tenuto come figlio di famiglia, tanto da esser costretto a domandarle un soldo. XXX Dessa comandava e reggeva la casa. « Ma la sua gioventù e le sue attrattive carnali erano fuggite coll’età; non le restava che la imponenza antica e la più efficace molla pel Puglisi, i beni. E trovandosi a fronte della fresca moglie del suo drudo, ella, dispotica ed impetuosa, fu invasa da furente gelosia. Ne nacque a poco a poco odio contro la giovane rivale che dessa non cessava di chiamare p... b... dai sette ganzi, ecc. La gravava di ogni bene (?) la denunciava al marito anche inventando de’ fatti, spingendola a bastonarla e a seviziarla di continuo. « La Greco fu gravida, e allora crebbero le smanie gelose della Puglisi, si moltiplicarono le ingiurie, le minacce di morte. « Non ti farò partorire questo XXXI bastardo; te lo farò uscire morto: pagherò dieci once a chi toglierà davanti questa b... — « E ingegnavasi a farla bastonare dal marito, che scrupolosamente ubbidiva. « Un giorno, in campagna, in un di lei fondo, la Greco raccolse taluni fichi d’India che la Puglisi voleva riserbati. Questa la denunciò al marito, che inferocito, piglia di peso la Greco, la capovolge e la tuffa nell’acqua del fiumicello per farvela soffocare. Un testimone ne impedisce la morte. « Si separarono i coniugi, non potendo più sopportare la povera Greco quella vita di tortura. Ma il marito finge di mutar vita; le si riunisce. « Incominciarono le sevizie, le sporche ingiurie e i sacrifizi di quella XXXII povera vittima. Quindi i suoi timori di essere un giorno o l’altro assassinata o avvelenata. « E ne aveva ragione. Un giorno un latitante perchè colpito da mandato di cattura, certo Sebastiano Guerrera, le narrò che gli adulteri gli avevano dato mandato, con promessa di once cinquanta, di ammazzare la Greco. Ma costui non avvezzo al sangue erasi negato. « Il 26 gennaio (1872) la Puglisi finse una malattia, ma stava a letto vestita e teneva al capezzale un farmaco che non prendeva; anzi il 27 lo fece gettar via. Un cognato propalava la malattia, invitava gente e parenti per visitarla e si fermava tutto quel giorno a casa. « Venuta la sera, la casa era gremita di gente: Rosa Sciacca, Pino XXXIII Gentile ed altri. Il Maugeri finge di voler dare a bere agli amici, e manda la moglie a comperare il vino. Si offerse la Sciacca, ma il Maugeri non volle permetterlo. « La moglie ubbidì, ma vide uscendo un’ombra che si nascose al suo apparire. Comperò il vino, ma ritornando a casa, in sul limitare è colpita da un nembo di proiettili, e cade a terra profferendo: ahi, mi ammazzaru! « Esce il marito, e gli amici; costoro piangono; ma il marito non ha una lagrima, non un lamento, non una imprecazione contro l’assassino. « L’opinione pubblica lo accusa autore dell’assassinio; ma quando il Sindaco lo fa arrestare, la moribonda lo dice innocente; ed interrogata dalle amiche del perchè, manifesta loro di temere, che appena guarita XXXIV avrebbe sofferto, se avesselo accusato, maggiori tormenti. Da lì a poche ore la Greco cessò di vivere. » Cavatemi ora da questo documento un’opera d’arte, un romanzo, una novella. Qui c’è già tutto; caratteri, azione, tragica catastrofe...e non c’è ancora nulla! Quella vecchia è un problema psicologico che, nella realtà, voi dovete accettare, perchè è cosi e vi sopraffà inevitabilmente colla forza bruta del fatto. Ma appena passeravvi pel capo di rifonder cotesta creatura umana nella forma dell’arte, essa non riuscirà più accettabile e non vi sopraffarà, se voi non avrete indovinato l’intimo processo di quel suo problema e non lo avrete rifatto organicamente tal quale. Organicamente significa che non basta indovinarlo, penetrarlo, scioglierlo XXXV nel crogiuolo dell’analisi; questa è un’operazione preparatoria; non dobbiamo mai dimenticare che arte vuol dir forma. L’analisi può darci benissimo un essere astratto, quasi chimicamente suddiviso in tutti i suoi integrali elementi; per esempio: Eredità ....................10 Ambiente ...................15 Circostanze individuali.....40 Forza maggiore..............30 Elementi diversi.............5 Totale 100 Ma è ancora nulla, finchè l’immaginazione non interviene e non vi soffia su il suo gran spiraculum vitae. Allora soltanto non avrete più campo di fare distinzioni di sorta; il miracolo è riuscito. Quegli elementi disgregati son diventati forma, organismo XXXVI vivente per l’eternità, legalmente iscritto nello stato civile dell’arte, insomma, quel che dovevano essere: un’opera d’arte. I documenti umani intesi in tal modo — e mi pare che sia il vero — se non scadon di pregio, non hanno però la straordinaria importanza che gli si è voluto accordare in quest’ultimi tempi, mettendoli tra i primi criteri da giudicare un’opera d’arte. Forse avviene per questo che molti li abbiano a noia. Anche a me cominciano a dar fastidio, ma per un’altra ragione: essi servon di pretesto a una sciocca accusa contro i romanzieri moderni. — Quale accusa? — Mancano di fantasia, mancano d’immaginazione — Quante volte non l’ho sentito ripetere! Due mesi fa, leggendo L'autopsie du Docteur Z***, XXXVII un volume di novelle di Edoardo Rod, pensavo appunto a questo. Quell’autopsia del Dottor Z*** è singolarissima. L’idea n’è stata presa da una dozzina di versi del De Vigny che l'autore, coscenzioso, ha messo come epigrafe al suo lavoro. Pour moi qui ne sais rien et vais du doute au rêve Je crois qu’aprés la mort, quand l'union s’achéve, L’âme retrouve alors la vue et la clarté, Et que, jugeant son oeuvre avec sérénité, Comprenant sans obstacle et s’expliquant sans peine, Comme ses soeurs du ciel elle est puissante et reine, Se mesure au vrai poids, connait visiblement Que le souffle était faux par le faux instrument, N’était ni glorieux ni vil, n’étant pas libre; Que le corps seulement empéchait l'équilibre; Et, calme elle reprend, dans l'idéal bonheur, La sainte égalité des esprits du Seigneur. La novella fa un commento vivo, drammatico, interessantissimo a questi versi un po’ freddini. Il Dottor Z***, un gran fisiologo pel quale il sistema nervoso aveva oramai ben pochi misteri da farsi strappare, non XXXVIII solamente era convinto che la vita del cervello continuasse, dopo la morte, per un tempo variabile dai sette ai dieci giorni (quando la malattia non l'attaccasse direttamente) ma avea anche inventato una specie di fotofono, con cui seguiva a notare i movimenti e le impressioni di quella vita celebrale già in via di spegnersi. Trattato da matto e da ciarlatano dai suoi colleghi (la cosa accade sovente, anche fuor delle novelle) il Dottor Z*** bruciò tutte le sue osservazioni scientifiche, e distrusse lo strumento da lui stesso costruito. Però una trentina di pagine di quelle osservazioni erano da lui state, tempo addietro, comunicate all’autore. Il fotofono cerebrale applicato al cadavere di un armatore olandese suicida avea dato, in quel caso, i XXXIX più meravigliosi resultati. E così noi possiamo conoscere le sensazioni e le idee di quel morto, durante la continuazione della sua vita cerebrale; e così a un tratto, nella novella, la fantasia si confonde talmente colla realtà, che non pare di leggere un’opera d’arte, ma una cosa vera; e ci corrono i brividi addosso. Allora mi tornò in mente il romanzo dello stesso autore, pubblicato alcuni mesi prima, La femme d'Henri Vanneau, studio della vita d’uno di quei mezzi artisti che vanno, dalla provincia, a morir d’impotenza a Parigi. E dicevo fra me: chi sa quanti, nel leggere quella narrazione sobria, spesso efficace, quantunque in alcuni punti incompleta, di fatti e sentimenti quasi volgari, chi sa quanti avran terminato il volume esclamando: Dio! come mancano XL d’immaginazione questi romanzieri naturalisti! Che il volgo dei lettori dica questo, anche dinanzi a un lavoro dello Zola o del Verga, passi pure. Ma che delle persone colte, le quali dovrebbero sapere che cosa siano l’immaginazione e la fantasia, rimpiangano il nodo, l’imbroglio, la favola, la machine - chiamatela come diavolo voi volete - dei romanzi di trenta anni fa; che delle persone di talento si lamentino di veder perdere a poco a poco il segreto di costruire l’ossatura di un romanzo come ai bei tempi di Dumas il vecchio e di Eugenio Sue, e ripetano anch’essi a carico degli scrittori moderni: mancano di fantasia! mancano d’immaginazione! - mi pare, scusate, una enormità inconcepibile. Dunque essi credono sul serio che XLI lo Zola, il Verga e tutti gli altri non facciano che accozzare, riordinare alla meglio le loro osservazioni personali dirette, insomma una specie d’ignobile processo verbale di cui spesso leggiamo anticipatamente i sunti, i frammenti, gli accenni nella spicciola cronaca cittadina dei giornali quotidiani? Dunque essi credono sul serio che per la rappresentazione così portentosamente viva dell’Assommoir e dei Malavoglia gli autori non abbiano dovuto adoperare, per lo meno, tanto sforzo di fantasia e d’immaginazione quanto il Dumas nel suo Mille e una notte francese da lui intitolato il Conte di Montecristo, o Eugenio Sue nelle complicate avventure dei suoi Misteri di Parigi? Dunque essi prendono gli scrittori così detti naturalisti o veristi proprio XLII sulla parola, e pensano che i malaugurati documenti umani (la materia prima, la materia greggia delle nuove opere d’arte) siano assolutamente tutto, e che debba esser bastato allo Zola lo studiare e il prender delle note intorno all’alcoolismo degli operai parigini, e al Verga il vivere per qualche mese, durante la villeggiatura, fra i pescatori di Aci-Trezza, perchè tutti e due abbian potuto poi scrivere la storia della Gervasia e del Coupeau, e i casi di Padron ’Ntoni e di tutta la famiglia dei Malavoglia? Andiamo, via! Non la mando giù! Certamente il carattere di un’opera d’arte moderna - restringiamoci alla novella e al romanzo - non è più quello di prima. L’opera d’arte - può darsi che sia anche una decadenza - è diventata seria: troppo seria! dicono XLIII i maligni. Infatti non è divertente. Il romanziere ruba il mestiere al psicologo, al fisiologo, al professore di scienze sociali. Non già che predichi, che dimostri, che voglia far la lezione; ma egli scortica vivi vivi i suoi personaggi; ma egli pianta il bisturi in quelle carni palpitanti con la stessa spietata indifferenza di un anatomico. Almeno io non vorrei vedere il sangue sul coltello e sulle mani dell’operatore, mi diceva un giorno una signora gentile quanto colta, a proposito di un nuovo romanzo. La signora su questo punto aveva ragione. Però ella non pretendeva che il romanzo moderno tornasse all'antico: non pretendeva che, prima d’ogni cosa, divertisse, e fosse una bella fiaba grande pei bambini grandi. Questa benedetta o maledetta riflessione XLIV moderna, questa smania di positivismo di studi, di osservazioni di collezione di fatti, noi non possiamo cavarcela di dosso. È il nostro sangue, è il nostro spirito; chi non la prova può dirsi un uomo di parecchi secoli addietro smarritosi per caso in mezzo a noi. Ed è naturale quindi che dal nostro sangue e dal nostro spirito la riflessione positiva passi a rivelarsi anche nell’opera d’arte, nel modo, s’intende, e colla misura compatibile con un’opera d’arte. Questa trasformazione non è un bizzarro capriccio degli scrittori: è l'effetto di un’evoluzione che nessuno al mondo è nel caso di arrestare o d’impedire. Ve lo dicano quelle buone persone che vi si son provate, in politica, in religione, come in arte, e son rimaste deluse. Sarà sempre da vedere se gli XLV artisti abbiano sbagliato il modo, o ecceduto nella misura. Vuol forse dire intanto che l'opera d’arte moderna non sia più un’opera d’arte? No. La fantasia, l’immaginazione rimangono, come prima, i sostanziali elementi d’essa; se non che si combinano un po’ diversamente. Il romanziere, il novelliere guarda di qua e di là, osserva, prende nota. Se non poggia un piede sopra un fatto vero, non si crede punto sicuro, e non si avventura a metter l'altro innanzi. Il Verga - parliamo di cose nostre, non guasta - quando gli vien l’idea di foggiare in forma artistica i suoi contadini, non si limita soltanto a raccogliere delle generalità, ma circoscrive il suo terreno. Non gli basta che quei suoi personaggi siano italiani - il contadino XLVI italiano è un’astrattezza - egli va più in là, vuole che siano siciliani: molto di più e di più concreto. Credete voi che n’abbia assai? Nemmeno per sogno. Ha bisogno che siano proprio d’una provincia, d’una città, d’un pezzettino di terra largo quanto la palma della sua mano. Allora soltanto si ferma. — Che ce n’importa? — Ma importa a lui, alla sua coscienza d’artista moderno: importa a tutti noi che vogliamo esser moderni, del nostro tempo, al pari di lui. — E allora? Se i vostri romanzieri moderni han bisogno di tanti amminnicoli che gli antichi, i loro grandi predecessori, non immaginavano dovessero essere, un giorno, così indispensabili; se non inventan nulla, come voi volete che non ci si lamenti del loro difetto di fantasia, XLVII d'immaginazione? Qui vi casca l’asino. — Inventano, creano, signori belli! Tutto quel materiale accumulato è roba morta. Voi, io, il più stupido dei contadini, di codesta roba morta ne abbiamo tutti in testa forse assai più di qualche gran romanziere, e potremmo dargli elementi per ben cinquanta volumi. Che è per questo? Noi non li scriveremo mai; e se tenteremo di scriverli, faremo tutto quel che ci parrà, ma non già un’opera d’arte, se non avremo la fantasia, l’immaginazione che dovrà dar vita nuova alla materia raccolta. Quando il materiale è lì pronto, il romanziere moderno fa precisamente come lo scienziato moderno. Questi è poeta, è creatore, è romanziere anche lui. La natura gli porge dei fatti; ma egli non saprebbe che XLVIII farsene se non sapesse anche di potere arrivare a cavarle di mano la cosa più importante: il vivo processo di quei fatti. Allora lo scienziato cerca, tenta di compenetrarsi con quei fatti, si sforza, sto per dire, di diventar Natura; e a furia d’immaginazione - domandatelo ai grandi fisiologi - combina, rifà un processo che la Natura, gelosa dei suoi segreti, vorrebbe tenergli nascosto; e quando riesce - non vi paia una bestemmia - si mette quasi pari con Dio. Il romanziere moderno è uno scienziato, aggiungiamolo subito, dimezzato. Lo scienziato, appena creato o scoperto un processo (val tutt’una) è più fortunato di quello: può riprodurne il fatto a piacere, quante volte gli garba, e può servirsi di tal processo per scopi più belli e più ragionevoli che non siano quelli della XLIX Natura. Il suo fatto avviene fuori di lui; è il suo schiavo. Il romanziere moderno, invece, dopo che ha scoperto o creato un processo (ripetiamolo: val tutt’una) non può verificare il fatto, non può riprodurlo a suo piacere. È un’inferiorità naturale, invincibile: non sappiamo che farci. Ma voi vi lamentate contro ragione, perchè egli si serve, precisamente, come facevano i suoi predecessori, degli stessissimi elementi dell’opera d’arte. Per rappresentare, per far del vivo ci vogliono sempre quelle due divine facoltà: la fantasia, l’immaginazione, che potrebbe anche darsi siano un’identica cosa. Vi dirò anzi che il romanziere moderno ne adopera oggi in maggior quantità che non quelli del passato. Come potete affermare di no, se egli L ha rinunziato volontariamente a tutti i mezzucci di effetto della vostra vecchia rettorica? Trovatemi venti righe di descrizione oziosa nelle cose del Verga, e vi darò causa vinta. Se quel suo dialogo narrato, se quella sua narrazione parlata dal personaggio, che danno tanto sui nervi all’amico Scarfoglio (mi permetta di dirglielo l’amico mio, egli questa volta è andato fuor di carreggiata per troppa foga); se quella semplicità di mezzi ottiene un effetto di colorito, di rilievo, di movimento, di vita vera, come nessun romanziere di trent’anni fa se l'è mai sognato, da che diavolo dunque provien questo? Dalla fantasia, dall’immaginazione! Sissignori! E da null'altro. Ed ego autem dico vobis: v’è cento volte più ricchezza, più sfoggio d’immaginazione in mezzo volume dei Malavoglia, che LI non in tutti i Montecristo, i Tre Moschettieri, i Misteri di Parigi e simili libri presi insieme. — Peccato! Chi se n’accorge? Dev’essere adoperata proprio male perchè, infine, un’opera d’arte che non desti nessun’emozione, nessun interesse, non è più un’opera d’arte. — Emozione! Interesse! Bei paroloni. L’emozione di chi? L’interesse di chi? — Oh bella! Di noi altri lettori... — Ma esistono, per lo meno, una ventina di specie di lettori! Quello ch'entusiasma l’una, lascia indifferentissima l'altra. — Prendete la media... — Che medie d’Egitto! Un’emozione è affare di nervi. E i nervi bisogna educarli, bisogna abituarli, se si vuole che non rimangano sordi a certe delicate impressioni. Persuadetevene: LII non sono i lettori che fanno i libri; sono i libri che fanno i lettori. Intendo dire che tra il gusto della folla e quello dei veri scrittori c'è sempre, da principio, un urto, una contraddizione, un vero conflitto. Si va avanti a questo modo, a furia di spinte, di strappi, di gomitate; chi è più forte la vince: e il vostro gusto intanto si modifica, si raffina e le forme dell’arte anche. Se s’impantanassero tutti e due sarebbe bella e finita. L’arte morrebbe di malaria. L’emozione! L’interesse! O volgetevi addietro: quarant’anni fa l'Angiola Maria faceva versare fiumi di lagrime; oggi quel libro vi casca di mano, vi fa sbadigliare... — Ci cascate di mano, ci fate sbadigliare anche voialtri. Non canzonate! LIII — Ma per un’altra ragione. Già, da qualche tempo in qua, sbadigliate molto meno; presto o tardi, non sbadiglierete più. Avrete fatto l’occhio a quel disegno, a quel colore che ora vi sconvolgono i nervi; avrete fatto l’orecchio a quella combinazione di suoni che ora vi sembra una stonatura di casa del diavolo; avrete preso gusto a quella tal forma d’arte che ora vi riesce ostica al palato; e un bel giorno, che è che non è, vi troverete talmente cambiati da non riconoscervi da voi stessi. — A darvi retta, così i grandi scrittori dei secoli passati non dovrebbero oggi trovar più un cane che si degnasse di leggerli. Il Boccaccio, per esempio... — Oh Dio! Sarà sempre il Boccaccio e sarà letto eternamente e LIV l’ammirazione per quel suo Principe Galeotto diventerà ancora più grande nell’avvenire. Però vorrei vedere che viso voi fareste se uno dei nostri novellieri contemporanei si lasciasse prendere dalla tentazione di presentarvi un volume di novelle alla boccaccesca, e non pel capriccio di fare un pastiche, come il Balzac coi suoi Contes drolatiques, ma sul serio, per tornare all'antico, per riannodarsi alla tradizione nazionale, come predica certa gente... vorrei vedervi che viso! — Magari anzi! — È perchè voi confondete due cose ben diverse: l'arte e l’artista. Se l’artista, colla potenza del suo genio, fissa una delle tante forme dell’arte, se produce un capolavoro immortale, di quelli che sguscian fuori ad intervalli di secoli, non significa LV mica che la forma rimanga cristallizzata, imprigionata eternamente nell’opera sua. La Forma (coll’effe maiuscolo) ha più genio, è più divina di tutti i divini genii del mondo presi insieme; cresce, si sviluppa, fiorisce; e quando è pronta per un nuovo frutto, cerca e trova il fortunato individuo che le occorre, come ne avea trovati degli altri, uno, dieci secoli avanti — essa non ha punto fretta — e gli si concede, in un fecondo abbraccio spirituale, e gli lascia gettar nel bronzo, scolpir nel marmo, dipinger sulla tela, costringer nelle note musicali o nelle pagine d’un libro quel momento dell’alta sua vita ideale; poi via, da capo, finchè ce ne sarà, indefinitamente, usque ad mortem; giacchè la morte è legge universale e neppur le forme del pensiero vi si sottraggono. Per LVI questo, se il Boccaccio potesse tornare al mondo, con tutto il suo gran Prencipe Galeotto, avrebbe molto, ma molto da imparare da un novellierucolo di primo pelo, senza che intanto potesse dirsi che il novellierucolo di primo pelo valga un sol pelo del Boccaccio. Per questo non dovremmo parervi mezzi grulli se vi dicessimo che voi vi spericolate irragionevolmente perchè la formola dell’arte impersonale non ha ancora trovato il suo Boccaccio. Fidate nella divina onnipotenza della Forma (coll’effe maiuscolo) e il nuovo Boccaccio arriverà.... se dee arrivare. Arriverà anche che i lettori dell’avvenire giudicheranno troppo timidi, troppo attaccati alle gonne dell’immaginazione, troppo preoccupati della emozione e dell’interesse i poveri diavoli che ora ci fan l’effetto di esser LVII divertenti come un funerale. Arriverà.... — Lasciamo lì le profezie!... — Lasciamole. Ma smettiamo pure la presente confusione d’idee che non può giovare a nessuno. Quando noi vediamo un uomo del talento e della cultura del Bonghi affermare dall’alto di una colonna di un giornale letterario: La scienza è una gran cosa: è intellettualmente e praticamente gran cosa, poichè la mente dell'uomo penetra per suo mezzo la natura, e la mano dell'uomo per suo mezzo la doma; allarga intorno all'uomo il campo dell'azione sua. Ma la letteratura è cosa ancora più grande: in essa l'uomo parla di sè a sè; esplica, innalza, moltiplica sè stesso; ragiona con sè di quanto l'eleva, l'umilia, lo rapisce, gli ripugna; chiede che cosa mai egli sia quaggiù, o sia stato o debba essere; LVIII sublima, spiega, comunica l'emozioni sue; rivela ogni altezza, ogni abbiezione sua; fa luce dentro il cor suo; e vi conferma gl'ideali, che gli sono tutta e la sola spinta al ben fare, anche quando per disperazione li bestemmia; noi rimanghiamo a bocca aperta, stupefatti che un tale pensatore possa mettere il sentimento e l’immaginazione molto più in su della riflessione scientifica e addossare all’opera d’arte una funzione ch'essa non ha. E quando sentiamo un grande artista come il Carducci, dopo di averci paragonati ai cagnetti piccini che vedendo un cagnone alzar la cianca dietro una cantonata vogliono far lo stesso e il cagnone si volta e con un ringhio e una stretta di denti li scaraventa in mezzo alla strada a guair nella polvere, venir a conchiudere LIX che se noi non abbiamo nè romanzo, nè teatro, nè pittura, nè scultura, nè musica, non è poi un gran male, perchè non per ciò invidierà Bacco le viti ai colli almeno del mezzogiorno.... non perciò Pallade fiorirà meno di olivi i miti inverni sui colli che riguardano il divino Tirreno; e finir col rallegrarsi che i nostri nepoti metteranno in pezzi le nostre brutte statue di marmo e ne faranno calce per fabbricar cose buone per tutti; metteranno in pezzi quelle di bronzo e ne faranno soldi e casseruole, imprecando alla rea memoria dei loro padri che per alzare quei brutti monumenti facevano o lasciavano morir di appetito e di pellagra i loro fratelli, noi rimanghiamo egualmente a bocca aperta, strabiliati, dubitando non fossimo, per caso, tanto ignoranti da non sapere che Omero abbia LX salvato, coll'Iliade, dallo sfacelo la Grecia, e Dante e l’Ariosto l’Italia dalle abbiezioni del medio evo e del cinquecento, e Raffaello e Michelangelo, colla Trasfigurazione e coi sepolcri medicei, posto argine alle invasioni straniere e alla corruttela paesana, e Rossini, col Barbiere e col Guglielmo Tell, ricacciati di là delle alpi li tedeschi lurchi! — Insomma, secondo voialtri, una opera d’arte... — Dovrebbe essere, innanzi tutto, un’opera d’arte, e.... — Se vi figurate d’aver inventato la polvere con tale aforismo! — Oh! Non siamo così sciocchi. Ma convien proprio dire che le idee più semplici siano le più difficili ad esser capite. Come spiegheremmo altrimenti questa nostra gran confusione di lingue? LXI E vi perdiamo tutti la testa. Io, per parte mia, non mi ci raccapezzo più......... (Da un volume in preparazione intitolato: Vaniloquia). Mineo, 20 gennaio 1885. SCARAMUCCE I « PROMESSI SPOSI » In questi giorni di feste manzoniane ho riletto i Promessi Sposi. Li avevo riletti l’anno scorso, in campagna, tra la frescura d’una vallata piena di rumori di fronde che stormivano, di acque che precipitavano in piccole cascate, di falchetti che squittivano, di mulacchie che crocidavano nell’aria o sulle rupi attorno, al forte sole di giugno. Il luogo, la disposizione dell’animo mi avevano aiutato a farmeli rileggere senza preconcetti, dimenticando ogni discussione critica, perfino gl’intendimenti dell’autore; e mi erano parsi un libro nuovo, quasi di quell’anno. In certi punti, sopraffatto da 2 una profonda commozione artistica, avevo dovuto sospendere la lettura, poi avevo continuato, passando di sorpresa in sorpresa, stentando a persuadermi che quel romanzo fosse stato pubblicato nel 1827! Ora gli ho riletti diversamente. Prima di aprire il libro mi son rinfrescato nella memoria i giudizi dei critici d’allora e dei venuti dopo; ho rimuginato le teoriche d’arte del Manzoni e quelle che informano l’arte odierna. Non cercavo più un’impressione artistica, ma il risultato d’una specie di processo, un giudizio spassionato e sereno.... Ebbene?... L’impressione si è rinnovata; certi preconcetti, certe teoriche d’arte sono state messe in fuga; mi son trovato, come l'anno scorso, faccia a faccia colla mirabile creazione manzoniana, ed ho finito col domandarmi: Perchè questo libro, invece d’invecchiare, ringiovanisce? Perchè di tutta la nostra letteratura della prima metà di questo secolo soltanto i Promessi Sposi sono l’opera d’arte che resti in piedi? E, chiuso il libro, ripensando alle discussioni 3 fatte a proposito di essi e alle discussioni più calde e più recenti a proposito di lavori della stessa natura, mi son chiesto, con sorpresa: è dunque una cosa difficile, estremamente difficile, il vedere in un’opera d’arte nient’altro che l’opera d’arte? * * * Giacchè l’importante, l’essenziale mi sembra questo per l’appunto. Quando ci preoccupiamo troppo delle cose secondarie o estranee all’arte, vuol dire che il nostro criterio comincia a falsarsi; quando arriviamo a metterle molto più in su di essa, vuol dire che il nostro criterio è completamente falsato. Questo vale tanto pel Manzoni quanto per lo Zola che sembra stia al polo opposto. Dico: sembra, badate! — I Promessi Sposi è il libro della reazione religiosa.... Ma voi non siete qui chiamato a giudicare il contenuto del libro. Elaborato dall’immaginazione e dal sentimento dell'autore, 4 quel contenuto, qualunque esso sia, è riuscito a organizzarsi, a prender forma, a diventare qualcosa d’indipendente, di vivo nelle creature che l'artista vi ha posto sotto gli occhi? Sì, o no; la risposta dovrebbe essere questa. — I Rougon-Macquart sono il manuale del materialismo, del pessimismo contemporaneo... Ma è l’identica cosa! Il contenuto, le intenzioni o le pretensioni scientifiche (dite come vi pare) dello Zola son diventate carne ed ossa, organismi viventi in Silverio, in Renata, in Massimo, in Gervasia, in Coupeau, in Nanà, in Mouret? Sì o no; la risposta dovrebbe essere questa. * * * Invece, anche dagli intelletti più acuti ed arguti, si fa precisamente il contrario: il contenuto vien preso per unica norma nel giudizio di un’opera d’arte. E non si bada che, quando capita in mano di un vero 5 e grande artista, il contenuto (spesso malgrado ogni intenzione dell’autore) riman sempre una cosa affatto secondaria e indifferente, non già perchè perda il suo intrinseco valore, ma perchè diventato un’altra cosa. E non si bada che, se così fosse, se l’arte dovesse considerare l’individuo come un essere morale e non come forza viva ed operante, nella sua libera personalità, direbbe il De Sanctis; collo scader di pregio del contenuto, col suo passare dallo stato di