Pratesi Mario
L'eredità
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1889
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L'EREDITÀ. Presented to the LIBRARY of the UNIVERSITY OF TORONTO from the estate of GIORGIO BANDINI L'EREDITÀ RACCONTO di MARIO PRATESI. FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. - 1889. A ISIDORO DEL LUNGO AUSTERO E FORTE INTELLETTO E CUORE GENTILE ONDE LA PROBITÀ DI DANTE E DI DINO EBBE INTERPETRE DEGNO ED ELOQUENTE COME ATTESTATO D'ANTICA RICONOSCENZA QUESTO LIEVE SCRITTO SI RACCOMANDA. L'EREDITÀ RACCONTO. I " Raccontami una novella...." " Allegra o mesta? " Allegra più che puoi.... " " C'era una volta un uomo che abitava vicino a un cimitero. " SHAKESPEARE, La novella d'inverno, atto II, 2. I. Stefano contadino, dopo aver parlato della sua razza (e ne parlava spesso), lasciava per un momento attoniti e muti gli ascoltatori: poi, fissandoli con que' suoi occhi cagneschi, aggiungeva asciutto: " Noi siamo dei Casamonti. " Pareva un artifizio rettorico, ma quel nome buttato là da ultimo acquistava un significato eloquente, dopo aver saputo che i Casamonti discendevano da Campagnatico, ed eran venuti, sin da' tempi della vecchia repubblica senese, a Poggio Sole, fattoria che fu già dei nobili conti - 2 - Della Pula, e che tutti erano stati leoni di forza. Dopo aver saputo, per esempio, che Margaritone, il padre di Stefano, quando la domenica per qualche faccenda andava in città, non ne ripartiva senza essersi prima piantato ritto sul prato delle Burella (dove si dice che anticamente fosse la forca) a chiamare a disfida qualche Fiorentino: perchè quest'odio implacabile contro i Fiorentini e contro Firenze era anch'esso un'altra proprietà, un sentimento avito, e quindi necessario e quasi religioso, della razza Casamontese. E al primo pugno di Margaritone il Fiorentino gli cadeva disteso a' piedi, e Margaritone se ne tornava trionfante alla fattoria. Quattordici figliuoli ebbe, e anche con loro pare che la sua mano fosse più pronta ai colpi che alle carezze, perché quando parlava lui, come se avesse tonato la voce di Dio dal roveto ardente, i figliuoli non fiatavano. Al secolo d'oggi di questi non ne rinasce, diceva Stefano un sessant'anni fa, ma allora a vent'anni non si sapeva quello che fosse donna, e non c'era il mal venereo. Vicino a morte Margaritone volle che gli aprissero la finestra per riprendere ancora un respiro d'aria mentre il sole passava le macchie nere, e spandeva d'un turbine d'oro diffuso la pianura verdeggiante di Poggio Sole. - 3 - Il moribondo aveva intorno al letto i figliuoli che non dicevano niente, ma seguivano il respiro affannoso del padre, finchè cessò, e il prete, avendogli accostato un moccolino acceso alle labbra, disse: " È morto. " Ma come Lazzaro ebreo alla voce del Salvatore, così risorse Margaritone e ripreso un altro respiro d'aria, fece con un bercio scappare il prete: ma i figliuoli stettero fermi a vedere morire il padre com'era obbligo loro sacrosanto: e infatti morì anche lui, anche Margaritone. Stefano, che come primogenito gli successe nel governo della famiglia, credendo di trovare ne' fratelli tanti agnellini come col babbo, volle mantenere il buon regime delle legnate. Se non che, mancato Eolo, o la forza legittima che li aveva sino allora infrenati, i venti si scatenarono: la casa di que' fratelli, isolata nell'uzza cupa del bosco, pareva un antro di fiere selvagge, o era come certe repubbliche: chi teneva a levante e chi a ponente, ed essendo tutti forzuti, ognuno avrebbe voluto o comandare a tutti, o esser solo. Quanto a Stefano, stava per lui il diritto della primogenitura: diritto che valutava e sentiva tanto da negare assolutamente che i suoi fratelli avessero avuto l'altro di venire a - 4 - questo mondo quando già c'era venuto egli. E quel migliaretto di scudi che gli sarebbero bastati per comperarsi un podere, e finir di dipendere una volta dal conte Pula che non sapeva fare il padrone, ma lui il contadino lo sapeva fare, quel migliaretto ora doveva dividerlo in quattordici parti! ecco le conseguenze!... Nè i fratelli smisero di gridare finchè non ebbero avuta la loro parte, e avutala, furono ben contenti di portare altrove le proprie masserizie rurali, lasciando Stefano a Poggio Sole. Due o tre di loro però (ed eran quelli che per l'appunto avevano più bisogno) restarono pei poderi vicini, e ricorrevano sempre a Giovanna, ora per un fiasco di vino, ora per uno staio di fagioli o di grano che promettevano di rendere e non rendevano mai; e nonostante Giovanna, quella tenerona, non era mai buona a mandarli in pace, esponendosi ai fieri rabbuffi del marito, quand'egli se n'accorgeva. Tra per questa vicinanza incomodissima de' fratelli dunque, tra perchè il conte Pula aveva venduto la fattoria a un negoziante ricco che tutto voleva vedere, tutto voleva sapere; a Stefano incominciò Poggio Sole a venire in uggia, e non aspettava che un'occasione per andar via, la quale gli venne offerta dal suo fratello Ferdinando. - 5 - Costui era il solo de' suoi fratelli con cui non l'avesse rotta, perchè era rimasto sempre in città nelle anticamere oziose dei conti Pula, molto ben veduto da essi che da ultimo l'avevano messo a vendere il vino di fattoria al finestrino del loro vecchio palazzo. Avendo dunque questo Ferdinando preso in affitto un podere vicinissimo alla città, proprio lì al cimitero, e sapendo quanto Stefano fosse abile contadino, gli propose di venirci a stare con la famiglia. Stefano andò a visitare il podere, ne calcolò così a un di presso le staiate di terra, il reddito delle piante, esaminò il bestiame, gli piacque la casa spaziosa e con tutti i comodi: tinaia, buona stalla, forno, e altre stanze a terreno; e vide che alle sue mani avrebbe potuto fruttargli quel podere assai più che non Poggio Sole. Ma allo stringere del contratto, volle accortamente verificare se la congregazione a cui apparteneva quel fondo poteva ripromettersi da Ferdinando il pagamento dell'annuo livello almeno per una ventina d'anni, per non trovarsi poi a dover questionare con nuovi affittuari, i quali o lo mandassero via, o gli facessero altre condizioni da non poterle esso accettare. Dopo un po' di contrasto, siccome Stefano tenne duro, il vinaio dovè mettere le carte in tavola; cioè dovè mostrare una grossa somma che teneva riposta - 6 - molto celatamente in un portafoglio di pelle rossa. Stefano a quella vista pensò alle belle occasioni che la città porge ai guadagni, e sodisfattissimo, e giurando di mantenere il segreto, il quale importava a tutt' e due, fecero allegramente l'affare, convenendo che Stefano avrebbe coltivato il podere, e il vinaio pagatone il fitto, rifacendosi poi alla raccolta delle ulive e alla vendemmia. Tutto quel segretume del resto non importava, perchè era cosa notoria che Ferdinando aveva fatto de' quattrinelli mercanteggiando all'ombra del palazzo dei conti Della Pula-Brancacci- Rocca-Ponsoni: un palazzo merlato, nero, tutto archi acuti e vetriere, d'una fiera e nobile impronta medioevale, che poi fu anch'esso venduto; e de' vecchi ospiti non ci rimase che Ferdinando vinaio giù al finestrino della cantina. Perchè il conte Pula, contrattando la vendita, stabilì che non fosse in facoltà di nessuno il poter privare il suo servo fedele, Ferdinando Casamonti del fu Margaritone, delle stanze a terreno dove il detto Ferdinando teneva allora cantina per conto proprio. Atto veramente magnanimo questo, e ben degno di quel nobile gentiluomo a cui natura volle concedere in sommo grado il genio della magnificenza, come si vide benissimo quando il granduca - 7 - Ferdinando III, nel 1818 (l'anno in cui presso a poco incomincia questo allegro racconto), onorò la città della sua augusta presenza. Furono giorni memorabili quelli, a detta dei nonni. Il campanone sonava: le genti maravigliate accorrevano agli sbocchi, alle piazze a vedere il principe, e impetrarne il clementissimo patrocinio: sfilavano i granduchi, gli arciduchi, le dame austriache e toscane, i ciamberlani, i generali, i balì, i cavalieri di Santo Stefano, i cavalieri di San Giuseppe. In su e in giù per quelle strade oscure, ripide e torte, scalpitava, sfolgorava co' suoi focosi corsieri la nobiltà. Ma nessuno sfolgorava più del conte Francesco Della Pula: egli eclissò la corte. E ch'eran mai quelle livree grigie della corte, semplici calèches a due cavalli, a paragone del tiro a quattro, coi finimenti d'argento, del conte Pula, che volava via in mezzo al fragore dei cocchi, con la sua tuba torta, e la moglie alterissima, tremendissima, e il cacciatore frappato d'oro e le piume al vento! Nel suo palazzo poi in quei giorni fu tal profusione di pompe, di feste e di cortesie che il Granduca stupì di tanta liberalità in cittadino privato. Che maraviglia dunque se l'anno dipoi il conte, uscendo per sempre dal suo palazzo, intimasse al vinaio di restarvi?... E lui vi restò, tanto più contento in quanto - 8 - poteva ora starsene al finestrino in maniche di camicia a chiacchiera con le donne, che venivano la sera a frescheggiare sul muricciuolo, mentre una vaga luna d'estate strisciava a mezzo il nero palagio: e non era più costretto ora a reprimere l'allegria baccante dei bevitori, nè il passeraio delle serve a cui, allungando troppo spesso le mani, porgeva il fiasco dal finestrino. Il qual finestrino vedevasi sempre aperto colà sotto l'immagine della Vergine, un volto soave del quattrocento, scolpito in pietra, e inquadrato nella muraglia: fuorchè la domenica dopo pranzo era chiuso il finestrino, e la via taceva, perchè a quell'ora il vinaio giocava alle bocce al podere con gli altri amici e con Stefano, oppure bevevano allegramente il fiasco su nella loggia del casolare. II. Quel casolare appariva oltre il muro della strada, sulla collina, circondato, e in parte anche nascosto, dagli ulivi: le pannocchie del granturco col loro giallo vivace spandevano sulla loggia un po' di gaiezza, ma quelle finestruole dai vetri sempre rotti dal vento, e che guardavano il cimitero, eran tetre così incavate nella grossa muraglia grigia. - 9 - Tra il cimitero e la casa non era che un tratto incolto, sparso d'ortiche e di malve, gustate con morigerata pace dall'asinello; e un tal tratto sarebbe stato ciò che è la platea dinanzi alla scena, che qui era il cimitero di faccia: una scena fissa, con un severo portico intorno, le cui ali estreme erano rimaste interrotte per essere poi proseguite verso la casetta di Stefano. Prima però d'arrivarci, ce ne volevano degli anni e dei morti! Essendo quello un cimitero privilegiato, la morte sembrava quasi andarvi cerimoniosa, facendo soltanto di quando in quando una discreta visita di dovere. Era molto se i neri incappati della Misericordia apparivano in quel recinto due o tre volte in un mese. E nonostante vedevasi già tutto pieno di stemmi e di mausolei come se una turba di signori si fosse affrettata a perpetuare sui marmi le sue virtù, o a prendere i primi posti sotto l'erba molle e fiorita. Ma non era mica un giorno! era dal secolo scorso, cioè cinquant'anni, che il vecchio Drea, il becchino, zappava quel cimitero fondato sopra un tranquillo convento di frati domenicani: e come dovunque, ove sono e dove furono conventi, anche qui il paese è bellissimo e l'aria sana. Le prime colline, e quella pure del cimitero, - 10 - girano e si sprofondano nelle vallette tutte folte d'alberi e case, ma poi le crete bigie s'estendono oltre per largo spazio, interrotte solo da qualche macchia isolata o dal campanile di qualche oscuro paesetto, finché quella smorta regione non si rianima in fondo alle montagne azzurre e serpeggianti nel cielo chiaro. Singolari anche le porte dei poderi tinte d'un rosso cupo, sulle stradelle romite col vecchio muro da una mano, e dall'altra il tufo selvaggio e cavernoso, da cui pendono i lunghi roghi giù dalle siepi continue. Dove il muro s'abbassa, ecco aprirsi la campagna in vario prospetto, e gli ulivi imbiancar le pendici, i cipressi nereggiare attorno le ville secolari, selvette di agili pini cantare al vento lassù al sole, nella bell'aria del colle, i tralci ridere e brillare effusamente esultanti nel piano, e la turrita città balenare lungi dall'alto come imperante ancora, nella sua maestà religiosa e repubblicana, il vago paese: poi la via romana si perde deserta fra quelle crete aride quasi vi fosse passato a desolarle uno di quei demoni cornuti dall'ali di pipistrello, come il Signorelli dipinse nel duomo d'Orvieto. Tanta varietà e contrasto di toni e colori, e la mano venerabile degli antichi che qui pure apparisce - 11 - dovunque; apparisce nelle ville severe, ne' castelli, ne' monasteri sparsi, nelle badie dei villaggi solitari, danno a questa campagna un incanto che altrove non si ritrova: un incanto quale avrebbe una musica indefinibile dove la giocondità fosse immedesimata con una tristezza di morte. Il vento non vi cessa mai intieramente, ma pare sempre dire qualcosa che le piante innumerevoli ripetano l'una all'altra scotendo i rami su per quell'ampio e continuo andare di poggi. Guardando questo paese dal cimitero, sembra quasi strano che tanti defunti che un dì lo videro anch'essi, oggi non lo possano più vedere, simili a polvere o fumo disperso: nondimeno, quelli sotterrati di sopra ove spira l'aria serena, si direbbero meno al buio di quegli altri infelici che dormono nel sotterraneo così umido e cupo! Ma tanto di sopra all'aperto come nel sotterraneo, v'accompagna sempre il silenzio: non c'è caso che mai lo turbi il rumore della città vicina da cui non viene che il suono delle campane: quel suono così armonioso e solenne in Toscana! Nè meno taciturna è la porta della città che è lì a due passi, con la sua meridiana scalcinata, lo stemma del Comune, e la panchina di pietra, - 12 - su cui talora viene a sedersi il gabelliere ozioso. Se non fosse il passeggio de' visitatori del cimitero, quella sarebbe una porta affatto remota: sembra riguardare indietro verso altri tempi: i tempi che si dileguarono per sempre dalle sue mura quando la libertà comunale cessò nel sangue de' cittadini. La tristezza di quella fine, con la quale cessa pure un'intiera costituzione civile, sembra regnare ancora su quelle mura di mattoni rugginosi e consunti, dalle cui radure escono, come da bocche sdentate, fiori e ciuffi d'erba vetriuola. In questo luogo Stefano era venuto con la moglie Giovanna e due figli, l'uno detto Domenico, ma tutti lo chiamavano Filusella per soprannome, e l'altro, che era il minore, Amerigo. La vicinanza del camposanto portò subito Stefano ad ingerirsene, tanto più che Drea, il vecchio becchino, il primo ad aprire la serie dei becchini del luogo, era ormai stanco di seppellire, e dopo cinquantadue anni di servizio, implorava d'essere giubbilato. Quando dunque la Venerabile Compagnia della Misericordia, preceduta dalla nera bandinella, usciva da quella tacita porta, e a quel suo passo uniforme e grave, e con quella prece che si ripete insistente quasi accompagni il volo - 13 - dell'anima cristiana per l'infinito, s'avanzava verso il prossimo cimitero; Stefano, incappato anche lui, era già corso a aspettarla nell'atrio. Dava una mano a levar di spalla ai fratelli il feretro, a deporlo in mezzo, e a rialzarlo dopo le preci, le ultime benedizioni e gli ultimi incensamenti del sacerdote, di cui seguiva parola per parola il latino che meglio non avrebbe fatto altr'uomo di chiesa: ma non per nulla egli a Poggio Sole era stato priore nov'anni della compagnia degli Scalzi. Morto Drea dunque, Stefano accettò l'incarico di succedergli, a patto però che quando il suo figliuolo Domenico, ossia Filusella, fosse stato più grande (allora non aveva più di dodici o tredici anni), fosse dato a lui il posto di fossaiuolo effettivo. Avutane formale assicurazione, Stefano volle, come diceva, che Filusella prendesse presto confidenza col camposanto, e perciò una mattina lo trasse fuori del letto per condurselo dietro nel sotterraneo a fare una fossa. Quella al ragazzo parve la cosa più terribile che mai potesse accadergli. Il mondo, da quanto ne aveva udito, era pieno per lui d'occulte malíe: nella tristezza dei dì piovosi o canicolari restava assorto e silenzioso come se dai solchi dei campi e dalle - 14 - piante mute e passive si sprigionasse alcunchè di maligno, ed ei lo subiva inconsapevole come lo subiscono gli animali. Un albero si seccava, ed erano state le streghe, e una strega vedeva in ogni vecchia sconosciuta e brutta in cui s'imbattesse per la deserta campagna; nè contro le streghe v'era miglior rimedio d'un mazzo di ginepro, e contro la malía che bollire i panni: di notte gnaulava un gatto rinchiuso o in amore, Filusella lo sentiva tra 'l sonno, ed era il lupo mannaro che s'immergeva dentro le fonti, nè avrebbe smesso d'immergersi nelle fonti ed urlare, finché non l'avesse sopraggiunto qualcuno all'improvviso, e bucato. De' rospi, delle lucertole, dei biacchi, dei pipistrelli era accanito persecutore, incolpandoli d'un male ch'essi non fanno: invece le rondinelle si dovevano rispettare, perchè furono le sole che consolassero Gesù agonizzante. Queste e altre simili cose riempivano di scrupoli curiosi, d'ubbie e di vaghi ma profondi terrori il buon Filusella, chiamato Tenenosse da suo padre, parola che per lui equivaleva a grullo. Filusella credeva quelle cose con fede cieca e tenacissima, tanto è vero che nelle menti rozze, come in terre vergini, si radica ogni germe che vi si getti, onde fu possibile fondare nell'infanzia dei popoli le maravigliose mitologie. - 15 - Quella mattina, non era ancora giorno e non si sentiva pel buio che cantare il gallo vicino, a cui rispondeva un altro gallo lontano, e poi un altro più lungi ancora. Bisognava aprire sulla via il cancello nero di ferro, bisognava passare l'atrio già tutto pieno di tombe, bisognava inoltrarsi tra i freddi simulacri del portico lungo e ventoso, e poi mettersi giù pel tetro scalone del sotterraneo muto. Era un ardimento di cui Filusella non si sentiva capace: a ogni modo suo padre lo trattò come un puledro che recalcitri a una barriera, ed egli dovè saltarla la sua paura, ma portandola sempre in corpo. Attaccato a suo padre, s'avanzò, tutto piagnucoloso, pel sotterraneo, con un lanternino che illuminava appena un po' di spazio ai loro piedi. Ed ecco gli parve udire e non udire un certo rumore come di cosa che brulicasse sotto una lapide, ma era un rumore così lieve che pareva il primo grado per cui il suono può essere percepito dal nostro orecchio. Cominciò tutto a tremare, e s'arrestò guardando con gli occhi sbarrati in quel punto. " Son ossa che vanno in polvere, Tenenosse! " gridò suo padre, a cui Drea, il vecchio becchino, aveva già detto di quei rumori, e - 16 - delle cause che possono produrli dentro le tombe: rumori del resto che s'avvertono sol di notte nel gran silenzio, e solo da chi abbia l'udito fino. Cominciava a riaversi, quando un altro rumore diverso e più forte, come di cosa che cada a un tratto in un luogo chiuso, gli rimesse addosso tanta paura, che cominciò a tirare a tirare suo padre, non volendo più sapere d'andare avanti. " È stato il coperchio imporrito di qualche cassa vuota che è sprofondato: vien via, Tenenosse, vieni via! " " O questi sospiri che sembrano di cristiano? " " Son gufi addormentati sul cornicione: son gufi! " Andarono ancora innanzi, finchè giunti in principio della corsia di san Calisto papa e martire, incominciano a sentire una sinfonia come di persone che schiacciassero delle noci coi denti, e che anche trapanassero coi succhielli, producendo un suono fervido, irregolare, incessante, quali operai tutti dati a faticare insieme di lena intorno a uno stesso importante lavoro. L'orrore di quel suono misterioso, tutto raccolto in un punto, pareva accresciuto dalla stessa immobilità del simulacro colossale di san Calisto seduto sul nudo altare di pietra, con la - 17 - mano protesa innanzi e la faccia rivolta al cielo: tale poteva vedersi al lume d'una lampada singhiozzante nel buio, e che faceva luccicare a tratti da un pilastrone vicino un'epigrafe a lettere d'oro sul marmo nero. Filusella non ci vedeva più ed era per tramortire; Stefano pure s'era fermato a una ventina di passi da san Calisto, che sempre immobile e maestoso levava la faccia al cielo e stendeva la mano su i morti: e i morti anch'essi, dentro le loro gelide sepolture di cui erano piene le muraglie e il terreno, parevano ascoltare in un silenzio tremendo. " Chi è là? " gridò Stefano facendosi un segno di croce: quel rumore cessò repente, si sentì dietro l'altare una fuga precipitosa, e dopo più nulla. " Ah! " disse Stefano, " infami! oggi vi servo io! son topi, Tenenosse, son topi! " " O quel coso che pare un cappellone di prete, e gira e rigira intorno alla lampada? Guardate, eccolo! eccolo! " " È una cornacchia passata da qualche finestra rimasta aperta: su via, animo, Tenenosse! o che hai paura degli stinchi dei morti! fossero vivi, direi! sono tristi in città! ma il morto è morto: dove lo metti sta, e non rifiata: animo! incominciamo: ecco io ti faccio qui il segno - 18 - con lo zappone: bisognerà fare una buca fonda per quel morto che è gonfiato tanto di sopra che pare una botte: speriamo che non gli abbian dato l'acquetta! o via!..." Filusella, sotto gli occhi di suo padre, incominciò a zappare con braccia di ferro la dura terra, e già un po' di giorno penetrava laggiù come ladro ch'entri furtivo e velato in casa non propria. Con questa educazione egli divenne ben presto un abile e imperterrito beccamorti. Quando veniva deposta la bara nell'atrio del camposanto, e i neri incappati della Misericordia, con le braccia conserte al seno, la circondavano oranti, e il sacerdote in stola nera agitava il turibolo fumante sul morto; allora Filusella, in cappa nera anche lui, con viso macero di fatica e contrito, taceva un po' in disparte, in mezzo al lugubre coro, e attendeva: la sua figura aveva, in quel momento, alcunchè di singolarmente antico, drammatico e rituale. Come mostravano le lunghe cigne di cuoio che gli pendevano dalle mani, Filusella s'apprestava a compiere un ufficio di cui egli intendeva benissimo tutta la serietà: un altr'uomo stava per essere calato giù nell' abisso, su cui sorvola presto l'oblio e resta sempre il mistero. III. Filusella dunque s'era piegato alla volontà di suo padre, come Giovanna all'autorità del marito, quantunque, cacciata in quel luogo, ella si sentisse come fuori del suo paese e rimpiangesse in segreto il podere di Poggio Sole. A Poggio Sole non vedeva che poche case sparse, e la Pieve di San Giovan Battista, antica abbazia del mille, di color ferrugigno, che tutta l'estate pareva immersa nel verde delle vigne: per le colline di faccia un diffuso nereggiare di boschi, e dietro alle colline, come giganti che sogguardino a tutela del geloso Comune quella valle nascosta, drizzar la punta le due più alte torri della lontana città. Dal camposanto invece la città le appariva tutta sul poggio, con le sue case decrepite che si ricordano dell'assedio, i campanili neri che suonano con sì grave lentezza le ore, i conventi dal bel porticato nascosti nelle più tacite strade presso le mura: e le mura triste che scendono e salgono tra gli ulivi sparsi per la varia pendenza dei campi: città tutta spirante la vita che visse un tempo: vita battagliera e gentile: vita tutta chiusa tra gli odi - 20 - e i sospetti municipali e i terrori della coscienza, e rapita in un ideale. Ora quella città metteva addosso una gran tristezza a Giovanna, come que' cipressi e quei marmi del camposanto. Da lontano que' bianchi marmi parevano i cartelloni d'una réclame, ma Giovanna vedeva bene che erano sepolture: vedeva bene colà sotto il portico que' busti immobili sulle erme, quegli angioli volitanti sulle urne, quei Nazzareni risorti, que' geni piangenti sulla face riversa, quell'angioletto che ride vezzoso premendosi, come un balocco, al petto un teschio, fantasia degna del lorenese Richier. Sull'uscio poi della stanza mortuaria era dipinto uno scheletro d'alta statura con la falce adunca come un gran rostro, e tra i denti uno scartabello con le parole: I miei giorni trapassarono come l'ombra: quello scheletro lungo guardava proprio la finestra della camera di Giovanna, e pareva che la chiamasse. Pareva l’eternità: il sole lo feriva al mattino appena fiammeggiava dal colle, e lo scheletro guardandolo con le orbe occhiaie sembrava dirgli: anche tu, o sole, ti spengerai un giorno sotto questa mia falce. Tutto sommato dunque il luogo non era allegro, e Giovanna ne riceveva tali impressioni, - 21 - che poi la sera le s'affollavano intorno convertite in strane paure, quando restava sola, perchè Stefano era con Amerigo in città, alla bettola del fratello, e Filusella a scuola da un abate miserabile. Seduta sulla pietra del focolare, tenendosi accanto la lucernina sì fioca che anneriva piuttosto che illuminare quella cucina affumicata, ella pareva tutta assorta a metter toppe su i laceri panni di Stefano e de' figliuoli. Ma invece pensava a ciò che sarebbe accaduto di lei dopo morte, e l'immagine di tutti quei teschi che ornavano le tombe, la rendeva più meditabonda in quel silenzio, in quella solitudine della casa, e con quel lumicino uggioso. Pensava che non tutti que' morti dovevano trovarsi in luogo di salvazione, perchè non tutti muoiono nel bacio di Dio. I più dovevano essere al purgatorio, essendole noto che non v'è anima così pura la quale possa, senza transitare pel purgatorio, salire al cielo di volo. Per le anime del purgatorio Giovanna, rattoppando, bisbigliava trepida un De profundis. Ma quel lugubre misterioso latino, parendole la voce stessa dei morti che le venisse di lontano lontano dall'altro mondo, o che avesse avuto potere di richiamarle intorno quelli del cimitero, si sperdeva sulle sue labbra a' primi - 22 - versetti. Peggio poi se sapeva che c'era un cadavere nella stanza mortuaria.... E se le occorreva d'avvicinarsi alla finestruola vedeva lo scheletro lungo biancheggiante alla luna, e i cipressi neri, irti come se speculassero il cielo immenso in gran silenzio.... E il cane ululava giù dall'aia deserta, o un moscone riempiva tutta la cucina del suo ronzio, quasi lui solo fosse rimasto vivo, o il vento agitava sotto la finestra i rami del fico inchinato sul pozzo, fischiava dai vetri rotti, spazzava con furore e gemiti il tetto e non una voce d'uomo si sentiva venire da nessun luogo.... Sopraffatta da un infinito terrore, Giovanna si metteva la lucernina ora a destra e ora a sinistra, e ora l'alzava a guardare in fondo se mai apparissero i bianchi fantasmi dall'uscio chiuso. Così ella passava la sera ne' primi tempi ch'era venuta al podere del cimitero: ma non andò molto che queste paure fantastiche incominciarono a preoccuparla assai meno quando, per parte del marito e del figliuolo Amerigo, le sopraggiunsero nuove ambasce nella loro realtà ben più gravi, e incessanti. Il marito, con quella città sì vicina, aveva cambiato abitudini, e s'era aggravato di pensieri e d'un malumore insolito. Mentre prima veniva in città assai di rado, forse due o tre volte in un - 23 - anno, per qualche fiera o qualche grande solennità, ora ogni mattina entrava la porta per ire in piazza con gli erbaggi e le frutta; e per lui, novizio e irascibile, la piazza era un elemento pericoloso. Cominciò infatti, semplice e inesperto com’era, a sbagliare i modi di prendere quella plebe riottosa e bestemmiatrice, la quale perchè ha le baracche a piè de' maestosi e tristi palazzi degli avi, si crede quasi la padrona del luogo. Stefano che non bestemmiava, che passando per le vie si levava il cappello a tutti i tabernacoli che santificavano allora ogni cantonata, udendo in piazza quelle continue eresie, trovava in esse sufficiente ragione al suo odio contro quei mercatini, e come se cogli eretici non vi fosse stato alcun obbligo di coscienza, quando gliela poteva accoccare se n'ingegnava senza uno scrupolo al mondo, facendo il proprio interesse, e credendo di farsene un merito presso Dio. Ma a que' mercatini cominciò a saltare la mosca al naso vedendo quel contadino aggirarsi per la storica piazza con quell'aria scandalizzata e superba, quasi volesse dire: Vili bestemmiatori, a me non le fate le riffe!... Un tal contegno parve a que' piazzaiuoli tanto più provocante in quanto essi, imbevuti dell'orgoglio civile, considerano i contadini come una - 24 - classe inferiore e nemica, e perciò degnissima, non meno degli eretici, d'essere strapazzata, ingannata e derisa. Il contadino dunque che porti colà un'aria di sfida è come colui il quale allungasse la miccia accesa, stando di contro a una batteria di cannoni già parata a colpirlo; quando invece mostrandosi tollerante e garbato, come conviene all'ospite che vuol vender la propria merce a sua maestà la piazza, può anche un contadino acquistarne, non dico la stima, ma almeno la protezione. E lui la capì, ma non dopo molte batoste e incagli molestissimi: ora lo portavano in comunità a pagare, per un sol pugno e dato di santa ragione, sette pioli di multa, ora allo spedale a farsi applicare i cerotti, ora in prigione a roder la bile e raccomandarsi a sant'Antonio: anche quando lo mandarono a pancia all'aria dentro la fonte aveva ragione lui, e anche allora tutta la piazza magnifica lo fischiò, mentre i birri lo conducevano in palazzo a spinte e pedate. Questa non era giustizia, ma era però una scuola che gl'insegnò a intonare più destramente il proprio contegno alla socievole sinfonia. Oppose l'indifferenza, la calma, un'aria minchiona alle piccole soverchierie d'ogni giorno, s'accostò alla gente risoluto sì, ma pure con - 25 - un certo suo sorriso conciliativo; tollerò qualche volta anche d'essere canzonato, pensando cupamente al modo di rivalersene alla prima occasione; salutò tutti, nobili e plebei, bestemmiatori e non bestemmiatori, ma accompagnando in cuor suo con " un accidente che ti pigli! " il cordiale saluto. Insomma imparò anche lui la tattica del contadino toscano che spesso s'inurba, e bada, più che altro, a non guastare i fatti suoi, cioè l'interesse. Dall'altro lato poi, siccome i suoi pugni non erano zuccherini, e quella marmaglia incitosa gli aveva pure gustati, così le due parti cominciarono a trattare i propri affari con una serietà che pareva quasi rispetto, e la pace fu mantenuta. Ma questa pratica e conoscenza della città, come poteva averla fatta uno spirito rozzo e superficiale, portò Stefano troppo risolutamente a certe sue conclusioni, le quali venivano, più che dalla verità effettiva delle cose sperimentate, dal modo con cui esse avevano operato su i suoi sentimenti individuali. Inoltre egli non vedeva delle cose che un lato solo, e quello, senza che altri risguardi collaterali lo tenessero mai perplesso, aveva forza di renderlo ostinato a seguire un’idea fissa, che prevaleva soltanto perchè unica, a dominarlo. Le angherie, gli oltraggi e le ingiustizie patite come avevano cambiato - 26 - l'uomo violento e sincero in uomo cauto e simulatore, così erano riusciti a ispirargli della sua condizione la bassa stima in cui, per ingrandirsi al suo cospetto, mostravano di tenerla i suoi zotici insultatori. Lui che non si trovava bene che in mezzo ai campi, e che non avrebbe tollerato altra condizione, nondimeno deplorava la sorte del contadino che vive in solitudine come l'orso, e poi, quando viene tra la gente civile, è disprezzato, schernito, e villanaccio qua e villanaccio là. Onde gli parve dovere d'ottimo padre quello di risparmiare un simile stato almeno al suo figliuolo minore, almeno a Amerigo, che gli pareva il più sveglio; e giacchè l'occasione c'era nel fratello Ferdinando, senza dubitare un momento, lo mise a bottega da lui. Per vero dire in tale risoluzione ebbe un po' di parte anche la cupidigia, e anche una certa vanagloria che pure era nell'indole di quell'uomo. Egli, rispetto a quest'ultimo punto, aveva ragionato così: — Il mi' fratello, di contadino che era, divenuto vinaio, s'è arricchito: e perchè non potrebbe fare altrettanto Amerigo? Impari a pelarla anche lui quella genia maledetta della città come la pela lo zio, e si faccia ben volere dallo zio che può anche lasciarlo erede! Dal che si conosce come, tra que' pensieri - 27 - amorevolmente paterni, tornassero spesso a rilucergli in mente, a Stefano, i danari che già aveva visti nel portafoglio di suo fratello. Era così certo dunque d'avere avviato bene il figliuolo che di questa sua stessa cieca fiducia fu presa anche Giovanna, la quale del resto si credeva, a paragone di suo marito, una sciocca; e il marito non ne aveva migliore stima. Giovanna dunque riguardava Amerigo con la segreta compiacenza delle madri che accarezzano nel proprio figliuolo un prediletto dalla fortuna. Se non che, dopo qualche mese, il fanciullo parve a Giovanna che le si venisse trasformando in un altro a certi segni che comparvero in lui, onde il sogno materno cominciò a vacillare e interrompersi per dar luogo a un'ascosa trepidazione, e a lunghi periodi d'angoscia. Egli prese a sfoggiare tutta quella sciocchezza di parole e d'attucci che è la prima forma d'un cattivo spirito comunicato ai ragazzi, e pel quale Amerigo cominciò a distinguersi tra i mocciconi campagnoli della sua età, come più svelto, più sfacciato, più petulante, più abile a provocare tra loro con le chete malizie delle sonore risate. Poi s'incominciarono a sentire dalla sua bocca certe oscenità, certe bestemmie così sacrileghe, così nuove e ingegnose - 28 - che Giovanna chiudeva gli occhi quand'egli le proferiva, e stringevasi nelle spalle come se stasse per rovinarle addosso la casa. Infine fece presto anche lui a divenire uno de' tanti ragazzacci bruttamente corrotti della città. Si ficcava per tutto: nelle oziose sagrestie a servir messe e scaldarsi l'inverno al focone, ne' pessimi caffeucci, nelle confraternite oscure a cantar la lezione dell'uffizio de' morti, ne' luridi biliardi a veder giocare, ne' campanili a attaccarsi con gli abati alle funi, ne' corpi di guardia, e altri luoghi simili; empiva di chiasso, con gli altri sbarazzini, i vicoli e le piazzette giocando, bestemmiando, schiacciando fulminanti, bruciando polvere da fucile, fumando cicche, beffando chi passava, tirando sassate a' cani, dando noia alle serve, e terminando poi tutti in una fuga generale all'apparire di qualcheduno che gl'inseguiva furibondo e scandalizzato. Spesso la sera, verso le ventiquattro, su taluna di quelle piazze, davanti alla chiesa malinconica e antica, mentre ne uscivano i devoti tutti compunti, e le campane dall'alto del campanile assordavano l'aria scura, era una vera battaglia di grida, di pugni, di corse e sassate tra que' ragazzacci, che poi si mettevano giù a rotta di collo per quelle precipiti - 29 - strade, dandosi a sonar campanelli e picchiare agli usci, per il gusto di sentirsi gridar dietro dalle finestre: chi è?... chi è?... Quando queste impertinenze venivano agli orecchi di Stefano, erano botte sicure, e le botte, se non gli levarono il cattivo che ormai gli aveva intaccato l'osso, nondimeno affransero e maturarono così bene il ragazzo, che, verso i quattordici anni, parve finalmente domata la sua naturale perversità. Aveva cessato d'essere un birichino di quelli che fanno fremere e inorridire gli adulti, i quali smarrirono ogni memoria di ciò che erano essi da fanciulli o adolescenti: era un giovanetto con un'aria da prima comunione, quieto, serio più del dovere, tanto esperto a nascondere i suoi pensieri, quanto facile a sfoggiare a parole una virtù e un giudizio, che essendosi comunicati a lui dalle labbra autorevoli dello zio vinaio, parevano superiori alla sua età, e n'era lodato e incoraggiato anche col premio di qualche soldo. E invece che razza di birbo si celava sotto quella maschera che in faccia agli altri ben di rado egli si lasciava cadere!... I ragazzi di quella età, quando occorra, sanno ben praticare una certa loro adulazione muta che spesso esperimentano efficacissima a acquistarsi la stima e l'affetto de' maestri e de' superiori: - 30 - Amerigo n'era abilissimo. Con quali occhi amorevoli egli non guardava lo zio! con quale attenzione, con che rispetto non l'ascoltava, quasi bevendone avidamente i discorsi! come già sapeva bene costui barattarsi il viso volpescamente! " Lo vedete eh, lo vedete se la medicina ha giovato? " disse un giorno Stefano a Giovanna, che scrollò sospirando il capo. " Già voi siete una donna che vedete tutto doppio come i bovi! " gridò Stefano punto nell'amor proprio. Giovanna non gli rispose perché quasi si compiacque, in quel momento, che il marito potesse illudersi ancora, e perchè d'altronde sapendolo irremovibile, non voleva abbandonare inutilmente il figliuolo all'ira del padre. Ma siccome Amerigo, non temendola punto, a lei non si curava di celare la sua condotta; così lei sapeva di che cosa egli non fosse capace, e quanto ormai ammaestrato, e non solo dagli esempi pessimi quotidiani, ma anche dai libri. Ultimamente glien'aveva trovato uno in saccoccia, e apertolo a caso, le apparve una tale immagine che ella ne restò come fulminata: quasi non credeva a' suoi occhi: nè certo ci volevano gli occhi di bove che il marito le attribuiva, per inorridire -31 - alla grottesca mostruosa oscenità di quelle figure.1 Ma Stefano attribuiva a sua moglie tutti i difetti che non aveva, e specialmente le attribuiva quello di non capir nulla, d'essere in tutto e per tutto una gran minchiona appunto come i suoi genitori di Poggio Sole, che erano di que' vecchi antichi con certe idee, diceva Stefano, come usavan nell'uno quando non c'era nessuno. E, per provare l'inaudita semplicità di sua moglie, raccontava questa che faceva sempre ridere per un pezzo gli ascoltatori. Ne' primi del loro matrimonio Giovanna una notte gli domandò sottovoce, se fosse vero che c'eran donne capaci di vender l'onore. " E come! " lui gridò, " io le ho trovate per tutto dove son ito. " E Giovanna, neanche fossero state sue sorelle, si mise a piangere, e la mattina aveva ancora le lacrime sulle gote! E ora, a dar retta a lei, avrebbe dovuto levare 1 Il commercio di tali libri sembra rifiorito, o almeno è più palese, dopo il riscatto: non parlo di quella fotografia che è mezzana della prostituzione, ma certo de' libri assai licenziosi, se non così laidi, se ne vende al bel sole della libertà a Roma e a Milano per tutti i chioschi dove, volendo, si possono acquistare anche de' giornali d'educazione: e anche ciò dimostra con quanta serietà s'attende a prepararsi degl'Italiani. La Germania proibisce perfino la vendita del Decamerone tradotto! ma quello è un paese molto ingenuo o primitivo appetto a noi che non possiamo che ridere di simili misure affatto puerili. Dunque divertitevi, ragazzi: comprate! comprate! - 32 - Amerigo dallo zio, quando già incominciava a guadagnare due crazie al giorno, e a prender pratica commerciale: bel giudizio che hanno le donne! diceva Stefano. In seguito si persuase anche più, se era possibile, d'aver fatto benissimo, quando Amerigo, su i sedici anni, accennò di nuovo a trasformarsi in un altro essere positivo molto, e più sodo. Si mescolava volentieri nei discorsi degli uomini, e disprezzava i ragazzi, coi quali faceva il superiore, il prepotente e il superbo: assumeva spesso una serietà da uomo fatto che ha già preso dominio del mondo, oppure da uomo truce che sia preoccupato da cure ben altrimenti gravi e importanti che non le vostre; e più che mai ora gli colavano dalle labbra le arguzie più volgari, tanto perchè s'accorgessero che non era più un pupillo, e che ormai le sapeva tutte. Siccome lo spirito pare che da prima si vada formando e esplicando per una serie d'imitazioni, e questa dell'imitare i grandi è la nota più caratteristica e insieme più comica dell'adolescenza, così anche Amerigo non faceva che riprodurre, con quelle arie e quelle parole, gli esemplari che aveva sempre avuto sott'occhio. Suo padre, col quale ora non era più timido, restava incantato udendolo ripetere tutte le - 33 - storielle e tutti i segreti delle famiglie signorili, come li apprendeva via via dai cuochi, dai cocchieri e dai cacciatori di carrozza che ne deliziavano le brigate nella taverna. Egli dunque già sedeva pro tribunali, e sul conto di questo e di quello era in grado già di dar giudizi sì assoluti ed esatti che, ne' primordi della sua carriera, non è sì abile un giornalista. S'era poi così bene inzuppato e colorito di quell'ambiente, che in bottega era ben accetto ad ognuno: era svelto a servire, rendere i resti, rispondere barzellette, di quelle che più gustavano gli avventori, usi a trovare nel turpiloquio un'innocente distrazione all'oziosaggine quotidiana. Una così grossolana raffineria nell'osceno e nella bestemmia, e poi una pronunzia così soave, e tanta finezza di leggiadri diminutivi, e tanta esteriore cortesia di maniere, è un contrasto che a taluno può parer disgustoso, ma che non si può negare non sia anch'esso un documento dell'antichissima civiltà dei Toscani: una civiltà tramandataci sin dai Pelasgi e dagli Etruschi, e non so da quanti altri popoli remotissimi e civilissimi della terra. Amerigo dunque, anche lui, aveva preso quel fare, e seguiva in tutto e per tutto l'andazzo. Anche nel portamento aveva contratto un che di flessibile e molle che aggraziava la - 34 - sua alta e ben quadrata persona: un pittore anzi l'aveva voluto dipingere in veste di paggio regale, col berretto piumato e la spada d'oro; i capelli fluenti alla raffaella pel collo bruno, e l'occhio nero, languido e tenoresco. Fu esposto nella gran sala delle Bell'Arti, e tutte le ragazze che lo videro ne spasimarono: fu il loro bacio segreto, fu il loro ideale romantico di più giorni. Insomma, e di dentro e di fuori, egli era divenuto affatto l'opposto di ciò che per ordinario suol essere un contadino. Nessuna luce di nessun sentimento buono era scesa sino al fondo di quella sua natura villana a umanarla un poco, a rintuzzarne gl'istinti ingordamente bestiali e lupeschi: ma la forza della fatica, le abitudini semplici e parche, la franca arditezza, la sincerità dell'affetto non mai simulato, e quella salda dirittura del pensiero o del buon senso che non rigetta in cinico modo ma accoglie il precetto giustamente autorevole, onde la disciplina, onde l'ossequio a leggi, a doveri, a consuetudini buone; sì, tutto questo, cioè quanto di meglio è nel carattere umano, era stato distrutto anche in lui, come in tanti, dalla immensa congerie dei vizi e delle sciocchezze comuni. Eppure lo dicevano un bravo giovane! Un - 35 - giovane molto prudente lo diceva lo zio, e Stefano era ora così contento di questo figliuolo, che appetto a lui Filusella, o Tenenosse, teneva un posto affatto secondario in famiglia, egli che per tutta la vita non sarebbe stato che un beccamorti, e Amerigo invece un vinaio danaroso e civile. Se mai, ciò che crucciava Stefano era il non essere pienamente sicuro che tali speranze si potessero realizzare, perchè Amerigo non era solo a correre questo palio della fortuna, ma con lui lo correva pure Gustavo, e col medesimo intento dell'eredità e con più probabilità di vincerla. Gustavo era figlio della Beppa stiratora, bella moglie di Gasparino cuoco, nel quale e nel vinaio Gustavo aveva come due babbi: se non che ritirava tanto dal vinaio e nell'indole e nel sembiante, che ci voleva poco a distinguere il padre vero dal putativo; nè valeva che Stefano dicesse che Gustavo invece era tutto, ma tutto il ritratto di Gasparino. Questi due babbi poi erano così amici, che bisognandogli al vinaio due garzoni, egli, per non far torto nè all'amico Gasparino nè al fratello Stefano, gli scontentò tutti e due, prendendo l'uno e l'altro, Amerigo e Gustavo, a bottega; i quali poi, anche loro, come pretendenti posti nel medesimo agone dalle due parti - 36 - nemiche, s'odiavano a morte. Se non che, avendo imparato a quella scuola anche a essere ipocritamente chiusi e machioni, simulavano un'amicizia che guastavasi ogni pochino perchè erano rivali in tutto, anche in amore. Là in quella serra tutta calda dei sospiri e delle occhiatine provocanti di tante servette che v'apparivano, que' due pallidi giovincelli sfoggiavano viole e rose all'occhiello, s'atteggiavano a damerini, e parevano aver tuffato il capo nell'orcio da tanto che avevano unti e lisci i capelli. Gustavo con quel viso di frate ghiottone che biascica paternostri sotto il cappuccio e tiene il coltello, che vi s'inchina sorridendo da ebete, e guarda dove colpirvi, Gustavo non dispiaceva a qualche donna a cui forse davan nel genio que' suoi occhietti porcini e bassi che parevano sempre attenti a cogliere l'opportunità e nascondere il frodo. Ma Amerigo, più simpatico e più sorriso dalle ragazze, era in quella taverna come Adone tra le Veneri e Bacco. Quanto alla Beppa, ella quando saliva un po' stanca su a' mezzanini a riguardare al vinaio la biancheria, faceva gli occhiacci di mamma seria e severa a Amerigo, e Amerigo, udendo poi come quella severità d'occhiate e virtù parolaia andasse a finire, ne rideva in segreto a crepapelle con gli avventori. - 37 - Gli avventori, non solo trovavano del buon vino in quella taverna, ma anche da divertirsi alle spalle de' due garzoni. Sapendo l'astio ch'era tra loro, quando la sera quegli avventori se ne stavano per le panche a gruppi accecati dal fumo, e già ne avevano in corpo più d'un boccale; chi ne diceva una e chi un’altra, e una volta principiato non la smettevano più con le parole e con le invenzioni che potevano meglio incitare e impermalire i due giovinetti rivali. Questi davano ansa a que' celioni avvinati cercando di soverchiarsi nella gara delle offese e delle dicacità, di costringersi scambievolmente al silenzio e destare l'ammirazione dell'uditorio. Lo spiritoso uditorio si buttava via dalle risa, si divertiva come al teatro, e continuando a soffiar nell'odio e nella vanità di coloro, cercava che la tenzone divenisse sempre più acre, non avesse più nè limite, nè misura. Al vinaio questo gioco piaceva, perchè, come i pettegolezzi e gli amori delle serve, anche quello era un mezzo d'attirar gente; ma una sera Amerigo, dopo essere stato un pezzo zitto, scaricò finalmente al vincitore Gustavo, che non si chetava più, un pugno tale nella ventraia, che il poveretto restò lì boccheggiante con gli occhi in fuori a ponzare senza respiro come un rospo impalato. - 38 - Stefano, che se la fumava tacito in un canto della taverna, non se la dette per intesa, non si mosse, non disse nulla, ma guardava, e sogghignando copertamente agli orribili sforzi che faceva Gustavo onde riavere il respiro, diceva tra sè chiotto chiotto: " Crepa, schianta, figlio d'un cane! hai fatto bene a sonarglielo! non dirazzi no! tu sei un Casamonti! " Gli avventori intanto gridavano tutti a una voce contro Amerigo, accusandolo di non sapere stare alla celia, quasi che non ci fossero delle celie seccanti come quella così puerile, e che non finiva più. Il vinaio, ritto in piedi, con le nocche appuntate al banco, rosso come un billo, aveva sbarrato due occhi di basilisco, e guardava Stefano tra l'ira e la maraviglia.... Stefano continuava a fumarsela cheto cheto e pareva pensare a tutt'altro, come se non fosse accaduto nulla. Il vinaio finalmente gridò che Amerigo non era più degno di passeggiare la sua bottega! " Non mi son mosso, perchè se mi muovo lo stronco! " disse allora Stefano, " gliel'ho detto tante volte io, che quando uno alza le mani anche se ha ragione, la perde. " Ma queste parole non calmarono punto la generale indignazione de' bevitori, i quali urlavano che Amerigo era dalla parte del torto - 39 - e non da quella della ragione. Gustavo potè finalmente riprender fiato, e cominciò a gemere come se fosse per morire. Amerigo urlava anche lui difendendosi, e il vinaio, battendo le nocche sul banco, badava a ripetere che non era più degno di passeggiare la sua bottega! Stefano la capì, e s'alzò minaccioso: Amerigo, che allora aveva diciannov'anni e faceva all'amore con la Zaira, s'impostò contro il padre in attitudine e viso ribelle, e il padre, provocato da quell'aria, lo strinse ai polsi, e dandogli uno schiaffo, gli bastò una stratta per travolgerselo giù ai piedi in ginocchio, e là lo lasciò singhiozzante. Si rivolse quindi a coloro, e disse a bassa e trepida voce: " Ora siete contenti? " Tacevano tutti: smesse di gemere anche Gustavo impaurito, e tutti uscirono dalla taverna in silenzio: quel padre era terribile in quel momento. Da quella sera quella società tavernaria (non migliore d'altre società più distinte, nè meno facile a lodare e vituperare secondo il vento) si trovò tutta unita a condannare Amerigo, un po' in odio a Stefano che li aveva atterriti, e un po' per il gusto di sentirsi in molti a dare addosso a uno solo. Il non aver saputo regger la celia era un'ingiuria al diritto - 40 - che hanno le genti di celiare sempre, e di prendere a godere qualcuno: era enorme. Si vedeva anche da questo come basta un nulla a rivolgervi l'opinione così d'un piccolo cerchio, come d'un'intiera moltitudine che s'accordi contro di voi in un'accusa, o in un pregiudizio. E in mezzo a questa generale riprovazione, il silenzio della Beppa e di Gustavo dava come un senso di serietà e d'importanza più grave all'offesa. Amerigo e Gustavo non si parlavano più, e quando v'eran costretti si davano cupamente del lei. La Beppa, vedendo le cose avviate bene, ne gongolava e spiava, perchè per lei lo spiare e l'indurre per cervellotiche analogie, il dissimulare, l'antivedere anche al di là del possibile, il non lasciare scorger mai che cosa covasse in seno, e il rappresentare sempre, anche senza motivo, una triste e misera commediola, era per la Beppa il colmo di quella politica che si crede tanto più abile quanto più riesce a mentire, e giocar d'astuzia. E a lei non gliene mancavano i mezzi con quel suo corto e altero cervello messo in moto continuamente e solamente dalle cupidigie, dal pettegolezzo, dalla malizia e dalla curiosità. Ond'è che la Beppa e Gustavo, quantunque ottusissimi, avevano nondimeno sopra Amerigo, giovinastro tutto dato all'amore, il vantaggio che sulla mosca sventata - 41 - ha appunto il giudizioso e vigile ragno. I loro occhi lo seguitavano da per tutto come il raggio d'una lanterna cieca: sapevano che prima o poi ci sarebbe cascato perchè l'avevano tutti i garzoni quel vizio: l'aveva anche Gustavo: quando seppero dunque della sua relazione con la Zaira, la Beppa giubilante soffiò negli orecchi al vinaio che stasse attento alle ciotole: e Gustavo, brillando non meno di gioia furbesca negli occhi, riserrò con rapida giravolta le cinque dita che teneva levate in aria, stese a ventaglio. " E sapete perchè? sapete perchè? per far de' regali a Zaira. " Questo non era provato, ma in bocca di tali accusatori basta la probabilità d'una cosa perchè essi addirittura la diano come certa. Quando il vinaio udì che proprio il danno era fatto a lui e non a un altro, poer uomo! n'ebbe sì offeso il senso morale, che gli balenò subito nel viso un'onestissima indignazione. Mandò subito pel fratello che venne tosto, e quell'insolita chiamata, quel parlar basso e poi quel gridare, quel chiuder l'uscio, quel misterioso agitarsi insomma, che accompagna, precede o segue un insolito evento, obbligava gli avventori a stringersi insieme anche loro, a domandare, occhieggiare, accostarsi all'uscio come cospiratori, e tacere tutti - 42 - per tendere gli orecchi e sapere che mai ci fosse di nuovo. Amerigo sostenne risolutamente in faccia al padre e allo zio che quella era un'infame calunnia della Beppa e di Gustavo; e il padre glielo credè trovandone le ragioni nel loro interesse di dare scacco matto al figliuolo. Affermava dunque anche lui con terribile violenza, che quella era una calunnia, e ripeteva che il suo figliuolo era la perla dell'onestà e che non era capace di toccare neanche un capo di spillo. La marea montò in modo da trascinare tutta quanta la taverna in una stessa bufera di voci. Il vinaio finalmente trovò il modo di sedarla, dicendo che li avrebbe tutti cacciati via: Amerigo, Stefano, Gustavo e la Beppa: chè già non stavano lì per lui, no: ma perchè facevano assegnamento sulla sua eredità, ma lui era tomo di lasciare ogni cosa alla Madonna dello spedale!... Allora fu una generale e unanime protesta di tutti contro tali parole, mostrandosene moltissimo offesi; e quindi tacquero come tacciono gli uccelli nella foresta allo scoppio d'una saetta. Per più giorni fu quiete nella taverna, ma il vinaio era pieno di sospetti: non sapeva se l'uno fosse ladro o l'altro calunniatore; e s'era proposto con la Beppa di venirne in chiaro. Ma - 43 - per quanto gettassero l'esca, il pesce non abboccava. Il vinaio era quasi per render l'onore al nipote, quando una sera gli fecero venire il capriccio di mandarlo, il nipote, a prendere un mazzetto di sigari al solo appalto che fosse aperto dopo il teatro, in quella stagione che tutti andavano in visibilio al Maometto II del Rossini. Amerigo tornò coi sigari, e si rallegrò di trovare la gran taverna affatto vuota con la candela di sego accesa sul banco: Gustavo era sceso in cantina a infiascare il vino, e canterellava: Tutti la notte dormono, lo zio infatti su di sopra era per andare a dormire come si capiva dal suo camminare e rumoreggiare e tonare qua e là, tirar su i pesi del vecchio orologio a pendolo, smuovere il letto sulle rotelle, trascinarvi accanto la sedia, buttar le scarpe.... Ed io non dormo mai, Ti voglio bene assai, continuava Gustavo: e Amerigo, il bravo e prudente giovane, ascoltando tutti que' rumori, occhieggiava qua e là come il topo, o come ognuno che sia per commettere un'azione tanto vergognosa quanto pericolosa: Ma tu non pensi a me! Anima mia di zucchero.... - 44 - e corri in punta di piedi Amerigo al banco!... Era stata quel giorno la festa di san Crespino, e i calzolai avevano fatto al loro celeste patrono copiose e devote offerte nelle ciotole del vinaio.... ciotole in cui sacrilegamente Amerigo, tirato pian pianino il cassetto, intinse la mano: ma non l'ebbe appena ritratta che di dietro un vecchio paravento, il quale nascondeva l'uscio del mezzanino, apparve lo zio con un bastone gridando: " Ah ladro!!..." Amerigo si lasciò cader di mano i danari, e schizzò come un razzo fuor di bottega.... e al grido del vinaio volò Gustavo su per le scale della cantina.... e la Beppa precipitò giù per la scala del mezzanino, e tutti e due lietissimi gridavano in trionfo al vinaio indignato: " S'aveva ragione noi eh? s'aveva ragione? " " Ladro! " ripeteva ancora il vinaio fremente stringendo con avida mano il bastone, " i ladri io già, li vorrei impiccar tutti! tutti! tutti! ma tanto va la gatta al lardo che vi lascia lo zampino, e lui ce l'avrebbe lasciato se gli potevo arrivare una bastonata! impara, Gustavo, e se continuerai a servirmi bene, tu solo, figliuolo mio, sarai il mio erede! " e l'abbracciò intenerito. La Beppa, che in certe cose aveva buon cuore, era anche lei commossa fino alle lacrime. - 45 - Il giorno dopo quale tempesta al podere del camposanto! fu una delle giornate più nere che s'addensassero mai su quella famiglia di contadini. " Che cosa ci sarà stato? " domandava Giovanna a Carmelinda udendo sonare l'undici al Carmine, e Stefano non tornava. Carmelinda si strinse nelle spalle, e seguitò tranquilla a canterellare mentre tendeva con Giovanna la biancheria sull'erba e sugli ulivi che circondavano la pace dell'aia. Nel mezzo all'aia giaceva il cane che accompagnava, levando un poco l'afflitto muso e con occhi stanchi, gli uccelli i quali attraversavano il cielo silenziosi come se avessero fuggito qualche disastro. Amerigo (che quella mattina aveva detto a sua madre di non andare a bottega perchè si sentiva male), come un brigante che tema d'essere colto, guardava, là in un canto dell'aia, di dietro il biondo e folto pagliaio, l'apparire del babbo, per leggergli subito in viso se la cosa l'avesse o no risaputa. Ed ecco che il babbo apparì: Amerigo subito si nascose dietro il pagliaio, Giovanna sospirò, Carmelinda cessò di canterellare, il cane scodinzolò così a mezza coda, più per dovere verso il padrone, che non perchè si rallegrasse di rivederlo. Dal padrone non aveva avuto mai una carezza, - 46 - ma calci e sassate per ricacciarlo nell'aia (chè quello era il suo posto) quando la bestia si provava a venirgli dietro. E quella mattina, il povero cane s'allontanò a coda attratta, voltando e rivoltando il muso a guardare con paurosa cautela, e mentre se ne scostava zoppicante, pareva fare delle riverenze a Stefano, piantato là in mezzo all'aia. E a un certo gesto di Stefano, sbalzò sulle quattro zampe, con quel gemito sì pietoso dei cani smarriti che temono la presenza dell'uomo. Stefano aveva nei vispissimi e neri occhietti un balenío irrompente d'occhiate: scoteva il capo, mordevasi il labbro, batteva il tacco: tutto questo era come un prologo muto a ciò che voleva dire. Giovanna e Carmelinda lo guardavano esterrefatte, e così Filusella che era tornato allora, con la pala in ispalla, dal camposanto. Più cose gli sollevavano dentro una di quelle tempeste capaci di sradicare una querce, ma non un uomo di quella tempra: che Amerigo fosse mancato sì stoltamente alle sue speranze guastandogli tutto un piano che gli pareva sì ben disposto, e l'ignominia di ladro che egli s'era acquistata per sempre, e il gusto matto che ne dovevano avere Gustavo e la Beppa. L'immagine odiosissima di que' due gli passava - 47 - attraverso a que' cupi pensieri, contrapponeva ad essi la sua ilarità schernitrice, il cachinno, la baldanza del suo trionfo, ed era uno spasimo per quell'uomo rude e violento: era come sonare un cembalo agli orecchi d'un leone percosso.... Gli uscivano dall'ampio petto certi sospiri che parevano gli sbuffi d'una caldaia. Finalmente, in un torrente d'ira bestiale e d'imprecazioni, raccontò tutto, vibrando pugni all'aria ad ogni parola. E disse che non solo Amerigo aveva rubato dal cassetto i quattrini, ma anche una tabacchiera d'argento che lo zio teneva sul canterano. Questa tabacchiera un tempo aveva abbellito le tasche del gran panciotto settecentista d'un conte Pula, e poi il buon vinaio, amando di circondarsi di qualche oggetto prezioso, e piacendogli assai una Venere nuda in braccio a Marte che v'era sopra in bella ma consunta cesellatura, l'aveva comprata all'asta per pochissimo: ma quella sera la capricciosa e venerea tabacchiera era saltata in tasca alla Beppa, la quale, come tutti i ladri accorti o malaccorti che voglion passar da onesti, sapeva ben lei quand'era il momento buono di farvi un tiro. " Come! " gridò Amerigo uscendo di dietro il pagliaio, " la tabacchiera l'ho presa io! no non è vero! Dio m'accechi se è vero! " - 48 - " Ah birbone! " gridò suo padre, " ora t'ammazzo! " " Oh poverini! " gridarono Giovanna e Carmelinda e si slanciarono con Filusella a trattenere Stefano, mentre il cane si premeva tutto al pagliaio e alle gambe d'Amerigo, quasi volesse consigliarlo a chetarsi o fuggire. Ma Amerigo continuava a gridare con l'ardimento che prestavagli l’innocenza: " Io non l'ho presa! Dio mi fulmini se l'ho presa! " " Babbo," diceva Filusella facendo orribili sforzi, " babbo, per carità, calmatevi: e che cosa gli volete fare? ammazzare non lo potete, e bastonarlo è poco: e se le bastonate bastassero, a quest'ora Amerigo dovrebbe essere un santo; e invece è un birbone! un malnato! un pezzo d'ira di Dio! " " No no no! non l'ho presa io la tabacchiera, vi dico! Dio.... " " Ma non sentite, babbo, non sentite come bestemmia? che cosa gli volete fare? tutto è poco! chetati, infame! vattene via! e non ti vergogni a bestemmiare in questa maniera il santo nome di Dio! sì, avete ragione, babbo: ci penserà Dio a punirlo: voi, babbo, avete fatto quel che potevi: venite via, babbo! venite via! " - 49 - E Stefano, vibrando sempre de' pugni all'aria, e alzando gli occhi al cielo come per invocare l'ira di Dio sul figliuolo, si lasciò trascinare dalle braccia nerborute di Filusella giù per il poggio. La sera, mentre i suoi cenavano in gran silenzio, Amerigo venne sulla scaletta a tendere l'orecchio all'uscio di casa, e udì suo padre rompere una volta sola quel silenzio tremendo per domandare dov'egli fosse; e Filusella, fraternamente bugiardo, rispose timido d'averlo chiuso a dormire in tinaia. " Che non mi venga dinanzi! " gridò Stefano: e non ci volle altro perchè Amerigo corresse subito in città da Zaira, che gli dette bene da cena, e lo consolò tutta la notte, mettendolo poi, tutto instupidito, fuor dell'uscio in sull'alba. Invano suo padre ne' dì seguenti, sempre con quel pensiero d'avviare la famiglia a divenire civile, cercò d'altre botteghe per il figliuolo: la Beppa e Gustavo e gli avventori avevano sparso subito ai quattro venti che Amerigo lo zio l'aveva cacciato per ladro, e non si trovò padrone che lo volesse. Quanto alla città dunque non era più il caso di parlarne, non poteva più sperare di trovarci un collocamento. Dovè quindi rimettersi - 50 - a lavorare la terra, e quelle fatiche sotto il sole, la pioggia e la ghigna acerrima, inesorabile di suo padre, peggio gastigo non poteva toccargli, a lui, garzone vinaio, e già preso dalla stracca negligenza e dalla dondolaggine cittadina. Suo padre (appunto per gastigarlo, e perchè provasse che cosa voleva dire la vita del contadino, di cui gli aveva voluto risparmiare, per ben suo e vantaggio della famiglia, le asprezze); suo padre non gli dava respiro finchè era presente al