verità a quello di errore (cosa che accade sovente) il valore dell’opera artistica dovrebbe venir meno. E intanto vediamo che dura e resiste indipendentemente da quello. Così, è stato scritto in questi giorni: i Promessi Sposi sono un libro che non ha più nessun significato per noi: quel loro misticismo è roba romantica già passata di moda: e il libro resta come un documento storico da cui l’arte moderna non ha nulla da imparare. Così, si dice allo Zola: la vostra teorica dell’eredità non è ancora un postulato della scienza; e voi siete doppiamente 6 antiscientifico quando volete farci credere che le creazioni della vostra immaginazione debbano essere accettate come indiscutibili documenti umani. Secondo me, si ha torto nell’un caso e nell’altro, quantunque per lo Zola ci sia un'aggravante, come dicono i legali. Il Manzoni non ci ha detto nulla delle sue intenzioni artistiche nei Promessi Sposi; nè prima nè poi. Ha fatto come il Signore, ha abbandonato il suo mondo alle dispute degli uomini; e, se dobbiamo credergli, non stava neppure ad ascoltare. Nel 1830 scriveva al Bianchetti di aver fatto proposito di non legger nulla che risguardi controversie della letteratura italiana. Ripeteva la stessa cosa a Luigi Fratti di Reggio d’Emilia. Le sue teoriche d’arte, le sue intenzioni politiche e religiose, se vogliamo conoscerle, dobbiamo andare a cercarle altrove. E, precisamente pel romanzo storico, non è una difesa che troviamo ma una condanna finamente ragionata, alla Bruto, senza lasciarsi intenerire dalla creatura delle sue viscere che veniva 7 mortalmente colpita colla comune sentenza. Lo Zola ha agito all’opposto. Sul limitare del suo grandioso edifizio dei Rougon-Macquart ha spiegato nettamente e recisamente le sue intenzioni: per poco non si è dimenticato che, in fin dei conti, la sua voleva essere non un’opera di scienza, ma un’opera d’arte. « Cette oeuvre, qui formera plusieurs épisodes, est donc, dans ma pensée, l’Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le seconde empire. Et le premier épisode: la Fortune des Rougons, doit s’appeler de son titre scientifique: les Origines ». Benissimo! Ma che c’importa, che cosa deve importarci di tutto questo? Ammettendo anche che il Manzoni avesse torto nel condannare il romanzo storico; ammettendo che lo Zola abbia centomila ragioni nel ritenere che le sue osservazioni, le sue creazioni siano dei veri documenti umani, la questione non muta aspetto. Tra Manzoni e Zola romanzieri, e Manzoni e Zola critici, c’è un’enorme differenza. Non sono certamente due uomini 8 diversi; ma sono però due uomini che, facendola da critici, compiono una funzione affatto opposta a quella ch'essi han compiuto o si accingono a compire da romanzieri. Nei diversi momenti, due loro diverse facoltà vengono poste in azione. Quando il critico parla in essi, l’artista tace; e viceversa. Ma non son essi che confondono quelle due qualità, quelle due funzioni; siamo noi che, dinanzi all’opera d’arte, ci ricordiamo del critico, come dinanzi al critico ci ricordiamo dell’opera d’arte. Con che coraggio possiamo parlare di misticismo o di materialismo, quando abbiamo davanti a noi Don Abbondio, Perpetua, Don Rodrigo, Don Ferrante, Padre Cristoforo, il Cardinale, Renata, Lisa, Gervasia, l’Abate Faujas, Lantier, Dionisia e tutto il resto? * * * E metto lo Zola di faccia al Manzoni per far meglio risaltare l'evidenza della nostra assurdità di gente che guarda e 9 non osserva, che vuol ragionare e non riflette. È una pedanteria come un’altra, della quale a questi lumi di luna non ci dovrebbe essere più neppure il vestigio, almeno tra le persone che, dopo tanto disputare, mostrano di occuparsi d’arte da produttori e da critici. Ma, pur troppo! non c’è peggio del non avere un’idea netta e definita d’una cosa: per esempio, dell’opera d’arte, in questo caso. Perciò si è fatto sempre e si continua a fare una maledetta confusione tra il contenuto e la forma; e, trattandosi d’arte, non si dovrebbe parlare che di forma. Nè si è tenuto, nè si tien conto del nascere, dello svolgersi, del maturarsi di una data forma letteraria, come se questa fosse una produzione accidentale, capricciosa, abbandonata al talento di qualunque grande ingegno vi stampi la indelebile impronta del suo genio e del suo carattere individuale. Fortunatamente l’Arte è molto al di sopra dei nostri particolari ghiribizzi. Quando il suo soffio creatore spira dentro una immaginazione come quella del Manzoni 10 o dello Zola (mi servo di questi due soli nomi per maggior chiarezza) non accade un semplice riprodursi, ma un esplicarsi della forma artistica, un accrescersi, un arricchirsi, proprio un divenire di organismi di forma sempre più complicati e più completi. Allora le imperfezioni particolari contano poco. Le lungaggini, le minuzie insignificanti del Manzoni non vogliono dir nulla: sono, in parte, un’eredità delle forme precedenti che sussistono in lui tuttavia. Così il colorito eccessivo, la frase impennacchiata e certe movenze dell’azione che si incontrano nello Zola. Ma fra Walter Scott e il Manzoni c’è di mezzo un abisso; e quando lo Scott, rispondendo al Manzoni che gli si dichiarava debitore di tutto, gli disse: se è così, questa sarà l'opera mia più bella, disse, forse senza volerlo, qualcosa di più che un complimento. * * * La conchiusione è: che quello che deve interessarci nello studiare i Promessi 11 Sposi non è il misticismo religioso galvanizzato dalla reazione del 1815 e diventato qualcosa d’intimo e di naturale nello spirito e nel cuore del Manzoni; ma piuttosto in che modo la forma dello Scott sia stata vinta e sorpassata; ma piuttosto quello che coi Promessi Sposi è penetrato, e poi rimasto, nell’organismo del romanzo moderno. La conchiusione è: che dovrebbe egualmente interessarci nello Zola, non le sue teoriche sull’eredità naturale e il modo come sono applicate e giustificate dai personaggi dei suoi romanzi, ma quello che coi Rougon-Macquart si è stabilmente introdotto, o, per dir meglio, quello che vi si è già compenetrato colla forma stessa del romanzo moderno. Guardati da questo punto di vista, i Promessi Sposi diventano un libro ammirabile, soprattutto presso di noi che, per riannodarci a qualche nostra tradizione, dobbiamo tornare indietro fino al miracolo del Decamerone. Nè parrebbe assurdo, come son sicuro che parrà a molti, il vederli messi a riscontro dei Rougon-Macquart; se pure non sarà chiamato una 12 profanazione il porre Padre Cristoforo, Don Abbondio, Perpetua e la signora di Monza accanto al Coupeau, al Lantier, a Renata, a Gervasia ed a Nanà. Al solito, in queste, come in tant’altre questioni, ci arrestiamo alla buccia; ci lasciamo sopraffare più dalle differenze esteriori, che dalle rassomiglianze intime e cardinali. Ora, come pretendere che si cominci tra noi ad annodare una tradizione artistica la quale abbia, insieme coi caratteri dell’arte universale, il carattere nostrano, se dinanzi ad un’opera d’arte così squisita, così elevata, così compiutamente opera d’arte, facciamo ancora distinzioni di misticismo cattolico, di quietismo politico e di altre simili miserie che non hanno nulla che vedere con essa? Come pretendere che i nostri giovani avviati pel difficile sentiero dell’arte, possano mettere il piede sopra un terreno solido, se non sanno scorgere, per dirne una, nessuna relazione tra il sentimento profondamente umano che ha prodotto i Promessi Sposi e quella tristezza di commiserazione a cui 13 dobbiamo un altro lavoro che la storia letteraria metterà certamente al posto dovuto, intendo dire i Malavoglia del Verga? Eppure, scientemente o incoscientemente, nei Malavoglia la nostra tradizione artistica si attacca, forte, da un lato al Manzoni, dall'altro allo Zola e ai suoi grandi predecessori. Ma se la forma del romanzo ha fatto nei Malavoglia un altro gran passo, non può dirsi per tanto che parecchie delle forme germinali nascoste nei Promessi Sposi siano già state svolte ed esaurite; talchè a noi romanzieri non rimanga più nulla da imparare da Don Abbondio e da tutto il mondo manzoniano creduto un mondo morto, come quello della luna. Raccontano che il Rosini solesse dire ai suoi amici: — il povero Sandro non mi sa perdonare d'aver ammazzato colla mia Monaca di Monza i suoi Promessi Sposi — e che andato a Milano e presentatosi in casa del Manzoni, al servitore che gli domandava chi era, rispondesse: — Dite a don Alessandro che l'autore della Monaca di Monza desidera vederlo — Il Manzoni, 14 quel giorno perdette un po’ la sua calma abituale e gli fece rispondere: — Don Alessandro prega l’autore della Monaca di Monza a manifestargli il suo nome giacchè non lo conosce. A noi che crediamo così prosuntuosamente di aver ammazzato i Promessi Sposi unicamente perchè non siamo più nè mistici, nè quietisti, nè idealisti o non so che cos’altro, il Manzoni, dalla sua alta immortalità artistica, potrebbe far dare una risposta peggiore. 3 giugno 1883. INTERPRETAZIONI ARTISTICHE Quando penso che noi, generazione venuta su dopo il quarantotto, non intendiamo più quasi nulla del gran complesso di sentimenti e di idee che formarono quella gloriosa rivoluzione; quando penso che il secolo decimottavo, del quale possiamo studiare da vicino qualcuna delle reliquie viventi, ci fa lo stesso effetto delle epoche greca e romana, tanto ci apparisce diverso da tutto quello che costituisce la nostra vita presente; mi meraviglio che si possa tentare con animo sereno un’interpretazione artistica (la parola non è eccessiva) di epoche che per costumi, sentimenti, religione, scienza e 16 filosofia, furono, si può dire, agli antipodi di quello che siamo ora noi. Dicono: c’è il documento scritto, c’è il documento archeologico. Noi facciamo delle ricostruzioni meravigliosamente esatte. Per ogni parola, per ogni frase noi vi presentiamo un testo, venti testi che potranno servirvi da controlli. Abbiamo i poeti, gli storici, i comici, i tragici: abbiamo le statue, le pitture antiche, le rovine, e poi tutto il grande arsenale archeologico, un’infinità di arnesi domestici e di gingilli che ci mettono sotto gli occhi l’esteriore della vita antica in modo da non poter prendere nessun abbaglio. « Quella vita intima d’allora, così diversa per chi la guardi alla superficie, studiata dappresso e minutamente, somiglia in moltissime cose, come due gocce d’acqua si somigliano, alla vita intima di oggidì; molti di quei tipi, di quei caratteri, di quegli affetti della commedia greca del IV secolo, trovano ancora oggi negli affetti e nei tipi della società nostra, riscontro meraviglioso » (I). (I) F. Cavallotti. La Sposa di Mènecle. Prefazione XIII. 17 Infatti il Cavallotti ha pubblicato la sua Sposa di Mènecle con una vera catasta di note zeppe di citazioni e di testi greci, per dimostrare che i suoi critici hanno avuto torto ostinandosi a non riconoscere delle persone greche sotto i nomi greci dei suoi personaggi. A prima vista la prova è, come suol dirsi, schiacciante. Quei personaggi non pronunziano una sola parola che non abbiano già detto Aristofane, Demostene, Menandro, Andocide, Platone, Eschine, Iseo, Luciano, Plutarco, Aristotile, Senofonte, Euripide, Alessi, Calisseno rodio, Teofrasto, Alcifrone, Eubulo ecc. e che tutti gli scoliasti e tutti gl’interpreti moderni non possano, all’occorrenza, confermare o schiarire. Il Cavallotti, si sa, è un erudito di prima forza; e se le note della commedia hanno un ugual volume di essa, questo devesi soltanto alla sua moderazione; potevano facilmente diventare il doppio, il triplo. Bisogna aggiungere che esse non dimostrano unicamente la sua erudizione, ma anche la sua coscienza di scrittore. Egli 18 era pieno del suo soggetto quando, come ho inteso raccontare, si metteva a comporre, sul lago di Como, quasi scherzando, questa sua interpretazione artistica della vita ateniese del IV secolo. Non gli occorreva di racimolare penosamente da questo o quel manuale archeologico i materiali esteriori del lavoro. Essi andavano, sto per dire, a mettersi al posto da loro medesimi, talchè la commedia doveva naturalmente prendere un’aria di scioltezza e di franchezza che in mani diverse non avrebbe ottenuto giammai. Il poeta aveva avuto un’altra fortuna, quella che capita soltanto ai cercatori, ai curiosi, agli studiosi appassionati: il soggetto gli era venuto dinanzi quasi bello e completo in un’arringa dell’oratore Iseo, intitolata appunto dell’Eredità di Minècle. Il documento era preziosissimo per la sua natura e la sua estensione. C’era l'emozione dell’oratore, l’evidenza della narrazione dei fatti, una testimonianza di prim'ordine, contro la quale non è possibile presentare obbiezioni. Rare volte uno scrittore, intento a risuscitare con un’opera 19 d’immaginazione un momento della vita antica, si era trovato in condizioni così favorevoli per la riuscita. Esteriormente, non occorre dirlo, la riuscita è completa. Ma è proprio sicuro il Cavallotti della realtà greca della sua sentimentale Aglae e del suo non meno sentimentale Elèo? È proprio sicuro che questi versi: Te fuggo com’esule che disse l'addio, Ma volge la testa tornando a guardar; E fugge... ma il siegue più lungo il desio... E fugge... ma indietro vorrebbe tornar! Mia trista, mia trista battaglia del core! Scrutarla non cerchi pupilla d’uman! Lasciatemi questo mio povero cuore! Per viverne solo, lo porto lontan! è proprio sicuro che non siano versi di un poeta romantico di quarant'anni fa, da lui dati ad imprestito al suo greco personaggio? La vera vitalità di un personaggio consiste appunto nei suoi sentimenti, nelle sue passioni: e la realtà storica di questi sentimenti e di queste passioni sta tutta nella loro caratteristica che li rende diversi dai 20 sentimenti e dalle passioni di un’epoca precedente o posteriore. Certamente l'amore di oggi ha molti punti di contatto con lo stesso sentimento provato dai Greci e dai Romani ed anche dagli uomini primitivi: ma l’amore di oggi contiene, innegabilmente, degli elementi che allora non esistevano affatto; e non ha, nelle stesse proporzioni di allora, gli elementi che una volta dovettero essere predominanti. L’artista che, volendo darci la rappresentazione dell’amore, non riesce ad afferrare la caratteristica propria di una data epoca, fa opera sbagliata. E questa caratteristica sta tutta nella differenza, non nella rassomiglianza. Per dirne una, la tristezza, la malinconia, quel che di vago, di sfumato del sentimento che la parola stenta a rappresentare, non sono sentimenti greci, al modo che ci vengono presentati nella commedia del Cavallotti. Questo non significa che i Greci non conoscessero, non provassero, alle loro ore, la tristezza, la malinconia, e, forse, anche un po’ di sentimentalità. Soltanto, a giudicarne dalle testimonianze 21 letterarie che ci restano, le proporzioni di tali sentimenti erano assai diverse presso di loro e per moltissime ragioni. La misura noi la sentiamo e la giudichiamo leggendo Eschilo, Aristofane, Sofocle, Euripide, Pindaro, Anacreonte, Menandro: è come un profumo, come qualcosa di imponderabile che si stacca da quelle opere immortali e ci fa provare la sensazione delle sensazioni dell’antichità. I riscontri colla vita moderna vi s’incontrano di tratto in tratto, e sorprendenti; ma sono più esteriori che intimi, o, per dir meglio, che organici e fondamentali. Sarebbe proprio meraviglioso non fosse così: perchè in questo caso bisognerebbe conchiudere che l'opera di due civiltà, la romana e la cristiana (senza voler contare quella delle altre influenze intermedie) sia stata a dirittura o inutile o inefficace per lo spirito umano: e dovremmo dare una solenne smentita e alla storia e alla scienza. Ora, nella commedia del Cavallotti a me pare ci siano evidentemente i moltissimi 22 punti di rassomiglianza esteriore tra la vita greca del IV secolo e la nostra; ma non la differenza interiore, ch’era la più importante e la sola caratteristica. Forse la troppa erudizione ha nociuto allo scrittore: lo ha fermato innanzi all’apparenza, facendogliela scambiare colla sostanza. Meno testi e più di quella intuizione divinatoria che è la maggiore delle facoltà d’un artista, e la commedia avrebbe, probabilmente, guadagnato molto come ricostruzione e interpretazione della vita antica. Probabilmente, ripeto: giacchè sarebbe tempo di rassegnarsi a credere, come ha ben detto il Taine, che non vi possano essere altre tragedie greche che le tragedie greche, nè altre commedie greche... che le commedie greche. Però meno male quando l’interpretazione del mondo antico vien fatta al modo del Cavallotti, con un apparecchio di studi e di ricerche, quasi con un lusso di materiali scientificamente accertati, da mascherare in parte la pochezza del resultato, anzi, l’impossibilità del buon resultato! 23 Ma ecco qui un altro poeta (I) che procede precisamente al modo opposto. La sua confessione è di un’ingenuità quasi incredibile. Egli ha scelto per protagonista Orfeo, l’antico cantore di Tracia. Dovea forse adattarsi all’incerta nebbia del mito, o alla narrazione, prima idillica e poi tragica, della leggenda? L’incertezza del mito, la dubbiezza della leggenda gli son parse, invece, ragioni sufficienti per creare un Orfeo nuovo di pianta, tenendo soltanto fermo che esso era « avant tout, un poète, un amoreux, un civilisateur. Une fois que les diverses passions inspirées par ces trois rôles sont en jeu dans une âme, c’est à l’auteur de les faire lutter ensemble, d’en assurer le développement et de conclure par un dénouement logique ». Ed ecco, sous un nouveau jour, il tipo d’Orfeo. La confessione non è completa. « Je dois dire en terminant que j’ai mis dans mes vers tout ce que j'ai pu trouver en moi de fièvre et d'amour ». (I) Charles Grandmougin. — Orphèe, drame anticque. Paris, Lévy, 1882. 24 Infatti egli ha avuto fin scrupolo di far discendere il poeta all’inferno per trovarvi Euridice; e, conformandosi, dice, alle realtà psicologiche, gliela ha mostrata in sogno, dopo una lunga serie di tentazioni e di prove. Il Grandmougin, che non è un poeta volgare, non ha avuto neppure il sospetto che tutto questo era perfettamente antiartistico. « L’arte, egli esclama, non deve circoscriversi alla constatazione più o meno scientifica delle turpitudini contemporanee ». Benissimo. « Io credo che la vera modernità non consista lì, e che, sotto una forma antica, si possano esporre, con originalità, gli eterni sentimenti umani...» No davvero. Che vuol dire questa distinzione di forma antica e di sentimenti umani eterni, che poi si riducono unicamente ai vostri sentimenti personali modernissimi? Quando volete parlarci di spirito che Vibre pour la révolte et pour l'humanité; quando volete esclamare per conto vostro: Salut, ô mort longtemps rêvée! Je vais trouver enfin dans ton gouffre béant L'éternelle Eurydice ou l'éternelle Nèant, 25 ma ditelo, alla buon’ora, in persona prima, in versi lirici, splendidi e sonori come voi avete mostrato qualche volta di saperne coniare; e lasciate che le grandiose creazioni dell’immaginazione primitiva, colle quali noi non abbiamo quasi più nulla di comune, lasciate che dal loro mitico cielo, fra gli splendori abbaglianti della leggenda, continuino a parlarci serenamente il lor divino linguaggio! 3 dicembre 1882. GABRIELE D’ANNUNZIO (I) « Canto novo » è, da cima a fondo, un’ebbrezza di luce e di colori. Il paesaggio meridionale vi celebra i suoi trionfi col selvaggio rigoglio dei suoi boschi, coi bagliori delle sue marine, cogli incendii dei suoi tramonti, colla cantilena dei suoi stornelli che muore dolcemente sotto l’ombra dei rami fioriti o per l’immensa distesa delle acque cullanti le paranze, dalle vele rosse e gialle, rincorse dagli alcioni. Di tanto in tanto su quel paesaggio (I) Canto novo — Terra vergine — Roma, Sommaruga, 1882. 28 vasto, pieno di mormorii, riscintillante, una figura umana apparisce: è una alta, schiusa le nari ferine a l’odor de la selva, violata dal sole bella stornellatrice; o pure ...un fanciullo da' neri selvaggi capelli, da’ grandi occhi sognanti, pregni di verdemare, ignudo ne l’ombra d’accanto a la tenda; o pure un pescatore: Curva ha la grossa testa, gli pendono i magri stinchi su l’acqua; immobile a ’l sole feroce di agosto ei pare fuso nel bronzo antico. E all’ombra dei ciliegi scoppiano le ondulazioni argentine delle risate di Lalla; e in cima alla scogliera il terribile profilo del Rossaccio si disegna e poi sparisce nel gorgo marino...; ma sono apparizioni fugaci, visioni d’un minuto. Il paesaggio riprende subito la sua foga sinfonica, tormentata alla Wagner, dove i rossi e i gialli mandan fuori rantoli profondi ed urli da ottoni, dove il verde e l’azzurro cantano, al pari di violini e di corni 29 inglesi, da un capo all'altro dell’orchestra, intrecciandosi, confondendosi, fermandosi ansimanti per islanciarsi, da lì a poco, in un crescendo vertiginoso, mentre il bianco, l'opalino, il violetto, il verde mare mormorano e sospirano da flauti e da viole, travolti da quell’uragano di suoni che disperde ai quattro venti la loro delicata frase d’amore. Questa mescolanza di arti diverse è la intonazione del libro. La parola non si contenta dei propri mezzi; non si rassegna a darci un’immagine della realtà che entri nell’intelletto per la via dell’orecchio, no; ma travalica i suoi confini, si condensa, si assoda sotto l’occhio in forma di macchietta assolutamente pittorica, senza velar l’artifizio, con una sincerità ingenua che finisce coll’ispirar simpatia e riuscire gradita. Anche quando si tien chiusa dentro il limite letterario, ha una sincerità d’altra natura, civetteria di ragazza vanitosa che fa osservare i suoi vezzi d’oro e di corallo, i suoi nastri avvampanti e la bella stoffa dei suoi vestiti. 30 Chiedon l'esametro lungo saliente i fantasmi che su da ’l core baldi mi fioriscono; e l’onda armonica a ’l breve pentametro spira in un pispiglio languido di dattili... rompetemi il dattilo in bocca, fervidi baci della fanciulla mia; Per te germogli l'ecloga...; e dileguare languido l'esametro. E non cito per biasimo, tutt'altro. Giacchè questo, in parte, viene dal carattere individuale del giovane poeta di Primo vere e di Canto novo, ma più, dal carattere raffinato, complesso, corrotto, se così vi piace, dell’arte moderna. Via! Con chi prendersela se oggi poesia, pittura, musica tendono fatalmente a confondere in qualche modo i loro processi? È forse un puro capriccio se il maestro di musica ricerca con tanta faticosa insistenza il colorito, se il pittore vive con una continua preoccupazione del gamma cromatico, se il poeta si sforza di far sentire l’uno e l’altro con una brutalità di tecnicismo che urta i nervi a molta 31 buona gente? Con chi prendersela se la critica non sfugge neppur essa alle allucinazioni del colorito, al capogiro delle sinfonie, e se poi, invece di parlare il linguaggio di Orazio e di Quintiliano, adopera quello del fisiologo e del naturalista? E più non detta precetti, ma osserva, prova, riprova; e, quando ha sorpreso un secreto nel grand’organismo dell’arte, si tien paga di poter dire soltanto: Signori, ecco una legge? Non siamo moderni per nulla. Nelle fibre, nei nervi, nel sangue non ci si è accumulato per nulla l’assiduo lavoro di tante centinaia di migliaia di secoli, sotto la forma di sensazioni, di sentimenti irriflessi e di attività di pensiero; nè per nulla il nostro organismo è ormai ridotto molto più sensibile e più vibrante che non fosse una volta. Quando ci viene in mente di domandare al maestro moderno la squisita semplicità dell’antica melodia; o allo scultore e al pittore moderno la serenità jeratica o quasi jeratica delle figure dell’arte greca e del Rinascimento; o al poeta moderno 32 la ingenuità dell’espressione, la gaiezza della fantasia, la spontaneità del sentimento, ma come non ci accorgiamo che questa nostra pretesa è proprio assurda ed ingiusta? Essi, poveri diavoli, non possono darci che quello che han dentro di loro, cioè: cose troppo elaborate, raffinate; cioè: sensazioni aggruppate, fantasmi che si aggrovigliano e si divincolano agitati da nevrosi, sentimenti complessi che si possono appena dir tali, tanto la invadente riflessione gli ha compenetrati e trasformati. Che meraviglia dunque se la forma corrisponde al concetto? Perciò essa diventa analitica, eccessivamente cesellata, spesso contorta; come se una convulsione la scuotesse tutta in quel suo avido inseguire il concetto per le mille sinuosità dov’esso si perde, in quell’intenso sforzo di afferrarne e di renderne le diverse gradazioni e le più piccole sfumature. Per ciò, quando le accade di sentirsi a disagio dentro i limiti di un’arte, ricorre, senza esitazioni, senza scrupoli, all’aiuto di un’altra, e fa suoi i mezzi, il processo e perfino i ripieghi di questa. E 33 così oggi abbiamo la sinfonia poetica, il notturno poetico; abbiamo la marina, il paesaggio, il quadretto di genere poetici, dove la parola scusa da note, da disegno, da colori; ma dove il ritmo del verso batte la cadenza coll’andantino, col mosso, coll’allegro, col crescendo e fa sentire il pedate e lo smorzo; ma dove la frase stende il colore, butta la macchia, accarezza la tinta, mette le velature e tiene esatto conto anche dei piani e dei rapporti. È un eccesso? Una corruzione? Un’impotenza, come dicono taluni? Non voglio entrarci; ma è una cosa affatto moderna, e confesserò schiettamente che la gusto e che l’ammiro. E quando veggo il D’Annunzio toglier di pugno i pennelli e la tavolozza al Michetti per dipingere queste splendide marine del Canto novo, non che biasimarlo, batto le mani. Principalmente perchè il Michetti gli ha insegnato il suo segreto, quello cioè di non dipingere una marina ideale, una distesa d’acque più o meno trasparenti, verdognole, azzurrognole, mosse in onde regolari, con la loro cresta di 34 spuma, coi loro riflessi di sole e colle barchette a vela spiegata che si specchiano capovolte; bensì di rendere una data marina, in una data ora, in una data stagione, con tutte le minute particolarità che le imprimono un carattere e le dànno un’espressione, un significato, stavo quasi per dire un’individualità vivente e sensiente. Le marine abbondano nel Canto novo. Il poeta non sa saziarsi del suo Adriatico, e lo canta sotto tutti gli aspetti; sicchè metà del volume può dirsi un solenne Te Deum in onore di esso. Ecco, e la glauca marina destasi fresca ai freschissimi grecali; palpita; ella sente nel grembo li amor’ verdi de l'alighe. Sente: la sfiorano a torme i queruli gabbiani; simili da lunge passano le paranzelle arance pe ’l gran sole cullandosi. Dormono l'acque ne 'l plenilunio di giugno; ritte su da la darsena le antenne stan come sottili fantasmi al niveo chiarore. Abbondano anche i paesaggi. Ma infine, 35 siccome abbiamo da fare con un vero ingegno poetico, per quanto esso si compiaccia soverchiamente di taluni eccessi di queste forme (e dovrei aggiungere di questi artifizi) il quadro non resta però così fuori di lui che qua e là non perda consistenza e non si assottigli e non accenni ad elevarsi e talora non si elevi da pura forma rappresentativa ad alto sentimento poetico. Nel Primo vere non accadeva così. Il poeta lì si divertiva con quella sfida alla tavolozza, con quella lotta puerile tra l’abilità della parola e l’abilità della mano; e il suo sentimento non v’interveniva. Il cielo pien di nuvole rosse a levante; di contro un incendio ampio d’oro tra cui si sollevan superbi co’ verdi ombrelli i pini ; ne ’l fiume tre vele spiegate tutte gialle; a la riva un bel gruppo di giovani donne, con le giunonie braccia nudate, le vesti succinte, che lavan panni e cantano in coro stornelli d’amore; un canneto lì presso; tra le canne un fulvo torello; colline glauche in fondo e ne l’aria via rondini a schiere. È l'immediata sensazione dell’organo visivo, senz’ombra d’emozione, nonchè d’impressione già elevata a sentimento. Nel 36 Canto novo l'emozione c’è, viva, intensa, e lo stile se ne giova, e l’arte del verso, diventata più sicura nelle mani del poeta, vi supera di altrettanto le incertezze e le fiacchezze di quel primo saggio. Però neppure nel Canto novo l'emozione è sempre così spiccata che non possa facilmente venir confusa colla sensazione. Da tutto il volume si sprigiona una freschezza giovanile; un alito di salsedine marina ci punge le nari; un forte sentore di terra in rigoglio ci si spande d’attorno. Il poeta ignudo le membra agilissime a ’l sole ed a l'acqua liberamente, come un bianco cefalo, nuota, fiutando ne l'aure lascivia di muschio che da’ salci a onde spargon le ceràmbici... e dal petto non gli erompe altro grido che quello dell’Endimione di Keats: I shall be young again, be young! Però, quando si è terminato di leggere, quando si è riletto, si capisce che proviene da questo stato di pura sensazione (così dominante da dare, come suol dirsi, l’intonazione generale), se spesso la sensualità corrispondente della forma lo spinge 37 a ripetersi in certe immagini da lui credute più nuove o più efficaci. Infatti le strofe in un punto sono vipere alate in amore e in un altro coppia di serpentelli alati che è la stessa cosa: infatti qui abbiamo l'angoscia che lo sugge colle sue mille ventose viscide di polipo; più in là i polipi avidi con mille ventose indi a il cadavere vacuo s'avvinghiano; più in là ancora tornano in ballo i viscidi polipi e le viscide spire di serpente. Osservazioni minute e pedantesche queste qui; ma servono a spiegare perchè vi s’incontrino, qua e là, forme adattate e non elaborate, reminiscenze dell’orecchio, echi del Carducci fievoli ma percettibili, ed anche echi romantici che stonano un poco nel concerto; come, per esempio, i seguenti: Dicono i petali ne ’l sonno: — oh zefiri blandi, pregni di pollini, freschi! oh freschissime rugiade! oh fervido amor d’una libellula! — ne ’l sonno i petali chini pispigliano. Cantano i venti: O voi cui viva pe’ tronchi la linfa, qual per le vene il sangue vivo a li umani sale... ...Ecco e deste le foglie sogguardan sdegnose con un pispiglio fievole di pecchie. 