podere. Ora a potare gli ulivi, ora a zappar di furia con lui, ora a far l'erba e portarne corbelli pieni giù di fondo al poggio fin lassù al bovile, ora a inforcar lo strame e nettar la stalla, ora a far le fosse per le patate, oppure su per gli alberi a tagliar rami e coglierne frutta, traendone poi le corbe colme a due mani; o nel camposanto a falciarvi quella rigogliosa ubertà di fieno e di fiori stellanti: fieno grasso che, darlo alle bestie o venderlo, sarebbe parso un gran sacrilegio, e perciò si bruciava nelle sere estive a cataste fumose nell'aia: insomma bisognava bene piegar l'arco dell'osso: la voce terribile di suo padre lo incalzava sempre, nè per altro gli si faceva sentire se non per ordinargli ciò che dovesse fare, o per minacciarlo: ma a tavola con sè, alla mensa comune della famiglia, non - 51 - era più degno di comparire, e pranzava solo fuori di casa, sulla scala, come uno scomunicato. Ogni serenità era sparita ormai da quella famiglia: tutti gli altri, muti intorno a Stefano fremebondo, erano simili a mansueti animali costretti a vivere nella tana d'un orso. E chi sa quanto la sarebbe durata questa storia, se un bel giorno non accadeva un caso che valse a diradare o rompere un po' la tempesta. Stefano, verso gli ultimi di novembre, tendeva gli archetti ne' luoghi più aprichi della collina, assassinando anche lui i felici uccelli viaggianti, le creature più liete del mondo, che Leopardi invidiava. Ma a farlo apposta, c'era per que' luoghi un falcaccio così rapace che Stefano pareva tendere per comodo di costui, e non per sè. Lasciava il falco che Stefano, dopo aver teso, s'allontanasse, e poi si levava in aria, o dominava a ali ferme e librate tutto il gioco degli uccellini. Questi si posavano stanchi e famelici sugli archetti, e vi restavano presi e stritolati per le gambucce: il falco piombava, divorava, e risaliva a misurare a larghe ruote lo spazio. Fin qui siamo in regola: perchè tutti gli animali essendo governati dal medesimo istinto di conservazione e riproduzione, ha ciascuno da mandare innanzi, a spese dell'altro, una propria - 52 - importantissima azienda nella fabbrica universale dell'appetito, e ciascuno, nella misura s'intende del suo potere e dei suoi bisogni, è obbligato a esser feroce. Nè la tigre, perché ha le zanne e gli artigli, è più feroce della zanzara, che con tanta finezza succhia temerariamente il sangue dell'uomo: nè l'uomo (che divora tutto quanto può divorare, fino alle lumache e alle cieche d'Arno) è meno feroce del ragno che così mirabilmente indossa alla mosca viva la camicia di forza della sua tela, poi voluttuosamente la solletica, e, come l'uomo farebbe d'un gambero, la succhia ghiottamente, ed ella spasima e frigge. Quanto sbagliava dunque Stefano ad attribuire al falco la più nera malvagità intenzionale, qual è soltanto dell'uomo argomentatore, in cui la reità incomincia a convertirsi in proposito deliberato di nuocere! Ma tale intenzione maligna Stefano l'attribuiva a tutte le bestie infeste all'agricoltura: secondo lui, quelle bestie se lo proponevano di fargli del male. Se lo proponeva una volpe, per esempio, che scendeva di notte, dai neri sotterranei della città, a mangiargli l'uva nel campo, e dopo, per canzonarlo, gli veniva sotto la finestra a abbaiare come un cane. Più notti gli fece la sentinella, e finalmente gliela potè sonare una schioppettata! - 53 - Ma chi l'arrivava lassù a tanta altezza quel falco così maligno! Quel falco con la Beppa e Gustavo compiva la triade del suo odio, e pur d'averlo tra l'ugne, non so che cosa avrebbe fatto. Questa grande sodisfazione ebbe la fortuna di potergliela procurare Amerigo: una mattina egli sorprese il falco nel momento che aveva incontrato anche lui la sorte delle sue vittime, cioè, piombandovi sopra, s'era impigliato nello spago dell'arco, e si scorrucciava disperato per distrigarne gli artigli, quando comparve Amerigo. Egli lo ghermì giubilando, e lo portò tutto allegro a suo padre. Suo padre lo prese, e tenendolo alquanto su sospeso per le grandi ali (il falco avventava beccate, drizzava e girava la coda, chioccava, soffiava, s'indemoniava), ei lo guardava e sogghignava: pensava che cosa dovesse fargli. Ecco quel che gli fece: prima gli tagliò a sangue gli artigli; poi l'acciecò; poi lo spennò e dipelò ben bene, non lasciandogli che la coda e le ali per volare, poi gli dette dei pizzicotti, e poi lo lasciò ire che andasse pure liberamente dove voleva. Il falco pelato, disartigliato e cieco s'alzò su dritto come getto di fontana in aria, quasi a ricercarvi la luce, e soleggiante sparì.... - 54 - " Ora quello non si ferma più finchè non è in paradiso! " disse Stefano in mezzo alle risate dei contadini accorsi a vedere il supplizio dell'animale, e mentre egli volava essi lo guardavano beanti e saltanti di gioia. IV. Stefano, bisogna pur dirlo a sua lode, non mancava d'un certo rozzo e semplice senso di giustizia, per il quale avrebbe voluto, in tutte le cose, che il giusto fosse premiato e il reo punito: se non che nessuno gli appariva più reo di quello che danneggiava lui o il suo interesse. In questo caso un cotal senso del giusto, e la severità del corrispondente giudizio divenivano sì imperiosi da rendere assolutamente impossibile che, alle sue mani, il reo si salvasse: nell'altro caso invece, cioè quando il danno non era fatto a lui ma al prossimo, allora il reo poteva anche sperare nella clemenza di Stefano. A dire il vero, parlando delle altrui bricconate, egli non temperava mai questa sua dura giustizia con un po' di misericordia, era un Minosse inesorabile che travolgeva tutti giù nell'abisso; laddove invece, rivolgendosi a esaminare in sè stesso quelle medesime azioni, esse non gli parevano poi così - 55 - nere, anzi trovava sempre un motivo che le giustificasse a' suoi occhi. Stefano, quando non era cortigiano degli altri, era cortigiano di sè. Molto s'era cambiato da poi ch'era topo più di città, si può dire, che di campagna. Nell'isolamento di Poggio Sole, tra ciò che udiva la domenica dal piovano e le opere agricole, a cui non contrasta se non l'ira dei venti, o la grandine o il gelo o la pioggia; egli, fuori d'ogni relazione e d'ogni contrasto con gli uomini, come era stato più placido, così aveva avuto la coscienza più timorata e meno corriva. Ma ora non si poteva incontrare in questo e quello, senza dire tra sè: « Che razza di farabutti! » E quindi poi avveniva che il ricordo di tante brutte e stupide cose viste e patite lo incoraggiasse, in certe occasioni, a lasciarsi andare anche lui a seguitar la corrente. « Tutti fanno così, e se facessi diversamente sarei un gran minchione! » diceva, e questa semplice riflessione bastava perchè subito gli paresse giustissimo l'agire anche lui, come gli altri, da uomo furbo. È facile comprendere dunque la sua vivissima compiacenza che la giustizia, pure a proposito del falco, avesse avuto il suo corso, e ciò servisse d'esempio a tutti gli altri falchi di que' dintorni. E siccome un tale atto di somma giustizia egli l'aveva potuto compiere per oculatezza - 56 - e merito del figliuolo, così da quel giorno gli rivolse meno scura la faccia, e cominciò a rallentargli le briglie; ossia, occupato com'era sempre de' suoi lavori rurali e della vendita in piazza (campo d'inganni e d'arrabbiature), tornò come prima a badarci poco. Il guaio era però che le nubi s'erano solo un po' allontanate, non sciolte; e quindi bastava un nulla a ridestare in quell'uomo l'acredine e l'invettiva d'un rigido capitano che abbia visto fallire un suo gran disegno per la vigliaccheria o la bestialità d'un suo subalterno. Aveva avuto altri gravissimi alterchi anche col fratello, e se tra essi l'amicizia non s'era rotta, come avrebbe voluto la Beppa, si doveva soltanto a questo che v'eran di mezzo gl'interessi del podere a comune, e l'eredità che Stefano metteva sempre tra i casi possibili ad accadere. Ma quando entrava nella bettola e vi trovava la Beppa a spadroneggiare civettescamente col naso in aria e la faccia tosta, e Gustavo che, pur temendolo, gli gettava delle occhiate sospettose e bieche da serpente nemico, allora si sentiva mordere le viscere dalla bile, allora si faceva una gran violenza per non dargli le man nel muso a Gustavo; e tornato a casa, allora era facilissimo farlo uscire in una di quelle sfuriate che riportavano il buon ordine e il terrore in famiglia. - 57 - Ma non tutto può la vigilanza e il rigore, che se costringono da un lato, dall'altro aguzzano l'ingegno della persona costretta a tutti que' sottilissimi inganni e celati ripieghi, di cui le donne soprattutto e i ragazzi sono maestri. Così anche Amerigo trovava il modo, schermendosi continuamente con le bugie, i sotterfugi e le scappatoie, di fargliela in barba a suo padre, e di sguisciargli di mano quand'egli stava per coglierlo ed acciuffarlo. Di giorno non s'azzardava che raramente a allontanarsi dal podere per correre da Zaira, ma la notte era sua. Quando a una cert'ora in casa dormivan tutti che neanche le cannonate, egli usciva; e non potendo passare dalla porta della città, vicinissima a casa sua, perchè chiusa nelle ore notturne, andava a trovarne un'altra più lungi, aperta sempre, e che si vede, vetusta e maestosa come un monumento romano, sorgere sull'altra collina attigua alla collina del camposanto. Talora la notte era tempestosa e tutta un muggito immenso: al vento gli ulivi piegavansi come giunchi, cadeva anche qualche mattone da quelle mura vecchie che sono tra le due porte; l'acqua a piè di esse mura, giù per le coste ripide dei due colli opposti che si vengono incontro giù nella valle, ciangottava - 58 - ciangottava, e correva a fiume: intorno era un'oscurità fitta, diluviante, senza il menomo bagliore nè prossimo nè lontano: e tutto taceva, perfino i cani, in questo che pareva un dissolvimento dell'universo. Egli, chiuso nelle tenebre, scendeva attraverso i campi sino alle mura, ne saliva la ripidissima costa a gran passi, e presto entrava nella città buia e, a quell'ora, deserta: nulla poteva arrestare quest'infelice dato in preda a una bufera non meno impetuosa di quella che schianta i rami e mette in fuga le fiere. Ma all'alba, come se si fosse levato allora allora dal giaciglio domestico, egli seguiva sempre suo padre al campo: e sotto gli occhi di suo padre dava giù bene addentro col piede sopra la vanga, ficcandola tutta: se non che, rivoltando quelle grosse vangate di terra, gli tremavano i polsi e le gambe, e il peso qualche volta lo strapiombava: era uno sforzo terribile d'equilibrio, un combattere affannoso col sonno, il marasmo, e la spossatezza, un tacito implorare che sonassero presto le otto al Carmine, di cui vedeva il campanile con la cupoletta rotonda sopra le mura, perchè a quell'ora suo padre se n'andava in piazza. E appena suo padre aveva voltato quel macchione di pruni che cingeva la peschiera, egli - 59 - si lasciava andare sfinito e disteso in terra come morto, e col cappello sul viso, non sentiva neppure i tafani, tanto dormiva forte; lasciando pure che i tralci scherzevoli della vite, legata al pioppo, gli dondolassero lentamente sul capo. Dopo un par d'orette rimettevasi, più grullo e più pigro di prima, al lavoro; nulla gli riusciva ben fatto, la vanga ad ogni momento gli cadeva di mano, e restava lì pallido, grondante, con gli occhi fissi tra il sonno e la veglia e il timore di suo padre. La madre, vedendolo così deperire, raccomandava a Filusella d'aiutarlo, perché Amerigo a quelle fatiche non c'era avvezzo, nè le poteva durare: e Filusella, per allontanare la sperpetua da casa, da buon figliuolo e da buon fratello, l'aiutava con la sua mite e tranquilla pazienza: lavorava zitto zitto per due. Erano sei mesi che faceva questa vitaccia, dormendo poco e lavorando molto, anzi eccessivamente, quando una mattina di giugno, la campagna verdissima e lussureggiante languiva immobile sotto il sole bianco, e Amerigo e suo padre, muti e frettolosi, sterpavano e zappavano nella valle dove quel giorno non si moveva una spiga, non tremava una foglia sotto l'oppressura di quelle pallide nubi. Per gli ulivi friggevano le cicale, e s'udiva di quando in - 60 - quando un lento brontolare di basse rane dalla peschiera. A un tratto Stefano vide cadere Amerigo come se una folgore lo stecchisse. Stefano, deponendo la scaglia dura che in parte gli avevano sovrapposta le tradizioni domestiche e le asperità della vita, apparve allora in tutta l'umanità del suo affetto paterno. Gettò via la zappa, corse a raccogliere il figlio, e lo portò sotto le piante che coprivano la peschiera d'un'ombra rigogliosa e selvaggia: veduto che nulla giovava spruzzargli il viso spaventevole, sollevò quel corpo teso, e reggendolo sulle braccia, risalì il colle a passi veloci, chiamando Carmelinda, chiamando Filusella e Giovanna. La casa s'empì di gridi, e furono subito apprestati quegli amorosi soccorsi che il figliuolo non trova se non nella casa de' suoi genitori. Giovanna, cessando subito ogni grido, non attese che a spogliarlo in fretta e stenderlo sul letto, e per le sue cure, comuni alla medicina domestica delle madri, diminuirono quelle orribili contrazioni del viso, e riebbe il conoscimento. Ma continuava a star male: diceva di non vedere per la camera buia se non guizzi e strisce di fuoco, e visi che si trasformavano mobilissimi nelle chimere più orrende, e serpi striscianti che fuggivano senza mai sparirgli - 61 - dagli occhi; diceva che le cose tutte gli parevano intorno animate, quasi avessero spirito e voce, sentiva fischi e gnaoli nelle orecchie, e a quando a quando l'acuto squittire d'un cane. Poi, le mignatte gli succhiarono tanto sangue, che quelle illusioni degli occhi e dell'udito svanirono, ma appena si sentì un po' sollevato incominciò subito a smaniare, a bestemmiare, a ribellarsi a sua madre che voleva ancora tenerlo a letto; e lui invece voleva alzarsi per tornarsene a lavorare diceva, ma invece era per correre di nuovo in città, dove lo richiamava una seduzione per lui irresistibile. Il medico, a cui Giovanna si raccomandò per l'amor di Dio, fece intendere a Stefano che Amerigo non poteva affrontare le grosse fatiche campestri, nè la veemenza del sole estivo, senza esporsi di nuovo, e con effetti più gravi, a una ricaduta. Stefano si strinse nelle spalle, e stupì: quello era un caso nuovo nella forte, invincibile razza dei Casamonti; nè egli seppe reprimere il suo disprezzo per un figliuolo sì tralignante da lui e dall'avo, il formidabile terrore de' Fiorentini, Margaritone: un figliuolo da cui non si poteva ricavar nulla: nè un vinaio, nè un contadino! che ci pensasse sua madre dunque! lui non poteva contare ormai che in Filusella - 62 - il quale lavorava forte, non gli aveva dato mai dispiaceri, e già l'aveva fatto nonno di due gagliardi gemelli, ch'gli volle si chiamassero Adamo ed Eva. E lui, sì duro e burbero co' suoi figli, ora, già piegando verso la sessantina, bisognava vederlo come vezzeggiava i due pargoletti! Essi tendevano al vecchio giulivo le rosee manuzze, e gli sorridevano con l'inconsapevole e buona giovialità dell'infanzia. Filusella invece, con quel suo cappelluccio sempre terroso, assumente talora la forma guerriera della lucernetta napoleonica, con la giacchetta lacera sulla spalla, era singolare, accanto al padre ciancioso, per la muta serietà con cui riguardava Adamo ed Eva. Già Filusella parlava sempre pochissimo: pareva che le fosse del cimitero, e i campi dai lunghi e deserti solchi gli avessero messo in cuore il loro silenzio. Discorreva poco anche con Carmelinda: una bruttacchiola mora, con un inferno di capelli nerissimi sotto il cappellone tondo di paglia, voce soave e fortemente argentina, e certi occhi che, come le sue mosse risolute e veementi, parevano ricordare gl'impeti delle procelle di maggio. Quand'ella sfaccendava per casa, Filusella le andava dietro zitto zitto: e lei, aggrottando - 63 - le ciglia sugli occhi che le brillavano vivi, voleva levarselo di torno, intanto che non poteva negargli il più dolce de' suoi sorrisi di sposa. Ella talora si lamentava che Filusella la mattina dovesse alzarsi sempre prima dell'alba: e quale passaggio dalle sue braccia rigogliose al freddo del sotterraneo che metteva i brividi anche d'estate, quando il sole era alto! Ma ora Filusella vi scendeva sicurissimo: agricoltore e re delle fosse, egli non aveva colaggiù altra compagnia che il suo scettro, cioè lo zappone, ed il lanternino: un lanternino sì fioco che pareva fatto apposta per non disturbare troppo presto l'oscurità e il sonno dei morti; e nondimeno egli ora inoltravasi in quel buio sepolcrale con la medesima indifferenza che se avesse passeggiato sul mezzodì tra i mandorli in fiore del suo podere. Finito di lavorare al cimitero, e preso il caffè col filo (così Stefano chiamava la polenda), Filusella scendeva il colle, e per più ore non udiva intorno a sè che gli uccelli volanti per la campagna, e il grillo tra l'erba, e lo scorrere solingo d'un rigagnolo, e il cigolío assiduo dell'aratro fendente. Egli stava dietro all'aratro, e ove il solco in pendio era più scabro, affrettava con una placida voce e una lunga mazza, simile a un’asta antica, l'operosa lentezza di - 64 - Principino e di Bellarmata, due bianchi bovi dalle enormi corna ritorte. Intorno tacevano le collinette argentate d'ulivi, in mezzo ai quali la vigna assortiva i suoi pampani giocondi; e sul poggio slanciava un cipresso il fusto pieghevole e nudo, fronzuto solo alla vetta, come ne' paesaggi perugineschi. In quel podere v'erano tutti i doni del buon Dio: v'era grano, vino, olio, fagiolami, saggina, zucche, cocomeri, peperoni, insalata, stipa pel forno, salci per piegare le viti; e sparse qua e là piante di fico antichissime e noderose, sotto le quali un tempo s'erano riposati i padri domenicani col loro bianco cappellone, quando erano i proprietari di quella terra ubertosa: per cui Filusella, arando, nuotava nell'abbondanza. Quanta pace non gustava allora questo taciturno villano, coltivatore della vigna e del cimitero! E quando per quel vasto e beato silenzio e per quell'aperto fulgore dell'aria trascorreva il suono lieto del mezzogiorno che veniva dalla città e dalle parrocchie sparse lungi pei colli, allora Filusella staccava i buoi dall'aratro per andare a casa a desinare. Una zuppa di fagioli o di cavol nero, un bicchiere o due di vinello, era tutto quello che passava il convento, ma a lui bastava. - 65 - Mentre la famiglia mangiava con un gagliardo appetito, anzi con vera voracità, Adamo ed Eva distesi in terra sulle pezze poco odorose, emettevano quelle voci, quegli ah e quegli oh, che sono altrettanti esercizi e sforzi necessari a cui la natura obbliga gl'infanti per farli giungere alla parola. Fra Stefano e Filusella non si facevano ciarle oziose, ma Filusella, appena pranzato, la forza di gravità l'opprimeva tanto, che piombava subito sulla madia non meno agiata per lui d'un morbido canapè. Intanto Carmelinda accompagnava la rigovernatura e risciacquatura dei cocci con flebili cantilene amorose, spiegando una voce sì tenera che pareva impossibile in una contadina tanto robusta: Adamo ed Eva dagli esercizi vocali erano passati agli strilli, alle disperazioni, alle bizze; e Filusella lungo disteso sulla madia russava in tono di basso profondo: Stefano fumava pensieroso la pipa, e Giovanna badava al paiuolo dove bollivano le rape per il maiale, o il pastone pei polli: Amerigo solo era inquieto: girellava e guardava aspettando che suo padre voltasse gli occhi per correre subito in città da Zaira. Questa vita semplice e monotona come fiume che vada sempre scorrendo per la sua china, soltanto la domenica differiva un poco dall'ordinario. - 66 - Allora le donne si presentavano in chiesa, ben pettinate, con quella linda e onesta ravviatura che indica nelle villane l'astenersi in quel santo giorno dalla fatica: avevano in capo la teglia rotonda di paglia pieghevole, ornata da lunghi nastri o gialli, o bianchi, o rossi, o celesti; le buccole d'oro lucente, e il vezzo di perline minute come quello che biancheggiava al collo nero della madonna. Era questa un'immagine antichissima e miracolosa che molte volte, secondo l'urgenza campestre, fe' brillare il sole dopo lunga tempesta, o scendere la pioggia feconda su i campi, e innanzi ad essa velata (perchè non si scopriva che nelle estreme necessità) s'inginocchiavano devotamente quei villani dopo la messa, a cantar la Salve Regina. Dopo la messa Filusella si metteva a sedere sul muricciuolo