38 E come sensazione, e nient’altro, vi apparisce la donna. Fra tanti gridi che scoppiano da questo giovane cuore, la passione non ne ha uno solo. Lalla, la fulva figlia dell’Abruzzo, Lilia, la bianca figlia di Fiesole, sorridono, baciano, abbracciano, dileguano. Una sola volta egli si ferma pensoso a guardar Lalla: ma sapete perchè? Alta ne ’l peplo tu: s’ animi a ’l bacio fresco del vento la castanea chioma: bianca ne ’l peplo su l’ azzurro cupo fuor de la roccia. Curvo al tuo piede come un tigre dòmo, stringa lo schiavo etiope il lunato arco d’argento e nel felino avvampi occhio un desìo. L’onde pel sole come serpi immani verdi s’incalzino a la spiaggia... Ridi? Ne l’insueto saffico un’antica larva mi tenta. C'è nel Canto novo il sentimento della Natura, lo so bene, e vivissimo. Il D’Annunzio riserba per esso i più preziosi tesori del suo colorito di stilista e i più fragranti fiori delle sue poetiche immagini. Ma è forse tale da giustificare la giovanile 39 baldanza del titolo e da rassicurare sulla sorte di un ingegno poetico così riccamente dotato sin dalla culla? In ogni modo, è bello veder questo fanciullo, com’egli stesso si chiama, con un pensiero superbo che gli arde negli occhi di falco, diritto in arcioni, star in ascolto con feroce angoscia se rechi il vento clamor di battaglia. Ed è bello vedergli portar nella prosa, come saggio, tutte le sue stupende qualità di colorito e di evidenza, e i suoi difetti di eccessi di forma e di esteriorità che ne caratterizzano i versi. Ah! se la realtà per poco lo afferra! Fra Lucerta, tra le novelle del volumetto Terra vergine, è un accenno. Cincinnato, una promessa. Sarebbe bella che un giorno egli arrivasse a convincersi che in arte la vita è tutto, anche poesia, e che potendo infondere nella semplice rappresentazione della realtà lo spiracolo creatore, il far dei versi, anche stupendi, non sia il meglio che egli possa fare! 4 giugno 1882. MEDAGLIONI Chi li ha letti e gustati nelle colonne del Fanfulla della Domenica vorrà certamente rileggerli ora che l’editore Sommaruga li ha raccolti in un volume civettuolo. Questi fini lavori del Nencioni perdono poco nell’essere riveduti in un diverso ambiente, con un’altra luce. Basta guardarli ad uno ad uno e riposarsi in quella sentimentale rêverie ch'essi eccitano nell’animo del lettore; basta non rivolgere l'occhio ad un altro finchè lo stato d’animo prodotto dal primo non sia completamente sparito. Senza dubbio nelle colonne del giornale essi guadagnavano molto dalla vicinanza di scritti di opposta natura rivolti più 42 all’intelletto che all’immaginazione ed al cuore. L’occhio vi correa con preferenza; l'attenzione veniva concentrata tutta lì dall’emozione simpatica e raffinata che scaturiva sin dalle prime righe o anche soltanto dal nome che serviva di titolo; e allora non c’era bisogno della precauzione da me consigliata ai lettori che vorrebbero rileggerli. Quelle gentili figure di donne apparivano di tanto in tanto, come una graziosa sorpresa: sorridevano dalla fantastica cornice alla rococò che pareva le circondasse; e nella musica del periodo delicatamente cesellato, dietro la limpida trasparenza della frase che s’insinuava nell’animo e quasi carezzava l'occhio, l’incanto dell’apparizione veniva raddoppiato. Ora sono come raccolte in un boudoir elegante, discreto; e dalle pareti dove pendono si guardan tra loro forse un po’ sorprese di trovarsi insieme, come ha già notato il loro autore. Ma quando si è dirimpetto a un’opera d’arte non si pensa tanto alla persona reale quanto alla figura che l’arte si è compiaciuta di metterci sotto gli occhi; 43 non si pensa tanto ai caratteri e ai sentimenti di una volta che l'artista ha voluto in qualche modo fissare, quanto al carattere dell’artista stesso e al sentimento che lo ha spinto a concepire quell’opera e che manifestansi in essa. Così, rileggendo i Medaglioni, il mio interesse non era tutto accaparrato dalle teste bionde o brune, dagli occhi vivaci e procaci o malinconicamente appassionati, dalle labbra rosee, voluttuose o increspate dal dolore di quelle creature che han lasciato il loro profumo di donna nella storia e si chiamarono la Pompadour, la Du Barry, Sofia Arnould, Giulia Lespinasse, Teresa Guiccioli, la Rachel o con altri nomi meno cari. Io badavo più a lui, al Nencioni, che me le evocava lasciando sulla carta la polvere di ale di farfalle dei suoi pastelli; pensavo a quelle correnti di sentimentalismo e di voluttà sensuale confuse stranamente insieme che gli guidavano la mano nei tocchi rapidi e delicati; e tentavo di spiegarmi quell'emozione che finiva col coprire il peccato di un pudore verginale, con lo spandere un’onda 44 redentrice di perdono sulla passione ardente e sincera. Il libro mi spingeva a poco a poco in un'altra rêverie dove l’opera d’arte spariva e restava soltanto l'artista. Era come una visione di giorni lontani, ohimè troppo lontani! quando passeggiavamo insieme sui Lungarni di Firenze ragionando di arte, mentre l’Arno passava quasi silenzioso, riflettendo il cielo stellato, sotto gli storici archi del ponte di Santa Trinità e del ponte alla Carraia: ed egli mi anticipava, forse con maggiore entusiasmo di poi, i suoi begli studi sui poeti inglesi che mi veniva traducendo a memoria, in frammenti; o discutevamo con calore la storia della letteratura inglese del Taine; o parlavamo di poesia, ed egli mi recitava i brani del suo Ospedale, del suo patetico Paradiso perduto, o qualche strofa del Fiume della vita che allora erano novità ed intuizioni di stile e di forme poetiche; e la sua voce tremava e il verso assumeva un accento, un’espressione che la fredda stampa non rende. Dopo tanti anni mi pareva di sentirgli mormorare ancora: 45 Era queta, dolce, limpida Tutta in giro costellata Quella notte che nel memore Mio cor vive eterna. — Oh quante Quante lagrime, da lunghi Anni dentro congelate, Si disciolsero — ed effusero Abbondanti sul mio volto Nel durar di quella notte! Appoggiati sulla sponda D’un antico ponte i gomiti E raccolta nelle palme La mia faccia lagrimosa, Io seguiva in ciel le Pleiadi, Io seguiva il grande Orione E la Luna che in silenzio Navigava la cerulea Onda tiepida dell’aere Infinito. — E senza requie, Senza tregua, senza sonno, Sotto il ponte succedevansi Cupe, rapide, sinistre Le grand’onde; ed i grand’alberi Della riva protendevano Lunghe l'ombre sovra l'acque Che, correndo, le rompevano. Ed era proprio così in quel momento, presso il cancello delle Cascine, nella calma di quella notte autunnale di cui i ruggiti dei leoni rompevano, dalle gabbie del 46 Giardino dei Semplici, il maestoso silenzio. Le calde pagine dov’egli tratteggia quella che chiama la tragedia di un'anima mi facevano sognare altri momenti che gli han dovuto lasciare nell’anima la loro impronta, che forse han modificato e dirò quasi modellato questo strano carattere di artista sensuale e sentimentale in una, che ha accarezzato la figura di cortigiana-artista della Pompadour e di cortigiana bonne enfant della Du Barry colla stessa intensità di affetto, colla stessa sincerità di slancio con cui ha reso le figure assai dissomiglianti della Barrett-Browing e della Rachel. Così finalmente ritrovavo tutto il Nencioni in ogni linea, in ogni frase di quel volumetto assai meglio che non l'avessi prima riconosciuto nei medaglioni sparsi nei giornali; così anche gli stessi difetti, o meglio le stesse mancanze, che ora il volume fa più visibili, servivano a rivelarmi perchè in un punto egli avesse abbondato, quasi calcato la mano, e in un altro avesse sorvolato e dato soltanto rapidi tocchi, o appena appena degli accenni. 47 Giacchè intorno a queste gentili maîtresses amate e possedute coll'immaginazione (una raffinatezza di più, direbbe qualcuno) egli ha preferenze e capricci. Come in tutti gli amanti, si verifica dentro di lui quel processo di eliminazione che è il fenomeno più caratteristico dell'amore, quello idealizzare incosciente per cui la persona amata vien spogliata di tutti i suoi difetti, quando questi non assumono addirittura il valore di pregi o non diventano la maggiore delle attrattive, spesso l’unica attrattiva. Perciò talvolta egli chiude gli occhi volontariamente, o non vuol vedere che da un lato solo. Osservate il medaglione della Krüdner, una strana figura di donna che ama misticamente, che si abbandona misticamente, una specie di santa Teresa dell’illuminismo, una profetessa, un’apostolessa dalla quale è impossibile disgiungere la non meno strana figura dell’imperatore Alessandro di Russia, l'autore della Santa Alleanza, andato poi a morire, per una romanzesca fatalità, quasi sulla tomba della 48 sua ispiratrice, tra le deserte rocce del Caucaso. Per ogni altro, la Krüdner della Valérie sarebbe rimasta la parte meno interessante di quella figura di donna; la profetessa e poi l'apostolessa, col suo seguito di discepoli e di cooperatori, sarebbe stata certamente la più curiosa, la più piccante. Ma che volete che egli se ne facesse d’una maîtresse che il Gentz ha chiamato vecchia e bruttissima, parlando di questo secondo periodo della vita di lei, e che Napoleone I avea chiamato cette folle madame Krüdner anche quando essa avea pubblicato la Valérie? Per lui, sto per dire, la vera Krüdner è quella del Lezay que, dans les moments décisifs avec son amant avait coutume de s'écrier: Mon Dieu, que je suis heureuse! Je vous demande pardon de l'excès de mon bonheur! Chi, leggendo per la prima volta e in volume i medaglioni, non tenesse conto del titolo dove sono apertamente significati gl’intendimenti dell’autore, proverebbe come un piccolo senso di delusione scorrendone le pagine delicate. Medaglioni: 49 l’artista non ha voluto far altro, non bisogna scordarlo. Forse Pastelli sarebbe stato meglio detto; lo stile del Nencioni ne ha tutte le finezze, tutte le sfumature, tutte le mollezze. Non vi accostate troppo la mano; c’è il pericolo di guastare ogni cosa. E sarebbe un peccato. 20 Maggio 1883. L’ETERNO FEMMININO Alla domanda: Perchè Fausto si salva? non c’è da dare altra risposta che quella data dal Bonghi nel Fanfulla della Domenica (I). Poche cose italiane ho lette in questi ultimi tempi così finamente e profondamente pensate. Il soggetto n’è rischiarato di una luce viva, fatta scaturire dalle sue stesse intime viscere, senza sforzo, senza sottigliezze sofistiche, e la convinzione afferra la mente del lettore e se ne impossessa in modo definitivo, per la sua chiarezza e per la sua giustezza. La medesima cosa avviene colla risposta all’ultima domanda: Se la donna salva Fausto? (2) Non so se essa sia originale, (1) Num. 40, anno 1882. (2) Num. 42, dello stesso anno. 52 dopo quello che si è scritto, pensato, fantasticato e anche delirato in Germania sul capolavoro goethiano; ma originale la fa apparire e divenire il complesso delle idee che rende importantissimo questo studio dell’Eterna leggenda. Però il Bonghi vorrà perdonarmi se io trovo poco soddisfacente la conchiusione ch’egli ne trae. È proprio vero che corra una gran differenza tra la Giustina del Mago d’Antiochia e la Margherita del Fausto del poeta? Mi par di no. Anzi mi pare che il ragionamento, esattissimo, del suo ultimo articolo, doveva condurlo ad una conchiusione affatto diversa. Mi sorprende che una mente come la sua si sia lasciata ingannare dalle apparenze. La parentela fra la leggenda di Cipriano d’Antiochia e quella del Fausto è evidentissima; tutte e due son nate, come vien notato dal Bonghi, dallo stesso concetto astratto, che ha preso forma rappresentativa nella immaginazione popolare. È opportuno citare le sue parole: « Le leggende che dànno atteggiamento di fatto al pensiero possono 53 essere parecchie...; casi succeduti in realtà e varii possono aver data la prima mossa a cotesta diversità di narrazioni ma non è necessario che la leggenda inventata dopo sia un’imitazione di quella inventata prima; o che l'una abbia influito sull’altra; tutte e due possono esserci derivate direttamente dalla fonte dell’animo umano e dalla fantasia popolare ». Benissimo. Nel caso presente, qual’è il concetto astratto da cui sono scaturite le due leggende di Cipriano e di Fausto? Rispondo collo stesso Bonghi; è il meglio che possa fare: « Traversa i secoli, nella coscienza popolare, un pensiero che il sapere non basti a soddisfare l'animo e possa, quando eccede, corromperlo. C’è qualcosa, si crede o s’immagina, oltre il sapere, ed esso oltrepassa da parte sua il reale ed il vero. Non basta a nutrire la vita e la confonde. Empie la mente e lascia vuoto il cuore; sicchè all’uomo bisogna un più potente, un più fresco alito per sentirsi vivere nel bene o nel male. » Al più potente e più fresco alito si arriva 54 nelle due leggende per mezzo della donna. Nella prima Cipriano vien convertito al cristianesimo per via della resistenza che la fede di Giustina oppone alla potenza del diavolo. Qui l’eterno femminino è rappresentato materialmente dalla bellezza di lei. Il sentimento prodotto da questa non va più oltre del possesso nella sua indeterminatezza di sentimento. La conversione alla fede, la trasformazione morale di Cipriano ne procedono, si può dire, casualmente. — Come? domanda Cipriano al diavolo: il Crocifisso è più grande di te? — Sì, di certo: è più grande di tutti. — Adunque io lascio te e divento amico del Crocifisso. Ed ecco che l’ideale religioso, sostituitosi all’altro della bellezza fisica, riempie di sè tutta l'anima di Cipriano. Giustina, come donna, sparisce dalla vita di lui; se rimane qualche relazione tra quell’uomo e quella donna, riducesi alla comunanza d’un medesimo oggetto nell'amore di ciascuno, Dio; e all’altra assai più esteriore, del martirio subito. 55 Non è dunque la donna credente che salva l'uomo diventato credente al pari di lei, come il Bonghi conchiude. Perchè se così fosse, la leggenda dovrebbe avere una forma affatto diversa: e l'azione avrebbe dovuto raggirarsi sopra un altro pernio, cioè, sopra l'azione diretta, immediata, volontaria della donna amata sull'amante. Invece anche nella leggenda greca del IV secolo la donna non rappresenta che uno dei tanti aspetti di quella naturale passione dell’ignoto che agita l’animo di Cipriano. Cipriano ha trovato un punto dove fermarsi nelle sue corse a traverso il mondo reale e il mondo della scienza di allora. La bellezza di Giustina lo affascina d’un tratto. Quella vergine galilea è un nuovo ignoto che lo attira e lo seduce: e vuol possederla ad ogni costo. Ma dal momento che un altro ignoto, un altro ideale si presenta improvvisamente e inattesamente al suo intelletto e al suo cuore, Giustina vien lasciata da parte. Dio, Cristo, la sua misericordia, la sua redenzione, quel mondo di divine promesse 56 colla sua eterna felicità o colla sua eterna dannazione attraggono, occupano intieramente lo spirito ardente e appassionato di Cipriano. E non il ragionamento, è il sentimento, il sentimento religioso, quello che opera la trasformazione: è, precisamente, l'Ewig-Weibliche, l'eterno femminino, cioè, l'astrazione della donna; la quale col suo organismo, col suo carattere, colla sua funzione umana, lo incarna e lo rappresenta meglio e assai più completamente che l'uomo, troppo intellettuale e troppo riflessivo, non possa e non debba fare. La medesima cosa avviene nel Fausto. Margherita, come donna reale, interessa e attrae Fausto perchè in essa gli par di dover trovare un appagamento, un ristoro a quella smaniosa sete dell’ignoto che anche qui si presenta sotto l’aspetto della pura e semplice sensazione. Se non che qui interviene il dolore, la realtà della vita, per lanciar di nuovo Fausto nella sua corsa verso l’ideale. Allora Margherita, come donna reale, sparisce dalla scena ma quello che lei rappresentava, l'eterno 57 femminino, sussiste sempre, perchè è fuori di lei, ed essa non n’era che una forma caduca e passeggiera. Perciò era logico, era inevitabile che il poeta la facesse ricomparire all’ultimo, quando la esistenza terrena di Fausto si compie, o meglio quando continua a svolgersi in una sfera più elevata dove l’eterno femminino diventa forza di attrazione: « S’egli si accorge di te, ti vien dietro...» Certamente, invece di Margherita, quest’ultima parte avrebbe potuto rappresentarla qualunque altra figura: la Magna peccatrix, la Mulier samaritana, la Maria AEgyptiaca, la stessa Mater Gloriosa; ma in questo caso il Goethe avrebbe dovuto dimenticare che era un poeta; ed egli, odiatore acerrimo d’ogni astrattezza in poesia, voleva sempre dare, invece, qualcosa di concreto e di reale sotto di cui potesse nascondersi, sparire e lasciar indovinare, più che far scorgere, la sua arida essenza. È abbastanza che ci faccia dare dal coro la sintesi del poema, con quei versi che, me lo perdoni il Bonghi, a me non 58 paiono punto strani. Se l'eterno femminino non volesse dire il sentimento, cioè l'indefinito, il vago opposto alla riflessione, al determinato, al preciso, non avrebbe davvero nessun senso. All’ignoto, all’ideale noi, per la nostra natura, non possiamo avviarci e accostarci che pel sentimento. Quando la riflessione sopraggiunge, l’ideale diventa reale e dal sentimento passa all’intelletto. Ma lo spirito umano non si ferma un solo istante; ed ecco che, subito dopo, riprende il suo viaggio di purificazione, di divinizzazione; ed ecco daccapo l’ignoto, l’indefinito, il vago, l'eterno femminino, che lo attrae su su e lo aiuta a poggiare per lo spazio infinito. Può ora dirsi, guai dando la cosa da questo punto di vista (che è quello stesso del Bonghi) può ora dirsi che tra Giustina e Margherita la differenza sia grande? La differenza è puramente esteriore. Nei primi secoli cristiani la religione era l’ideale e il reale ad una volta. Nei tempi moderni l’ideale e il reale s’incarnano nella scienza, e da essa ci 59 viene la nuova, ma non diversa, non opposta, redenzione e purificazione dello spirito umano. Però nell’un tempo o nell’altro non è la donna che salva o dà impulso a salvarsi, bensì quello che il Goethe battezzò, con una frase da gran poeta l'eterno femminino, e che così sarà chiamato per tutti i secoli avvenire: Das Ewig-Weibliche! 22 Ottobre 1882. ALPHONSE DAUDET (I) L'epigrafe del libro: « Pour la seconde fois, les Latins ont conquis la Gaule », è una piccola malizia... da latino, direbbero a Parigi. Il Daudet ha abituato il pubblico ai romanzi contemporanei trasparentissimi, pepati come il pettegolezzo di una conversazione elegante, gustosi come le indiscrezioni susurrate nell’orecchio dietro un ventaglio, e caldi di scandali mascherati a mala pena dal leggier velo d’un nome un pochino storpiato. Egli usa largamente del suo diritto di osservatore e di artista; ma quando con quei suoi occhietti di miope ha sbirciato le miserie, le colpe, il ridicolo (I) Numa Roumestan, moeurs parisiennes — Paris, Charpentier. 1881. Un vol. 62 della società parigina, non sa frenarsi di rivolgersi al suo lettore e d’ammiccargli, da birichino, con una civetteria quasi femminile. Vuol fargli sapere che sotto il personaggio dell’arte c’è il personaggio reale, che sotto l'episodio — narrato in un certo modo, con attenuazioni o reticenze — c’è l’aneddoto vero, lo scandalo di un giorno che corse tutta Parigi e fu registrato dai giornali. L’artista in queste malizie, fortunatamente, perde poco o nulla, e il libro, commercialmente, intanto guadagna di molto. Non è una malignità l'affermare che il Nabab e Les Rois en exil siano stati un po’ aiutati così ad arrivare oltre le sessanta edizioni. Ma è giusto aggiungere che senza un innegabile merito artistico, per la forza del solo scandalo, non sarebbero arrivati neppure a un terzo. Questo non significa che il Daudet speculi sul pettegolezzo dei suoi lavori, bassamente. Il romanzo moderno è uno studio psicologico positivo, un lavoro d’osservazione minuta, attenta, inesorabile, che non perde le sue belle qualità neanche quando combina i 63 diversi elementi della realtà per ricavarne un insieme che non sia precisamente reale. Significa soltanto che il Daudet mette una punta di malizia nel lasciar intravedere quel lavorio, parte meditato, parte inconsciente, da cui viene elaborata l'opera d’arte moderna. Nel Nabab, nei Rois en exil questa punta di malizia traspariva dal titolo e bastava. Nel nuovo romanzo, poichè il titolo non diceva nulla, ha voluto mostrarla nella epigrafe tratta da una pagina del libro stesso. Infatti, quando s’è letto: « ...pour la seconde fois, les Latins ont conquis la Gaule » si pensa subito a quel latino dalle larghe spalle e dalla parola possente che tien oggi nel suo pugno d’atleta i destini politici della Francia (I); si pensa a quella turbinosa atmosfera parigina gravida di scandali finanziarii, di agitazioni comunarde e parlamentari, di avidità non mai sazie e di grassi godimenti materiali, che freme d’attorno a quella torreggiante figura del caorsino e minaccia d’abbatterla; e (I) Allora il Gambetta era ancora vivo. 64 apriamo il libro già belli e avvertiti, leccandoci anticipatamente le labbra pel piccante manicaretto che stiamo per gustare. I primi capitoli illudono. Quella festa del concorso regionale nell'arena d’Aps, (Aix) sotto un sole cocente, con quella folla in ammirazione dinanzi il grande uomo della provincia, Numa Roumestan, che distribuisce a destra e a manca saluti alla buona, strette calorose di mano, incoraggiamenti e promesse d’ogni sorta, mentre le bande strepitano e i contadini si slanciano in massa a ballar la farandole al suono del piffero e del tamburo di Valmajour, il primo tamburino della Provenza; quella festa ci richiama in mente altre riunioni della stessa natura, delle quali abbiamo lette le descrizioni nei giornali, quando il latino dalle larghe spalle e dalla parola possente andava attorno, per convertire le turbe al suo vangelo opportunista. Poi si torna indietro; assistiamo ai primi passi del grand’uomo nella carriera della vita. Quella testona dalla nera capigliatura che le mangia metà della fronte, quel viso con tutto 65 il sangue a fior di pelle, con quei begli occhi dorati, di ranocchio, quel giovine studente, insomma, che passa le serate al caffè Malmus, nel quartier Latino, discutendo in dialetto coi suoi focosi compaesani; e, poi, quel processo di stampa del Furet che rivela, più che agli altri, a sè stesso un oratore di prima forza nel giovane avvocato senza cause, ci ricordano anch’essi il latino dalle larghe spalle e dalla parola possente, che, sotto il secondo Impero, frequentava ancor studente il caffè Procopio, esercitandovisi coi pugni sui tavolini nella grand’arte della discussione, e che poi, nel 1868 , già laureato e uscito dello studio del Crémieux, nel processo Baudin lanciava, invece della difesa del cliente Delescluze, il suo terribile atto d’accusa contro l’Impero in via di sfasciarsi. Ma l’illusione arrestasi qui. Di mano in mano che si procede nella lettura, il personaggio dell’arte si rimpicciolisce, prende le proporzioni comuni, e il lettore prova un vivo dispetto contro l'autore che, colla malizia della sua epigrafe, 66 lo ha fatto cadere in inganno. Il romanzo, convien dirlo, non lascia d’essere attraente. Le reminiscenze della infanzia di Numa, il viaggio al monte Cordoue in cerca del tamburino Valmajour che riscalda così straordinariamente la testa della giovane Le Quesnoy, la serata musicale al Ministero della pubblica istruzione, le macchiette della modesta cittaduzza di bagni, i tipi provenzali di Bompard, dell’Odiberta, dei Méfre col loro magazzino di commestibili Aux produits du Midi, ecc., ecc., sono degli episodi e dei profili graziosi, pieni di spirito, d’un colorito ben intonato, quantunque privi di rilievo; ma non son tali da fare che la figura e il carattere di Numa acquistino l'alta importanza lasciata supporre dalla malizia dell’epigrafe.... Mio Dio! questi latini che conquistano di bel nuovo la Gallia mi sembrano veramente una meschinissima cosa. Se la Gallia si lascia affascinare dalle sonore esagerazioni della loro parola, dalla sbadata facilità delle loro promesse, dai loro entusiasmi momentanei, dalle loro piccole 67 furberie, tanto peggio per essa. Infine, son essi così diversi dai parigini da doverne fare una classe a parte? Nel romanzo si scorge poco. Si direbbe che il Daudet, arrivato alle strette, non abbia più avuto il coraggio dal suo forte soggetto richiesto, ed abbia indietreggiato dinanzi a quella vigorosa e complessa persona dalla testa capelluta, dalle larghe spalle, dalla voce vibrante e la barba grigiastra che domina davvero la Francia. Poi, questa volta, il tema imponeva al romanziere un’attitudine seria. Non era il caso di ripetere, con più vaste proporzioni, la deliziosa caricatura dei suoi compaesani schizzata nelle Prodigiose avventure di Tartarin di Tarascona. L’autore s’è frenato, s’è fatto violenza. Se qualche tratto di fina ironia gli è sfuggito, si vede che gli è accaduto suo mal grado. Egli voleva mostrarci, seriamente, la razza meridionale della Francia col suo sangue sempre alla testa, colla sua voce altisonante, col suo gesto largo da attore tragico, con la sincerità e la volubilità delle sue impressioni; una razza che 68 vive all’aria aperta, abbagliata e inebriata dal sole; tutta sensi, tutta esteriore; che parla come