della scaletta lì fuor dell'uscio di casa, e si riposava divertendosi a fare dei bastoncelli col coltellino, sulla cui lama era inciso un cuore inconsumabile tra le fiamme, e sotto era scritto — Non ti scordar di me — dono di Carmelinda da fidanzata; intanto Filusella barattava anche qualche parola coi contadini che passavano per la via di sotto. Aveva un altro cappello di pel di lepre, comprato da un pezzo ma sempre nuovo; la camicia senza solino, ma bianchissima, col petto su cui Carmelinda - 67 - aveva ricamato qualche fiore o foglia d'ulivo; e s'era fatto la barba: sembrava ringiovanito. In quel giorno la vecchia casa di Stefano, il sole, e i campi deserti, tutto pareva diffuso di quel dolce riposo domenicale: anche i morti del camposanto parevano dormire più in pace, quantunque nel pomeriggio sorgessero continui gridi e litigi dalla viottola del podere, dove que' contadini giocavano alle bocce all'ombra d'una lunga sfilata d'alberi frondosi. Era della compagnia anche Ferdinando, il vinaio. Egli però non sempre si degnava di giocare; ma puntellando il fianco al grosso bastone o accavallandovi sopra il polpaccio, stava a vedere, sorridendo con l'aria del cittadino sprezzante e canzonatore. Anche lui la domenica andava vestito bene, col fascettone al collo di seta nera, la falda turchina coi bottoni di metallo indorati a fuoco, e in capo la tuba torta come precisamente la portava il conte Pula. Ma il viso plebeo e goffo del vinaio benestante dava a quel lusso un carattere odioso di trivialità, di soverchieria e di menzogna: era un viso pingue e d'un colore di lardo vieto che fraternizzava col tanfo e con l'oscurità della sua taverna; anche il suo naso, che ormai aveva preso un colore superbo di fico brogiotto, pareva avere molta familiarità con le botti. - 68 - A quel tempo in Toscana la réclame non si conosceva: quindi, questo ingegnoso vinaio usava agevolare lo spaccio dei vini per mezzo del fiasco giocato con gli avventori: era dunque sempre un contendersi e giocar fiaschi in brigata, e il vinaio, volendo dare il buon esempio pel primo, non rimaneva indietro. Le botti si vuotavano, le ciotole s'empivano di crazie e di soldi, ma spesso la sera il giocatore vinaio si trovava sì dominato da Bacco che, andando a letto, ad ogni momento cangiava polo, e pareva camminar nell'acqua a ritroso. Non meno che bevitore era donnaiuolo: i suoi amici, per lusingarlo, dicevano che delle donne ne aveva una per uscio; ma ora, attempatotto anche lui, soltanto la Beppa era padrona e arbitra del suo cuore. Un celione, che dominato dalla discorde trinità di Mercurio, Venere e Bacco, andava a quarti di luna, aveva anche lui i suoi capricci, le sue ammirazioni, i suoi malumori: era facile entrargli in grazia, ma più facile ancora il perderla subito dopo averla acquistata: lodava e vituperava smodatamente, senza criterio: la sua bocca ora esalava tutti i sali di cui è capace lo spirito collettivo d'una piccola e stagnante città, e ora tutte quelle massime di prudenza, tutti quegli accorti consigli che mirano - 69 - sempre alla saggezza, o alla vigliaccheria, dell'interesse e del comodo proprio, e che sono indicati nel ricettario comune come occorrenti a fare anche d'un imbecille un pasticcio serio. Con tanta saggezza in corpo era impossibile che non volesse anche lui esercitare la sua pressione educativa su i minorenni: infatti era sempre a predicare e rimproverare. È pur questa una delle grandi sciagure a cui può andar soggetta la vita umana, che il fanciullo e l'adolescente possano trovarsi a dover dipendere da cotali, e anche da peggiore e più dissennata genía. Ripeteva egli pure peraltro ai ragazzi delle belle massime educative e disinteressate come questa: che bisognava fuggire il vizio e amar la virtù: massima che aveva appresa da bambino andando dietro col dito sull'abbecedario. Amerigo invece, dopo che l'ebbe mandato via di bottega, fuggiva lui: e anche in ciò Amerigo disubbidiva suo padre, il quale era sempre a raccomandare il rispetto e la deferenza allo zio, il più ricco, il più furbo de' Casamonti; il solo da cui potessero i suoi figliuoli aspettarsi un'eredità. Ma Amerigo, come ogni individuo corrotto, era indisciplinato, petulante e simulatore: lui solo era riuscito a mutare quel domestico dispotismo in licenza, e ingannare suo padre, il - 70 - quale di quando in quando se n'avvedeva, e mal tollerava che anche quella convalescenza durasse tanto. Sarebbe ricorso dunque di nuovo alle battiture per le quali gli uomini, come dice il Machiavelli, divengon savi, se Giovanna non gli avesse fermato il braccio adducendo che Amerigo non era in grado ancora di rimettersi alla fatica. Ma il disordine, il malcontento e l'angoscia andavano crescendo in quella famiglia che già a Poggio Sole aveva atteso sì quietamente al lavoro. Nondimeno Stefano avrebbe tollerato ancora per un altro poco l'ozio e la scioperatezza di quel tristo figliuolo, se lo zio vinaio un bel giorno non fosse venuto a precipitar la catastrofe. " Ma dimmi un poco, " egli disse al fratello una mattina che era venuto a vedere una vacca ammalata, e dopo era salito in casa a riposarsi un momento, " a quell'Amerigo tu gli hai proprio lasciato la briglia sul collo eh? lo vedo sempre ozioso, e l'ozio è il padre di tutti i vizi...." " È sempre malecio, " interruppe Giovanna, supplicando con gli occhi il vinaio perchè tacesse. " Lasciatelo dire! " sclamò Stefano già montato in bestia, " voi entrate sempre avanti ne' discorsi! " - 71 - " Malecio? o se lo vedo sempre al caffeino dell’Arpa d'Oro a bever ponci, e fumare!..." " O chi gli dà i quattrini? " urlò Stefano stupefatto. " Probabilmente li prenderà da qualche cassetto, perchè l'occasione fa l'uomo ladro. " " Oh pezzo di birbone! " urlò Stefano. " Ma perchè ora, Ferdinando, venite a riportarmi il diavolo in casa? non ce n'è abbastanza? " gridò Giovanna sdegnata. " Chetatevi voi, poco giudizio! " tonò Stefano, " lo dovreste ringraziare invece! il padre dev'essere informato di tutto, e invece voi mi davi ad intendere quel che pareva a voi! pezzo d'infame, ci ritornerai a casa!..." " Sì via, Giovanna, francamente bisogna che vi dica che Amerigo l'avete guastato voi col ricoprirgliele tutte, effetto d'ignoranza: la pianta va piegata finchè l'è tenera, se no dopo non s'è più a tempo: ma pare a voi il non informare Stefano de' suoi portamenti! sì brava! fatemi ora delle spallate! allora io vi dirò che ho fatto invigilare la sua persona, e ho saputo che è tutto dato anima e corpo...." " A chi? " domandò Stefano con grande curiosità. " To a chi! a Zaira eh! non fa altro dalla mattina alla sera! " - 72 - " Lo sentite, eh? " gridò Stefano rivolgendosi a Giovanna, " e questo è il malato! aspetta che ti medico io! anzi guarda gli voglio andare incontro, " e col legno in mano, aprì l'uscio per andar fuori. " Noe noe, " gli disse il vinaio trattenendolo spaventato, " ora non c'è bisogno che tu faccia una pubblicità. " " Lasciami andare! " " No, non fare una pubblicità! benedetto i contadini! perdio! " " O che son diventato Pulcinella io? " diceva Stefano passeggiando per la cucina, e facendosi mulinare il legno dietro le spalle: " son diventato Berlicche?..." Giovanna dissimulando, e trepidando, tentò d'avvicinarsi all'uscio per iscendere nella strada e avvertire Amerigo che era per tornare, ma Stefano la vide e la trattenne gridando: " No, ora non s'esce di casa! " — Dio mio! — ella pensava — che scena ora non seguirebbe tra padre e figliolo! e chi era quella Zaira? e chi gli dava i quattrini a Amerigo che da loro non riceveva un baiocco? — E mentre, pensando a tali cose, ella tremava come una rosa al vento sinistro, il vinaio riprese a dire con gravità: " Vedete, Giovanna, io, Amerigo, siccome è - 73 - troppo gracile per la vita del contadino, l'avrei raccomandato a qualche ricco negoziante mio amico, ma avrei fatto una trista figura, chè sembra raccomandare degl'indolenti, e anche, scusate, dei ladri. " " Fatela finita via! " ella gemè dal profondo del cuore, " o che gusto ci avete? " " Dice bene! " gridò Stefano. " Addio, Stefano! " disse il vinaio, e se n'andò contento d'avere adempiuto come zio il proprio dovere. Anche lui, come frequentemente riscontrasi negli adulti, provava una certa compiacenza ad aggravare le colpe dei giovani, a vedere in essi una generazione peggiore alla propria: ed è una piccola sodisfazione anche questa da perdonarsi a quel misto d'invidia e di vanità da cui pochissimi vanno esenti. Se n'andò dunque contento come se avesse fatto un'opera buona, e traversando l'aia, vide Carmelinda che, volgendogli il tergo, inginocchiata sul ciglio del camposanto, vi stendeva un rotolo di tela che gli aveva regalato il su' Filusella per la sua festa, e in quella tela pareva a Carmelinda di possedere un tesoro. Il vinaio si fermò un poco a guardarla, e volle vedere se almeno poteva darle una strizzatina. Cauto cauto dunque, a tacito passo, la sorprese alle spalle, e Carmelinda, sentendosi - 74 - all'improvviso fare il solletico e premere le mammelle da un'insolita mano, vi corse subito furiosa e disperata con l'ugne.... Il vinaio, ridacchiando e dondolando il capo, uscì nella strada: poi, guardandosi la mano graffiata a sangue, fece le sue riflessioni sulla stupida rusticità di certe contadine, tanto che, pensando ad esse, non pensava più ad Amerigo, quando te lo rintoppa lì vicino alla porta, che allo scocco del mezzogiorno tornava a casa a mangiare. " Bravo eh? giusto te! tu fai una bella vita, eh, da un pezzo in qua! sempre a zonzo! se io fossi in te mi vergognerei: tu non hai altro pensiero che quello delle donne, del sigaro e del caffè: o i quattrini chi te li dà? " " Che ve n'importa a voi? " " Sono il tu' zio, birbaccione, imbecille! va a lavorare, porcone! " " Sentite, benchè siete il mi' zio, io butto giù la grinta anche a voi, se continuate! avete capito? perchè io già ho sempre in gola la tabacchiera che siete andato a dire che v'ho rubata: ve l'ho rubata io eh la tabacchiera?... Dio...! io? " " Mah!... è sparita! " " Ah, e la feci sparire io eh?... Dio...! " " O al cassetto dunque chi ci trovai io? non ci trovai te? " - 75 - * Ah, ora mi ricordate anche il cassetto! ma non vi basta, Dio...! d'avere sparlato di me da per tutto?... Dio...! " " No, io vedi, non ci penso più, " rispose lo zio spaventato di quelle mani che Amerigo gli avvicinava un po' troppo al muso, " ti perdonai e ti perdono: ma t'avviso, prima che tu vada a casa, che tuo padre l'ha risaputo che vita fai. " " Lo credo! gliel'avete ridetto voi! " " Io?... no davvero! io, da quando uscisti di bottega mia, di te non me n'occupai più nè punto nè poco. " " E che cosa pensa di fare mi' padre ora? " " Fracassarti dalle legnate. " " Ah sì?... Dio...! saremo due allora a picchiare! mi crede ancora un ragazzo? Dio...! Dio...! è meglio già, Dio...! che vada via, che non mi cimenti! Dio...! " E voltate le spalle allo zio, a cui lo sdegno e il timore impedirono di soggiungere una parola, rientrò in città, e continuando a bestemmiare orrendamente, s'allontanò frettoloso. V. Voltando le spalle allo zio, quell'animo duro e inasprito non pensò che le voltava pure - 76 - a sua madre. Ella l'aspettò invano tutta la notte, e corsero vari giorni prima che ne sapesse qualcosa più di quello che ne venne a riferire lo zio indiavolato, vomitando un turbine d'improperie: quelle improperie che non aveva avuto il coraggio di dirgli in faccia. Stefano se ne stava seduto sulla panca in cucina, davanti al nero tavolone, e dalla sua cupa taciturnità si vedeva bene che ci pensava, ma non voleva parlarne: il suo sdegno e il suo dolore erano troppo fieri perchè potessero aprirsi a parole. Una tal condotta era ormai così apertamente, così sacrilegamente ribelle che eccedeva agli occhi di quel padre ogni punizione consentita dal codice: l'abbandonava quindi a sè stesso quel figliuolo ormai grande, e che aveva corrisposto così male alle sue speranze. Il dolore di Giovanna invece, più che dalle speranze deluse, più che dalla condotta riprovevole d'Amerigo, derivava in quel momento dal pensiero di ciò che poteva accadere o essere accaduto di lui: quel pensiero la teneva in una continua ansietà, in un succedersi continuo d'immagini e di presentimenti funesti, e se tra essi affacciavasi la speranza, ell'era come una luna fioca che si dilegua sotto un irrompere incessante di nuvole minacciose. La mattina si levava prima di giorno, e - 77 - quando sentiva passare giù per la via i contadini che andavano in piazza, diceva loro dalla finestra di guardare se lo vedevano, e, se mai, di raccomandargli a nome suo di tornare a casa, che i suoi genitori l'aspettavano a braccia aperte, e tutto gli avrebbero perdonato. Anche Stefano, trovandosi in piazza e per la città, era tutt'occhi, ma nessuno sapeva dove si fosse cacciato Amerigo, e Stefano ritornava a casa sì nero, che tutti temevano di provocare la collera che gli vedevano in viso. Perciò Carmelinda ebbe un bel coraggio, dopo quattro giorni che non cantava, a riprendere a un tratto la sua solita cantilena, mentre rigovernava: non fu a tempo a terminare la prima nota, che Stefano con un urlo la fece rincuccolire. " Che vita è questa! " allora gridò Giovanna, " non si può parlare, non si può piangere, nè ridere, nè cantare con voi! mio Dio! mi verrebbe voglia anche a me d'andar via, d'andare a cercare di quel figliolaccio sciagurato! " " Andate!.... meriterebbe proprio un bel conto! o che credete che vi dasse retta? giucca! poro bambino che s'è perso tra la folla e bisogna andarlo a cercare! giucca! " " Appunto perchè non è più un bambino, " rispose Giovanna, " non torna a casa perché non vuol essere bastonato. " - 78 - " Io da mi' padre ce n'ho buscate anche dopo preso moglie, non ve n'arricordate? E lui non torna a casa perchè non vuol piegarsi al lavoro, nè alla soggezione del padre: io se ritorna a casa non gli dico niente: da prima sto a vedere quello che fa, e se lavora va bene: la vita dell'uomo è così, Dio eterno! troppo s'approfittò di trovare la madia bassa! se non vuol lavorare fa bene a non comparire alla mia presenza: quando gli ho mandato un par di sacca di grano, uno staio di fagioli, e un baril di vino che gli si perviene di parte, io l'obbligo mio l'ho fatto: ma in casa mia, finchè sono vivo io, si lavora e si sta sottoposti al padre, e se no, legnate! " " Va bene, va bene, " rispondeva piangendo Giovanna, " avete sempre ragione voi! quello è un ragazzo malavvezzo, screanzato; è un ragazzo che ha sempre dato poca riflessione alle cose, ne convengo: ma la colpa non è tutta sua: no, no, non è tutta sua. " " O di chi è? " gridò Stefano, " se mai, siete tutta causa voi! dice bene Ferdinando: voi con tante ciance, con tanti fichi! io a' figliuoli gli ho voluto bene, ma poi il medico pietoso non gliel'ho fatto. " " Non c'è pericolo! " mormorò Filusella, e Carmelinda che allora al petto, coperto pudicamente - 79 - dallo zinale, ci aveva Abele, un altro fratello d'Adamo ed Eva, a quella scappata del silenzioso marito non potè tenersi dal ridere, sforzandosi di celarlo. Ella era troppo giovane e troppo contenta per capire e partecipare a quelle afflizioni, che non riguardavano nè lei nè i suoi figlioli: anzi, meglio se in casa c'era una bocca inutile di meno! Ma Giovanna, che avrebbe voluto sfogare il proprio affanno almeno con Carmelinda, non indovinando che anche lei mirava al suo interessuccio particolare, ci pativa come ognuno che abbia vero buon cuore, nè le pareva di meritare che, essendo lei tanto afflitta, la nuora dovesse essere allegra. S'affacciò alla finestra, e guardando di faccia il cimitero che pareva dormire nella luce meridiana, e abbagliava coi bianchi marmi, in mezzo alla campagna tacita e verde, pensò al figliuolo scomparso. Finalmente, dopo una settimana ne seppe tanto, che avrebbe preferito non saperne più nulla, o morire. Natale, un contadino vicinante a lei, una mattina le disse, con molta segretezza e premura, d'aver visto Amerigo nella tale strada; e quantunque lui volesse scansarlo, egli l'aveva potuto abbordare e pregarlo e ripregarlo, a - 80 - nome di sua madre e anche di Stefano, di ritornare a casa. " Ma, " continuò a dire Natale, " lui m'ha risposto che il contadino non lo vuol fare. " " O che vuol fare? " " Il signore: era tutto vestito in coglia che nemmanco lo riconoscevo alla prima: con la zazzera tutta unta e liscia, e sopra un pioppino che pareva gli volesse volar di capo: lo sprònchette, i calzoni alla polca, e in mano una mazzettina di giunco, che un altro po' che l'avessi pregato, me la sbatteva sul muso da tanto ch'era stizzito d'avermi trovo!..." Qui Natale si tacque, rimanendo a guardare Giovanna con aria interrogativa. " O dove sta? con chi sta? " Giovanna domandò un po' esitando. " In Via dell’Amore, al n° 106, una casa allegra per questo, non dubitate!..." Natale di nuovo tacque, rimanendogli sulla bocca quel sorriso, consapevole o inconscio, secondo l'intenzione di chi parla o ha parlato, e che dimostra sì schiettamente la voluttà del nostro buon prossimo, quando riferisce o ascolta le colpe o le vergogne altrui. Qual lampo di sincerità allora balena in viso alla gente! Ma Natale, sentendo di poter dare un buon consiglio a Giovanna, si fece serio subito, e disse: - 81 - " Non gli dite niente, Giovanna, a Stefano: no, non gli dite niente: è meglio! " e se n'andò sodisfatto del servigio e del consiglio, lasciando Giovanna come avrebbe lasciato nel campo una pianta dopo averla tagliata. Di lì a qualche ora, tutti i contadini di que' dintorni sapevano in che pantano fosse caduto Amerigo. Giovanna aspettò che i suoi uomini avessero desinato, e le parvero que' venti minuti un'eternità; come dopo le parve un’eternità il sonno sulla madia di Filusella cullato al solito dall'acciottolío di Carmelinda, ma non dalla cantilena flebile, perchè Stefano era ancora lì. E quando Stefano fu uscito, la voce fresca e gioviale di Carmelinda parve rallegrare come un raggio di sole tutta la casa: smessero di piangere, e ne sorrisero anche i bambini.... Filusella raggiunse suo padre al campo, e Carmelinda, messi a dormire Adamo ed Eva nella camera maritale, uscì, tenendosi in collo Abele, e andò, come soleva, dalla vicina a lavoricchiare, e insieme chiacchierare de' loro uomini, e di quello che accadeva in famiglia.... Oh.... finalmente era sola!... si mise la teglia in capo, e sulle spalle il suo scialletto di lana rosso e nero, e chiuso l'uscio di casa, Giovanna s'avviò alla città con la gagliarda sollecitudine - 82 - d'una massaia che abbia da spicciare una quantità di faccende. Dopo aver domandato più volte di Via dell'Amore, gliel'additarono laggiù sotto un arco riposto, in fondo a una lunga scesa. Ella v'entrò: era una via spopolata e non molto ariosa: andando più innanzi si trovava un ortaccio, che era stato un giardino signorile in antico, e divideva dalle altre case un palazzotto cadente, dove ci voleva del coraggio a abitare, tanto pareva rovinato dall'incuria e dal tempo: allora venivano dalle sue stanze voci chiassose d'uomini e donne. Nelle altre case invece, alte come torri e vecchissime, era un'oscurità di finestre e un silenzio cupo, in mezzo a cui quella vespertina allegria che correva intorno, pareva sinistra. Uomini e donne scesero a divertirsi nell'orto, sparso di piante che coi rami sfrondati sopravanzavano il vecchio muro, e tremolavano nell'occaso aperto tra le case nere e rilucente in quel tratto. Il tristo palazzo aveva tutte le finestre grandi murate a mezzo, e l'altra parte era nascosta, come ne' monasteri, da persiane quadre e sporgenti a cassetta: una mano bianca insinuavasi tra le stecche, e due occhi vi s'accostavano intenti a spiare giù nella via: dall'orto sorgevano - 83 - strilli e berci di donne inseguite, oppure cantilene rauche, indolenti, quasi richiami. Giovanna, appoggiata al muro dell'orto, era tutta orecchi se mai udisse tra quelle voci allegre la voce d'Amerigo. E ben altro ella ebbe a sentire quando quel baccano si tacque, perchè tutti stettero ad ascoltare una donna che parlava gridando, e parlava appunto di lui! E diceva a' suoi ascoltatori che il padre, un villanaccio, l'aveva cacciato fuori di casa, povero giovinotto; e siccome non poteva impiegarsi pel suo cattivo nome di ladro (il su' zio l'aveva trovato al cassetto, e gli aveva rubato anche una scatola d'oro da tabacco al su' zio), lei n'ebbe compassione, povero giovinotto; e per non lasciarlo sur una strada a patire, gli dette ricovero volentieri, perchè era un bel