l’uccello canta e fa della propria parola non un mezzo ma un fine, improvvisando, gorgheggiando, trillando e stando ad ascoltarsi, rapita dalla sua stessa musica come da una cosa di fuori; una razza che non ha misura, che vede tutto con proporzioni enormi, che ha l'esagerazione nel midollo delle ossa, nel sangue, nei nervi e perciò dà la stessissima importanza a cose affatto disparate; e questa razza, attiva, irrequieta, un po’ rozza, un po’ superstiziosa, troppo naturale, voleva mostrarcela alle prese colla raffinata civiltà parigina che se ne scandalizza ma si lascia sopraffare, che ne ride ma le si sottopone, sia fiacchezza, sia indolenza, sia impotenza, non gl’importava di dircelo. Nessuno era più adatto di lui per un quadro di questa natura. Meridionale naturalizzato di buon’ora parigino, egli ha l'immaginazione vivace, impressionabile, lo stile caldo e pittoresco, ed insieme la osservazione acuta e il buon senso che sorride; proprio quel che ci vuole per essere 69 un romanziere moderno di razza, qual ha potuto mostrarsi nel Nabab e nei Rois in exil, per citar solamente i suoi più recenti lavori. Eppure questo nuovo romanzo è riuscito sbiadito, a dispetto di tutto il sole che l'autore vi ha profuso. Quando noi vediamo la rigida parigina scandalizzarsi della leggerezza di carattere di suo marito, noi sorridiamo indulgenti. Le parole significano qualche cosa, ella dice, niente persuasa che tra meridionali, come assicura Roumestan, esse abbiano soltanto un senso relativo. Ed è vero. Ma a Parigi, a Londra, a Roma, a Pietroburgo, signora mia, in certe occasioni, quando tutte le immaginazioni sono scaldate, quando tutti gl’interessi sono in fermento, non è meno vero che le parole significhino sempre o qualcosa di più o qualcosa di meno di quel che suonino in realtà. L’intiero romanzo è concepito sotto questo falso ed esagerato punto di vista. Atti troppo comuni in ogni latitudine vengono addossati al povero Numa Roumestan come altrettante colpe di origine. La 70 razza! Il Daudet non vede altro. E, da meridionale, si scalda, alza la voce, si batte i fianchi, sgrana gli occhi: la razza! la razza! Ci manca poco che non la calunnii questa povera razza, per servirsene allo scopo della sua opera d’arte. Numa vien presentato in casa Le Quesnoy come candidato alla mano d’una delle due ragazze di quel Consigliere della Corte d’Appello. Non si tratta, è bene avvertirlo, d’un matrimonio d’amore. Però il futuro marito deve piacere alla ragazza, una parigina puro sangue, che non può soffrire i meridionali da lei creduti tutti grossolani, chiassosi, vuoti, dei tenori da melodramma o dei negozianti di vino in grosso. Numa fa di tutto per piacerle. Un parigino, nel suo caso, non avrebbe fatto altrettanto? Numa parla, si lascia andare, diventa eloquente; forse ripete involontariamente (è l’autore che lo nota) dei brani di discorso contro la Corte imperiale pronunciate altrove, al caffè o alla Conferenza; ma scuote la ragazza, ma le fa sentire il fascino della sua voce, ma la travolge in quel suo fiume di generosa eloquenza 71 che ha parlato così appassionatamente di libertà e di giustizia; e quando essa, un’anima d’artista, se lo vede trasfigurato sotto gli occhi, non più tenore da melodramma, nè vinaio in grosso, e gli parla, abbagliata, e gli domanda: — Amate la pittura, signore? — Oh! signorina, se l’amo! — risponde Numa, che sa di non capirne nulla. E la stordisce colle sue frasi belle e fatte, colle sue idee vaghe e superficiali presentate con tutta l’arte della parola e con tutti i grandi gesti del mestiere. Avrebbe forse fatto diversamente un giovane parigino un po’ furbo che stesse ad uccellare alla dote? Pare che il Daudet creda di sì. In tutto questo naturalissimo artifizio egli vede la malizia, o, se non la malizia, l’esagerazione poco scrupolosa del meridionale. E finisce il capitolo esagerando alla sua volta, da vero meridionale che si sia ben montata la testa: Fiamme et vent du midi, vous êtes irresistibles! come se Numa Roumestan avesse operato un miracolo. Il Daudet ce l’ha un po’ con questa 72 sua creatura e le aggrava addosso la mano. Numa, avvocato in voga, casca nella rete delle seduzioni d’una cliente, certa marchesa d’Escarbés, donna di più di quarant’anni, mezza disfatta e tutta ripicchiata, che mena di fronte gl’intrighi galanti e gl’intrighi politici. Una debolezza, se così volete. — Era nobile! E per l'uomo del mezzogiorno questo facea le veci di tutto: il blasone gli nascondeva la donna. — Ma no; molti mariti parigini fanno lo stesso in tutti i mesi dell’anno.... Il Daudet gli amministra intanto un assai grave gastigo. « Bruscamente, senza dire una parola, ella si slanciò, attraversò il piccolo salotto, andò diritta alla porta del gabinetto, la spalancò e cadde rovescioni. Non avevano neppur messo il paletto! » Rosalia riceve tal colpo la vigilia di esser madre, dà alla luce un bambino morto e si dibatte per qualche tempo tra la morte e la vita. Si può dire, in coscienza, che in questa disgrazia la povera razza meridionale c’entri proprio per qualche cosa? Ma penetriamo un po’ più addentro nel carattere di Numa. 73 Egli si annoia in quel sobborgo di San Germano, fra le viete illusioni legittimiste. La sua attività sente bisogno d’un campo più serio, e già egli prepara un’evoluzione verso il partito imperialista. Un giorno, a tavola, Numa si sfoga a canzonare quei di Froshdorf; li rassomiglia al Pegaso di legno di don Chisciotte inchiodato fermo al suo posto mentre il Cavalier della Mancia, cogli occhi bendati, crede di viaggiare su di esso pegli azzurri spazi del cielo. — Il suocero consigliere si mette in sospetto. Tieni d’occhio il tuo grand’uomo; mi pare che ciurli nel manico, egli dice alla figlia. E Rosalia, sorprende, poco dopo, il marito mentre scrive una lettera all’Imperatore con la quale egli accetta il posto di consigliere di Stato: Figlio della Vandea del mezzogiorno, cresciuto nella fede monarchica e nel culto rispettoso del passato, io non credo venir meno all'onore nè alla mia coscienza.... Sua moglie lo rimprovera; egli si difende stizzito. La parigina replica, insiste.... — Tu hai ragione, cento volte ragione; 74 convien rispondere al contrario, dice Numa convinto. E sta per stracciare la bozza. Ma c’è lì una bella frase che può servire, modificandola un pochino: Figlio della Vandea del mezzogiorno, cresciuto nella fede monarchica e nel culto rispettoso del passato, io crederei venir meno all'onore e alla mia coscienza, accettando.... Senza dubbio non è morale, non è dignitoso; Numa non ci fa una bella figura. Ma se mi dite che è per la razza, per la indifferenza meridionale intorno l’onesto e il disonesto, io vi rispondo di no. Nessun parigino ha mai fatto altrettanto? La cosa è un po’ difficile a esser creduta. E tutto il romanzo va di questo passo intramezzato di gentili episodi come i Daudet sa foggiarli. Potrei anche citare la bella e vispa signorina La Quesney innamorata del tamburino Valmajour. Che ad Aps, in mezzo al chiasso indiavolato della festa nazionale, con quel sole cocente, la bizzarra e rozza figura del suonatore di piffero e di tamburo le faccia una strana e forte impressione, passi; ci è un po’ di 75 natura meridionale in quella testolina immaginosa. Ma che la illusione duri a Parigi, dopo il ridicolo che colpisce il suonatore nella festa musicale al Ministero e nel suo debutto all’Opèra; ma che l’illusione sia così profonda da intaccare i germi vitali della povera ragazza, ecco, è.... meridionale addirittura. E il Daudet non se n’accorge. Una cosa intanto sorprende: il difetto di colorito in un soggetto meridionale. Una cosa intanto fa pensare: la mancanza di quei contrasti così soliti nel Daudet. Gli è stato detto tante e tante volte che la sua forma è troppo straluccicante, troppo impennacchiata; gli è stato detto tante e tante volte che i suoi quadri mancano di proporzioni nei diversi episodi e abbondano di contrasti eccessivamente ricercati. Ed ecco che il vivace romanziere si sorveglia, si rattiene, anche a costo di riuscire, egli! un po’ grigio e monotono: ed ecco che architetta il suo lavoro ingegnosamente, con regolarissime proporzioni 76 di parti, senza divagazioni, senza contrasti. Che vuol dire? Secondo me, vuol dire che questo libro è la forma transitoria di una bella evoluzione artistica del Daudet. Qui comincia a mancare l'accento personale, l'emozione intensa dello scrittore, e i personaggi, se non si disegnano netti e spiccati, tentan di vivere da per loro. Guardando all’ingegno del Daudet, non è ardito presagire che nel suo prossimo romanzo potremo salutare la sua evoluzione artistica già bella e compiuta. TORQUEMADA (I) Un dramma? Niente affatto. Dite meglio una fantasia lirica grottesca e sublime, e darete nel segno. Hernani, Lucrezia Borgia, Marion de Lorme, perfino quei Burgravi che paiono il borbottamento d’un Eschilo rimbambito, tutti han tentato la prova della scena prima di presentarsi al pubblico sotto la meschina forma del volume. Tutti, uno dopo l’altro, ci han declamato, sonoramente, i loro amori cavallereschi, i loro terrori e i loro spasimi di madre e di amante, i loro sogni da leggenda; tutti, uno dopo l’altro, han cercato di illuderci con un (I) Victor Hugo — Torquemada, Paris, Calmann Lèvy, 1882. 78 sembiante di corpo, con una simulazione di vita; e tutti sono spariti, fantasmi grandiosi, lasciandosi dietro un rumore vago di cose, un bagliore strano di apparizioni che fa sorridere e pensare. Torquemada, invece, ci viene dinanzi direttamente, senza passar per la scena. Ah! i tempi son mutati. Oggi non basta più l'essere un fantasma e il poter declamare dei versi sublimi per osar di salire il palcoscenico e mostrarsi alla gente. Bisogna essere una creatura umana vivente, una creatura nervosa, debole o forte, appasionata o cattiva, ma che si dibatta fra le strette della realtà, che parli il nostro linguaggio, che indossi i nostri vestiti, che ci faccia sentire quei singhiozzi rotti, quegli scoppi di pianto e tutte le ribellioni e le ironie che ci sconvolgono il cuore perchè son cosa nostra: bisogna, insomma, chiamarsi Margherita Gautier, Navarrette, Susanna d’Ange, oppure de Jalin, Maitre Guerin, Giboyer, Giovanni Giraud, e non Borgia o De Lorme, e non Hernani o Torquemada. Infatti il poeta ha esitato lunghi anni 79 intorno alla sorte di questo lavoro. E rassegnandosi finalmente a metterlo fuori in volume, pare voglia dirci: — Prendetelo qual è, dramma, lirica, poema, visione...; a me non ne importa nulla. È il mio concetto, la mia emozione, la mia parola; non cercate altro: vi basti. No, non basta! Che c’importa del concetto astratto, della emozione indefinita del poeta? Ecco qui la terribile figura del grande Inquisitore di Spagna. Il poeta le ha ficcato dentro l'anima quelle sue pupille di veggente ed ha carpito il segreto della forza, della personalità, del carattere di essa o quello che a lui è parso tale. È stato un momento! E la terribile figura di quel frate domenicano che bruciò in sedici anni ottomila persone, che cinquemila e cinquecento ne bruciò in effigie, che d’altre novantamila parte bollò col marchio d’infamia, parte seppellì nel carcere perpetuo, parte spogliò e disperse colla confisca; e quella bieca figura d’inquisitore che dominò il re, che lottò col papa, che non si curò 80 d’altro al mondo fuorché del suo terribile tribunale e delle sue tremende Istruzioni, non gli parve più una figura volgare, di frate sanguinario, compiacente strumento politico in mano di un monarca spagnuolo, crudele persecutore di vittime innocenti per avidità di ricchezze; ma gli si rizzò dinanzi gigantesca, fiera del suo alto concetto di redenzione, forte della sua coscienza di teologo e d’ispirato da Dio. Allora egli la sentì gemere con un accento di immensa tristezza: D’un cóté La terre, avec la faute, avec l’humanité, Les princes tous couverts de crimes misérables, Les savants ignorants, les sages incurables, La luxure, l'orgueil, le blasphême écumant, Senanchérib qui tue et Dalila qui ment! Tous, grands, petits, souillant le signe baptismal, A tâtons, reniant Jésus, faisant le mal, Tous, le pape, le roi, l'évâque, le ministre... Et de l'autre côté, l'immense feu sinistre! Ici l’homme, oubliant, vivant, mangeant, dormant, Et là les profondeurs sombres du flamboiement! L’enfer! Mon Dieu! qui donc aura pitié? 81 E trasalì al suo urlo di gioia: Moi! Je viens sauver l’homme. Oui, l'homme amnistié J'ai cette obsession. En moi l'amour sublime Crie, et je combatterai l'abîme par l'abîme! Que faut-il? Le bûcher. Cautériser l'enfer. E le sue viscere si commossero a quella profonda compassione che si trasformava in delirio: Terre, au prix de la chair je viens racheter l'âme. J'apporte le salut, j’apporte le dictame, Gioire à Dieu! Joie à tous! Les coeurs, ces durs rochers, Fondront. Je couvrirai l'univers de bûchers, Je jetterai le çri profond de la Genése: Lumière! et l'on verrà resplendir la fournaise. Je ferai flamboyer l’audafé suprème, Joyeux, vivant, céleste! — O genre humain, je t’aime * * * Certamente, a questo modo, Torquemada è una nobile creazione, forse più vicina al vero di quello che molti non credano; e l’averlo così concepito, serenamente, senza preoccupazioni umanitarie, 82 fuori da qualunque rancore politico e religioso; e il non aver visto in esso null'altro che l'altezza del giustiziere che percuote inesorabile, perchè ama fortemente, che ammazza il corpo, l'accidente, perchè vuol salvar l'anima, l'essenziale, è un lampo di genio degno di Victor Hugo e di qualunque altro grande poeta. Lo Shakespeare, il gran creatore di uomini, non l'avrebbe concepito altrimenti. Senza dubbio, a tanta forza d’ideale celeste, lo Shakespeare avrebbe mescolato qualche cosa di umano. Un’ombra di dubbio, un lampo d’esitanza sarebbe venuto di tanto in tanto a turbare quelle fibre tese, a battere all’uscio di quel cuore così violentemente chiuso ad ogni sentimento di terrena pietà. Lo Shakespeare non ci avrebbe dato un Torquemada tutto d’un pezzo, senza scoraggiamenti, senza paure. Si sarebbe rammentato che ci fu un tempo in cui il Torquemada della storia tremava per la sua vita e non osava fare un passo senz’essere scortato da quaranta famigliari dell’Inquisizione a cavallo e da dugento 83 pedoni; si sarebbe rammentato che il grande Inquisitore, accoppiando all’assoluta certezza della fede le superstizioni dell'alchimia contemporanea, teneva sempre sul tavolino un dente di liocorno per difendersi colla supposta virtù di esso dalle insidie dei veleni. Ci avrebbe dato, insomma, una creatura vivente, non un’astrattezza. — Prendetelo qual è, dramma, lirica, poema, visione; a me non ne importa nulla. È il mio concetto, la mia emozione, la mia parola; non cercate altro; vi basti. No, non può bastare; perchè non c’è forza di genio, nè splendore di immagini, nè musiche beethoveniane di verso che possano supplire a quello che rappresenta l’assoluto nell’arte: l’organismo, la forma. E poi, un dramma dev’essere un dramma, non lirica, non epopea. Non basta prendere tre concetti e metterli in riscontro o anche in lotta, per poter dire: ecco la vita; il dramma è qui! Nel mondo del pensiero, può darsi; nel mondo dell’arte, no davvero. È puerile, o senile, (a vostra scelta) il 84 figurarsi che chiamando Francesco di Paola il concetto astratto dell'ascetismo egoistico, occupato soltanto della propria salvezza spirituale; che chiamando Borgia il concetto astratto del godimento fisico e bestiale dei piaceri della carne; che chiamando Torquemada il concetto astratto del veggente che abbraccia col suo slancio di amore tutte le umane creature, si sia fatto quanto occorreva per la trasformazione di tali concetti in realtà artistiche viventi. Ci vuole ben altro. Perciò, incontrando nel secondo atto queste tre parvenze, non restiamo illusi un momento. E allorché sentiamo dire da Francesco di Paola, col suo sorriso di santo: Fils, toujours pardonner et toujours espérer, Ne rien frapper, ne point prononcer de sentence, Si l'on voit une faute en faire pénitence, Prier, croir, adorer. C’est la loi. C’est ma loi. Qui l'observe est sauvé; e sentiamo Torquemada rispondergli: Ah! tu te sauves, oui! Mais qu’est-ce que tu fais de tes fréres les hommes? 85 Tu n'as done pas en toi, comme le Dieu qui crée, Une paternité formidable et sacrée? Et la famille humaine est-ce que ce n’est rien? Mais on a soin d’un boeuf! Mais on guérit un chien! Et l’homme est en danger! Tu n’as donc pas d’entrailles! Ces petites enfants, ciel! être à jamais brûlés! Touts ces femmes, tous ces veillards, tous ces hommes, Tous ces esprits, tomber aux hurlantes sodomes! Courez! Sauvez à coups de fourche ces maudits, Et faites les rentrer de force au paradis! e allorché, venuto terzo fra loro, il Borgia canta il suo inno epicureo alla vita, al piacere, al trionfo dei sensi: Je suis une faim, vaste, ardente, inassouvie. Mort, je veux t’oublier; Dieu, je veux t'ignorer! e il santo domanda, atterrito: Qu’est-ce que ce bandit? e Torquemada risponde: Mon pére, c'est le pape; noi restiamo freddi, diffidenti, come dinanzi a tutto quello che è pura declamazione, puro sfoggio di concetti, pura rettorica insomma. 86 E così, quel grand’uomo d’azione che fu Torquemada, non fa quasi altro che recitar splendide tirate in tutti i cinque atti del dramma. Al poeta è parso sufficiente mettergli attorno le marionette di Ferdinando della regina Isabella, del marchese Fuentel e di Gucho il buffone del re; gli è parso sufficiente dar in preda alla mistica esaltazione di lui i due poveri amanti Don Sanchez de Solinas e Dona Rosa d’Orthez, ombre preraffaellesche, che per salvarlo dall’in pace a cui egli era stato condannato dai superiori del suo ordine, han sollevato la lastra sepolcrale con l'asta di ferro d’una croce. Che vorremmo di più? Il poeta, ormai lo sappiamo, non cerca una realtà artistica ma un velo che adombri il suo concetto, ma una immagine senza consistenza che lo lasci agevolmente trasparire. Non gli preme che quello, soprattutto. Il resto è una concessione che egli ci fa, a malincuore. Perciò tutto gli par buono e sufficiente, 87 anche il bambinesco, anche l’assurdo. — Vous me sauvez. Je jure, enfants, de vous le rendre! dice Torquemada, sulla fine del prologo, ai due giovani innamorati. E parecchi anni dopo, nel punto in cui questi trepidano sotto la minaccia di un grave pericolo, nel punto in cui la loro felicità di amanti, la loro vita, tutto, pende da un filo attaccato alle mani onnipossenti di lui, una parola, un ricordo sfugge dal labbro a Don Sancio: Oui, j’ai pris la croix, bon levier, certe, Et gràce à cette croix la tombe s’est ouverte, Et vous étes sorti du sépulcre, vivant. Torquemada (à part). O ciel! Ils sont damnés! Don Sanchez. A nous deux, moi levant La pierre, elle pesant sur la sbarre et penchée, Nous ouvrimes la fosse. Torquemada. (à part). Une croix arrachée; Sacrilége majeur! Le feu, l'éternel feu Sous eux s’entr'ouvré! Ils son hors du salut! Une croix arrachée! Une croix! — C’est égal. Sauvons-les. Autrement. Don Sanchez. Notre salut, c’est vous, seigneur. Torquemada. Soyez tranquilles. Oui, je vous sauverai 88 E mentre i due amanti, ebbri di felicità, si mormorano nell’ orecchio le più soavi parole d’amore, ecco apparir da lontano e appressarsi lentamente i familiari della Santa Inquisizione, colla loro bandiera nera e su una testa di morto fra due ossi in croce per stemma. — Cielo! — esclama Don Sancio, spaventato. E il dramma finisce. * * * Tutto questo è artificiale, meschino, supremamente ridicolo. Quel Torquemada che ha indetta la sua crociata contro il peccato, contro la bestemmia, contro i brutali rinnegatori del sangue di Gesù; quel Torquemada che accende roghi, che bolla col marchio rovente, che imprigiona, che confisca in nome e per conto della giustizia di Dio; quel grande inquisitore, quel gran teologo può dunque, tutto ad un tratto, precipitar dalla sua altezza, diventare un volgare superstizioso, un gretto casista, un frate imbecille, non distinguere 89 tra una buona intenzione e un peccato mortale, e mandar al rogo due giovani belli ed amanti, la stessa innocenza, la stessa purità? Ma Vittor Hugo non se ne cura. Torquemada che soffoca ogni suo sentimento di gratitudine quando c’è Dio da vendicare; Torquemada che non si lascia commuovere dalla giovinezza, dalla bellezza, dall’amore, neppur dall’incoscienza del male, è senza dubbio il sublime della follia del divino... Sì, senza dubbio. Ma la forma, ma la vita? Il poeta voleva darci, mi pare, un’opera d’arte; un dramma... se non m’inganno... Ed ecco a quale vacuità di frasche rettoriche egli ha potuto ridurre una concezione nuova, arditissima, profondamente vera e drammaticamente sublime. O poeti, o artisti, piccoli e grandi, Discite iustitiam moniti et non temnere divos! z8 giugno 1882. LA MOGLIE DI CLAUDIO (I) L'avevo letta nove anni fa, appena pubblicata, e me ne rimaneva ancora l'impressione di una opera d’arte che lasciasse scorgere un po’ troppo l'artifizio con cui era stata costruita. Un artifizio, s’intende, ammirabile, da ingegno che conosce meglio di ogni altro le più risposte malizie del suo mestiere; una costruzione, è superfluo il dirlo, solidamente piantata, da mano maestra.... Ma il risultato era questo: quelle figure non producevano l’illusione di personaggi viventi; erano rigide, legnose; si movevano tutte d’un pezzo, con gesti da marionette, e parlavano in falsetto. (I) Alexandre Dumas. La femme de Claude. 92 Infatti dietro la tela c’era appostato qualcuno che parlava invece di esse, senza molto curarsi di alterare la voce. Oh! un parlatore abilissimo, di quelli che attirano e incatenano anche quando s’incapricciano a discutere o a difendere un’assurdità. Oh! uno di quelli che hanno la frase incisiva, l’immagine vigorosa, e l’accento ora finamente ironico, ora sdegnosamente elevato — quasi apocalittico — dell’uomo convinto di avere un mandato. E come si vedeva che quei personaggi, no, quelle figure erano un mero pretesto per lui! Egli — ce l’ha detto dopo — s’era sentito gonfiare il petto, dallo sdegno, dinanzi allo spettacolo che stava sotto quei suoi occhi di osservatore espertissimo e di analizzatore implacabile. Nel gran crogiuolo della Francia avveniva un enorme ribollimento, ed egli avea veduto uscirne fuori « non plus de l’écume et de la vapeur, mais de bases mêmes de la matiére composée, une Bête colossale qui avait sept tétes et dix cornes, et sur ses cornes dix diadèmes, et sur ces têtes des cheveux du ton du métal et de l’alcool 93 dont elle était née.... Et cet Bête formidable ne disait pas un mot, ne poussait pas un cri! On entendait seulement le choc de ses màchoires et, dans ses entrailles, le bruit rauque et continu de ces roues des grandes usines qui tordent ou fondent, sans le moindre effort, les métaux les plus durs.... Or, cette Bête n’était autre q’une incarnation nouvelle de la femme, décidée à faire sa revolution à son tour!.... » (Lettre a M. Cuvillier-Fleury.) La intonazione ci dice tutto. Se la Francia era stata battuta, umiliata, diminuita di due care provincie, la colpa era di quella Bestia; « car c’était elle qui avait commencé à dissoudre nos élémentes vitaux, en minant peu à peu la morale, la foi, la famille, le travail. » Ed ora, dopo la disfatta, « elle nous retrovait encore plus divisée, plus inquiètes, plus ignorants, plus affaiblis, tandis que l'odeur de la poudre, le bruit du canon, la fiamme des incendies, les vapeurs du sang, les miasmes de la mort l'avaient regaillardie,.... » E intanto oltre il Reno c’è un uomo 94 « au front dégarni, à la moustache épaisse, aux yeux sombres, profonds, fixes et insondables, a la bouche railleuse et froide, au teint terreux, marbré de rouge, aux muscles d’acier, à la volonté de fer, à l'estomac énorme, au cerveau puissant; et cet homme de genie.... a vaincu et utilisé la Bête!.... » Capite? Non era un dovere per lui, pensatore, artista, cittadino, l'afferrare colla mano potente costei dalle forme diverse e giudicarla e ucciderla in nome della coscienza umana e della giustizia divina, per pubblico avvertimento del suo amato paese? Così nacque la Moglie di Claudio, la personificazione artistica della Bestia. Lo autore lo confessa: non ha voluto fare semplicemente un lavoro teatrale: ha voluto gettare un grido di allarme, tentare un risveglio della coscienza. I suoi non sono personaggi puramente umani, ma incarnazioni complessive, essenze di esseri, entità, in una parola! Il pubblico se n’era accorto prima che l'autore lo confessasse; e se aveva resistito, se aveva protestato, se a Parigi non 95 s'era lasciato sedurre neppure da quella ammirabile Cesarina che dovette essere la Desclée, non ebbe tutti i torti. Un’opera d’arte non può essere per metà opera d’arte, per metà un’altra cosa: discussione, predica, arringa, opuscolo politico e sociale, sistema - filosofico o religioso. Innanzi tutto dev’essere un’opera d’arte, un organismo vivente che nasconda, come nella natura, il gran segreto della vita. Voi siete padrone, padronissimo di mettere sotto quelle forme vive tutto quello che voi volete: religione, filosofia, politica, tutto; potrete anche credere, nel caso particolare in cui siamo, che il teatro sia chiamato a cercare la soluzione dei grandi problemi sociali, se esso non vuol morire di sfinimento a furia di vivere di ripetizioni: ma però ad un solo patto: che esso rimanga teatro! A questo riflettevo tre sere fa, mentre la signora Duse recitava al Valle la parte di Cesarina, la moglie di Claudio; e, soltanto ora, alla rappresentazione, capivo quanta potenza drammatica avea profuso il Dumas in quel personaggio, il solo che 96 apparisca vivo e reale in mezzo ai fantasmi degli altri. Quella strana figura, con quegli occhi grandi, smarriti, con quelle narici che si sollevavano, con quella bocca che s’increspava nella convulsione della rabbia, e diventava ammaliatrice quando si apriva ai terribili sorrisi che facevano fremere quel povero innamorato di Daniele: quella strana figura, che si contorceva come un serpe, che sguizzava, che aveva slanci da pantera, che mentiva, urlava, piangeva, maligna e malefica per istinto e per compiacimento di creatura corrotta; quella donna non più donna, che non avea mai avuto cuore di sposa, nè viscere di madre; che aveva appena capricci di sensualità, assorbita com’era tutta dall’avidità smaniosa di godimenti mostruosi, intravveduti coll’immaginazione in bollore, sognati nelle notti febbrili di una vita senza freno di sorta....; ella insomma, la moglie di Claudio, faceva impressione sul pubblico sin dal suo primo apparire sulla scena; e poi, a poco a poco, se ne impossessava, e lo teneva stretto nel suo piccolo pugno, e lo 97 scuoteva, e lo tormentava, ne faceva, come del suo Claudio, quel che le pareva e piaceva. Però, se sentivasi la possente mano del maestro in quel carattere, in quel personaggio a cui la signora Duse prestava tutte le ricchezze del suo talento di artista, la durezza, la legnosità degli altri personaggi non si avvertiva meno per questo. E la catastrofe? — Si tu entraines dans la mort ou dans le mal un seul étre innocent, si tu me fais obstacle dans ce que Dieu me commande, aussi vrai que Dieu existe, je te tue! Ma il Dumas col suo meraviglioso istinto drammatico, come non s’era accorto che nel caso di Claudio era troppo tardi o troppo presto? In quell’ultimo atto neppure la rappresentanzione arriva a nascondere la crudezza dei mezzi con cui la catastrofe vien prodotta. C’è là, in un angolo, il fucile che attende; l’autore ha troppo fretta di far provare il suo piombo vendicatore alla malefica bestia! Poichè non si trattava di esseri umani, ma di essenze, ma di entità, 98 dovea l'autore (non dico l'artista) usar forse tanti riguardi? E non li ha usati. Così la Moglie di Claudio è riuscita senza dubbio una buon’azione della quale Dumas pensatore e cittadino può andare orgoglioso, ma non una vera opera d’arte. Il meglio (e ne converrà il Dumas artista) il meglio sarebbe stato ch'essa fosse riuscita, nello stesso tempo, e l'una e l’altra. 5 Novembre 1882. UN ROMANZO GIAPPONESE (I) Se non sbaglio, questo è il secondo romanzo giapponese che vien tradotto in una lingua europea. Il primo tentativo fu fatto dal Pfizmaier nel 1847, quando diede alla luce in Vienna un racconto di Tane Hico pubblicato al Giappone nel 1821. Il nostro Severini lo tradusse in italiano, correggendo i mille errori d’interpretazione del testo nei quali era incorso il professore tedesco; ma confessò (I) Les fidéles ronines, roman historique japonais par Tamenaga Shounsoni, traduit sur la version anglaise de MM. Schiouichiro Saito et Edward Grecy par B-H. Gausseron professeur de l’Université, illustré par Kei-Sai Yei-Sen, de Yedo. — Paris, Quantin, 1882. 100 schiettamente che in molti luoghi anche egli non era arrivato a capire, e che per parecchi altri dubitava di avere ben reso l'originale. Il racconto di Tane Hico è una graziosa storia di amore che i colti lettori certamente conoscono col titolo Uomini e Paraventi, abbreviato dal vero titolo, un po’ lungo: Sei paraventi proposti a regola della fugace vita. Chi ha un’idea dell’ingenuità raffinata della pittura giapponese, la ritrova quasi identica nella forma letteraria del romanzo. Non faccia specie quel raffinata accoppiato ad ingenuità, nel Giappone è così. Pittura e letteratura non sono tanto rozze e primitive da non rivelare una già progredita abilità di esecuzione, una meravigliosa complicazione di processi e di ricerche, una delicatezza e una squisitezza di sentimento che certe quasi incredibili puerilità di mezzi e di forma contribuiscono a rendere più attraenti per noi. La storia della simpatica Misàvo (Modesta) è un vero idillio dirimpetto alla tragica narrazione dei Fedeli rônini di Tamenaga 101 Shounsoni, della quale intendo ora dar qualche ragguaglio. Peccato che questa volta non ci troviamo faccia a faccia con un’opera d’arte giapponese quale uscì dalla penna del suo autore! I traduttori si son creduti in obbligo di facilitarne, a modo loro, l’intendimento ai lettori europei: e per scansare le note a piè di pagina e una breve introduzione sulla storia dei quarantasette rônini, hanno commesso il sacrilegio artistico di rimaneggiare tutto il lavoro, spostando l'ordine dei capitoli e colmando le pretese lacune con estratti di altri lavori innestati nel testo. Non conoscendo l'originale, è impossibile rendersi conto fin dove sia arrivato quest’atto di vandalismo; certamente esso ha tolto alla narrazione gran parte di quella caratteristica particolare che ne avrebbe formato il maggior pregio. La quale però dev’essere grande davvero se, a dispetto di tante violazioni, rimane ancora abbastanza spiccata da darci alla lettura un sapore affatto nuovo ed esotico che diletta e sorprende. 102 La storia dei quarantasette rônini, è popolare al Giappone. La breve prefazione dell'autore dice: « Nella mia infanzia, durante le lunghe serate d’inverno, quando la lampada accesa dentro la lanterna di carta rischiarava appena colla sua dubbia luce le figure dipinte sui paraventi, spesso, seduto accanto al braciere, cogli occhi pieni di un rispettoso terrore, io ascoltavo dalla mia venerata madre la narrazione delle avventure dei quarantasette rônini, che, in compenso dell’oscurità della stanza, m’illuminava lo spirito coi raggi della fedeltà. » Infatti essa è una meravigliosa storia di fedeltà, come poteva ispirarla quel sistema feudale che esercitò per più di settecento anni la sua straordinaria influenza sul Giappone. Oggi quel mondo feudale è un ricordo storico anche là; ma le tombe dei quarantassette rônini continuano ad essere tuttavia oggetto di venerazione e di culto. « Furono uomini leali e perciò patriotti! Essi han dato un esempio che sarà sempre imitato, e verrà tempo in cui il loro 103 valore sarà riconosciuto anche in alto ». Questo scriveva l’autore nel 1848; e nel 1869 il Mikado Montsouhito insigniva la tomba del capo dei rônini dell’Ordine della Foglia d’Oro, adempiendo appuntino la profezia del romanziere. Rônin vien chiamato quel samurai — nobile — che per qualunque cagione trovasi sciolto dal diretto legame di vassallaggio verso un principe — daïmio. Il motivo che fece diventar rônini i samurai del principe d’Ako fu il seguente. Nel dicembre del 1698 il presidente del Consiglio degli Anziani di Yedo, saputo che dovevano arrivare alla Corte del Taicum tre inviati della Corte imperiale di Kioto, destinò a riceverli Asano-Takumi- no-Kami (Campomattino) principe d’Ako e il principe Kamai Suma (Pozzo della tartaruga). — Essi dovevano prendere gli ordini dal Kira, Gran cerimoniere del Taicum. Avido, venale, insolente, il Kira ricevette con tale aria di disprezzo i regali che i due principi gli presentarono, e trattò essi stessi con sì rozza alterigia che questi 104 perdettero la pazienza e decisero di vendicarsi ammazzandolo. Il primo consigliere del principe Kamai Suma capì subito il pericolo in cui si trovava il suo signore, e pensò di presentarsi segretamente al Kira con ricchi doni che disse inviati direttamente da quello. Il principe Asano Takumi-no-Kami non fu così fortunato. Il suo primo consigliere era lontano. Pure, siccome questi conosceva benissimo l'avida natura del Kira, pensò d’inviare un messo con dugento rios d’oro ai due consiglieri che stavano presso il principe, ordinando che li presentassero subito al Kira come regalo del loro signore. I due consiglieri stimarono che dare al Kira quel denaro equivaleva a buttarlo in mare; e così, per la loro stupida tirchieria, produssero la rovina del principe d’Ako. Infatti, la mattina dopo, Sua Eccellenza Kamai Sama fu ricevuto dal Kira con grandissimi segni di rispetto, mentre Sua Eccellenza il principe d’Ako fu trattato peggio del solito. — Principe d’Ako, mi si è sciolto il nastro di un calzaretto; annodatemelo. 105 Il principe si rassegnò anche a quest’insolenza, giurando in cor suo di farne vendetta più tardi. — Come siete goffo questa mattina! — soggiunse il Kira. — Sembrate un contadino! Il principe non ne potè più e tirò fuori la sua sciabola: — Difendetevi, cavalier Kira! Io non sopporto simili affronti! Il Kira, invece, cominciò a urlare, cercando di scapparsela, già ferito alla testa; e il principe l’avrebbe finito se un ufficiale accorso agli urli non lo avesse trattenuto pel braccio. Un’ora dopo il principe d’Ako riceveva l'ordine di ritirarsi nella sua residenza e di considerarsi come prigioniero. La prigionia e la morte del principe occupano il secondo capitolo del romanzo, uno dei più belli di tutto il libro. Credo far cosa grata ai lettori, dandone un lungo brano; così potranno formarsi un concetto più immediato del romanziere giapponese. Il principe d’Ako aspettava tranquillamente la sentenza del Consiglio degli Anziani; 106 vestito del suo abito ufficiale, ginocchioni presso un piccolo tavolino, intingeva nell’inchiostro il suo pennello. Egli scriveva con rapido movimento una poesia ispiratagli dalla pianta di man-rio dalle diecimila bacche d'oro che trovavasi sul davanzale della finestra colle foglie coperte di neve: « Il man-rio cresce e si abbellisce sotto le nevi dell’inverno. — L’ingiustizia contro il suo signore rivela e accresce la fedeltà del samurai ». Terminato di scrivere, egli voltò la testa verso la pianta, e « il sole nascente inondò coi suoi raggi obbliqui quella scena, e fece scintillare i cristalli della neve come grappoli di stelle. « Mentre il padrone era assorto nel suo geniale lavoro, le persone di casa andavano e venivano, silenziose, occupandosi delle faccende domestiche. Nessuno cantarellava nella cucina, nessuno per le stanze alzava la voce; non si sentivano che susurri. L’uscio principale era chiuso. Davanti di esso era stata costruita una barriera provvisoria di bambù verde per indicare che il principe era prigioniero. Un 107 amico di famiglia, che aveva prestato cauzione per lui impartiva gli ordini, e accordava i permessi di entrare e di uscire. Una profonda tristezza regnava in tutta la casa; solo il capo di famiglia era calmo. « Nel mezzo del suo dolce fantasticare, un paravento fu rimosso con cautela dietro di lui, e la principessa Belviso, sua moglie, entrò nella stanza. L’aspetto della principessa rivelava il gran turbamento del suo cuore. Ella si avanzò verso il marito, si lasciò cadere con abbandono sul pavimento, e, chinata la fronte fino a toccare la stuoia, con voce commossa disse: « — Spero che il mio signore si senta bene! « Il principe la guardò teneramente, e rispose: « — Sto bene, Belviso. E voi perchè siete così triste? « La principessa represse il suo dolore e disse: « — Mio signore, come potrei mostrarmi lieta, mentre un pericolo vi sovrasta? 108 « Benchè commosso da quelle parole, egli non lasciò trasparire nessun turbamento; ma invitandola ad avvicinarsi, le additò i versi che avea scritto. « La principessa Belviso lesse, lentamente; poi, levando gli occhi verso suo marito: « — Ah, mio signore — esclamò; — voi vi aspettate la più grande sventura! Il Kira è onnipotente presso il Taicum, e i suoi amici faranno ogni sforzo per schiacciare la casa d’Ako. « — Non abbiate paura, Belviso. Ma io sono inquieto per voi. Io so quello che avviene in questo momento nell’animo vostro. Le vostre azioni vi tradiscono. « — Mio signore, le mie azioni? « — Sì — e mostrò il man-rio. — Voi non potrete mai ingannarmi. Ieri sera, nel ripulire questa pianta, vi siete servita di uno dei vostri spilli per togliere una bacca inaridita e avete lasciato sull’orlo del vaso quel piccolo arnese di toletta: poi vi siete scordata di riprendere anche i vostri fazzoletti di carta: sono ancora lì. « — Che dimenticona! — esclamò la 109 principessa, fissandolo con uno sguardo pieno di tristezza. — Tutti potrei ingannare, ma non voi! « E pronunziando queste parole, chinò la testa, posò le mani sui suoi ginocchi e vi appoggiò la faccia. Il principe la guardò con gli occhi quasi in lagrime, e le mise una mano sulla spalla. « — Belviso — le disse — l’uccello scacciato dal suo nido trova sempre qualche ricovero nelle tempeste. Qualunque cosa accada, io desidero che voi accordiate piena e cieca confidenza al mio primo consigliere Roccagrossa... È un uomo che vale milioni, bravo, onesto, ricco di risorse, paziente nelle difficoltà, insomma, un vero uomo di Stato. « — Un uomo di Stato! — ella esclamò. Ma perchè dunque non ci difende dal presente pericolo? « Il principe Campomattino non le fece nessun rimprovero per quel grido di donna e di sposa; si contentò di rispondere: « — Son certo che il Roccagrossa ha fatto il suo dovere. 110 « La principessa abbassò la testa e si afferrò, convulsa, al marito, sapendo bene che fra non molto dovea dividersi per sempre da lui. Il principe si sforzò di darle coraggio, e quando fu un po’ calma la condusse per mano verso l’uscio dicendole: « — Belviso, io vi manderò a chiamare più tardi. Mi accorgo che in tutta la notte non avete chiuso occhio. Andate a letto e cercate di trovare qualche ristoro nel sonno. « Ella entrò barcollando nel corridoio, e, gettandosi sul pavimento, lo salutò coi singhiozzi, come se il cuore fosse per scoppiarle. La sua prima dama di compagnia si avanzò rapidamente, chiuse il paravento che separa le due stanze, e così nascose agli occhi del suo signore quel doloroso spettacolo ». Poco dopo arrivarono i commissari del Consiglio degli Anziani. Ricevuti nella gran sala con tutti gli onori di rito, essi diedero a leggere al principe la sentenza del Consiglio. Il principe la portò riverentemente alla fronte e poi la scorse senza mostrare nessuna commozione. 111 « Mi si condanna a darmi la morte — egli disse, — e mi si annuncia la confisca dei miei beni e l'estinzione del nome della mia famiglia. Mi sottometto, rispettosamente. « — In questo caso siamo pronti a farvi da testimoni — rispose impassibile il capo dei commissari. « Un paravento fu rimosso: tutto era preparato per la solenne cerimonia. Il principe si cavò l'abito ufficiale: avea già indosso sotto di quello il shisomoukou (abito bianco che si mette pel lutto o pei sacrifizii). Sedette sulle grosse stuoie, e fece segno a due samurai del suo seguito di accostarsi. « — Col vostro permesso — disse rivolgendosi ai commissarii — darò le ultime istruzioni ai miei consiglieri. » « Parlò a bassa voce, poi consegnò ad essi una piccola cassetta di legno bianco di pino insieme con una lettera che avea cavato dal seno. « I due samurai si allontanarono con riverenza. « Era una scena commoventissima. Nel 112 centro stava il principe, in ginocchio, calmo e risoluto: di faccia a lui i commissari, seduti, severi e freddi: dietro a lui i fedeli samurai, prosternati, pronti a rendere al loro capo gli estremi onori. « Fuori, tutto era tranquillo. Un leggiero strato di neve copriva il suolo. Nella casa regnava un silenzio di morte. I samurai serravano forte i denti e si torcevano le dita dal dolore; ma dalle loro labbra non scappava neppure un sospiro. « Il principe Campomattino contemplò dai paraventi aperti a metà il magnifico spettacolo che si stendeva fuori sotto i suoi occhi e dato ad esso un muto addio, portò la mano, con aria calma, al pugnale che aveva a destra.... » Da quel giorno in poi i fedeli samurai, diventati rônini per la confisca dei beni e l’estinzione del nome del loro signore, non pensarono che a vendicarne la ingiustissima morte. Il consigliere Roccagrossa diresse le fila della congiura. Per addormentare i sospetti del cavalier Kira che non usciva più di casa ed era sempre circondato di guardie, i fedeli rônini si dispersero; 113 e travestiti, esercitando umili mestieri, osservavano le minime mosse dell’infame nemico del loro capo. Il consigliere Roccagrossa, che si sapeva particolarmente sorvegliato dalle spie del Kira, finse di abbandonarsi ai liquori inebbrianti, alle donne di mal affare; ripudiò la moglie, sopportò perfino gli insulti dei suoi compagni, che, ingannati anch’essi dall’apparenza, lo credettero dimentico del suo giuramento di vendetta. Ma il giorno che il cavalier Kira si stimò sicuro e accettò un invito in casa di suo genero, il consigliere Roccagrossa convocò rapidamente i rônini rimasti fedeli (erano quarantasei) e con essi assaltò di notte quella casa, scovò il vile Kira in un ripostiglio di carbone dove s’era nascosto; e, siccome invitato a darsi la morte quel vile non ne avea il coraggio, egli lo uccise e gli staccò la testa per portarla, in offerta, alla tomba del suo signore. I quarantasette rônini andarono la mattina dopo a fare un solenne sacrifizio su quella tomba, nel cimitero del tempio di Sengakugi; e lì aspettarono tranquillamente 114 che i soldati del Taicum venissero ad arrestarli. Quando ebbero comunicata la sentenza che li condannava a compire l'harakiri, cioè il suicidio aprendosi il ventre, essi non domandarono altra grazia che di esser sepolti presso la tomba del loro capo. Nello stesso giorno, alla stessa ora « prima che i rintocchi delle campane del tempio avesser cessato di vibrare nell’aria, quarantasei ombre, condotte dall’ombra del consigliere Roccagrossa, si disposero in riga e s’incamminarono per la Via solitaria. Insieme montarono la collina della Morte; insieme fecero alto nel punto dove le tre vie si incontrano, si spogliarono delle loro vesti bianche e le diedero a Sanzouno-Baba. Poi, lanciandosi arditamente nella trista riviera, passarono nel Gokurakou (Paradiso), ove furono bene accolte dallo spirito del loro amatissimo signore ». Le diverse avventure dei rônini mentre cercavano di raggiungere il loro scopo, porgono al romanziere l'occasione di fare una svariata e vivacissima pittura della 115 vita giapponese di tutte le classi. Mi duole che la tirannia dello spazio non permetta di dare estratti di altre caratteristiche scene; scene altamente tragiche come quella dove la vecchia madre del cavalier Comunale, uno dei rônini, si ammazza per levar al figliuolo l'ostacolo del suo affetto che poteva farlo esitare nell’intrapresa vendetta; scene divertenti come l'episodio del dottor Villa-Farfalla, un ciarlatano che può dar dei punti ai suoi colleghi europei; scene di passione gentili come l'altro episodio graziosissimo della signorina Tranquilla; scene dove anche il supernaturale ha la sua parte, quando il dio Volpe prende le sembianze di un familiare del cavalier Fianco della Costa, caduto ammalato d’occhi lontano dalla sua famiglia, e lo serve umilmente fino all’arrivo di quel familiare che così fa scoprire lo strano raddoppiamento di persona. « Se il lettore desidera assicurarsi dell'autententicità del fatto — aggiunge a questo proposito l'autore, — vada nel quartiere della Collina blu; vi troverà l'altare che gli abitanti del vicinato mantengono 116 con molta cura. E con tutto questo c’è ancora degli scettici che ghignano quando si parla del poter soprannaturale del dio Volpe! » Le tombe del principe d’Ako e dei quarantasette rônini esistono ancora nel cimitero del tempio di Sengakugi, sotto l'ombra de’ pini maestosi, circondate da un ricinto di pali. In un cortile del convento presso una cappella dedicata al bo-satù Kuau-où veggonsi le loro statue abilmente scolpite in legno, colle faccie dipinte, cogli abiti riprodotti benissimo in lacca e l'arma prediletta a ognuno di essi. Nei Tales of old Japan del Mitford si legge che nel 1868 un rônin andò ad aprirsi il ventre fra quelle tombe perchè avevano rifiutato di accettarlo fra i samurai della famiglia Coscia di Nagato ritenuta da lui la più nobile del paese. Il Mitford potè vedere le reliquie dei rônini gelosamente conservate e prender copia di alcuni manoscritti che trovansi fra esse. Quell’eroismo, già diventato leggendario, scalda le immaginazioni popolari e prende quasi forma di un mistero religioso. 117 Forse per questo è proibito di far conoscere i veri nomi dei rônini e alcuni episodi dell’impresa. Le molte versioni spurie della storia dei quarantasette devon esser prodotte da tale divieto. Pare che il romanzo del Tamenaga sia una delle versioni più pure. Ve n’ha alcune dove tutto è arruffato in modo da rendere il racconto irriconoscibile. Un principe giapponese e la sua Corte nel secolo xv del professor Severini è appunto la traduzione di una di queste; ma non ho potuto vederla. Dirò, per finire, che i lettori italiani leggerebbero certamente con vivissimo interesse la storia dei fedeli rônini tradotta nella loro lingua. E se a questo lavoro volesse dedicarsi il nostro valente professor Severini, sarebbe superfluo il raccomandargli di darci una semplice letterale traduzione e non un sacrilego rimaneggiamento simile a questo che il giapponese Shiouiro Saito e il signor Edwar Grecy hanno osato di fare. 20 Maggio 1882. FELICE ROMANI (I) È una figura dolce e gentile che comincia a sbiadire. Ce lo dipingono con la carnagione bianca, cogli occhi cerulei, coi capelli castagni, con certi baffi lunghi e folti dei quali si compiaceva quanto delle mani e dei piedi che aveva piccoli e ben fatti. Vestito sempre con ricercata eleganza, affabile di modi, conversava con arguzia, e aveva motti pieni di malizia fina e delicata dei quali il suo sorriso temperava la puntura. (I) Emilia Branca. — Felice Romani ed i più riputati maestri di musica del suo tempo. Cenni biografici ed aneddotici raccolti e pubblicati da sua moglie. — Torino, Loescher, 1882. 120 Era, come allora si diceva, naturalmente romantico, senza affettazione, con una certa elevatezza che rende rispettabile il suo carattere anche quando chiama un sorriso sulle labbra. Appena sposato, mette in una cassetta gli abiti nuziali e li conserva come ricordo di uno dei più felici momenti della sua vita. Di tanto in tanto si accerta coi propri occhi che quel sacro deposito sia ben custodito. Le sue stanze erano sempre ingombre di vasi di fiori: amava portare spesso un mazzolino all'occhiello. Cani, gatti, scoiattoli, uccelletti, liberi e addomesticati con amorosa pazienza, tutti convivevano con lui, che godeva di studiarne le abitudini, gli istinti e faceva il chiasso insieme con essi. Era convinto che quelle creature avessero piena coscienza di loro stessi e che si credessero altrettanti uomini e fossero assai più buoni e più affettuosi di questi. La sua sentimentalità lo faceva attaccare ugualmente anche alle cose inanimate. I vecchi mobili gli erano cari pei ricordi che gli suscitavano, e li voleva d’attorno, 121 in vista, perchè narrassero la loro storia in mezzo a quelli venuti dopo. Nella sua villa di Moneglia, dove passò la puerizia e dove andò a morire, conservava tuttavia i primi suoi libri sgualciti, strappati, macchiati, con precoci annotazioni ai margini che i tarli non aveano sempre rispettato. Però la dolcezza del carattere, la bontà d’animo quasi eccessiva non gl’impedivano di essere, a tempo e a luogo, dignitosamente forte. Giovane ancora era stato eletto professore di letteratura greca invece del suo maestro, il Solari, messo sgarbatamente a riposo quando l'università genovese fu riformata; ma il Romani non accettò per non essere complice di recata offesa all'onore di un grand'uomo e non affiggere colui verso il quale nutriva riconoscenza ed affetto di discepolo. Così, più tardi (1851), dopo le noie e i dispiaceri avuti in Torino per la direzione della Gazzetta ufficiale, egli rifiutava le offerte del conte Pachta, allora commissario imperiale in Milano. Il conte 122 Pachta avea saputo attirarsi con buone ragioni l'animo del suocero del Romani. — Si voleva fare all’illustre scrittore, maltrattato dal governo sardo, una posizione indipendente nella Gazzetta di Milano, una posizione puramente letteraria, senza noie di revisione, colla più completa libertà di principî.... e carta bianca pel resto.... — Il suocero era corso da Milano a Torino colla buona novella; ma il Romani non avea voluto neppur sentirne parlare: il suo patriottismo era assai superiore al suo interesse e al suo orgoglio di letterato; rifiutava. E alla moglie, che nella proposta del commissario austriaco vedeva soltanto la desiderata occasione di ritornare nella sua città nativa, fra i suoi, e perciò tentava di persuaderlo: « È un insulto — rispose — fatto a me, al mio decoro e al mio paese ». Per la stessa ragione parecchi anni avanti (1816) aveva rifiutato il posto di poeta cesareo della Corte di Vienna. Bisognava rinunziare alla cittadinanza sarda e diventare suddito austriaco. Il Romani preferì non toccare i quattromila fiorini annui 123 dello stipendio, non godersi le dolcezze del bel soggiorno viennese e rinunziare all’onore non piccolo di essere il successore del Metastasio, piuttosto che accettare a quel patto. * * * La sua critica, nelle appendici della Gazzetta ufficiale torinese, era anch’essa un riflesso del suo carattere, un che di ardito, di sentimentale e di severo, tre qualità che avrebbero dovuto fare a pugni tra loro e in quell’anima si compenetravano, si armonizzavano per una certa vaporosità d’idee propria di lui e di quei tempi. Il conte di Cavour gli diceva un giorno: — Lei, caro Romani, è troppo classico! — Io non sono nè classico, nè romantico — rispondeva — Voglio anch’io il progresso, purchè io sappia dove si va e che cosa si va a fare. E gli pareva che allora si andasse, a rotta di collo, in un precipizio. « Uno sbrigliato ardimento di tutto violare, 124 un continuo smarrirsi nelle nuvole di astrazioni metafisiche, un fallace notomizzare di passioni, un abuso di mistico e di fantastico, nessun ordine e nessuna proporzione nelle forme; bandita ogni eleganza; non proprietà di voci, non convenienza di stile; in prosa e in poesia, nei libri e nei teatri ogni sorta di stravaganze, ogni turpitudine di vizi e di colpe, ogni abbandono di morale e di gentilezza italiana... Ecco a che estremo vuolsi condurre la nostra letteratura! » Questo scriveva nel 1843, pei romantici; e aggiungeva: « E invano il cielo d’Italia sorride sereno, invano il sole si compiace di questa terra fiorente, e invano ogni sasso, ogni tomba, ogni tempio parla a noi di antiche grandezze, di incancellabili glorie! O Italiani! Poichè la libidine d’imitare gli stranieri si è tanto radicata negli animi vostri, non li imiterete voi mai nella generosa ambizione di conservare le patrie ricordanze e di conservare inviolato il più santo palladio d’un popolo, quale si è quello dell’indipendenza dell’ingegno? » 125 Precisamente come molti sentimentali o spiritualisti esclamano oggi, alla lor volta, contro i così detti realisti colpevoli, secondo essi, di abbandono della morale e della gentilezza italiana! Il Romani è più sicuro e più autorevole, quando parla dell’arte sua (stavo per dire del suo mestiere): « E voi che vi mostrate tanto schifi delle imitazioni dal francese, quando tutto è imitazione fra noi, vesti, costumi, usanze, arti, letteratura, credete voi così facile ridurre una tragedia o commedia francese in un melodramma italiano? Far poche pagine di un volume? Compendiare una lunga azione? Mettere in miniatura caratteri, personaggi, situazioni? Da un componimento tutto dialogato togliere via il dialogo, suo primo elemento? E poi vi par facile soddisfare a tutte le esigenze della musica; prestarsi a tutte le convenienze dei cantanti; distribuire i così detti pezzi in maniera che gli uni non nocciano agli altri, sceneggiare senza monotonia, ora coi soprani, ora coi bassi, combinando la ragion poetica con la necessità 126 dell’arte; allargare un concetto in tanti versi del tal metro e restringerlo in tant’altri e della tal’altra misura ? » No, la cosa non è punto facile, massime quando si posseggono tanto ingegno, tanta coltura e tanto buon gusto da esigere che l'adattamento melodrammatico conservi una piccola apparenza d’opera d’arte; ingegno, cultura e buon gusto che il Romani aveva certamente, e sarebbe stoltezza il negarlo. Però egli non si accorgeva che la sua difesa del librettista diventava la completa condanna del preteso lavoro poetico. Non si accorgeva che, dopo il Metastasio, nell'opera in musica le parti sono invertite, e che mentre prima la musica poteva dirsi l'accessorio, l’aiuto, l’ornamento, lo svolgimento melodico dei punti più culminanti del lavoro drammatico, ora invece essa ha preso il primo posto, ha invaso il campo e ridotto la poesia un vero pretesto per la sua personalità di opera d’arte indipendente. Il fatto è che voi potete citare Temistocle la Clemenza di Tito, Artaserse, tutti, 127 fino a uno, i melodrammi del Metastasio; potete citare le sue strofe sentenziose, i suoi versi già diventati patrimonio del linguaggio comune, senza che vi venga in mente il nome d’uno di quei classici maestri che li vestirono di note, senza che vi passi pel capo che quelle strofette e quei versi siano stati musicati o che fossero a questo destinati. Potete fare di più. Staccare assolutamente dall’opera del poeta la fioritura musicale, restituire il lavoro drammatico alle sue libere movenze di parola recitata, e così persuadervi della sua perfetta vitalità come opera d’arte. Nominate invece Norma, la Sonnambula, Lucrezia Borgia, Anna Bolena! con questi nomi vi verranno spontanee sulle labbre le divine melodie del Bellini e del Donizetti; i versi serviranno soltanto ad agevolarvi i richiami dell’orecchio e il piacere della memoria; e vi parrà forse impossibile che possano stare da loro, come opera poetica e nient’altro. Eppure son belli, armoniosi, delicati, spesso vigorosi, vibranti; ma rimangono precisamente come se non avessero nessun valore, dei 128 zero, innanzi ai quali bisogna mettere una unità capace di elevarli a numero, cioè: quella nota che è già tutto, quel qualcosa fuor del verso, fuor della strofa, fuori dell’azione, quella vera opera d’arte che può farne senza; insomma: il sentimento indefinito nell’espressione indefinita. Inoltre, come caratteri, come passioni in conflitto, come azione, come tragedia o commedia, quell’opera d’arte gode già altrove la sua completa esistenza; voi librettista, voi (diciamoglielo in grazia della forma!) poeta, non avete creato nulla, non avete soffiato su nessun personaggio il vostro spiraculum vitae. Cotesto vostro lavoro di riduzione, di eliminazione, di condensazione è, come negarlo? puramente manuale; e per questo non accadrà mai che i vostri melodrammi contino nella storia dell’arte come la continuazione o (quello che è più ardito) come il perfezionamento del melodramma metastasiano. * * * Ahimè! Al cospetto del pubblico è probabile possa anche contar poco tutto il bagaglio lirico ed epico dell’autore. 