giovane: gli occhi li aveva neri come due schizzi d'inchiostro, e aveva de' bei capelli lucidi e morbidi come seta. Lei non era gelosa, ma lui era un crudele, uno sconoscente, perché gli piaceva di far come gli uccelletti che vanno svolazzando e bezzicando qua e là. I circostanti scrosciarono giù uno scoppio di risa. Giovanna, rabbrividì, si strinse nel suo scialluccio, fe' due o tre passi rasente rasente il muro, e ciò che soffrisse non ci son parole per - 84 - dirlo. Capì da quel discorso che Amerigo era fuori, ma se anche si fosse trovato in casa, per quanto l'avesse forzata l'amor materno, sentiva che in quel luogo, lei non poteva entrare.... Amerigo era perso! e non poteva salvarlo! Dopo un po' d'incertezza e d'indugio, tra il desiderio e la paura d'incontrare Amerigo, declinando già il giorno, s'allontanò risoluta piangendo come chi non ha più speranza, come chi ha visto morire una persona cara: s'allontanò guardando fissa e come incantata dinanzi a sè, urtando la gente sino a sdegnarla. " Oh villanaccia, " le disse alcuno, " o non ci vedete? o dove li avete gli occhi? " Camminava veloce, agile come se Dio la portasse: per le strade della città le pareva spirasse non aria, ma fuoco: il fuoco che aveva al viso, gettatole da colei. Parlare in quel modo del suo figliuolo e di suo marito! lei! falsar le cose in quel modo! Chi l'aveva cacciato di casa Amerigo? non se n'era andato da sè? non aveva abbandonato i suoi genitori, non aveva abbandonato il lavoro per vivere infame, disonorare suo padre e far morire sua madre? E intanto, sentite come ne parlavano di lui dietro le spalle! sentite come lo dicevano a tutti che aveva rubato! - 85 - e n'eran certi poi che la scatola proprio lui l'avesse rubata? e perchè dire che era d'oro la scatola, quando invece (Stefano l'aveva vista tante volte) era una scatoluccia d'argento tutta consunta? Perchè farlo apparire anche peggio di quel che era quello sciaurato? o che gusto ci avevano? o non era un agire, questo, da infami?... - La buona donna ignorava quanto faccia pro e quanto sia grato l'aggiungere qualche cosa a ciò che si dice: non si sarebbero avute le magnifiche e grandi epopee senza questa dote stupenda per cui, nel lievito delle lingue umane, i fatti si tramutano, s'ingrandiscono, divengono più ridicoli o più atroci o più portentosi, tanto perché la gente abbia ragione di stupire, di ridere, d'esaltarsi, d'inorridire o di fremere con più gusto.... L'oro!... quanto è più bello, più lucido dell’argento! Come la cosa acquista subito più gravità, e magnificenza così!... La buona e ingenua Giovanna, rimasta sempre sola nel ritiro del suo casolare, non scossa se non dalle collere del marito, o dalle bestemmie e dalle parole sozze del figlio, restava ora maravigliata a questa nuova per lei e fredda perfidia, quasi fosse una cosa impossibile, mentre sono naturalissimi anch'essi questi escrementi - 86 - dell'umana malignità, questi sfoghi della bassezza. Quando si trovò sola fuori di porta, ella gettò un gran sospiro guardando il cielo infinito che s'imbruniva al crepuscolo, stellandosi raramente. Ma giunta all'uscio di casa cadde svenuta. VI. La donna che aveva dato quelle belle informazioni d'Amerigo a' suoi amici convenuti a divertirsi nell'orto, era quella stessa Zaira, già regalata da lui coi danari presi dalla ciotola dello zio. L'aveva conosciuta da adolescente, quando lo zio lo mandava a sollecitare il saldo d'un vecchio conto di vini prelibati da certa signora Olimpia Misei che teneva Zaira per cameriera fidatissima. Sin d'allora la cameriera e il ragazzo del vinaio cominciarono a sorridersi, nell'anticamera della signora e per le scale, con quella reciproca e segreta dolcezza che è preludio alle calde espansioni, ed ella, più saggia e maggiore a lui di quattro o cinque anni, ne prese ben presto a dirigere la condotta. E amoreggiarono un pezzo celatamente: poi la ragione per cui Zaira un bel giorno scomparve - 87 - cheta cheta, è assai dubbia: ci vorrebbe troppo a chiarirla, nè forse riusciremmo a cavar del pozzo la verità, sicchè mettiamoci sopra una pietra. Lei diceva che le avevano fatto male i troppi medicamenti, per cui, non senza molte lacrime, dovè licenziarsi dalla signora Olimpia, e andò a viaggiare per le poste, non so in qual paese. Dopo un anno ritornò come rinnovellata: la pianta, da prima un po' languida e patituccia, aveva spiegato in libertà tutto il suo rigoglio muliebre: Psiche pallida, dalle nerissime ciglia, era divenuta Giunone, ma una Giunone alla Rubens, con due braccia gladiatorie ed un viso che, pur serbando quella delicata finezza di tratti e di fibre per cui gli accorti pensieri corrono più pronti e più opportuni alla mente, era poi sì florido da parer proprio che al marzo, ancora un po' frigido, fosse successo a un tratto il luglio infocato. Ma quando si dice il destino a cui possono andare incontro certe donne obliose che vagano alla ventura! Ella che meritava dicerto la protezione di qualche gran signore, o di qualche alto funzionario politico o militare del granducato, invece, trattenutasi troppo al luogo natio, ebbe la disgrazia di piacere a un elegante e vilissimo poliziotto che incominciò a starle dietro, - 88 - coll'intenzione di farsene un'amante gratuita. A tali pretese, Zaira divenne con lui d'una glaciale e corretta severità. Il poliziotto allora le intimò di rispettare la legge, e non facendo differenza tra la cecca e il pavone, la costrinse, per mano della forza, a prendere domicilio fisso in Via dell'Amore. Gettata colà, non so come non morisse d'affanno: scendeva cento volte al giorno la scala postribolare, ma la porta restava chiusa a' suoi pianti, non ne cedevano i cardini alle sue tenere mani, nè la portinaia, nè madama Margolfa, la proprietaria, si commovevano punto alle sue suppliche, a' suoi scongiuri. Era più facile impietosire la Sfinge che giace eterna al limite del deserto, che non quelle due mercantesse d'infamia, ben contente che la libera e vaga sirena, andando a diporto per l'onde, fosse caduta nella loro orrida rete. Se non che Zaira s'accorse, pur tra le lacrime, di primeggiare sulle sue compagne di schiavitù, ed ebbe da questa piccola sodisfazione dell'amor proprio un po' di sollievo, tanto da poter sopportare, quantunque desiderasse tuttavia di cambiarla, l'iniqua sorte che quel pubblico funzionario le aveva procurata, per troppo zelo, per troppa coscienza del suo dovere. - 89 - A poco a poco imparò quella sorte a tollerarla senza troppo dolersene, imparò a combatterla col cinismo e con l'orgoglio misero della schiava che getta i veli, e, in una sfacciataggine disperata, ostenta le cupidigie della sua nudità. Vedendo di possedere in quel suo robusto e florido corpo un impero su tutti coloro che poi in lei spregiavano e condannavano la meretrice, tanto bastò ad invanirla ed incitarla, non senza una certa ragione, a un arrogante disprezzo. Ma piegando così violentemente l'animo proprio per adattarlo alla sua nuova fortuna, ella terminò di distruggere in sè quanto le rimaneva ancora di quell'effluvio femminile che è la delicatezza e l'affetto: divenne dura, trista, crudele, calcolatrice, come è raro che non divenga la donna quando non sappia, o possa dimenticarsi fino a tal punto, che il cuore ha pure le sue esigenze nobili ed elevate, e queste vogliono essere sodisfatte non meno delle necessità materiali. Così ella potè rimanere in quell'orribile girone dell'inferno sociale, senza perdere un solo fiore della sua giovane e rigogliosa bellezza, per la quale (ed era questo l'unico suo pensiero) ella era preferita alle sue compagne, e ne superava i guadagni. È bene avvertire peraltro che tal preferenza non la doveva soltanto all'esser più - 90 - bella, ma anche perchè più raffinata in tutte le arti che operano meglio su i sensi; arti che aveva benissimo apprese alla scuola della sua padrona, la signora Olimpia Misei. Era questa signora Olimpia un impasto di Taide e di Megera, di falsa pietà gesuitica e di naturalismo pagano, una specie, che so io?... di novella del Batacchi legata come un libro da messa. Zaira fu quasi vicina a maravigliarsi che un tal modello di donna pur riverita s'adattasse sì bene al suo nuovo stato. Con un rilavorio pazientissimo di sè stessa innanzi agli specchi, ella si potè elevare a tal grado imitativo da dire: è lei! tutta la sora Olimpia! Se non che Zaira non poteva riprodurne se non le mobili ed esteriori parvenze, non quello che appariva in ognuna come espressione naturale e costante del fondo, ed era un'altera frivolezza nella cieca perversità. Ma in tutto il resto Zaira riusciva così bene ad assimilarsi la sua signora (così continuava a chiamarla per debito di scolara), che lo spirito di essa pareva tutto riempire di sè quel postribolo, contribuendo molto ad accrescerne l'introito quotidiano. Zaira ne aveva appeso il ritratto in quella sua camera, testimone assiduo al suo letto; e dal ritratto prendeva occasione di lodarla a chiunque la visitava, e ripeterne le sentenze amatorie; le quali - 91 - erano d'un acume e d'una giustezza perchè tutte dedotte da esperienze sensate. Tra una siffatta signora dunque e Zaira, parrebbe esservi stata una tale relazione d'affinità, che quasi le potremmo dire identiche, senza la differenza che ho detto, e l'altra non meno grave, che Zaira nessuno poteva scambiarla per una donna gentile; e che essa infine non poteva avere altro impero che non fosse momentaneo e venale. Ora, appunto per questa fugacità nella solitudine della degradazione, occorreva a Zaira d'avere un appoggio in taluno, il quale, cedendo al fáscino de' suoi vezzi meretricii, la difendesse contro le compagne invidiose, contro gli avventizi provocati dalla sua fredda venalità e dal suo orgoglio, contro la Margolfa rapace, a cui non pareva mai avere attinto abbastanza da sì bel capitale. Quella vecchiaccia nefanda se ne stava tutto il giorno sprofondata, con la sua pinguedine a sfascio, in una specie di portantina secentistica o vecchio casotto di legno, nel canto più buio di quella gelida sala, annerita dalla polvere solita ad ammassarsi pei muri delle squallide case rimaste lungamente deserte; e di colà, da quel canto, ella girava i suoi occhi giallastri di vecchia usuraia di ghetto, taroccando e stabaccando - 92 - sotto la cuffia untuosa. Pareva un'orrida fattucchiera o gatto mammone che facesse le fusa rannicchiato: invece russava, riaprendo gli occhi giudaici e sgomitolandosi ad ogni sonata di campanello. Il suo corpaccio disfatto restava sì confuso con l'ombra di quell'angolo, accrescendone la massa, che si celava perfettamente a chiunque entrava, il quale non vedeva, in quella semioscurità delle finestre murate a mezzo e delle persiane chiuse, se non biancheggiare le ragazze qua e là pel divano: ma guai se la Margolfa alzava la voce!... Allora compariva in sala un giovinotto dalle costole dure e i tacchi sonori, cauto ma pronto, e rinforzando, se occorreva, la minaccia dello sguardo bieco con una tremenda bestemmia, era ben raro che ad essa non seguisse in sala un timoroso silenzio. Certo, che a render capace Amerigo di vivere, senza vergognarsene, in quella famiglia, e d'assumervi una tal parte, avevano contribuito non poco, oltre quello che egli vi aveva portato naturalmente di suo, i morbi pestiferi della strada e della taverna, i tristi esempi che inviliscono il cuore, e rendono abietti. Come è d'ogni corruzione, in animo che vi sia già inclinato, ciò che per lui, dopo tanto rigido impero paterno e tanta fatica, aveva di dolce - 93 - quella nuova esistenza, ed erano i comodi, l'ozio e la libertà, valse a fargliene accettare, a rendergliene tollerabile il vituperio, il quale veniva inoltre (e questa era la lusinga maggiore) come aggraziato dal fáscino femminile: quel fáscino che ogni donna, qualunque ne sia l'indole, la condizione, il costume, sol che sia un po' avvenente, può sempre esercitare sul predisposto a subirlo. Il fáscino di Zaira consisteva più di tutto in arti messalinesche, ma ormai egli era tale che nient'altro sarebbe stato più adatto al suo completo dissolvimento. In lui a poco a poco s'era formata una nuova maniera di sentire, affatto diversa da quella de' suoi parenti contadini. La vita sobria e laboriosa, di cui suo padre gli aveva dato l'esempio, la semplice e candida dignità di sua madre, che invano continuava a chiamarlo per bocca d'altri; la gala modesta di cui le villane s'adornano ai dì festivi, quella schiettezza paesana degli usi domestici, quel che di costumato e di sincero che si respira in certe casucce campestri, quell'armonia sana che è tra il lavoro dell'agricoltore e le evoluzioni immancabili, eterne della natura, erano in verità tutte cose che ora l'avrebbero mosso, se egli ci avesse potuto pensare, piuttosto a sorriderne stoltamente, che a rispettarle, amarle, ammirarle. - 94 - Era naturale dunque che Zaira col suo misero lusso, col quale si sforzava d'imitare la sua signora, i suoi scarpini appuntati di raso rosso dai tacchi d'oro, il profumo e la mollezza delle sue carni vellutate e monde, i suoi occhi belli e neri, ma dove pareva dipinta la falsità, ne' tratti di pennello ch'ella vi dava; occhi pesti, sagacemente lascivi, ora immersi in un languido oblio, e ora avvelenati dal furore d'una baccante, era naturale, dico, che fosse d'una gran magia e s'insinuasse come un tossico nelle vene di questo povero villano rincivilito. Ciò dipendeva da questo che egli non solo era corrotto, ma anche giovanilmente ingenuo. Ingenuo, quanto alla sua inesperienza, alla sua incapacità di stimar le cose per quel che valgono, senza lasciarsene talmente ingannare il senso e la fantasia da smarrirne l'intrinseco valore effettivo, e corrotto poi tanto che, più la cosa era ammanierata, più era luccicante, o meno schiettamente semplice, o più sensualmente ricercata; e più gli piaceva, e più l'ammirava. Aveva preso anche lui, alla sua maniera, il gusto del fastoso, del prezioso, del raffinato, del rococò: quel gusto che nell'individuo e nei popoli indica la prevalenza della volgarità, della menzogna e del cretinismo, l'annientamento d'ogni energia morale. - 95 - Potendo, io credo che si sarebbe lasciato colare giù per le spalle gli unguenti preziosi di Trimalcione; si sarebbe messo il tricorno, la parrucca incipriata, i nei e lo spadino per parer più bello, più seducente a Zaira; come pure avrebbe ambito moltissimo di farsi credere un gran signore, e della vita signorile godere tutte le voluttà, permettersene le basse soverchierie, vestire abiti di gran lusso, e imporre col lampo e il tintinnio de' gioielli. Talora affettava un certo passettino da Ganimede o da gingillo elegante, che proprio gli s'addiceva a lui che non aveva perso ancora del tutto, quantunque snervato, l'impronta campagnola e maschia dei Casamonti! Ma era Zaira che lo voleva così raffazzonato e rimbellettato, ed egli pure cercava di camuffarsi in tal modo per non parere ciò che più di tutto gli rincresceva, cioè un villano! In Zaira poi egli era ben contento di ritrovare tutta la somma delle impressioni voluttuose e lubriche, che gli erano rimaste nei memori sensi, crescendo in un ambiente impuro: ella gliele rinnovava in un appagamento compiuto, avvolgendolo nondimeno sempre più nelle spire delle sue profumate seduzioni. Scioglievasi esausto e sazio dalle sue braccia, e dipoi queste tornavano a serrarlo più forte, ed egli più che mai - 96 - s'immergeva in quel suo turpe idiotismo, o cecità sensuale. Che cosa diviene un istinto, già di per sè potentissimo, quando non sia lasciato posare mai, e riceva da ogni parte terribili eccitamenti e lusinghe, cosicchè sembri che intorno ad esso tutta la vita concorra a raccogliersi? Questo istinto naturale che trae anche le gelide serpi dai pertugi della muraglia, e le costringe ad avviticchiarsi vezzose in mezzo alla via, quando il sole le riscalda nel pieno del mezzodì; questo istinto era degenerato in Amerigo, così come egli era venuto su, in una sfrenata depravazione. Tale depravazione e un vile interesse erano soli a tenere uniti questi due amanti che non si amavano, ed erano sempre in guerra tra loro. Amerigo si disperava a vederla diguazzare in quella gora comune, e lei gli domandava se egli avesse avuto da mantenerla: poi baciandolo e ribaciandolo, e sommergendolo quasi sotto il profluvio delle sue molli carezze, l'assicurava che, insensibile e fredda con gli altri, a lui solo apparteneva tutto il suo cuore, a lui solo apriva amorosa le braccia: oppure a quelle smanie rispondeva con una gelida noncuranza, certissima che egli, a ogni modo, l'avrebbe sempre e in tutto seguita. " Che cosa può fare? dove può andare questo villano? " ella diceva sogghignando - 97 - freddamente, "bisogna ben che mi seguiti, e che dipenda sempre da me! " Ella si compiaceva di tenerlo per i capelli questo giovinastro, e trascinarselo dietro schiavo per la sua medesima via. Amerigo, quando il sentimento della propria ignominia opprimevalo più cocente, s'allontanava fremendo da quella casa, s'accapigliava, pur di sfogarsi, coi compagnacci, vagava con loro di notte ubriaco per vie oscure e per altri lupanari, malediceva Zaira, malediceva il suo destino, piangeva, giurava di non più rivederla; e dopo un giorno o due ella se lo vedeva di nuovo ricomparire innanzi più fiacco, più ebete, più degradato di prima; e quindi più suo. Svogliato o inabile contadino, respinto, per il cattivo nome che avevano sparso di lui, da ogni altro lavoro che potesse procurargli un pane duro ma onesto, la generosa Zaira lo sfamava abbondantemente col suo! Oh, ci voleva altro che le legnate del buon Stefano per rendere la sanità d'una volta a questa susina che la cancrena sociale aveva convertito in un bozzacchione! VII. Stefano aveva detto che per lui Amerigo era morto, nè più lo riconosceva per suo - 98 - figliuolo: e batteva i pugni sopra la tavola con un fiero e terribile cruccio, il quale però, come il fulmine, tonava e passava. Ma siccome questi fulmini, che gli si vedevano guizzare nelle pupille nere quand'era preso dall'ira, erano sempre pronti ad erompere da quella sua natura selvatica e rude, la quale non conosceva altro modo efficace se non la violenza, e che perciò, piuttosto che raddrizzare, torceva e spezzava; così egli, quasi temendo di sè, evitava d'imbattersi in Amerigo, non ne voleva parlare, non voleva neppure che fosse nominato alla sua presenza. " D'altronde, " egli diceva, " non avete visto i rondoni come fanno co' loro figliuoli? appena hanno messo l'ali li buttano giù dal nido, e che volin via dove vogliono! ora lui è grande e grosso: un pezzo di pane a casa non gli mancava, bastava se lo sudasse, e invece ha trovato a star meglio; ma non s'affacci al mi' uscio perchè non è più il mi' figliuolo! e guai a lui, se fa tanto di capitarmi tra' piedi! " " Ognuno è figlio delle proprie azioni, " gli disse con nobile gravità il vinaio: e non avendola udita mai, la sentenza a Stefano parve bellissima, e la ripeteva tutte le volte che, pur non volendo, si fosse tornati su quel brutto argomento. - 99 - Del resto anche Filusella veniva a dire lo stesso quando esclamava che l'onore e il disonore è di chi se lo fa: e soggiungeva che tra lui e suo fratello ormai c'era il mare, senza che quel mare vi fosse nè ponte, nè bastimento per passarlo. Così padre e figliuolo, pensandola in questo modo, e incalzati sempre dalle faccende campestri, che non si possono rimandare a altro tempo, seguitavano nelle loro forti fatiche, e pensavano ben poco a Amerigo. Stefano poi, avvenuta una cosa, sapeva staccarsene intieramente, senza strascicarsela dietro tormentatrice. Ben altro affanno invece consumava Giovanna: un affanno che vegliava e dormiva con lei, un affanno che la destava silenzioso di notte perchè ella lo consultasse, e le rispondeva vibrandole coltellate nel cuore: nè poteva aprirlo ad alcuno; non poteva aprirlo ai parenti per la loro freddezza, nè ai vicini perchè ritenuta da un angoscioso pudore. Se Amerigo avesse potuto comprendere questo affanno materno, forse non avrebbe tardato a risorgere onesto come per miracolo. Ma egli era troppo immerso in quella bufera che Dante paragonò allo scompiglio cieco degli stornelli volanti, era troppo grossolano, troppo egoisticamente occupato di sè, e duro di cervice e di cuore - 100 - per accorgersi di ciò che non grida, ma sanguina. Tuttavia, non si crederebbe, ma quantunque egli non potesse scender più basso, e dovesse perciò presumere di trovarsi, in quel campo, affatto fuori d'ogni possibile concorrenza, eppure