129 Ahi! vi han deliri e spasimi Che non si puon ridire; Piaghe, che incanto o balsamo Mai non potrà guarire; Vi han cori nati a gemere Com’arpe eolie ai venti; Alme inquiete, ardenti Cui breve spazio è il suol. Forse a te pur sòn tenebre Di questo sole i rai; La terra è landa sterile Che non verdeggia mai: È grave a te quest’aere E aneli a ciel più bello, Come straniero augello Ai climi ond’ei migrò. Questa e le altre elogie hanno, insieme colle romanze, il pregio della musicalità; paiono far vibrare anticipatamente il motivo che dovrà risvestirle. Io di tua sorte interrogo Le spume fuggitive, I venti che sospirano Tra l'alghe delle rive, Gli astri che consapevoli Ti miran di lassù... Oh! dimmi tu, Oh! dimmi a chi Parli di me così? 130 Sì, nelle odi, nelle anacreontiche, nelle canzoni, nei poemi tentati e prudentemente lasciati lì, c’è sempre il riflesso della sua gentile e mite persona, nella forma mite e gentile; ma nulla che accenni a vera e profonda emozione lirica o a splendore di colorito. Talchè io mi compiaccio di ritornare alla mia simpatia, all’uomo; e pesco nel libro della signora Romani due aneddoti nuovi. Al Bellini mancava ancora nel 1827 un po’ di disinvoltura; aveva, dice la signora Romani, l'apparenza d'uno studente di provincia ed era trascurato nei vestiti. Il Romani, accurato, attillato, soleva canzonarlo per questo. Dopo la prova generale del Pirata, il Romani lo tira da parte e gli domanda: — È con cotesto vestito da collegiale che tu monterai sullo sgabello a dirigere l'orchestra, domani? — Sì — risponde il Bellini, facendo una spallucciata: — oramai è troppo tardi per ordinarne uno nuovo. — Provati questo — replica il Romani, cavandosi il suo. 131 Il vestito gli stava a pennello. La sera dopo, il Bellini si presentava al pubblico della Scala dentro i panni del suo amico... Un’altra volta il Romani, pregato e ripregato, erasi indotto ad andare a Parma per assistere alle prove di un’opera belliniana. Una sera, nell’uscire dal teatro, egli si vede accostato da un signore di modi gentili che lo prega di uniformarsi alle leggi del paese, tagliandosi i baffi perchè negli Stati ducali nessun forestiero poteva portare i baffi al di là del terzo giorno. Il Romani cavò di tasca l'orologio e disse: — Sono ancora in tempo! Parto immediatamente! E sarebbe partito davvero, se il conte Sanvitale non correva dalla duchessa Maria Luigia e non otteneva un vero decreto che permetteva al sig. Felice Romani, Letterato e Poeta, nativo di Genova, domiciliato a Milano, di portare barba e baffi nei suoi ducali stati. 24 Settembre 1882. GIUSEPPE MACHERIONE (I) Come è triste il rovistare dopo più di venti anni nelle carte di un amico morto nel fior della giovinezza! Dentro la dubbia luce dei ricordi quella amata persona riviveva, di tanto in tanto, con la evidenza di un’allucinazione e facea sussultare il nostro cuore. Un gesto, un motto, un aneddoto, e la gentile figura ci sorrideva, fugacemente, quasi per ringraziarci di averla evocata; e per qualche tempo, dentro o attorno, ci lasciava come uno splendore di altri giorni, come (I) G. Macherione, poeta e patriotta. Studio biografico del professore Angelo Russo. Giarre, tip. di F. Castorina, 1883. 134 un profumo di altre primavere; sensazione dolce e penosa nello stesso punto, perchè il passato prende sempre qualcosa delle misteriose attrattive dell’avvenire — una velatura, una sfumatura — per cui ci sembra assai migliore del presente, anche quando il presente lo superi in bontà fuor d’ogni confronto. Poi, un giorno, ci capita tra le mani un oggetto, uno schizzo, un fascio di carte che ci riaccostano in un modo più immediato a quella figura indecisa che si moveva fra le nebbie della memoria, ingrandita dalla mancanza di contorno, col fascino della cosa intravveduta; la malìa si rompe, la figura riprende le giuste proporzioni della realtà, e noi proviamo la fredda sensazione di un distacco immenso. Quel fantasma era dunque una creazione incosciente della nostra immaginazione, uno strano lavoro di sensazioni e sentimenti nuovi, avvenuto di mano in mano che noi ci siamo andati trasformando nella terribile lotta per vivere ed anche le sensazioni e i sentimenti del nostro passato si son trasformati con noi? Che desolazione! Che 135 rovine! E come il superbo rigoglio della vita nuova trionfante ci pare un vigliacco insulto a quanto cadde per via! Leggiamo, commossi, tutti quei fogli che furono gran parte di quell’amata persona, forse la miglior parte, ma stentiamo a riconoscerla in essi; la pietà si trasforma a poco a poco in un sorriso più doloroso della pietà stessa! Come? Era questo che ci commoveva, ci esaltava? Tutta la nostra vita di allora si agitava dentro così breve sponda? E bisogna proprio far uno sforzo di riflessione per domandarci severamente; ma, e poi vero che siamo migliori ora, uomini fatti, di quando eravamo appena fanciulli? Così mi è accaduto leggendo l’affettuoso scritto del signor Russo intorno a Beppino Macherione, un poeta siciliano morto a ventun’anno del 1861 a Torino. Io conobbi il Macherione nell’Università di Catania. Da principio quella sua figura bruna, pallida, cogli occhi un po’ velati dalle palpebre, coi capelli neri lasciati crescere alla moda dei romantici del 1830, mi era riuscita un po’ antipatica, pei capelli 136 soprattutto. Ma quando potei avvicinarlo, ci legammo d’una amicizia forte e sincera che soltanto la morte spezzò. Allora facevo anch’io dei versi e credevo che non avrei fatto mai altro per tutta la vita. E come seppi che il mio nuovo amico ne avea già pubblicato un volume, fui preso da una specie di venerazione per lui che aveva già stampato! Florido di salute, gl’invidiavo quella tinta di persona malaticcia; con un precoce istinto di osservazione che indicava un certo equilibrio dell’organismo, mi arrabbiavo di non provare anch’io quei brividi che scuotevano tutta la persona del giovane poeta quando la sua sensibilità veniva esaltata da un’impressione che mi lasciava freddo e indifferente. In realtà egli avea provato delle forti scosse. Avea perduto la madre e una sorella colpiti da tisi; uno dei suoi fratelli era morto annegato fra gli scogli ove era andato a prendere un bagno. Egli stesso portava dentro di sè i germi micidiali che dovevano così rapidamente ucciderlo a Torino quattr’anni dopo. 137 * * * Quello che ci avea legati strettissimamente era stato questo. Una mattina l’avevo visto entrare nella mia camera di studente con un’aria misteriosa. Avea chiuso l’uscio con cautela e poi, tirato fuori da una tasca interna del vestito una lettera, mi avea domandato: — Vuoi firmarla anche te? Era diretta al Guerrazzi. Gli si mandava un saluto da quell’estremo lembo di Italia per dirgli che ci sentivamo italiani anche noi e che speravamo di poterlo affermar presto davanti la sacra faccia del sole. La lettera era firmata dal Macherione e da altri quattro o cinque nomi, fra i quali ricordo quello di Francesco Tenerelli ora deputato al Parlamento. Allora questo era un atto audace, e noi ci sentivamo superiori a noi medesimi nel compirlo. Verso le 11 antimeridiane dello stesso giorno ci riunimmo alla Marina, ad uno ad uno, come dei congiurati che volessero 138 ingannare la sorveglianza della polizia. Bisognava andar a consegnare quella lettera e il volume delle poesie di Beppino al capitano di un legno mercantile genovese ancorato nel porto, presso la banchina, dove prendeva il suo carico di zolfo. Una grossa tavola metteva in comunicazione la banchina col legno e si piegava sotto il passo dei facchini che andavano e venivano colle grosse lastre dello zolfo sulle spalle e coi sacchi vuoti sul braccio. Due poliziotti sorvegliavano l’operazione e parevano messi lì apposta per noi. Ci accostammo, fingendo indifferenza. Poi il Macherione disse: — Non ho mai visto caricare una stiva: montiamo? — Senza il permesso del capitano? — rispose uno di noi. — Non sarà così scortese da mandarci via. E montò, ridendo; noi gli andammo dietro, barcollando sulla tavola che dondolava. Il capitano, uno dei tanti Capitan Dodero 139 della Riviera, ci accolse gentilmente. Avendogli manifestato lo scopo della nostra visita, ci rispose che egli non conosceva personalmente il Guerrazzi, il quale non dimorava in Genova ma in Livorno, dove il bastimento non approdava. Però si incaricava di fargli ricapitare la lettera e il volume: era orgoglioso di poter servire a quello scambio di generosi sentimenti. Non capivamo dentro i panni, dalla gioia. Quella cabina ci sembrava un pezzetto della libera terra genovese: e vi facemmo dei brindisi all’Italia, un po’ sottovoce sì, ma coi cuori in fiamme e colle labbra scottate dai forti liquori del capitano. Due mesi dopo il Guerrazzi rispondeva da Livorno al Macherione, ringraziando tutti dei saluti e lui anche del regalo. E quella lettera fu un altro talismano che ci unì più fraternamente. * * * Le questioni di arte che ci appassionano e ci dividono ora, in quei tempi, che sembrano lontani di più di un secolo, non 140 si sospettavano neppure. La nostra cultura letteraria era molto scarsa e in gran parte sbagliata; quelli che abbiam voluto, bene o male, continuare, come si dice, a coltivar le lettere, abbiamo dovuto poi rifarla (qualcuno più volte) da capo. In poesia eravamo romantici; in filosofia, giobertiani, e ci pareva un’arditezza; in politica, monarchici e moderati, e (cosa notevole) siamo quasi tutti rimasti tali fino al presente. Ci fu un tempo in cui Augusto Conti fu, per noi che non avevamo avuto agio di passare oltre i primi principî della filosofia, un rivelatore, un maestro. Questo filosofo che avea combattuto a Curtatone ci sembrava un fatto sorprendente; questo cattolico, che non era papalino e parlava della nostra patria italiana, si staccava di mille miglia dai nostri professori di filosofia, monaci o preti. C’è voluto del tempo per capire che qualcuno dei nostri monaci e preti era più libero filosofo di quel volontario di Curtatone immiserito dalla scolastica e dal senso comune, quando tra i nostri aleggiava 141 da un pezzo lo spirito metafisico del Miceli, un Hegel prematuro. Ma, infine, della filosofia ce ne preoccupavamo assai poco: non sognavamo che l'Arte! L’Arte civile, l'Arte battagliera, l’Arte redentrice, alla Berchet, alla Niccolini, alla Guerrazzi, alla Prati, il Prati dei Canti politici. I versi del Macherione, che oggi passerebbero affatto inosservati, in quel tempo erano notevolissimi per quell’intimo calore da cui veniva rivelata nell’ingegno rude la vigoria naturale che nessun insegnamento può comunicare. Leggendo i brani di componimenti riportati dal Russo nel suo lavoro, ho provato un sentimento di grande tristezza, come davanti ai frantumi di un naufragio. Bisogna aver vissuto la stessa sua vita, bisogna aver provato in qualche modo le sue stesse commozioni per non giudicare cose fredde e sbiadite quei canti che sgorgavano come lava dal cuore vulcanico del giovane poeta. In che modo la nuova generazione saprebbe ricostruirsi quell’ambiente, per giudicare con serenità le prime 142 prove del Macherione? Oggi è un altro mondo. La vita ha altri ideali, altre esigenze; l'Arte, altre tendenze, altri metodi, altra coscienza. Che importerà di quei vecchi tentativi alla presente generazione impegnata in lotte ben diverse e intieramente assorbita dall’affrettata attività del presente? Perciò oggi si sorriderà nel sentire che il Macherione sognava un poema sulla Lega Lombarda, come altri sognava un teatro storico da far un riscontro ai grandi drammi shakesperiani, una vera storia d’Italia drammatizzata. Si sorriderà leggendo quel brano dei Ricordi del Macherione dove dice: l'anno scorso mi balenò un concetto grande, ma di difficilissima esecuzione. Ideavo, stendevo un Dramma- poema; argomento dovea esserne l'Italia; personaggi umani e supernaturali, presenti, passati e futuri, Dio e Satana, la Libertà e la Fatalità, Romolo e Numa, Tarquinio e Bruto primo, Monarchia e Repubblica.... Ogni scena del mio dramma-poema conterrebbe uno o più secoli; ogni atto un'era che produce una rinnovazione 143 nell'interesse di tutta l'umanità; sarebbero quattro o cinque gruppi principali, come la Repubblica, l’Impero, i Barbari, il Papato, la Riforma, la Rigenerazione. La storia d'Italia è la storia del mondo, e il mio lavoro sarebbe nazionale eminentemente al tempo stesso che universale. Ma quando io penso che anche il suo forte ingegno si sarebbe modificato e rinnovato al soffio dell’arte contemporanea; quando penso che anche lui avrebbe preso larga parte nel lavoro che tutti noi, grandi e piccini, ci sforziamo di condurre innanzi, senza secondi fini, ma col semplice ideale dell’arte davanti gli occhi, sento una pietà immensa pel povero amico colpito dalla fatalità e caduto sui suoi primi passi, per lui che prometteva di essere un valoroso e che era degno di lasciare un’orma incancellabile nella via della gloria! Il Macherione pareva invaso dalla nera visione della sua fine immatura. La sua tristezza, che qualcuno scambiava con una posa di poeta novellino, era vera e profonda. Nelle nostre passeggiate lungo la 144 Spiaggia del mare o per le strade dei sobborghi di Catania, nei più caldi momenti di entusiasmo, egli s’interrompeva per dirmi sconsolatamente: — A quoi bon? Io morrò presto, senza aver fatto nulla di bello! Allora egli cercava di vincere l’ossessione di quel presentimento e la sua allegria diventava chiassosa; però ci si vedeva lo sforzo. Una sera con una comitiva di amici eravamo andati fuor di Catania, a Cibali. Splendeva un magnifico lume di luna e la campagna attorno era tutta profumata dalla zàgara dei giardini. Verso la mezzanotte picchiammo all’uscio di una casa rustica, domandando del vino. I contadini ci apersero, e mentre preparavan le bottiglie e i bicchieri, la casa risuonava dei nostri canti, delle nostre risate. Beppino quella volta era più rumoroso di tutti. Parodiava i professori dell’Università e noi applaudivamo e fischiavamo. La caricatura più riuscita fu quella di un professore di diritto naturale che aveva un tic al collo e alla faccia e si era storto il naso a 145 furia di appoggiarvi un dito o il pomo della mazza di una parte. In quel momento i nostri urli naturalmente raddoppiarono; domandavamo già il bis della lezione parodiata... quando la vecchia contadina che ci aveva aperto venne a pregarci di non far molto chiasso: — Su c’era il professore che dormiva. — Quale professore? — Il professore Pizzarelli, il padrone. Era lui! Tableau. * * * E fu quella una delle ultime volte che io vidi il Macherione. Il sessanta ci disperse chi qua, chi là. Egli fu un po’ volontario tra le squadre che si riunirono attorno a Messina prima della giornata di Milazzo, poi giornalista serio e coraggioso. Ma la vita nuova lo attraeva al centro, a Torino ancora capitale. I medici, gli amici lo sconsigliarono invano. Vi morì serenamente la sera del 21 maggio 1861. Oggi questo vinto nella lotta della vita 146 rivive per poco nell’affettuoso lavoro del professore Russo, e l'averlo ricordato è opera di gratitudine e di pietà di concittadino. Ma io credo che basti. Col pubblicare gli scritti editi e quelli lasciati inediti dal Macherione, come pare n’abbiano l'intenzione, non si gioverà in nulla alla sua fama. La storia, spietata e inesorabile al pari della Natura, si inchina soltanto ai forti vittoriosi. 15 Luglio 1883. BERNARDO CELENTANO (I) Vent’anni dopo la sua morte, ecco, la simpatica figura del grande artista ci si presenta dinanzi viva e parlante, rivelandoci la miglior parte di sè stesso, l'anima sua, le sue lotte, le sue speranze, i suoi dolori, tutta la nobile vita del suo spirito, che è quanto dire una continua aspirazione e una rapida ascensione verso il più alto ideale dell’arte. E non egli soltanto, ma rivive con lui un mondo che pareva perduto per sempre; fatti e persone delle quali il ricordo (I) Bernardo Celentano, Notizie e lettere intime, pubblicate nel ventesimo anniversario della sua morte dal fratello Luigi. Roma, Tipografia Bodoniana, 1883, ediz. di 400 esemplari. 148 già si cancellava anche nella memoria di coloro che furono attori e testimoni di quella rivoluzione artistica per cui è stato possibile il trionfo dell’arte moderna. Talchè noi che siamo arrivati dopo, che godiamo tranquillamente del fatto compiuto, che ci incamminiamo con franchezza per una via larga e spianata, rimanghiamo meravigliati e sorpresi nell’apprendere quanti sforzi, quante lotte, quanti sudori e quante vittime è costato lo sgombrare questa via dai rovi che la sbarravano, dai sassi che la rendevano impraticabile, e il colmare gli scoscendimenti, e l'appianare l'erta e lo abbattere i macigni piantati nel bel mezzo di essa quasi a impedire d’inoltrarsi. Ma tra tutte queste figure evocate e risuscitate con una ricchezza di particolari alla quale in Italia siamo poco abituati, primeggia quella di Bernardo per una speciale attrattiva. In lui l'intuizione dell’artista è così vigorosa e così acuta che quasi lo fa diventare un pensatore. C’è un misto di 149 riflessione e di sensazione da cui ci sentiamo scossi e incantati. Quelli che hanno ammirato dopo vent’anni il suo meraviglioso Consiglio dei Dieci e il sorprendente abbozzo del Tasso che dà i primi segni di pazzia proveranno un acre diletto nell’apprendere tutto il processo per cui son passati quei quadri, e se li vedranno come ridipingere sotto gli occhi, nello studio dell’artista. « Ho ripreso il quadro dei Dieci e son bell’ e avanti; già ho ritoccato sette o otto figurine e posso dirti fin da ora, in buona coscienza, che non posso lagnarmi di me, almeno di quanto vi ho fatto finora. Ho già semplificato e variato dei movimenti e delle espressioni e mi fa molto più vero e naturale l'assieme, e già vi son dentro dei pregi che non potranno più scappare. La mia smania per l'arte, e massime per la verità, diventa follia e, forse, chi sa che dàgli e dàgli non arrivi pur io a fare della verità come va fatta!... » (Lett. 22 maggio 1861). « Delle pieghe non mi resta a ritoccarne che per una figura sola, quella che si tocca la barba; sarebbe anch’essa fatta a quest’ora, ma mi manca il modello. Tutte queste pieghe le ho fatte tutte addosso, a modelli diversi secondo i caretteri; e quantunque le abbia dovute fare di un fiato, in una sola seduta 150 per ritenere il partito spontaneo del vero, pure non sembrano fatte di fretta, nè meno studiate da quelle che avrei potuto fare con comodo, ma mi costano sangue e palpiti infiniti!... » (Lett. 31 maggio 1861). « Mi hanno criticato la espressione dell’ultima figura che si gratta il capo distratta, chi come troppo ignobile, e chi come tradita perchè di lontano invece pare che si disperi. Quantunque variata da quella che tu sai nel cartone, e, quantunque, riflettendo, non sia tradita, ho deciso variarla ed ho già pensato al come. » (Lett. 17 giugno 1861). « Finalmente mi è riuscita quella indiavolata distrazione!!! » (Lett. 26 giugno 1861). Queste notizie e lettere intime sono un vero monumento innalzato dall’amor fraterno a Bernardo Celentano pel ventesimo anniversario della sua morte. La mattina del 28 luglio 1863 Bernardo era andato al suo studio per lavorare al quadro del Tasso già disegnato e abbozzato. Il pittore Pollak lo avea visto sull’uscio dello studio che prendeva un po’ di fresco. — Mi fa bene — egli disse al Pollak, 151 Poi si era rimesso a dipingere, cantando al suo solito ad alta voce. Il canto non gl’impediva di lavorare con intensità di riflessione. Si sentiva pieno di forza: l'avvenire gli sorrideva. Il giorno innanzi avea scritto al fratello Luigi : « Io lavoro sempre con tutta l'anima mia, con calore a niuno pari, e non so capire come debba essere così sfortunato da non riuscire nel mio intento! Ma, viva Dio, ci riuscirò! Questa volta debbo far bene poichè lo voglio.... » Alle undici e mezzo, racconta Luigi, posata a un tratto la tavolozza e i pennelli, s’era posto a sedere restando per alcuni minuti taciturno... e alla domanda del modello — se qualcosa lo turbasse — aveva risposto: un forte mal di capo. Quindi alzatosi s’era affrettato a rivoltare il Tasso al muro, pur riuscendo a muovere il pesante cavalletto ov’era già situato in cornice; e poi, nell’accostarsi al sofà, avea chiesto un sorso d’acqua. Quando il modello corse a porgergli il bicchiere, lo trovò già caduto e privo di sensi; e appena 152 l'ebbe alla meglio disteso, uscì fuori, come si trovava, in costume di Torquato, a gridare al soccorso. Alle due pomeridiane e 10 minuti Bernardo Celentano era morto senza aver ripreso i sentimenti. Ma in questo volume rivive tutto intiero e quasi trasfigurato, circondato dalla splendida aureola di un martire dell’arte. Giacchè è il fuoco dell’arte che consumollo; è nella lotta per l’arte che la sua fibra audace e forte, per troppa tensione, si spezzò. Il signor Luigi Celentano non ha fatto un meschino lavoro di compilatore. I suoi personali ricordi e le lettere di Bernardo a lui formano un insieme così organico che il volume ne ritrae tutto il fascino e l'interesse di un’opera d’arte. Nulla di più commovente di questo scambio fraterno di impressioni e di idee fatto ogni giorno, per dieci anni, con l'abbandono della conversazione più confidenziale e col calore di una corrispondenza d’innamorati. Nulla di più commovente ora di questa pietosa cura che raccoglie, riordina, 153 comenta, completa una serie meravigliosa di lettere per le quali Bernardo Celentano ci apparisce più grande e più simpatico di quel che forse non parve a quanti lo conobbero in vita. Questi due fratelli, da vicino o da lontano, vivevano una identica vita di pensiero, respiravano la medesima aria artistica, si spronavano, si aizzavano a vicenda, l'uno spesso completava l'altro, quantunque fosse Bernardo soltanto quello che poi faceva passare le loro teoriche dall’astratta discussione nella viva realtà del quadro. Di presenza discutevano rabbiosamente. I nostri discorsi, dice Luigi, erano vivaci e saettanti fino allo scandalo; non di rado per istrada giovava troncarli barbaramente con la fuga repentina dell'uno o dell'altro. Ma nella lontananza era una cosa diversa. Bernardo, in ogni lettera al suo caro Luigi, mostra una venerazione di neofita verso il suo iniziatore. Ti ringrazio di tutto cuore del coraggio continuo che mi dai e della fede che cresci in me continuamente colle tue lettere. Ho ben ragione di dire che 154 ho pochi veri amici: ma che pochi? tu solo sei il mio vero amico, tu che palpiti con me, tu che entri a parte delle mie pene, delle mie gioie, dei miei sospiri, delle mie aspirazioni! Che sii benedetto!... » Sono le ultime righe che la mano di Bernardo tracciò. Quando questa lettera, scritta il 27 luglio e arrivata a Napoli il 28, veniva tirata su col solito panierino ove il postino l'avea riposta, la mano del povero Bernardo era stesa rigida e inerte sul sofà del suo studio in via Margutta, n. 33! 22 Luglio 1883. UN POETA DANESE (I) Wil’hem Getziier è figlio di un povero pastore protestante nel piccolo villaggio di AErhielsberg. Nato il 29 maggio 1839, ebbe a maestro suo padre che intendeva di farne un pastore come lui. La madre, una giovane donna assai culta, gl’insegnò la musica e il disegno. Visse fino ai diciott’anni una vita, com’egli dice, quasi selvaggia, perdendosi ogni giorno per la campagna con un libro sotto il braccio e la colazione in tasca. La sera lo coglieva spesso a mezza costa di una montagna, o fra i sentieri intricati d’una foresta. Una (I) W. Getziir, Digtervaerker. Copenaghen, 1876 2 vol. 156 impressione di queste corse la troviamo nella sua ode Altitudo. « Lontano dietro le nere nubi — che serravano sull’orizzonte — le loro fantastiche torri — il sole lanciava i suoi fiammanti — raggi, simili a quelli delle glorie — dei quadri degli antichi maestri. « E laggiù, ai miei piedi, si stendeva — la pianura gibbosa, già accovacciata — sotto le prime ombre della sera, — sotto le ali dell’immenso silenzio — contro cui brontolava, in lontananza, — il mare biancheggiante sulla riva. « E poi dai prati e dalle valli — vedevo sollevarsi lentamente — il latteo vapore della nebbia — che si addensava, si addensava, — come un altro cielo che a poco poco — inghiottisse nel suo abbisso la terra. « E in quell’immensità si perdeva — l’animo mio spaurito e tremante; — e provavo un assottigliarsi — soave di tutto il mio corpo, — come se gli atomi di esso dileguassero — disgregati, via per l’infinito! » Aveva cominciato a studiare filosofia e teologia: e componeva già delle poesie ma di nascosto del padre, perchè questi giudicava la poesia un'occupazione indegna di un vero uomo, d'un cristiano, sebbene il Re David avesse composto i salmi: però non si sapeva se questi fossero stati proprio scritti in versi. 