c'era chi lo invidiava anche lui, c'era chi gli stava dietro agognando di scavalcarlo, e rubargli il posto. Alcuni mesi prima era stato servo di quella casa in Via dell'Amore un certo Tognaccio, un figuro che dopo aver servito, scontentando anche loro, a ladri e usurai, s'era venuto a offrire alla Margolfa, la quale naturalmente gli domandò che cosa sapesse fare. E Tognaccio le dette subito un saggio della sua abilità improvvisando sulla chitarra oscenità rimate, e rifacendo così bene il verso del merlo che merlo vero pareva. Quel gioco che assai le piacque, e l'aspetto singolarmente sinistro di quel furfante, fecero pensare alla Margolfa che egli, come spauracchio e come piacevole passatempo, era proprio quello che ci voleva per casa sua, e lo prese al servizio. Codardissimo, sapeva in certi momenti, con una ghigna terribile e risoluta e cacciando fuori gli occhiacci, nascondere così eroicamente la tremarella, da mettere in fuga ogni gonzo che non vedesse - 101 - in quell'aria smargiassa la maschera del buffone. Ma a procurargli la simpatia di quelle donne, gli valse bene quel simulato ardimento, e le facezie con cui egli le distraeva, mentre aspettavano come vittime annoiate in quella lugubre sala, dove non entrava mai l'aria aperta nè il sole. E per un po' l'andò bene, finchè egli cominciò a tentare dei colpi: cominciò cioè a farla da principale, estorcer quattrini, e battere anche le sue non più tutelate padrone, ma trepide schiave: onde la Margolfa ricorse segretamente agli sbirri, e Tognaccio passò in prigione a merleggiare all'oscuro. Ci stette qualche mese, e poi lo rimandarono col precetto di non più accostarsi a quella casa. Restò per le strade a fare il cinico plebeo, canzonando questo, imbrogliando quell'altro, nè valevan le bastonate a fargli passar la mattana, o smorzargli la vena dei lazzi furfantini, delle malizie, degli scherzi e delle bestemmie. Una compagnia di saltimbanchi l'avrebbe preso volentieri per pagliaccio, ma lui non ne volle sapere perchè diceva di voler vivere indipendente. Gli era rimasto sì bel ricordo della vita indipendente e signorile di quella casa, che, quantunque non l'avesse mai visto, cominciò a voler male al suo successore Amerigo: poi - 102 - quando seppe, compiacendosene moltissimo, che Amerigo era il tal dei tali, mandato via di bottega perchè ladro, gli fu detto, famoso, allora volle conoscerlo e farselo amico. Amerigo, che era fuggito da ogni buon operaio come la peste, nè poteva praticare se non la marmaglia più vile, con la solita sventatezza di quell'età, s'affiatò subito con Tognaccio. Amerigo e Tognaccio si trovarono bene insieme come si trovano bene due individui che s'accordino a dir male d'un terzo: essi facevano a chi ne diceva di più a carico della Margolfa e di Zaira; e provando in ciò molta sodisfazione ambedue, quest'odio comune strinse tra essi la più amichevole simpatia. Ma vedendoli insieme non parevano davvero due eguali di condizione. Quel pioppino torto rabberciato molto studiosamente su i capelli untuosi e ben pettinati, quel fazzoletto rosso di seta, che tenuto congiunto alla gola da un anellino d'oro, donatogli da Zaira, lasciandogli il collo nudo, gli ricadeva a svolazzo sul petto; conferivano ad Amerigo un'aria sfacciatamente vana e spavalda; mentre, con una ridicola pretesa all'attillatura e allo sfarzo, vedevi in tutta la sua persona l'immagine odiosa e sospetta della miseria inverniciata. La vedevi in quell'abituccio che pareva essersi sforzato d'avvicinarsi - 103 - al taglio di moda, in quegli esagerati calzoni a campana o alla polca, come li chiamavano allora, nella camicia sudicia, e nelle scarpe invece molto lustre, strettissime, ma col tomaio rattoppato. Insomma questo modo di vestire era così diverso da quello con cui veste un signore o può vestire un popolano, che dava subito nell'occhio, e faceva pensare che colui dovesse essere qualcosa di molto equivoco e disgustoso. Tognaccio invece era in carattere. Con la chitarra a traverso, magrissimo e svincolato, camminando lentamente, e quasi maestosamente, si dondolava con le mani nelle tasche de' calzonacci, e la tuba gettata indietro, per meglio imporre, diceva lui, al pubblico porco: tuba non meno untuosa d'un lungo soprabito curialesco col petto aperto, sicchè gli si vedeva cincischiata la lurida camicia sul ventre smunto. E dondolandosi, que' suoi occhi lucidi, nerissimi, spiritati (occhi da buffone e da manigoldo) guizzavano lampi a sghimbescio sulle persone che gli passavano accanto. Era molto facile chiacchierone, e non proferiva parola senza accompagnarvi un nuovo titolo a Dio, ma con flemma, con lo stesso tono placido ed amorevole con cui chiedeva all'amico una cicchettina. Le cicche Amerigo - 104 - gliele serbava tutte, ma poi nient'altro, per cui, dopo non molti giorni, Tognaccio venne al grano: si fermò di botto con le mani in tasca e le spalle strette, e, buttandosi anche più indietro la tuba, fece capire all'amico che insomma qualche volta avrebbe potuto anche invitarlo a casa: ossia gli fece capire che quelle donne per mezzo suo gli avrebbero dovuto riaprire l'uscio: lui era pentito, moriva di fame, e, modestissimo, si contentava di poco. " Ma che cosa ti viene in testa ora, Dio!..." gridò Amerigo, " è impossibile! " " E io scommetto, Dio!... che, se voglio, ci ritorno! " " Provati, Dio!... e ci troverai il padrone! " " E chi è il padrone? " " Io! " " Ah lei è il padrone, " gli rispose Tognaccio con due occhi magnetici, " non la credevo così aristocratico: lei è il padrone e io lo sguattero: lei è nel campanile, e io nel fossetto: chè chè! è impossibile essere amici! " " E che m'importa? " gli rispose Amerigo con un sogghigno. L'altro l'occhieggiò ancora un poco in sinistro, e, dondolandosi, se n'andò: ma non s'era allontanato una trentina di passi, che - 105 - incominciò in un chiassuolo a fare il verso del merlo, accompagnandolo con queste parole: Ve lo do facile, bono alle prove: Lesto alla ciotola,... quarantanove! Lesto alla ciotola, bono alle prove: Quarantanove! quarantanove! E questi due ultimi versi li cantava a fretta a fretta fuggendo a rotta di collo, perchè già Amerigo gli s'era fogato dietro: e corri e corri gli fu addosso a una cantonata, e aveva cominciato a zombarlo, quando Tognaccio, facendosi scudo del primo che s'abbatteva a passare, glielo mise tra i piedi, e potè di nuovo fuggire. E corri e corri, Amerigo, già trattenuto da colui che gridava infuriato e da altra gente, a una svolta più non vide l'amico Togno: e per quanto, ansioso di riattaccarla, lo cercasse su e giù per la via e per le altre vicine, affacciandosi a tutti gli usci, non potè più trovarlo. Gliela serbò per la prima volta che lo avesse incontrato, perchè se l'influsso malefico di Zaira e la sua abiezione morale gli facevano tollerare la permanenza in quel luogo, non per questo però tollerava il titolo di quarantanove, nè l'altro di ladro, che gli aveva appioppato Tognaccio. Sono i titoli che non si vogliono, e che anche si respingono cavallerescamente, e il pubblico v'ammira e vi stima: ma poi le - 106 - cose, posato il guanto, qualche volta in privato, quando nessuno vede nè ode, si fanno. VIII. Di lì a qualche giorno era la sera di Berlingaccio: era una di quelle sere dei primi di marzo, stellate, ventose, quando ti sembra udir turbinare nell'aria ancor rigida la primavera che s'avvicina coi fiori in grembo e fiori luminosi sembran le stelle: fiori che piovano di sfera in isfera sotto i passi di Dio vagante per il mistero infinito. Quella sera era molto buia la vecchia città: alle cantonate (dalle quali l'occhio s'insacca giù per vicoli, scalee, traghetti, e cavalcavie) morivano fiochi e tremebondi i lampioni a olio, i quali, lontani l'uno dall'altro, e declinanti giù per la scesa, lasciavano in mezzo degl'intervalli oscurissimi. Era tardi, perché tacevano perfino le spezierie: anche la magnifica piazza, con la sua torre snella che toccava le stelle, era così silenziosa che quel silenzio, unito all'oscurità, pareva crescere il mistero de' suoi vecchi palazzi, e delle anguste viuzze che scendono ad essa sì rotondamente ampia e maestosa. Solo di quando in quando, ora dall'una e ora dall'altra delle - 107 - tacite case, si vedevano uscire persone incappottate, o maschere allegre: erano studenti universitari, erano cameriere o crestaine che andavano al veglione o anche qualche donnetta che s'approfittava del marito lontano per divertirsi libera con l’amante; e si davano a schiamazzare e correre tra i muggiti del vento per le strade deserte e paurose. Qualche caffè, ancora aperto, gettava dalle vetrate un po' d'immobile bagliore, e nulla di più lugubre in tanta solitudine e nerezza di case altissime e secolari. Era taluno di que' caffeucci di provincia che attestavano in quel tempo, che sembra ormai remotissimo, la bella temperanza e semplicità della Toscana pura. Non dorature, non specchi, non tanti lumi, non tanta dovizia di bevande avvelenatrici: ma porcini, orzate, limonate vere, caffè, cedronè col latte, e melappio, molto raccomandato pei raffreddori. E neanche v'eran giornali, o solo qualche giornale melodrammatico, o quello granducale, che in quattro paginette t'informava delle cose più importanti che fossero accadute nel mondo durante una settimana. Sapevi per esempio ciò che era accaduto in tutti i maggiori Imperi d'Oriente, in California, al Capo, in Siberia, e dell'Austria poi sapevi moltissimo: delle sue intervenzioni - 108 - armate, de' suoi feld-marescialli vittoriosi, delle visite che faceva l'Imperatore clementissimo alle sue fedeli città lombarde; dell'Italia poco o nulla, come non esistesse: o solo, per un semplice avviso ai pochi faziosi, si registrava di tanto in tanto qualche impiccagione di liberali. Ma le impiccagioni accadevano sempre fuori del civilissimo granducato, dove si governava con modi paterni, lasciando però braccio libero ai frati che nerbavano, predicavano, stabaccavano, confessavano; gli sbirri ammanettavano, i soldati corteggiavano marzialmente, in divisa austriaca, donne, processioni e pontificali: e la piccineria, il sotterfugio, l'ipocrisia, il cianciume sciocco, la floscia arrogante docilità, il soffocamento d'ogni spontanea vivezza, e i cinici e scurrili plebeismi erano le aure vitali che più spesso si respiravano allora in questo giardino d'Italia, in questa sacra terra di Dante; nè altrove credo che fosse cielo più puro e più alto: maledetti tempi che ci lasciaste il vostro influsso deleterio nell'ossa!... Oh i bei tempi! i bei tempi!... Allora nessun sigaro in Europa poteva competere col sigaro toscano da due quattrini, allora cinque paoli un baril di vino, e che vino! allora minime le imposte, gl'impiegati tutti onesti; e se a stenterello si permetteva d'esilarare il - 109 - teatro con la equivoca ottava, se anche si permetteva un po' di prostituzione schizzinosa, delicata, dissimulata ma filtrante, segreta, tutto questo però era sempre coperto, bisogna dirlo, da una gran decenza, da un gran decoro civile. Infatti, quando s'aprì quella casa in Via dell'Amore, alcuni lo dissero un progresso verso la Francia, ma ai più parve uno scandalo enorme, perchè troppo impudentemente scoperto. Si reclamò anche che quella casa fosse lasciata aperta tutta la notte ai rumori: giustissimi reclami, pei quali il provvido governo ordinò severissimamente che all'undici fosse chiusa: ma gli sbirri, con la coscienza addolcita dai toccamani della Margolfa, la quale viveva con essi in ottimi rapporti, erano molto stracchi e molto sonnolenti a quell'ora. Per questa ragione anche quella sera gli sbirri lasciavan pure che, dopo l'undici, il lume continuasse ancora a farsi vedere in quella oscura viuzza, dietro alle ben note persiane. Le donne vi stavano ascoltando se si sentiva venire a quella volta il passo di qualche persona educata, quando udirono un branco di maschere urlanti che s'avanzavano, con la romba del vento cupo, giù per le vie. La Margolfa, tentando invano d'alzarsi dalla sua portantina, subito gridò che fosse chiuso il portone, e fu - 110 - chiuso, che già le maschere correndo c'erano giunte. Quell'usciata in faccia provocò grand'urli, e fischi e colpi e calci alla porta, che rimbombavano dentro nell'androne del palazzaccio. La Margolfa, credendosi sicura, continuava a tenere tra le labbra asciutte e grinzose un mozzicone di sigaro, col quale talora sbraciava lo scaldino. Le donne di dietro le persiane vociferavano, e dicevano sghignazzando a coloro: " Salite! salite! " Ed essi, sentendosi canzonare, le trattavan di tutti i titoli: e tra gli urli, i fischi, e le imprecazioni, imitavano pure ogni sorta di bestie: chi faceva il cane, chi il gatto, chi l'asino e chi il galletto. " Volete la serenata? " gridò uno che vestiva un costume d'arlecchino rubato poche ore prima a un vestiarista teatrale, che lo teneva per insegna sulla porta di casa: e strimpellando una chitarraccia che pareva umida, cantò le purghe di monna Agnese. Nessuno lo conosceva, ma tutti lo riconobbero per uno dei loro a quella laida canzone; e finchè durò, accordando con la voce chi il trombone e chi il contrabbasso, le maschere ballarono, girarono a tondo nella buia e ventosa viuzza: le risa, le chiamate delle donne accompagnavano quel - 111 - bordello; e poi da capo giù colpi al portone, calci, urli, bestemmie. " State boni, verranno gli sbirri: via a letto, biondini, è tardi! " " Aprite, o buttiamo giù la porta! siamo gente d'educazione! " " Son beceroni, non gli date retta! " bisbigliava la Margolfa sicurissima alle donne lì aggruppate alla persiana, e continuava tranquillamente a fumare, con gli occhi imbambolati. " Non si può aprire: povere monachine, la notte di Berlingaccio stiamo sole dietro la grata a far penitenza. " " E noi si seguita! " " Ci rispetterete se vi s'apre? " " Altro! sicuro! e come! e come!... e come! " " Non aprite! non aprite! son beceri! son beceri! son canaglia! " diceva la Margolfa incominciandosi ad inquietare: ma nonostante una mano tirò la corda, e il portone si spalancò. Le maschere, stringendosi tutte in un gruppo, si cacciarono a mani sporte nell'uscio, ululando nel largo androne, e le donne con le lucerne in mano vennero incontro per la scala mezzo ruinata, ma tuttavia signorilmente ampia e a bassi gradini. Esse sgonnellando erano in preda a convulsioni di risa, che poi si cambiarono in acutissimi strilli al primo irrompere - 112 - di quell'orda da cui furono strette, e da ogni parte incalzate con grida di trionfo e di ribellione: in quel parapiglia, in quel brancichio, in quel fuggi fuggi per la scala ridendo pazzamente, s'udì gridare: " Disgrazia! disgrazia! " perchè una lucerna cadde sugli scalini, rovesciò l'olio e morì. Tutti, maschere e donne, corsero in sala baccaneggiando come furie in tripudio. In mezzo di sala era un rimescolio multicolore di cenci in maschera, di visi accesi, di visi smorti, di seni bianchi, di spalle capellute, di bocche aperte, di braccia in aria; braccia e mani che s'avviticchiavano alla vita, al collo, alle gambe, o che volevano violentemente aprirsi il varco in quell'orribile stipamento, o che respingevano, od abbrancavano, od erano per abbrancare, o avevano già abbrancata una donna, e gridavan tutti, e l'una voce copriva l'altra in una confusione discorde e assordante di berci, risa, di voci maschie e femminili. La Margolfa, come soleva nei momenti di collera estrema, s'era tolta di capo la cuffia gettandola con ira sul banco, e non potendosi muovere nè farsi sentire in quel gran tumulto, guardava con occhi atroci e meravigliati tanto disordine, tappandosi con le due mani le orecchie. - 113 - Il maestro zazzeruto (un vecchietto romantico dai capelli ritinti, che parevano stoppa gialla, e era salito anche lui con le maschere) cominciò a sonare all'arrabbiata una spinetta dai tasti di bossolo sconquassati. Oh potenza del ritmo che t'accompagni all'allegria e alla voluttà della danza, come subito allora fosti sentita, come subito scorresti per i muscoli e per i nervi di tutti!... Il maestro zazzeruto sonava di lena carnevalesca, e a quel suono quell'osceno viluppo di corpi in lotta si smezzò, s'allargò, si divise in coppie leggiadre dal piè levato, e si dettero tutti a ballare e saltare come se la tempesta li avesse in un vortice turbinati. Zaira rubata in giro, bianca in un corsetto di seta scarlatto, pareva un giglio che uscisse con la chioma nera da un papavero fiammante di luglio: e sparse nel mezzo e in ogni angolo della sala, le coppie molleggiavano come paranzelle in un mare ondoso, e le donne rotavano, turbinavano, s'abbandonavano tutte nelle braccia dei ballerini, o balzellanti e di fuga erano appettate indietro sino al divano dove cadevano, si rovesciavano brutalmente. Il vecchietto, con nervosi moti di testa, pestava attentissimo in su e in giù la tastiera, e quei legni sconnessi facevano un gran rumore - 114 - come di mascelle slegate che masticassero a vuoto, succedendo quindi le note secche, affannose, acutamente tremule, e fioche. Arlecchino ora stava cupo a guardare, ora girellava come cercando qualcuno; ovvero si slanciava, si rotolava tra le gambe delle donne, faceva il granchio, spiccava salti. All'incalzare, al fremere, al battere ritmico della danza, alla musica del vecchietto, tutto l'antico salone, come scosso dal terremoto, ondeggiava, tremava; e le tre grandi finestre murate a mezzo, a piccoli vetri, saldati insieme col piombo, rombavano, rombavano come se giù per la via fossero passati continuamente dei carri di ferro. La Margolfa, rimessasi in capo la cuffia torta, fumava d'acerbissimo umore, torceva l'orrida bocca, aggrottava le foltissime ciglia grige, parlava a fretta a fretta tra sè e così, non potendo in altro modo, esprimeva la sua indignazione pei guasti e le pazzie di coloro. Ne facevan di tutte: su i quattro usci della sala eran rimasti, mezzo cancellati su vecchie tele, alcuni ritratti: quella notte finirono anch'essi per la vendetta d'arlecchino. Con tutto quel che gli veniva tra mano egli incominciò a bersagliarli, tanto che dell'effigie d'una dama rubiconda non rimase da ultimo che un occhio - 115 - lieto giù penzolante da uno sbrendolo della tela. Finalmente il maestro zazzeruto s'ebbe stancato i diti: affermò col capo due volte, diede, con non minore energia, le due battute finali sulla flagellata tastiera, e cessò. Oh potenza del ritmo!... come tutto si scompone e va confuso in mina, e precipita nell'inerzia, quando t'arresti! il che mi fa credere che tu sia il perno a cui si reggono, sospese e trasmutabili in una musica eterna, tutte le cose create: e noi stessi non moriamo se non quando si ferma il moto ritmico delle vene?... Ecco spiegata la vita: la vita è il ritmo. Così dev'esser davvero, perchè quella canaglia, al cessare della musica del maestro, come se si fosse strappato il filo che l'aveva sino allora tenuta su, s'arrestò, vacillò, s'urtò, precipitò: e questi, senza volerlo, schizzava qui, e quella, pur repugnante, schizzava là, e volendo pure andar dritti, andavano torti in malora, andavano addietro, andavan tentoni, andavano in terra. È vero che in questo ci aveva molto che fare anche la forza suprema del vino. Alla fine, donne e uomini, poterono arrivare al divano e vi s'abbiosciarono, vedendosi tuttavia turbinare intorno la vecchia sala dalle muraglie squallide e grige, e illuminata qua e là - 116 - da poche lucerne a olio, che risplendevano opache e come smarrite e sospese nel polverone. Tutti tossivano, tutti ansavano, tutti gemevano, sputacchiavano, ridevano, e si facevano ansiosamente vento coi fazzoletti. Le donne spiegazzando le gonnelle, o guardandosi il busto, urlavano disperate e sorprese per tanti sdruci; s'asciugavano la faccia, s'asciugavano il seno coi fazzoletti già intrisi, soffiavano pel gran caldo, si mettevano le mani nelle orrende indiavolate capigliature. Parevano esser corse lungamente, affannosamente per una selva cupa inseguite dai cani. Zaira s'era slacciato il rosso corsetto, distendendosi e stirandosi mollemente elastica su i guanciali: pareva una tigre dopo il pasto, e anche un florido melograno che una forte libecciata avesse tutto sconvolto e sbattuto. In quel mentre un signore educato venne a rapirla. Gli uomini buttati anch'essi qua e là accanto alle donne (tenendone alcuna abbracciata sulle ginocchia) s'erano tolti le maschere fradice di sudore, fumavano, e pareva gustassero assai quella libertà, quel riposo. Quanto avessero faticato lo dicevano i visi sbigottiti, trasognati, errabondi