157 Una mattina (agosto 1857) il Getziier era partito dal prebistero col solito libro sotto l'ascella e la colazione in tasca; ma si era allontanato troppo, e la sera gli fu impossibile tornare a casa. Passò la notte in una capanna di carbonai, facendosi raccontare antiche leggende e ripetere canti popolari. Il giorno dopo, trascinato dalla sua curiosità, andò avanti, sempre a piedi, dormendo nei villaggi e nelle fattorie dove lo sopraggiungeva la notte, sentendosi ricco con quei tre talleri di argento che per caso si trovava nel borsellino. Così un dopopranzo arrivò a Copenhaghen. « Scrissi subito a mio padre, egli racconta nei suoi Ricordi di giovinezza, domandandogli perdono della mia scappata. Il brav’uomo rispose: « che questa era la volontà di Dio; ascoltassi la voce del Signore che parlava nel mio interno. » Niente altro. Non era precisamente quello che gli occorreva in quel momento; ma egli ebbe la buona idea di presentarsi al dotto pastore Boyerch, vecchio amico della famiglia di sua madre, che l'accolse in casa 158 e l'aiutò in tutti i modi. Due anni dopo il Getziier sposava Iudith Boyerch, la figlia unica del suo protettore, una bionda e linfatica creatura, innamorata di lui e dei suoi versi. Il primo volume delle poesie del Getziier (1859) fu dedicato alla sua fidanzata: « Queste melodie che tu ami, o gentile — e che, ripetute della tua bocca, sembrano — deliziose anche a me, nella tranquilla e fida — intimità del focolare, possano, o cara — far dire alla gente del nostro paese — che il tuo cuore di amante non si è ingannato! » L’augurio del poeta non andò a vuoto. I suoi canti ebbero dal pubblico una festosa accoglienza. D’allora in poi, ad intervalli di tre o quattro anni, sono comparsi: Nuvole autunnali (1863) Echi del mondo incivilito (1866), Voci della foresta (1871), tre raccolte dove il Getziier ha tentato quasi tutti i generi poetici, la piccola lirica, la leggenda epica, l'apologo, il dramma medioevale, l'idillio, la satira; e sempre con felicissima riuscita. Getziier è un poeta intimo: ma soprattutto, 159 è un assimilatore, come si compiace di giudicarlo l’alta critica delle riviste letterarie danesi: un poeta, che ha fatto davvero risuonare sotto il fosco cielo della Danimarca gli echi del mondo incivilito. (Windspiel). Infatti, ordinariamente, la sua poesia è impersonale. L’anima sua è come uno specchio dove ogni cosa esteriore si riflette nitidamente. L’arte antica, l’arte moderna di tutti i paesi vi hanno lasciato qualche cosa della loro particolare essenza, un balenìo di luce, un profumo, un’impronta; ma quello che in ogni altro rimarrebbe allo stato di semplice imitazione, in lui si trasforma in una creazione geniale che ha tutto il sapore della originalità. Il suo mistero del Nazzareno pare un mistero mediovale, con quella semplicità di forma arcaica che inganna, quasi fosse la voce di un’altra epoca. « Cogli occhi e cogli orecchi — state intenti ad ascoltare — questa pietosa storia — che noi vogliamo rappresentarvi. — Vedrete nostro Signore — preso, legato, e condannato; — e i veri giudei furono — i miei e i vostri peccati. » 160 È il piccolo prologo. Poi comincia l'azione: un’azione che siegue passo per passo la narrazione evangelica, mostrando nei sentimenti dei personaggi la rozza ingenuità così propria dei misteri. Ecco la scena tra Pilato e sua moglie: « La moglie di Pilato. Ho fatto un brutto sogno: — ho sognato un cielo di sangue — e il velo del tempio — che si squarciava in due. — Si spegnevano il sole e la luce — e tutte le stelle del firmamento — e una voce gridava forte: — Pilato ha condannato il giusto! « Pilato. Non ho l'animo tranquillo; — quel nazzareno è innocente. — È forse un poco matto — perchè si crede figliolo di Dio. — Ma io voglio interrogarlo — per l’ultima volta, e poi — lo consegnerò ai sacerdoti — e me ne laverò le mani. » La moglie insiste; ma Pilato risponde: « Quando me ne sarò lavato le mani — io non vi entrerò per nulla. « Lasciami in pace, o donna; — ho tanti affari pel capo! — I sogni sono cosa vana; — sono immagini scappate — dalle case del cervello — che vanno attorno per la mente — finchè la ragione dorme. « Sono anche scherzi — degli umori caldi e freddi, — o capricci di spiriti — notturni, perturbatori. — Ecco il gran Sacerdote; — lasciami solo con lui. — 161 Non senti fuora il popolo — che urla come mare in tempesta? » Non posso trattenermi dal trascrivere il coro delle donne gerosolimitane e il lamento di Maria sotto la croce. « Donne. Che strazio inaudito — vedere il figliuolo di Dio — colla croce sulle spalle — e il volto insanguinato! — Non ha angioli il cielo — o squadre di serafini — per toglierlo alle empie mani — di questi carnefici spietati? « Signore, Signore! — Come siete sfigurato! — Questi non sono i vostri — occhi cerulei sorridenti! Questa non è la fronte — che pareva un sole nascente! — Questa non è la bocca — che sanava colla parola! » Commoventissimo mi sembra il lamento di Maria a piè della croce. « Maria: Figliuolo, mio dolce figliolo — che pendete da questa croce! — Ecco perchè nel seno — vi portai nove mesi! — Ecco perchè dal petto — vi diedi il latte nutriente — che vi alimentò — bambino nelle fasce! « Figliolo, mio dolce figliuolo! — Ecco perchè quelle labbra — apersero il sigillo — del sepolcro di Lazzaro! — Ecco perchè il vostro sputo — misto a un po' di polvere — rese agli occhi ottenebrati — il soave riso del sole! « Figliuolo, mio dolce figliuolo! — Ecco perchè 162 questi piedi — camminarono sulle acque — come su terreno solido! — Ecco perchè quel petto — fu pieno di carità — e vi batteva il cuore — più generoso del mondo! « O bionda testa, incoronata — di atrocissime spine! — O smorte labbra amareggiate — dall’aceto e dal fiele! — O mani che acuti chiodi — lacerano ed insanguinano! — O piedi che vi squarciate sotto il peso del suo corpo! « Sono mute quelle labbra, — che ridiedero vita ai morti! — E non hanno neppure una parola — per consolare la madre! — La madre più desolata — che videro cielo e terra! — Oh dite se vi è strazio — che rassomiglia questo ch'io provo! » Ma ecco qui una nota tutta moderna, una serenata del mezzogiorno, che non parrebbe possibile incontrare in Danimarca: « La luna, dal rotondo — volto, lentamente — si affaccia sulla silenziosa — schiena dei monti addormentati. — La sua pallida luce inonda — valli e pianure che riposano — fra gli abbracci dei fiumi, — coperte di erbe nereggianti. « Con la luna si destano — le aurette tra le fronde — a pispigliare cose gentili, — non fatte per orecchio umano. — Ecco: fra i melogranati — l’usignuolo ch'era in attesa — comincia i suoi gorgheggi — simili a sospiri di amore. « Oh, pari al sorriso — dell’aurora in primavera — già si aprì la finestra — nera come la notte! — Già 163 spunta nel vano — il sole, il mio sole sfolgorante; — e porge attento orecchio, — mentre le ridono gli occhi. « Pispigliate pure, o fronde, — le vostre cose gentili! Usignuolo, non interrompere — i tuoi melodiosi gorgheggi! — Io solo, io solo, io solo, — meglio di tutti voialtri, — io solo posso dirle: — T’amo! T’amo! T’amo! » Questo che siegue è un cammeo antico, scolpito con plasticità tutta pagana. Tento di tradurlo alla meglio, benchè una versione letterale, anzi interlineare come le precedenti, mi paia incapace di renderne la squisita purezza della forma: « Presso la fonte cristallina che mormora, — sotto gli ombrosi rami dell’alloro e del mirto — Endimione dorme — bello come un Dio dell’Olimpo, sull’erba fresca. « Tacciono attorno a lui i susurri delle fronde; — i zefiri meridiani non osano agitare le ali; — Diana lo contempla — appoggiata sull’arco, col volto sospeso, e il seno « della vergine dea si gonfia dalla commozione; — mentre un cenno della sua mano tien lungi — i suoi cani fedeli, — che agitano la coda e la guardano intenti. » Il poeta ama il mezzogiorno, l’oriente, forse per contrasto. L'ode La fontana del Pascià potrà dare un saggio di quella 164 varia potenza assimilatrice che è la caratteristica del Getziier: si direbbe tradotta dall’arabo; ha la raffinatezza concettosa di una cacidas dell’El- Mofadaliat: « Zampillo di argento che continuamente — continuamente ti lamenti, sommesso, — cascando nella rosea conchiglia — tra i profumi delle piante fiorite. « Io venni a cercarti lontano, — nella rozza grotta ove la fonte, — tua madre, si distende fra il capel venere — e una folla di pianticine villane. « Con arte industre ti formai — una via facile, riparata da ogni insulto; — e ti condussi in questo gentile albergo — di marmo prezioso, fra le piante verdi. « Perchè dunque, o zampillo, continuamente — stai a lamentarti sommesso, — cascando nella rosea conchiglia — tra i profumi delle piante fiorite? « — Avresti dovuto lasciarmi lontano, — nella rozza grotta ove la fonte — mia madre, si distende fra il capel venere — e una folla di amiche pianticine. « Avrei continuato nella natia ombra fresca — il mio sonno di liquido argento; — qui tratto per forza, che può importarmi — dei tuoi ricchi doni? E mi lamento, mi lamento! » Ma sentiamo ora un accento originale: ecco una di quelle piccole liriche dove il Getziier è proprio lui, un vero poeta del Nord. Nella foresta, per la snellezza del 165 verso e l’eleganza della forma, è una delle più belle fra le sue prime poesie. Peccato che questi pregi non sia possibile riprodurli in una traduzione in prosa! Però il lettore può esser sicuro di trovarvi l'accento, l'intonazione dell’originale: è qualche cosa. « Nella notte, per la foresta, — sotto gli alberi annosi e tra le — macchie folte, errano — silenziosi e tristi — i Geni d’una volta, — ora dimenticati. « Poi quelle tenebre si riempiono — di susurri e di pianti sommessi: — e sul tremulo specchio delle fonti — che riflette le fioche stelle — suonano maledizioni — in un linguaggio divino. « Gittati sui muschi e sulle erbe, — ch’essi strappano con mani — convulse dallo sdegno, — imprecano contro gli ingrati — che dei loro benefici — non si sovvengono più! « Non passate, quand’è già notte, — non passate per la foresta! — I Geni d’una volta — ora son diventati cattivi. — Ma io posso avvicinarli.... Per me son sempre Iddi! » L’ode saffica Ad una barca, che si legge nel volume ultimamente pubblicato, è dedicata alla memoria del gran poeta nazionale OEhlenschlaeger, e i danesi la ritengono uno dei più perfetti capolavori di stile della loro moderna letteratura: 166 « Barca abbandonata in cotesto seno — melmoso del fiume, fra gli alti giunchi — che sembri di essere una nera culla — mossa dalle acque: Io ti vidi scorrere altieramente — sullo spumante dorso di quest’onda orgogliosa; — e parevi un allegro pesce guizzante — a fior d’acqua... « Avevi la rossa prora incoronata di fiori — e i tuoi sottili remi si piacevano di tuffarsi — per levarsi subito tutti grondanti — di liquide perle. « Mentre i tuoi fianchi si agitavano contro — l’urto stizzoso della corrente, pari — ai fianchi di una bella fanciulla — quando il braccio. « Ardito d’un amante li cinge; e gloriosa — recavi da una sponda all’altra, rapidamente, — i tuoi fieri barcaiuoli che parevano — l’anima tua. « Ahimè, quella tua rossa prora scolorossi! — E i tuoi sottili remi si consunsero, ahimè — sotto i perfidi baci e continuati — delle liquide perle! « E i superbi tuoi fianchi furono sdruciti — dall’urto vincitore della forza del fiume — e l'anima tua i tuoi fieri barcaiuoli, — ti abbandonarono! « Fra la melma e gli alti giunchi, tutta — rosa dall’umido, senza remi, senza — nulla, ora tu sembri cosa morta; e di tanto in tanto — l'onda ti culla. « Oh come sei piena di tristezza! Oh come — devi invocare che questo fiume si rigonfii, — e che, dal tuo seno melmoso, al mare, al mare — sfasciata ti trascini! » Il Getziier ha già annunciato la prossima pubblicazione di un altro volume di 167 poesie dal titolo tedesco Frômmingkleit!, tutto di piccole liriche che segneranno, dice il Bluhend, una nuova evoluzione del suo spirito e del suo ingegno. Forse potrò darne qualche saggio nel volume di traduzioni di questo poeta straniero che sto preparando e che stamperò fra non molte, se le primizie che il Fanfulla della Domenica oggi presenta ai lettori troveranno presso il pubblico italiano una benigna accoglienza. (I) (I) Questo scritto, che fu pubblicato nel Fanfulla della Domenica firmato colle iniziali G. P., è semplicemente una parodia. Fra i tanti pretesi cultori di letterature straniere che in Italia traducono, o fingono di tradurre, da tutte le lingue europee moderane, nessuno si è accorto finora della canzonatura. È inutile aggiungere che come non ha mai esistito un poeta danese chiamato Getziier, così sono un’invenzione i canti che si dicono tradotti e i giudizii dei critici citati. Al Fanfulla della Domenica giunsero parecchie lettere e cartoline che incoraggiavano il presunto traduttore; nessuna che avvertisse il giornale di esser stato messo in mezzo da un burlone. Se qualcuno dei tanti nostri traduttori di traduttori di poeti stranieri ha già, per caso, versificata la mia prosa, ora è pietosamente avvertito. TRUCIOLI I (*) Dopo la Raccolta dei canti popolari siciliani non c’è libro che dipinga la Sicilia con maggior potenza e con maggior precisione dei Malavoglia, della Vita dei campi e di queste Novelle rusticane del Verga. Ed ecco ora il Reverendo, compare Cosimo, Nanni, compare Carmine, Mazzarò, Lucia, don Marco e tutti quest’altri che vengono a tener bella compagnia a Jeli il pastore, al Rosso malpelo, alla Lupa, all’amante di Gramigna; ed ecco quel povero asino di S. Giuseppe la cui storia interessa e stringe il cuore (*) Giovanni Verga — Novelle rusticane, con disegni di Alfredo Montalti. — Torino, F. Casanova, 1883. 172 come se fosse la storia di una creatura umana spietatamente sballottata di miseria in miseria dal destino. « Ma l'asino, dal peso, nella salita si inginocchiò tale e quale come l’asino di S. Giuseppe davanti al Bambino Gesù, e non volle più alzarsi. « — Anime sante! — borbottava la donna — portatemelo voialtre quel carico di legna! « E i passanti tiravano l'asino per la coda e gli mordevano gli orecchi per farlo alzare. « — Non vedete che sta per morire? disse infine un carrettiere: e così gli altri lo lasciarono in pace, che l’asino aveva l’occhio di pesce morto, il muso freddo, e per la pelle gli correva un brivido.... « — Se volete venderlo con tutta la legna ve ne do cinque tarì, disse il carrettiere, il quale aveva il carro scarico. E come la donna lo guardava cogli occhi stralunati soggiunse: — Compro soltanto la legna, perchè l'asino ecco che cosa vale. 173 — E diede una pedata sul carcame, che suonò come un tamburo sfondato. » Quella brutale pedata ve la sentite ripercuotere sul petto. È inutile aggiungere che queste Novelle rusticane hanno lo stesso vigore di concepimento, lo stesso splendore di colorito, la stessa profondità di osservazione che si ammirava nella Vita dei Campi: dirò soltanto che qui si rileva una nota nuova del Verga o meglio, che qui si accentua più energicamente quell’umorismo fine, quella rappresentazione comica di certe situazioni della vita, dei quali si trova qua e là qualche accenno nei suoi lavori precedenti. L'umorismo, parlando del Verga, non può significare qualcosa di personale, una specie d’intervenzione dell’autore fra i suoi personaggi e il lettore. Il Verga è di quei pochi scrittori moderni che hanno il coraggio e la forza (la forza soprattutto) di spingere il processo artistico dell’impersonalità fino all’estremo limite possibile. Ne avremo fra poco un’altra splendida 174 prova. Pare che colle Novelle rusticane lo scrittore voglia prender congedo dalla sua Sicilia. Il suo occhio di osservatore ha già tolto di mira la vita bassa della città, e un giorno o l'altro lo vedremo comparire con un volume di Novelle Milanesi che faranno un bel riscontro a questi maravigliosi quadretti della vita siciliana: il processo artistico dell’impersonalità conterà senza dubbio un trionfo di più. L’umorismo del Verga scaturisce dalle intime viscere della situazione fortissimamente resa: è l'osservazione acuta dello scrittore che prende corpo e vita e s’impone. Somiglia a quella gomitata di un amico che vi dice: guarda! guarda! e vi costringe a guardare mentre passavate distratto. Leggete il Reverendo, la prima delle novelle rusticane. È una figura altamente comica nel vero senso della parola, cioè di quelle che rasentano il tragico, come le concepivano Molière, Shakespeare, Balzac. Ogni parola che dice è una rivelazione; ogni gesto che fa vi apre un abisso di questo cuore umano dove la bestia 175 ringhia e appetisce più che non si voglia far credere da certi moralisti da strapazzo. Aveva detto: — Io voglio esser prete? — E i suoi poveri parenti avevano venduto la mula e il campicello per mandarlo a scuola « nella speranza che se giungevano ad avere il prete in casa ci avevano meglio della chiusa e della mula. Ma ci voleva altro per mantenerlo al seminario! » Allora il ragazzo si mette a ronzare attorno il convento dei cappuccini e si fa frate. « La mamma, il fratello e la sorella protestavano che se entrava frate era finita per loro, e ci rimettevano i denari della scuola, perchè non gli avrebbero cavato più un baiocco. Ma lui che era forte nel sangue, si stringeva nelle spalle, e rispondeva: — Sta a vedere che uno non può seguire la vocazione a cui Dio l'ha chiamato! » Di queste risposte, di queste frasi, di questi terribili lampi umani ce n’è uno ad ogni rigo. Il reverendo aveva buttato la tonica su un fico dell'orto assai prima dell’abolizione dei conventi, e si era dato all’arbitrio cioè a far 176 l'agricoltore in grande. Per lui, dire la messa era un correre dietro al tre tarì; egli non ne aveva bisogno. Monsignore il vescovo, nella visita pastorale, gli trova il breviario coperto di polvere e ci scrive su col dito: Deo gratias. Ma il reverendo aveva altro in testa che perdere il tempo a leggere il breviario, e se ne rideva del rimprovero di Monsignore. Se il breviario era coperto di polvere, i suoi buoi erano lucenti, le pecore lanute, e i seminati alti come un uomo. » Quando il papa mandò la scomunica per quelli che acquistavano i beni delle corporazioni religiose abolite, il Reverendo « sentì montarsi la mosca al naso e borbottò: — Che c’entra il papa nella roba mia? Questa non ci ha a far nulla col temporale. — E seguitò a dir la santa messa meglio di prima. » Il comico che rasenta il tragico è magistralmente concentrato nella chiusa, in quel ragionamento di persona soddisfatta che vorrebbe ora godersi tranquillamente il suo posto al sole guadagnato colle sue ladre fatiche come dicono i contadini laggiù. 177 E l’umore è sparso via via, in tante piccole scene, che la onnipotenza della forma fonde insieme e rende organiche: eccone una. Quando c’era un podere da vendere o un lotto di terre comunali da affittare all'asta, « gli stessi pezzi grossi del paese, se si arrischiavano a disputarglielo, lo facevano coi salamelecchi e offrendogli una presa di tabacco. Una volta, col barone stesso, durarono una mezza giornata a tira e molla. Il barone faceva l'amabile, e il Reverendo, seduto in faccia a lui, col tabarro raccolto fra le gambe, ad ogni offerta d’aumento, gli presentava la tabacchiera di argento, sospirando — Che volete farci, signor barone? Qui è caduto l'asino, e tocca a noi tirarlo su. — Finchè si pappò l’aggiudicazione, e il barone tirò su la presa, verde dalla bile. » Ho detto l'onnipotenza della forma, perchè quella che produce i miracoli, qui come in ogni vera opera d’arte, è assolutamente la forma. E per forma non intendo soltanto la lingua, lo stile, ma tutto il complesso di mezzi artistici e di facoltà 178 creative che serve a infondere in un’opera d’arte il soffio divino della vita. Quelli che credono la forma qualcosa di accidentale, di capriccioso, di puramente individuale, un semplice affare di moda, scambiano certi accessori coll’essenziale; e non possono perciò persuadersi che ci siano nella storia e serie di forme, e un processo di forme, e un continuo divenire di forme che poi si esaurisce e si arresta, quando tutte le forme possibili di un dato genere letterario sono esaurite, come è accaduto pel poema e per la tragedia. Quegli altri che fanno della forma una questione di lingua e di grammatica, la dimezzano, la rimpiccioliscono. Certamente la forma è la lingua, la grammatica, ma è anche qualche cosa di più; come la pittura è ugualmente il disegno e il colore, ma anche qualche cosa di più. Il lettore che incontratosi nelle seguenti righe del Verga: Questa, ogni volta che tornava a contarla, gli venivano i lucciconi allo zio Giovanni, che non pareva vero, su quella faccia di sbirro; il lettore 179 che, incontratosi in queste righe del Verga, può fermarsi a riflettere che non c’è affatto la grammatica, è un uomo disgraziato a cui la natura ha voluto negare ogni più piccolo senso d’arte. La lingua, la grammatica, il bello stile per loro stessi non valgon nulla. Sono mezzi più o meno efficaci, secondo la mano che li adopera; tant’è vero che i grandi scrittori, quando è capitata l'occasione, si son tutti infischiati delle regole ed hanno avuto il gran coraggio di sgrammaticare. Infatti non ha il diritto di sgrammaticare chi vuole. Al cospetto di un’opera d’arte, di quelle che sono veramente tali, la sola questione possibile, anzi giusta mi par questa: i mezzi, adoperati dallo scrittore, la lingua, lo stile, il disegno, il colorito si compenetrano talmente con essa che, mutati o alterati in qualche punto, non ne muterebbero e non ne altererebbero la fisonomia, da ridurla l’opposto di un’opera d’arte? Riscrivete il periodo quasi sgrammaticato citato più su, riscrivetelo con tutte 180 le regole della sintassi; se ne otterrete quell’effetto di naturalezza, di efficacia, di vita che la quasi sgrammaticatura gli dà, io m’indurrò a credere che le novelle del Verga potrebbero essere scritte altrimenti. E che il Verga, ove la sua coscienza di artista non gliel’impedisce, potrebbe scriverle altrimenti, lo dimostra l’ultima novella di questo volume, dove lo stile si eleva all’unisono del soggetto e par lo stile d’un altro. Certamente lo stile del Verga non è un clichè da togliersi in prestito. È qualcosa di così intimamente suo, che bisogna lasciarlo adoperare a lui solo. Ma se tutti noi si tentasse di fare quello che ha fatto lui, cioè di formarci uno stile che ricavi dalla nostra personalità la sua viva efficacia, arriveremmo più facilmente — avendo ingegno di artisti — ad essere, alla nostra volta, potenti ed originali del pari. 14 Gennaio 1883. II. (*) — Il teatro naturalista? disse il Sardou facendo una delle sue smorfie caratteristiche; ma è semplicemente assurdo! Mi sorprende che un uomo d’ingegno come lo Zola possa lasciarsi illudere da una simile sciocchezza. È assurdo! Lo capirebbe un ragazzo! — Ma dunque, risposi con qualche esitanza, la verità resta proprio esclusa dal teatro? — No: bisogna intenderci. Se non sbaglio, (*) La Fedora di Vittoriano Sardou — A proposito della rappresentazione della Fedora al Valle, pubblicai nel Fanfulla della Domenica questo brano di finti Ricordi parigini. 182 voi, caro signore, partecipate in qualche modo della illusione dello Zola. — Non lo nego. — Oh, non ve ne faccio colpa! È una illusione generosa, lo riconosco, un’illusione elevata. Portare la verità, l'osservazione, il metodo scientifico là dove finora non c’è stato altro che la menzogna, l’inganno, il capriccio, la fantasia!... La tentazione è potente, irresistibile: ma è lo stesso come cercar di raddrizzare le gambe ai cani. — Eppure Molière ha fatto qualcosa di simile colla commedia dell’Arte. — Ah, non mi domandate il mio parere su questo; potrei dirvi delle cose che forse vi farebbero perdere quel po’ di buona opinione che avete di me. E poi ora sono accademico, bisogna che affetti di rispettare la tradizione... Insomma, lasciamo stare Molière e parliamo di noi. Lo Zola parte da un principio falso, quello che la drammatica sia un’arte... Niente affatto! È un mestiere... Vi sorprende? — Certamente! — Questo avviene probabilmente perchè 183 non vi siete mai provato a scrivere pel teatro. Vedete lo stesso Zola, un uomo di ingegno superiore, lo ripeto, quantunque egli non sia mai stato molto cortese con me. Aveva l'abitudine del metodo scientifico, dell’osservazione diretta, aveva sotto gli occhi la verità, la natura... Ebbene? Quando ha voluto far qualcosa pel teatro, colla scusa del naturalismo, ha fatto del falso più falso del nostro falso. Era inevitabile! E accadrà sempre così quando si vorrà portare nella drammatica dei preconcetti estranei ad essa. Io credo di intendermene un pochino. Vi pare? — Siete un maestro. — Sapete come faccio quando debbo scrivere una commedia? Metto la testa fuori della finestra e annuso il vento che spira. Parigi ha delle fissazioni che durano qualche tempo, delle vere malattie contagiose che scorrono da un quartiere all'altro e poi montano in vagone e via per la provincia, per l'Europa talvolta... Vi ricordate, dopo il 70? Non si parlava d’altro che di spie. Se avevamo perduto contro la Prussia, la colpa era delle spie 184 tedesche che si erano introdotte nella nostra casa, nei nostri negozi, nelle nostre amministrazioni; un esercito di camerieri, di operai, di commessi, di donne facili... Tiens! Tiens! Voilà mon affaire! E scrissi Dora. Forse mi preoccupai del metodo scientifico, dell’osservazione, della verità? Che! Non avrei avuto le quattrocento rappresentazioni sulle quali contavo. La donna spia! ecco l’amo... Il pubblico doveva mordere, per forza; non vedeva altro in quel momento. Quando il pubblico è preoccupato da un sentimento, in teatro diventa più bête che altrove. Tutto sta nel sapergli fare il tiro... E questo, checché ne dica lo Zola, è mestiere, schietto mestiere. Quando scrivevo la mia commedia, arrivando a certi punti, i più scabrosi, i più grossi ad inghiottire, facevo anch’io la grimace, pensando al pubblico che doveva mandarli giù... Ma ero sicuro!... Glieli vedevo mandar giù come se niente fosse stato... Rammentatevi la storia di quel profumo dei guanti e di quel foglio di carta nell’atto quinto della Dora. Per poco che uno rifletta... Ma, caro signore, se voi 185 permettete, per un solo minuto, che il pubblico rifletta, non c'è commedia che regga... — L’attualità: è il punto solido dove un commediografo deve poggiare il piede. Il resto è affare di manipolazione, di fattura, di pratica, di colpo d’occhio. Pare che lo Zola cominci a capirlo: leggete: è segnato col lapis rosso. Mi porse il volume dello Zola Nos auteurs dramatiques che era aperto sul tavolino. Il brano segnato parlava dei Bourgeois de Pont-Arcy. « Fabrice a une explication avec Bérangère, « et, au lieu de tout lui dire, il « se contente de lui jurer qu’il n’a jamais « été l’amant de Marcelle et de lui de « mander de croire à sa parole, par un « miracle d’amour. L’effet a été très grand. « J’ai cru surprendre là tout le secret de « ce qu’on nomme le métier du théàtre. » — Vedete? dice anche mestiere, m’interruppe Sardou, riprendendo il volume. E più giù: « le secret du théàtre est peut - « étre là: calculer la déviation qu’il faut « donner au vrai pour que le public soit « agréablement chatouillé...» Lo Zola scrive 186 così canzonando, con quella sua aria sdegnosa che suol prendere quando parla di noi; ma è una gran verità. Io vorrei dirgli: Su, via, ottenetemi col metodo scientifico, coll’osservazione, colla verità, un effetto così potente come questo da me ottenuto con una mezza verità, con un quarto di verità, forse con un millesimo di verità, ed io mi do per vinto, legato mani e piedi. Giacchè, caro signore, bisogna tener calcolo di questo: che il pubblico va in teatro per provare delle emozioni, non per fare degli studi di psicologia, o di psichiatria, o di patologia, o che altro si voglia. Ed io m’ingegno di scuoterlo, di solleticarlo, di non lasciarlo indifferente neppure un minuto secondo, se no, addio! Il pubblico vi scappa di mano e l’effetto è perduto. Dicono che io mi sia formato una ricetta per comporre le mie commedie. Certamente. Ma vario le dosi. Sto scrivendo una commedia per Sara Bernhadt. Che cosa ho fatto? Come il solito, ho aperto la finestra, e ho annusato il vento... Nichilismo! non si parla d’altro. Tiens! Tiens! Voilà mon affaire! 187 Son sicuro di aver messo il piede sul punto solido: il resto verrà da sè. Un autore inesperto si ingolferebbe nella questione politica, si perderebbe fra le congiure... No, convien deviare, deviare dolcemente; ed io butto il pubblico in un dramma domestico... Un’assurdità, figuratevi! Ho creato una Russia a posta, e dei caratteri e dei costumi russi di mia particolare invenzione, tanto per dar un po’ di polvere negli occhi col così detto colorito locale... Io me ne rido di queste fisime, quando non servono a nulla pel mio scopo. Questa volta voglio fare un dramma, un vero dramma con pochi personaggi, con scene larghe, a grandi tratti... Credo di riuscire. La ricetta? Sicuro! Come nella Dora c’è una spia che non è spia, qui ci sarà un nichilista che non è nichilista: è il tiro che faccio sempre e che mi riesce sempre. I miei personaggi cammineranno tutti sul filo di un rasoio. Sotto hanno l'abisso: ma non dubitate, non vi cadranno. Se li lasciassi fare, Dio mio!... ne farebbero delle grosse, e non farebbero punto quello che fa comodo a me. Uno 188 dei personaggi, della Fedora, per esempio, ha un segreto, e se lo lasciassi dire, cioè se egli dovesse parlare come nella realtà, lo metterebbe fuori senza molto stento, alle prime interrogazioni... E allora che ne sarebbe del mio terzo atto? Sì, signor Zola, calculer la dèviation qu'il faut donner au vrai!... Ora mi son messo in testa di afferrare il pubblico pel bavero dell’abito, a questo modo, e inchiodarlo sulle poltrone, sulle panche, nei palchi, e non farlo fiatare. Ci riuscirò... ne son sicuro. Finchè Fedora, la mia russa, non avrà bevuto il veleno e dato gli ultimi tratti, nessuno in teatro dovrà riflettere e ragionare. Il problema è questo. La soluzione... sarà quella che sarà. Io ho fede in Sara, che morirà divinamente in pochi secondi... — Col cianuro di potassio? — Ecco, lo Zola vorrebbe dirlo al suo pubblico! Errore: non bisogna mai dire cose inutili... Che importa per l’emozione, il sapere se sia il cianuro, il curare, il volgarissimo fosforo quello che ammazza un personaggio?... Sara morrà divinamente. 189 Anzi, se io faccio morire la mia Federa, è unicamente a riguardo di lei: però, ne convengo, la morte è sempre di effetto sul teatro... E torno a quello che vi dicevo in principio: il teatro naturalista? È semplicemente assurdo... Forse ho abusato della vostra gentilezza... scusate; si parla volentieri del proprio mestiere! Dopo questo brano di ricordi parigini, mi sembra inutile aggiungere altre parole intorno alla Fedora rappresentata al Valle nelle sere scorse. Sardou ha sciolto benissimo il suo problema. Il pubblico resta inchiodato lì per quattro atti senza fiatare, senza ragionare... È vero che dopo, ripensando... Ma è inutile. Che m’importa del dopo? direbbe Sardou. E fino a un certo punto io non credo che abbia torto. 15 Aprile 1883. III. (*) Il conte Armando de Pontmartin è una figura simpatica malgrado le sue opinioni retrograde o, forse, appunto per esse. I suoi articoli di critica, ch'egli ha riuniti sotto i diversi titoli di Causeries littèraires, di Nouvelles causeries littéraires, di Causeries du samedi, di Semaines littèraires, di Nouveaux samedis (riscontro legittimista agli scettici ed empi Nouveaux lundis, del Saint-Beuve) e finalmente, di Souvenirs d'un vieux critique, si leggono con piacere; stava per dire: si ascoltano, giacchè, più che d’altro, hanno l'aria di una brillante conversazione improvvisata in un (*) A. De Pontmartin, Mes mémoires. — Paris, Dentu, 1882. 192 salotto aristocratico da uno di quei facili parlatori, dilettanti d’arte, di letteratura e di politica, pronti a discorrere a lungo anche delle cose che non sanno, soprattutto di queste. La cultura del Pontmartin è assai superficiale: il suo latino non è sempre sicuro; ma la sua causerie diverte, come un piccolo tour de force di rettorica, come una bizzarria paradossale. Par di sentir discorrere un uomo di altri tempi, un marchese della Seiglière, pel quale il mondo è rimasto, o meglio avrebbe dovuto rimanere, fermo a Luigi XVI. La sincerità della sua convinzione gli risparmia di esser ridicolo. Ed ecco che ora, dopo diciotto anni di combattimento sulla breccia del legittimismo, ecco che ora pubblica le sue memorie (Enfance et jeunesse), brillanti e dilettevoli come i suoi articoli e un pochino artificiose egualmente. Questa volta, cosa strana! proprio quando avrebbe dovuto abbandonarsi alla spontaneità dei suoi ricordi, il causeur fino ed elegante lascia intravedere la sua preoccupazione, una specie di vanità di vecchio dandy che 193 vuol mostrarsi irréprochable. I fatti, gli aneddoti vi sono disposti con troppa simmetria, con troppa preoccupazione dell'effetto; specialmente nei primi capitoli che, a somiglianza di certi capitoli di romanzi da appendici di giornali, hanno la chiusa à sensation. Ma gli aneddoti piccanti abbondano e molti hanno una particolare malizia; per esempio, quelli su Chateaubriand. Un giorno, lo Chateaubriand, stringendo la mano al focoso deputato di destra Clausel de Consergues, lo chiamò: « mon éminent ami! » — Voilà vingt ans que je travaille pour arriver à ce mot! — disse ingenuamente il deputato. Pochi giorni dopo, il Clausel de Consergues commetteva lo sbaglio di attribuire allo Chateaubriand un articolo del Conservateur che era stato scritto dal de Salvandy. — Il faut que vous soyez bien bête! gli rispose l'autore dei Martiri, stizzito. Il Pontmartin non può perdonare allo Chateaubriand l’esser diventato un liberale, 194 ma non perdona neppure a Luigi XVIII l'averlo congédié comme un valet coupable qu'on jette sur le pavé. Un particolare curioso: « Fort lettré, mais probablement fort retardataire en littérature (notate il probabilmente d’un legittimista che parla del suo re) et tenant par mille attaches aux traditions littéraires du dix-huitième siècle, Louis XVIII devait étre importuné par le génie de Chateaubriand qui le dépassait et lui portait ombrage. Je n’oserais pas dire jalousie de métier, mais une vague sensation d’inquiétude et de malaise, une prévention de bel esprit latiniste, qui eùt préféré la traduction des Gèorgiques à l'épisode de Velléda. De là, entre le monarque spirituel et l’écrivain immortel, une sourde antipathie, qui devait finir par une rupture. » Fu allora che il Du Villèle esclamò: — Nous en ferons un libéral! E il Pontmartin dice tristamente: « Il n’y a réussi que trop bien! » Nella sua qualità di legittimista, d’idealista, di cattolico, il Pontmartin ha una grande antipatia per il Balzac e una grandissima 195 per lo Zola. Quando ha parlato di quest’ultimo, egli ha perfino perduto la sua tenue di gentiluomo, e lo Zola gli ha dato una bella lezione con quell’articolo intitolato: M. le Comte. Però M. le Comte, che ama la polemica, è stato l'ultimo a parlare ed ha fatto una delle sue mezze profezie delle quali si compiace, malgrado di tutte le smentite ricevute dai fatti nella sua lunga carriera di critico causeur: « Et moi aussi, je l'aime (la letteratura, egli dice) cette reine terrible et charmante, et il faut que ma passion soit bien tenace pour avoir résisté à cette longue serie de deboires que vous tracez si finement. Nous l’aimons tous deux, mais dans des conditions et avec des fortunes bien différentes: je suis un disgraciè; vous ètes un favori. Seulement, prenez garde! songez à Christine, à Èlisabeth, à Catherine... Avec les souveraines ombrageuses et tiranniques, mobiles et fantastiques, la faveur est souvent plus dangereuse que la disgrace ». 26 Novembre 1882. IV. (*) Si è pubblicato il primo volume dell’epistolario di Giorgio Sand. La curiosità dei lettori rimane delusa. Gli editori hanno avuto troppi scrupoli; è facile indovinare che negli altri volumi ne avranno di più. Giorgio Sand, come romanziere, è già invecchiata parecchio; ma come donna rimarrà sempre una delle più strane e più attraenti figure della prima metà di questo secolo. Gli scrupoli degli editori diventano inesplicabili quando si riflette che Giorgio Sand guadagna molto nell’esser conosciuta più da vicino. La virilità dello scrittore sparisce (di lei non si può dire scrittrice), e vien fuori un cuor di donna (*) George Sand, Corresfondence, Paris, Lévy, 1883. 198 gentile e compassionevole che sorprende e commuove. Questa bontà tenera e indulgente spiega molte cose della sua vita; ed è tanta da farle perdonare anche il torto della sua condotta col Musset, se mai ci fu torto. Giacchè questo punto rimane ancora avvolto in una nebbia che non lascia scoprire la verità vera. Forse rimarrà tale per sempre. Bisogna confessare però che l'avventura di Venezia non è stata giudicata finora serenamente neppure dal pubblico. Musset desta troppa pietà, come tutti gli abbandonati. Le simpatie per l'uomo si complicano facilmente colle simpatie pel poeta: non si riesce a far la parte della vera passione e della passione a freddo che può e dev’essere stata in quella famosa avventura intorno alla quale si son scritti tanti volumi. Mancano i più intimi elementi per un giudizio definitivo. L’epistolario, che potrebbe e dovrebbe fornirceli, probabilmente non ce li darà. Giulio Sandeau disse un motto atroce su colei che gli diè le primizie del suo cuore e poi ritenne per sempre metà del 199 cognome di lui; disse: Il cuore di quella donna è un cimitero; non c'è altro che le croci di coloro che lei ha amato. Ah! io avrei voluto vedere un po’ il cuore di Giulio Sandeau! Quasi quasi mi par più giusta la malignità del Sainte-Beuve, quando affermava che i due amanti, la Sand e il Musset, avean ragione a pensare tutto il male che dicevano, vicendevolmente, l'una dell’altro. Ma sarebbe più opportuno ricordarsi che nell’amore non ci sono torti, fino a un certo punto, finchè la passione è sincera. S’ama quando si può, non quando si vuole. E il voler giudicare il caso di Venezia ad un’altra stregua, appunto perchè si tratta di Giorgio Sand e di Alfredo Musset, mi sembra una sciocchezza. Certamente le lettere di Alfredo e di Giorgio, scritte quando nessuno dei due pensava al pubblico, sarebbero un vero tesoro, anche se, letterariamente, non avessero (come pare) nessun valore. In alcuni momenti della vita, un gran poeta e un sensale di vini si equivalgono. Dicono che il Musset, nei primi mesi del suo amore, 200 scrivesse alla Sand delle lettere sciocche più di quelle d’un parrucchiere. Lo credo. Una lettera che un parrucchiere non saprà mai scrivere è quella che la Sand, ritirata nel suo castello di Nohant, indirizzava a Giulio Boncarain allora maestro di Maurizio. Ne citerò un solo passo: Vous me demandez ce que nous devenons. Je suis, hèlas! comme le lac dont une commotion violente a ridé la surface. Les eaux finissent par reprendre leur première tranquillitè, mais il reste néanmoins, et longtemps encore, certains petits frissons qui trahissent les tempètes passées. 7 Maggio 1882. V. (*) Il dottor Baragiola pubblicò mesi fa a Strasburgo una versione dell’antico alto tedesco intitolata Muspilli ovvero l'Incendio universale. Questo frammento dell'antichissima poesia tedesca fu scoperto dal Docen nel 1817 ed è stato variamente cementato da molti eruditi, talchè il Piper ha creduto bene di dare ultimamente una bibliografia di esso. Il Faifalik crede che l'anonimo autore del Muspilli abbia tratto profitto dalla poesia pagana, perchè vi s’incontrano parole e forme rarissime nell’antico alto tedesco e pochissimo usate nel nono secolo. Il significato della (*) Aristide Baragiola, Muspilli — Strasburgo, Schultz, 1882. 202 stessa parola Muspilli non è ancora bene accertato. Certe forme grammaticali si spiegherebbero soltanto col gotico. Questa poesia conserva l'alliterazione popolare invece della rima. È attribuita ad un Bavarese dell’ottavo o nono secolo e i dotti vi trovano gl’indizi della trasformazione subita dalla leggenda pagana dopo la conversione dei Tedeschi al cristianesimo. La descrizione dell’incendio universale che trovasi nella seconda parte è fatta con efficacia caratteristica. Ecco alcuni brani della versione letterale del Baragiola: « Quando il corno celeste vien suonato E il giudice su la via ergesi (quei ch'ivi giudicar deve morti e viventi) allora scorrono angeli per i paesi, risvegliano i popoli e li avviano al giudizio. Allora ognuno risorgerà dalla polvere si sciorrà dal peso della sua tomba, a lui tornerà (la sua vita, che egli tutta sua verità dire debba e lui secondo le sue azioni giudicato venga. Quando quegli siede che deve giudicare e giudicare deve morti e vivi 203 gli sta d’intorno una quantità di angeli di buoni uomini il cerchio è così grande: ivi vengono al lor giudizio quanti risorgono dalla (pena, sì che lì nessuno degli uomini osa celar cosa, Viene poi portata la santa croce, alla quale il santo Cristo fu appeso. Poi mostra egli le cicatrici, ch'egli ricevette nella (umanità ch’egli per amore di questo genere umano sopportò. » Mi sembra poco probabile, come i dotti tedeschi pretendono, che la leggenda pagana sia trasformata e confusa colla leggenda cristiana della fine del mondo e che la gran notte degli Dei, quando Sartr, il re del fuoco, doveva levarsi colla sua sfolgorante schiera per attaccare Odino nel Walhall, abbia qualche lontana relazione coll'incendio universale della leggenda evangelica. La leggenda pagana ha un significato intieramente diverso. Dovrà accadere, dice, una battaglia fra gli Dei buoni (Odino e suo figlio Thôrr), e gli Dei malvagi (il lupo marino Fenriswolf, il malvagio Loki e Sartr). Odino sarà ferito; e 204 appena il suo sangue stillerà, tutte le forze maligne, fin allora tenute in soggezione, irromperanno: cadranno le stelle dal cielo, la terra tremerà, i monti vacilleranno. Sartr farà divampare un incendio che distruggerà l'universo, e allora accadrà la notte degli Dei. Poi si vedrà una nuova terra coi nuovi uomini virtuosi e felici e un nuovo cielo con nuovi Dei. La leggenda del giudizio universale è tutt’altra. Il volervi trovare un’adattazione della leggenda pagana mi pare una delle tante solite stiracchiature della critica tedesca. Come spiegherebbero i dotti tedeschi i riscontri della poesia popolare siciliana coll'antico Muspilli del secolo ottavo? Ma già essi son capaci di trovare anche in quello le influenze della mitologia germanica infiltratasi lungo i secoli nel pensiero italiano per via delle invasioni gotiche e longobarde. C’è mancato ben poco che il Gregorovius, un tedesco che ama tanto l'Italia e gli Italiani, non abbia detto che Dante Alighieri discende dalla famiglia lombarda 205 degli Aligern e Napoleone dalla numerosa schiatta dei Bonipert: e dobbiamo essergli grati di aver soggiunto: che dove questo, per caso, si potesse provare, egli non crederebbe che nè la gloria di Dante nè quella della letteratura italiana ne sarebbero offuscate. 17 dicembre 1882. VI. (*) « lo sono una fanciulla debole come un filo d’erba; così che qui nel mio petto vi è ora un tumulto pari a quello di uno stormo di uccelli schiamazzanti sulla spiaggia o sul greto. Ora sì non vi è altro che tumulto, come d’uno stormo di uccelli. Verrà il momento che il cuore in calma... ». La indovinate fra mille? È poesia giapponese. Ma state ancora a sentire: « Se il sole si fosse nascosto dietro gli azzurri monti e fosse la notte già scura come le more di rovo, io ti uscirei certo incontro; e tu, sorridente e fulgido come il sole che sorge, qui ne verresti. Con le 208 tue braccia bianche come sarte d’ailanto ti stringeresti al mio seno, che è tenero e candido al par di spuma o di neve.... ». Par di leggere i versetti del Cantico dei cantici, eppure è poesia giapponese antichissima; ed è il professore A. Severini che ce la regala insieme colla graziosa leggenda di Jasogami e Camicoto, dopo averci fatto l’altro non men prezioso regalo della Fiaba del nonno Tagliabambù, l'anno scorso. Quello che principalmente colpisce è l’aria tutta moderna di questa poesia primitiva. Il Severini racconta, nella prefazione, che il Massarani, quando ebbe in mano quel Libro di Giada che poi tradusse così elegantemente in italiano sulla traduzione francese della figlia del Gautier, andò a domandargli con tutta serietà se veramente quel libro non era una innocente e graziosa finzione. — Ma come? Perchè ne sospetta? — disse il Severini. — Perchè vi si trova — rispose il Massarani — quel malinconico sentimento della natura, quella specie di blando Weltscherz che è cosa tutta moderna. 209 Il dubbio del Massarani era naturalissimo. Lo spirito moderno dunque, in questa sua evoluzione con cui tenta liberarsi dalle influenze classiche e accostarsi direttamente alla natura, non fa che ritornare al suo punto di partenza? Lasciamo lì tale spinosa questione — anche perchè non è questo il posto dove potrebbe trattarsi con larghezza — e torniamo al Giappone, o meglio, a quel rivolo d’arte giapponese che il Severini ci appresta, per notare un riscontro curioso. Quando il Cami Jacci-Hoco giunge alla casa della bella Nunacava Hime e si mette a cantare la sua nagauta, dopo di aver detto il suo nome e i suoi titoli, aggiunge: « Or dunque per congiungersi a lei ecco egli è qui; per congiungersi a lei, ecco le parla. Ma intanto io non ho ancora slacciato il cingolo della mia spada, io non ho ancora sgruppato il mio lucco; io son qui ritto, o fanciulla, a spingere la stridente imposta della tua porta; io son qui ritto a tirarla; e intanto, mentre ancora sul fosco monte l’upupa si lamenta, già chioccia il silvestre fagiano, già 210 canta il domestico gallo. Ahimè! ahimè! questi uccelli già cantano. Oh, malmenatemi, strangolatemi questi uccelli! » Va! Gli amanti saranno sempre gli stessi! La Giulietta dello Shakespeare si dispererà ugualmente che l'allodola già annunzi il prossimo apparire del giorno! E i grandi, i veri poeti, a molta distanza di tempi e di luoghi, s’incontreranno, come qui, quasi nelle stesse parole, allorchè vorranno esprimere fedelmente la eterna voce del cuore! 29 Ottobre 1882. VII. (*) A proposito dello stile dei De Goncourt, il signor Giulio Lemaitre fa alcune curiose osservazioni. Si sa la potenza descrittiva di quello stile. Inventario di notai, dicono certi critici, senza accorgersi, come osserva opportunamente il Lemaitre, che gli inventari dei de Goncourt ont une âme. Alla indecisione dei contorni, alla mancanza di precisione delle descrizioni classiche essi hanno sostituito, sto per dire, la personalità dell’oggetto. Quel tramonto, quel paesaggio, quella camera, quello studio di pittore non si possono confondere con (*) J. Lemaitre, J. et Ed. de Goncourt, nella Revue politique et littèraire del 30 settembre 1882. 212 un altro tramonto, con un altro paesaggio con un’altra camera, con un altro studio di pittore: e (quei tali critici hanno un bel dire) quando l'arte della parola raggiunge l'effetto maraviglioso di farci vedere le cose, è proprio l’opposto di un inventario. Imminente luna; Orazio non dice di più. Ma il poeta si fida troppo della nostra immaginazione. I De Goncourt invece non si fidano punto. La ragione sta in quello che ho detto più sopra, ch’essi vogliono dare la senzazione non d'un effetto di lume di luna, ma del tale effetto di lume di luna: la cosa è diversa. Infatti, ecco come i De Goncourt traducono l'Imminente luna oraziano: « La lune pleine, rayonnante, victorieuse, s’était tout à fait levée dans le ciel irradié d’une lumière de nacre et de neige, inondé d’une sérénité argentée, irisée, plein de nuages d’écume qui faisaient comme une mer profonde et claire d’eau de perles; et sur cette splendeur laiteuse, suspendue partout, les mille aiguilles des arbres dépouillés mettaient comme des 213 arborisations d’agate sur un fond d’opale... Anatole prit à gauche... Il était dans une petite clairière. L’éclaircie était mélancolique, douce, hospitalière. La lune y tombait en plein. Il y avait dans ce coin le jour caressant, enseveli, presque angélique de la nuit. Des écorces de bouleaux pàlissaient ça et là, des clartés molles coulaient par terre; des cimes, des couronnes de ramures fines et poussiéreuses, paraissaient des bouquets de marabouts. Une légéreté vaporeuse, le sommeil sacré de la paix nocturne des arbres, ce qui dort de blanc, ce qui semble passer de la robe d’une ombre sous la lune, entre les branches, un peu de cette âme antique qu’a un bois de Corot, faisaient songer devant cela à des Champs Elysées d’âmes d’enfants. » (Manette Salomon, p. 312). L’intento vien raggiunto dai de Goncourt per mezzo di una completa rivolta contro lo stile classico: ravvicinamenti di parole che hanno la stessa radicale: — contre le rocailleux d’une galerie de rochers; — raddoppiamenti di sinomini e insistenze 214 per fermare la attenzione rappresentandoci due, tre, quattro volte di seguito la stessa idea o la stessa immagine: — une espèce de dènoument, de dèliement de sa nature comprimèe, refermèe, resserrèe; — trasformazione dell’aggettivo in sostantivo neutro, alla maniera dei Greci: — empussierant le mousseux des toits, le fruste des murs; — abbondanza di sostantivi astratti che servono a dare la prima impressione dei colori, delle linee, del movimento: — Elle se mit à regarder, dans l'obscurité pieuse, des agenouillements de femmes, leur châle sur la tête... des vautrements de paysans enfoncant de leurs coudes la paille des chaises; — e poi una continua negligenza dell’armonia, una trascuratezza che arriva qualche volta allo scorretto, allo sgrammaticato. Parrebbe che il signor Lemaitre abbia ragione. — Ma se l’effetto è raggiunto? Se quei paesaggi, quei tramonti, quelle impressioni di luoghi d’ogni sorta ci rimangon fissati nella memoria colla stessa vivacità delle cose reali? 215 La risposta è imbarazzante. Poi il miglior metodo di giudicare di uno stile non è certamente quello di staccare una frase di qua, un periodo di là, in maniera da falsarne isolatamente il valore, come direbbero i pittori. Io ho il grave sospetto che fra una ventina d’anni lo stile così scorretto, ma così letterario, dei De Goncourt non sia per diventare altrettanto classico quanto quello di parecchi altri scrittori già ritenuti, al loro apparire, assai più scorretti di questi. 29 Ottobre 1882. VIII. (*) Vittorio Cherbuliez, che è stato ricevuto poche settimane fa tra gl’immortali dell’Accademia francese, è un romanziere di terz’ordine. Però, dopo Ottavio Feuillet, è l’autore prediletto delle signore; ed è stato per lunghi anni uno dei più assidui collaboratori della Revue des Deux-Mondes; due forti ragioni per farlo elevare a quel posto dove Edmondo de Goncourt, Emilio Zola e Alfonso Daudet avrebbero dovuto sedere prima di lui. Ma non è di ciò che voglio occuparmi. (*) Pane nero, di G. Verga — Catania, Giannotta, 1882. 218 Mi han fatto specie in questo ricevimento accademico alcune parole del discorso in risposta al suo. Il Renan gli ha detto: « Avec quelques maitres exquis, dont vous devenez aujourd’hui le confrère, vous avez su éviter maints défauts, monsieur. Toujours une haute pensée vous guide. Vous ne tombez jamais dans ces interminables histoires bourgeoises, prétendues images d’un monde qui, s’il est tel qu’on le dit, ne vaut pas la peine d’ètre représenté. Loin de songer à une imitation servile de la réalité (imitation bien inutile puisque celui qui aime tant la réalité n’a qu’à la regarder) vous cherchez les combinaisons capables de mettre en lumière ce que la situation de l'homme a de tragique et de contradictoire. » É precisamente quello che un nostro elevatissimo ingegno — il Bonghi — scriveva a proposito del nuovo romanzo del Verga, Il marito d’Elena. Che può importarci, ha egli detto, di cotesti vostri piccoli borghesi senza elevatezza, senza cultura? Come volete interessarci ai loro sentimenti 219 volgari, quasi bestiali, o alle loro azioni che non escono dalla cerchia di un fatto diverso di giornale? Confessiamo che la cosa non ci sorprende nel nostro pensatore quanto nel Renan che è un artista. Servile imitazione della realtà! Ecco una frase vuota di senso. Dal momento che la realtà passa nel mondo della rappresentazione artistica, ha già perduto qualche cosa della sua natura materiale, e non è più precisamente quale può vedersi aprendo gli occhi; è più elevata. L’azione, il sentimento, il personaggio che rimangono di nessun interesse sono, invece, quelli che non arrivano alla pienezza della vita artistica, quelli dove il concetto non trova la completa sua forma. Ma allora la questione muta aspetto. Non dovrà dirsi: questi fatti, questi personaggi sono volgari e perciò non m’interessano; bensì: questi fatti, questi personaggi non vivono la vita dell’arte e perciò non m’interessano. Una cosa molta diversa, 220 Ne troviamo la prova nello stesso Verga. Col Marito di Elena l'autore ci conduce in mezzo alla vita della piccola borghesia di provincia. Ma il suo studio, in molti punti eccellente, non raggiunge nell'insieme la necessaria vitalità artistica di cui parlo. Vi sono qua e là sproporzioni di parti; vi apparisce una certa fretta e una specie di trascuratezza; avvenimenti e personaggi non assumono quella stupenda solidità alla quale il Verga ci ha abituati in altri recenti suoi lavori, in Pane nero, per esempio, un piccolo racconto di appena un centinaio di paginette. In questo scendiamo ancora più giù nella scala sociale; siamo addirittura fra contadini. Non sentimenti, ma istinti o quasi. La morale? Esse ne hanno una a parte, se pure può dirsi che ne abbiano una. Ebbene? Nulla di più ordinario di quello che accade in questa povera famiglia, dispersa dopo la morte del capo di casa. Lucia va a far la serva e il vecchio padrone la insidia. « Don Venerando l'era sempre attorno, ora colle buone, ora colle cattive, per 221 guardarsi i suoi interessi; se mettevano troppa legna al fuoco; quanto olio consumavano per la frittura. Mandava via Brasi a comperargli un soldo di tabacco e cercava di pigliar Lucia pel ganascino correndole dietro per la cucina, in punta di piedi perchè sua moglie non udisse, rimproverando la ragazza che gli mancava di rispetto, quando lo faceva correre tenendosi il pancione. — No! No! — Ella pareva una gatta inferocita. — Piuttosto pigliava la sua roba, e se n’andava via E che mangi? E dove lo trovi un marito senza dote? Guarda quest’orecchini! Poi ti regalerei vent’onze per la tua dote. Brasi per vent’onze si fa cavare tutti e due gli occhi. » Infatti Brasi, quando sa che Don Venerando darà anche le vent’onze, non trova più difficoltà a prendere in moglie la Lucia. « Il padrone è un galantuomo, comare Lucia! Lasciate ciarlare i vicini, tutta gente invidiosa, che muore di fame e vorrebbero essere al vostro posto. » Questa è la morale di Brasi. 222 « Santo, il fratello, udì la cosa in piazza, qualche mese dopo. E corse dalla moglie trafelato. Poveri erano sempre stati, ma onorati! La Rossa allibì anch’essa e corse dalla cognata tutta sottosopra che non poteva spiccicar parola. Ma quando tornò a casa da suo marito, era tutt'altra, serena e colle rose in volto. « — Se tu vedessi! Un cassone alto così di roba bianca! Anelli, pendenti e collane d’oro fine. Poi vi sono anche vent’once di denaro per la dote. Una vera provvidenza di Dio! » Ecco la morale degli altri. Ma che importa? La realtà non è mai così eloquente come queste viventi creature dell’arte. La volgarità dei personaggi sparisce; quel loro stato rudimentale di sentimenti e di idee ci fa pensare più di qualunque declamazione, più di qualunque sentimentalità o idealità che ci trasporti fra le nuvole. — Un monde qui ne vaut pas la peine d'être représenté! Ma è appunto il regno dell’assurdo, 223 del falso, del convenzionale, dell’artificiale, il mondo del vostro Cherbuliez, signori accademici, quello che non mette conto di rappresentare nell’arte! 18 Giugno 1882. INDICE PER L'ARTE .....................Pag. V I promessi Sposi ...............>> 1 Interpretazioni artistiche .....>> 15 Gabriele D'Annunzio ............>> 27 Medaglioni......................>> 41 L'eterno femminino .............>> 51 Alphonse Daudet ................>> 61 Torquemada .....................>> 77 La moglie di Claudio ...........>> 91 Un romanzo giapponese ..........>> 99 Felice Romani ..................>> 119 Giuseppe Macherione ............>> 133 Bernardo Celentano .............>> 147 Un poeta danese ................>> 155 Trucioli .......................>> 169 ERRATA-CORRIGE Pag. 19, lin. 16: povero cuore. povero amore (testino) >> 145, >> 2: di una parte. da una parte. >> 160, >> 11: il sole e la luce. il sole e la luna (testino) >> 162, >> 14: rassomiglia. rassomigli >> 180, >> 7: impedisce. impedisse >> 208. In nota: Iosagami e Camicoto di NORINAGA DEI MOTOORI, trad. dal giapponese prof. A. Severini. - Firenze, Successori Le Monnier, 1882.