o melensi: più nulla di vivo e di chiaro negli occhi, ma una feroce e stupida ardenza, e la bocca semiaperta a un sorriso - 117 - ebete, o spalancata a un enorme sbadiglio. Nè il riposo lo trovavano tutti: alcuni pareva che lo cercassero invano, esercitando continuamente e convulsamente il senso del tatto su di sè, sulle donne, sulla stoffa del divano, e muovendosi sempre: altri invece si distinguevano per la fissità dello sguardo e della persona: una fissità che ricordava i cavalli di piazza quando a notte tarda aspettano, come pietrificati, l'ultima corsa. A poco a poco era succeduto a tanto baccano il silenzio: quel tristo e solenne silenzio che segue al falso tripudio; o se qualche voce sorgeva di quando in quando, era una bestemmia, un'oscenità, o un vanto di ciò a cui era potuta arrivare, in quei gran giorni, l'erotica potenza del parlatore. Quelle donne, udendo cose che parevano impossibili ancora a loro, ne sorridevano compiacenti tra la nausea e i sospiri: e dopo il riso, torcendo orribilmente il collo e la bocca, e ingrossando il petto, c'era uno stiramento lungo lungo di braccia. La Margolfa, vedendo che ancora non se n'andavano, era d'una cupezza sinistra e sgomenta, come upupa tolta da una cava buia ed esposta in pieno giorno ai dispetti e alle risa d'un branco di ragazzacci. Tradita dalle donne, colà sola contro tutti, taceva per non - 118 - far peggio, ma già covava in seno le sue vendette. " Che facciamo? " disse arlecchino mettendosi in mezzo della sala a sedere in terra, a gambe incrociate. E per vedere di rattizzare un po' il fuoco, attraversò sulle gambe in croce la chitarra, e pizzicandola, cantò sopra un'aria sentimentale una canzonaccia. Egli era solo ad avere ancora la maschera al viso, e le donne lo guardavano un po' distratte, e un po' anche come se egli, che vibrava lucide occhiate di sotto la morettina, cominciasse a metterle in un certo vago sospetto. Gli uomini a quella canzone si buttavano via dalle risa, ammirandone lo spirito come sogliono i buongustai. Quando cessò, sorse in piedi il maestro zazzeruto, e, battendo l'una palma nell'altra, esclamò: " Olà! facciamo l'ultima danza: la danza delle villi e delle silfidi in sull'aurora, che già è vicina! già la lodoletta col suo libero canto ne fece pervenire a' miei orecchi l'annunzio! " e tornò romanticamente a preludiare su i tasti fiochi. Le coppie, a quell'appello musicale, erano già in procinto di riprendere il ballo, quando Amerigo, rimasto sino allora a vagare fuori di casa, comparve in sala pallido e truce da far paura. Il non vedervi Zaira lo rincupì maggiormente, - 119 - e guardato ancora intorno con un occhio duro di cane, vide l'arlecchino buffonescamente ammiccarlo. " E che vuoi da me? " gli gridò venendogli incontro. L'altro ruotò due volte rapida la chitarra, e parve e non parve che gliela volesse sbattere sulla testa. " Giù la maschera, Dio...! voglio vedere se è una faccia codesta da far paura! " Allora, tra le coppie che erano rimaste ferme a guardare, fu detto che in tutta la sera quell'arlecchino non s'era mai levato la maschera. " È una spia! " gridò uno, e tutti gli altri: " È una spia! è una spia! " " Se fossi una spia sarei il più birbante che stesse sulla terra! tutto, fuori che spia! " " È un prete! " " Io prete?... me ne vergognerei! " " Giù la maschera se hai sanguaccio nelle vene! " gridò di nuovo Amerigo. L'arlecchino fece un salto indietro, e cantò molto in fretta: Ah no, la maschera non me la levo: Riffe e soprusi non ne ricevo! Questo credetelo pel sommo Giove! Lesto alla ciotola.... quarantanove! " E cinquanta, Tognaccio! e cinquantuno! e cinquantadue! e tombola! " - 120 - " Adagio! " diceva l'altro, curvandosi quasi fino a terra a que' pugni, " o che fai? o perchè? o che t'ho fatto? smetti! o che sei impazzato? sta' bono! " " E tombola, assassino! " Intanto, tra gli strilli delle donne, il pallore e lo scompiglio di tutti, Tognaccio divincolandosi, abbassandosi, facendo salti e cilecche, cercava di non ricevere tutta quella grandine sulla faccia, sul capo, sul petto, ma le porgeva sempre la groppa, e cercava, correndo all'indietro, di salvare almeno, se era possibile, la chitarra. " Tombola! tombola! tombola! " " La chitarra! la chitarra! " gridava giù curvo sotto la pioggia, " la chitarra! mi raccomando per la chitarra! " E la chitarra volò in frantumi, e Tognaccio, tutto rosso di sangue, si slanciò all'uscio, nel più buio angolo della sala: qui, con tutto l'ardimento premeditato di chi non vuol dare che un colpo solo ma che sia buono e non consenta all'avversario di renderlo, s'avventò su Amerigo, e fuggì.... Amerigo, tratto il coltello anche lui, si spinse innanzi fuori dell'uscio, e vibrando di gran forza il colpo nel vuoto, precipitò per la scala buia. Tutte le maschere fuggirono a gambe levate in un lampo: le donne urlavano al soccorso - 121 - dalle persiane chiuse, la strada oscura mormorava di voci, e gli uccelli dai nidi, richiamati dall'alba nascente, si slanciavano fischiando a volare per il cielo radioso. IX. Quando Stefano e Giovanna accorsero al letto del figliuolo ferito, nella sala della clinica chirurgica allo spedale, il sole brillava chiaro, e un raggio mattutino penetrava pure a indorare l'alto soffitto di quel malinconico camerone. Il clinico s'era fermato appunto allora al letto d'Amerigo con gli scolari che apprendevano quella che Virgilio chiamò arte muta: e per que' due contadini sgomenti, che, costretti a aspettare, di tutto quel linguaggio semigreco non capirono una parola, fu arte muta davvero. Il clinico, ravvolto nella sua toga, passò oltre con gli scolari a seguitar la dotta lezione, e Giovanna e Stefano, col maggior rispetto possibile, si diressero ad un pappino: questi, con un piglio da padrone, guardò la tabella a capo del letto dove giaceva Amerigo tutto livido pesto, e privo di sensi, e rispose con impassibile franchezza: " Olio santo. " Giovanna parve riscuotersi da un terribile - 122 - stordimento, e incominciò a passarsi il fazzoletto sugli occhi con una forza affannosa, per cui pareva volesse cancellare perfino i segni di quel pianto che subito invece si riaffacciava copioso come sangue che sgorghi da una ferita larga invano compressa. Un Cristo gigantesco, annerito dall'aura secolare, egualmente lontano dall'altissimo palco a carena che dall'oscuro impiantito, pendeva dal muraglione di contro chinando sugl'infermi la faccia misericordiosa raggiante nell'aureola bizantina. Giovanna rivolse gli occhi piangenti a quel Cristo severo, invocando un miracolo dalla sua onnipotenza. S'udiva intanto la riposata e monotona voce del professore allontanarsi per la lunga corsia di letto in letto, in mezzo al gruppo degli allegri scolari, avvolti, secondo la moda scolaresca d'allora, in grandi scialli di lana. Alcuni di que' letti erano vuoti, ma nei più facce tristi e slavate d'infermi di tutte le età: dal fanciullo scrofoloso al vecchio decrepito: altri seduti sul letticciuolo, e altri giacenti, e taluno con su i piedi il passaporto, cioè la stola nera. Un odore nauseabondo quale si sente nei vecchi spedali, un odore di farmachi e d'altre cose, contribuiva pure a rendere increscioso quel camerone: un camerone tutto bianco, salvo - 123 - che qua e là, di sotto le scrostature del barbaro intonaco, scappava l'ala acuta di qualche serafino biondo o il lembo azzurro di qualche Vergine medioevale. Poi venne al letto d'Amerigo un giovane cancelliere, tutto profumato e galante, e spiegata sulla coltre la carta notarile, s'accostò due o tre volte al naso un boccettino d'essenza, e intinse la penna d'oca nel calamaio: d'oca perchè allora (la bellezza d'un sessant'anni fa) la penna di ferro era riguardata come pericolosa alla docilità della mano, e quindi era proscritta dagli ufizi e più dalle scuole. Il cancelliere, uomo molto di società e per il suo spirito molto accetto nelle sale più signorili, pareva alquanto seccato: nondimeno, come degnandosi, sollecitò, eccitò, incoraggiò il moribondo a parlare: tese l'orecchio, ma inutilmente. Alla fine, cogliendo sulle labbra d'Amerigo un nome di donna, alzò sodisfatto la penna d'oca esclamando: " Cherchez la femme! Cherchez la femme!..." Dopo la scienza, dopo la legge, comparve a quel letto la religione a recare i suoi divini conforti a Amerigo. Intanto una monaca andava sempre su e giù per la desolata corsia, con un monotono sbattimento di chiavi e di paternostri sull'anca - 124 - sformatamente massiccia. Dava grandissima importanza ai nonnulla, e suscitava per la più piccola faccenduola un gran moto di gambe e di voci. Pareva che dipendesse tutto da lei: la vita e la morte, la dannazione e la salvazione, i bisogni spirituali e anche i corporali degli infermi; anche il Cristo della muraglia pareva aspettasse di far qualcosa dopo aver ricevuto il suo saccente suggerimento. Purchè fosse ammirato il suo spirito forte, nulla arrestava il suo zelo. A una giovane servigiale ripugnava di toccare qualche cadavere, e lei diceva: " Ecco come si fa! ecco come si fa! " e lo brancicava e lo rivoltava e lo trascinava lei sola il cadavere nel fetente lenzuolo. Peccato che tanto zelo non valesse a guadagnarle l'amore degl'infermi che l'odiavano a morte! Il sacerdote continuava al letto d'Amerigo le sue preci latine, e Giovanna, caduta in ginocchio, con la fronte appoggiata al saccone, singhiozzava. Oh come tutto era freddo a paragone del dolore di quella madre!... La sera ella uscì con Stefano dallo spedale, e tutti e due ritornarono a casa piangendo. Come finiva quel figliuolo nel quale avevano un giorno fondate tante speranze! come finiva! " Oh è stato un gran destino questo! " diceva Stefano, " un gran destino! " - 125 - La mattina dopo Giovanna ritornò per tempissimo allo spedale, quasi certa di sentire che il su' figliuolo era morto. Procedendo là per l'infermeria, tra quelle due lunghe file di letti, aspettavasi con acutissima pena di veder vuoto il letto dove l'aveva lasciato la sera prima: invece egli c'era ancora, invece respirava ancora, anzi più libero. Ella vi corse, e quando si chinò per baciarlo, Amerigo la riconobbe, e le disse: " Oh mamma! " La morte, dopo averlo colpito, s'era un po' ritratta da lui, ma sol per concedergli una languida e breve vigilia, o per prolungargli il tormento ineffabile d'una disperata agonia, durante la quale non cesseranno d'agitarlo le passioni dissolutrici. Quella penosa intermissione di vita, quel sopore di morte, le angoscie di quei letto, deserto sempre quando non v'appariva sua madre, non l'avevano punto purificato, nè in verun modo disposto a inorridire della vita trascorsa, e desiderare altri costumi e altro amore. Privo d'ogni antecedente preparazione, e di quel consiglio che solo può darci il lume prezioso dell’esperienza, l'animo suo, non che mutarsi in un giorno, non poteva neppure incominciare a risorgere a poco a poco per un graduale ravvedimento, finchè si fosse trovato, quale si trovava, tutto incolto e tutto torbido - 126 - ancora, come un'acqua in cui non si fece che rimuovere e rimestare le sostanze impure e limacciose del fondo. Nessuna forza quindi di resistenza contro gl'istinti nell'età in cui il giovane più ne prova la tirannia, e si ribella a chiunque troppo tardi e in mal modo voglia frenarlo. Più perverso che buono, d'ingegno assai limitato, ma avido della vita e caldissimo di sangue, tante voci false e malvage l'avevano poi sì confuso e smarrito nell'età più inesperta e più ardente, che egli ormai non sapeva vedere altra strada se non quella per cui ruinava come un orbo fiacco e ubriaco. Non un proposito buono, non un rimorso della vita passata, non un pensiero affettuoso pei suoi, che pure aveva amareggiati sì forte, ma due fantasmi l'agitavano sempre mentre giaceva colà in quel letto: Tognaccio assetandolo di vendetta, e Zaira di voluttà. E pensava come scansare suo padre per correre subito da Zaira il primo giorno che l'avessero licenziato dallo spedale. Ma quando il medico gli permise d'alzarsi, ebbe appena forza di trascinare la sua scarna persona, che pareva si fosse in quel tempo grandemente allungata, sino al finestrone della corsia per trattenervisi con gli altri convalescenti a respirare l'aria pura dei campi. Quei - 127 - convalescenti, dopo avergli sorriso e aver barattata con lui qualche parola, come se ne avessero temuto la vicinanza, lo lasciarono solo a tossire orribilmente con la testa appoggiata alle sbarre del finestrone: andandosene si dicevano a bassa voce che ormai per quel povero giovine era finita: e tutti: " Povero giovane! povero giovane! " ma però alla larga, perchè la tise s'attacca! Lo diceva anche la monaca che quel giovane moriva vittima de' suoi vizi. Volendo dunque la monaca convertirlo, se lo portava a passeggiare come un bambino per la corsia, assegnandogli molti rimedi spirituali in queste e quelle pratiche di pietà da ripetersi tante volte, per tanti giorni, alle tali ore: proprio come le pillole. Nè si doveva raccomandare a una madonna sola ma a più, come alla madonna del rosario, e a quella della neve, e all'altra, più miracolosa assai, della tosse: inoltre non doveva tralasciare di guadagnarsi il patrocinio di tutti i santi languidi e cretinelli inventati da' gesuiti. Intanto, guardandolo con occhi tremendi, non lasciava, rivolgendogli parole accorte, ma sempre santamente velate, di graffiarlo un tantino, essendo la bontà di questa dolce monaca una di quelle bontà femminili che tengono sempre in pronto, nascosta nel - 128 - velluto, l'ugna del gatto. Egli tossiva; e avendo l'anima avvelenata di Zaira e Tognaccio, rimasticandoli sempre, lasciava che la monaca dicesse dicesse, nè udiva nulla. Fingeva nondimeno di non perdere una parola, e coi cenni del capo, e dicendo spesso, quando glielo permetteva la tosse: " Eh lei parla bene: sicuro! sicuro! " tutto approvava, tutto gustava, anche i graffi. Ogni volta poi ch'ella passava superba per la corsia, lui non lasciava mai di levarsi il bianco berretto dello spedale per salutarla. Agli altri infermi faceva ira a vedere con quali e quanti umili segni d'ossequio quel tisicone s'inchinava alla monaca odiata. E secondo la monaca que' segni indicavano che finalmente quel giovane, così presso a morire, evasi ravveduto, e questo era tutto merito suo; tutto merito delle sue esortazioni, e delle pratiche di pietà a cui avevalo abituato: onde se ne compiaceva orgogliosa, e aveva messo Amerigo tra' suoi protetti, fino a ordinare gli fosse data qualche porzione un po' meno scarsa di carne, e qualche minestrina sciocca di più. Qual disinganno dunque non ebbe la poveretta quel giorno che Amerigo, tutto umile e rispettoso, venne a domandarle il permesso di spogliare la palandra bianca dello spedale per - 129 - rivestirsi de' suoi panni, dovendo, disse, visitare una sua parente. " E chi è questa vostra parente? " ella esclamò, e le passarono le furie per gli occhi, " come si chiama? come si chiama eh.... la vostra parente? " Dinanzi a quello sguardo e a quella domanda che esprimevano tanto chiaro la consapevolezza del motivo per cui Amerigo chiedeva il permesso d'uscire, e la ferma risoluzione di rifiutarlo, Amerigo restò un po' attonito a guardare quella viperella velata: poi battè il piede in terra, e la caricò d'improperie. La monaca, agitando le mani in aria, e tappandosi le orecchie, fuggì scoronciando tra le bestemmie sacrileghe dei pappini, i Gesù mio! delle servigiali, e un fremito che trascorse di letto in letto pel camerone. Riferita subito la cosa al direttore, egli voleva informarne la polizia, ma sentito il parere del medico, questi rispose che quel tisico non era in grado di sostenere nessuna pena disciplinare, perchè, quantunque potesse reggersi in piedi, tuttavia il male era sì maturo che poco più gli restava da vivere in questo mondo: allo spedale, dopo lo scandalo dato, non poteva restarci un'ora di più, la meglio dunque era di rimandarlo subito a casa sua. Furono dunque - 130 - resi al giovinastro i suoi panni, e che andasse a morire altrove: indegno d'aver ricovero in luogo pio. Così gli disse giustamente il direttore nel congedarlo. Giustamente sta bene; ma quel benigno che vorrà riflettere ai motivi imperiosi che, covati a lungo segretamente, poi, all'occasione, possono premere un animo fiacco, con la fatalità d'una legge quasi meccanica, verso parole e azioni colpevoli; quegli comprenderà che Amerigo, come era trascorso a basse ingiurie contro la monaca, così ora il medesimo cieco impulso lo spingeva, appena uscito dallo spedale, in Via dell'Amore. Rabbrividiva, tossiva, ma era contentissimo, era felice: non accusava Zaira di non essersi più fatta viva con lui in que' tre mesi, perchè come avrebbe potuto accostarsi a lui in quello spedale?... Ma quando fu per giungere a quel palazzotto, e lo vide tacere tutto chiuso nella viuzza deserta, sentì subito che non ci stava più alcuno: quel silenzio lo fece raccapriccire: nondimeno, salì i due scalini ch'erano dinanzi al portone serrato, e battè e ribattè. " O che picchiate? " gli disse una bracina che aveva aperto da poco tempo la nera botteguccia là in faccia: " codesta casa il governo l'ha chiusa, e ha fatto bene.... o di dove venite? " - 131 - " Dallo spedale. " " Eh si vede!... come! uscite ora dallo spedale, e...." " Cercavo d'una mia parente, una certa Zaira. " " Oh Zaira! l'ho conosciuta, e gli ho fatto anche dei piaceri, a dirvela! era una buona ragazza, e che bella ragazza! ma aveva sparso tante mai ciarle a carico della sua padrona di Via Monna Lottiera, sapete? la sora Olimpia; gli aveva scoperto tanti altarini, che lei, dicono, ha messo di mezzo perfino la Santa Sede per fargli avere un posto tra le convertite o sepolte vive: che son quelle monache, sapete, che una volta entrate in convento il mondo l'hanno veduto: non escono se non morte da quel rifugio: o che avete?..." " Ma è proprio vero? " " Altro se è vero! altro!... o che avete? " " E non si può vedere in nessun modo? " " E come volete fare a vederla? neanche a andare a Roma dal papa: e neanche gli si può scrivere, perchè non ricevono lettere neppure dai genitori: vi dico, via, è come un sepolcro: quelle donne si sono assolutamente staccate da padre, da madre, da fratelli, da tutto insomma, e non fanno che piangere sempre i loro peccati.... o che avete? o che vi dispiace? - 132 - non ve la pigliate!... pregherà anche per voi. " Questa notizia inattesa produsse in Amerigo un tal turbinio di reminiscenze, di pene, e di desiderii, così discorde dalla dolce certezza gustata un momento prima, che egli rimase lì appoggiato a quella porta senza potersi più muovere, nè aprir labbro. In altri tempi un'ira bestiale l'avrebbe preso, ma allora, sotto quel cumolo d'angoscia, ond'ebbe l'ultimo crollo la sua già crollata esistenza, lo prese quasi un senso patetico che nasceva non tanto dall'estrema fiacchezza a cui era ridotto, quanto da quella profondità affettiva che è sempre la parte migliore e più costante d'ogni forte passione amorosa. Ma nulla di più miserabile e di più infido della donna che aveva acceso una tal passione in lui ragazzo pervertito, e che pure non aveva perduto niente di quell'ingenuità e di quel fuoco per cui siffatte nature si gettano avide al primo incontro, e cadono così ciecamente nel laccio. Appoggiato a quella porta egli non pensava alla notte orribile che n'era uscito infame e già ucciso, ma pensava solo a Zaira, al tempo felice in cui l'aveva vicina. La rivedeva quasi errare, nel morbido biancore delle sue forme, per quelle stanze vuote, e perdere le grazie nella procacità, nè mai più viva gli era apparsa, più - 133 - seducente, più amata, più desiata. Quell'ebbrezza continuava a nascondergli ancora la sua vergognosa follia, e la fossa a cui era vicino. Ormai aveva infetta tutta l'anima di quel morbo, e il leppo gliene saliva al pensiero in immagini ardentissime; mentre per la scomparsa misteriosa di quella donna provava pure un senso di tenerezza, un senso dolorosissimo e inconsolabile d'abbandono e di vuoto. Le premure, le esibizioni e le domande incalzanti della bracina curiosissima lo forzarono ad allontanarsi di là, e, appoggiandosi al muro, lasciò quella via. Si sentiva così oppresso dal male, che s'aspettava da un momento all'altro di morire, e l'angoscia fisica era sì cruda da fargli sentire un po' meno quella dell'animo già sì atroce. Fermandosi più volte per cessare un po' l'affanno del petto, potè, a gran fatica, tornare a casa. Alle accoglienze festose de' suoi, non rispose neppure con un sorriso. " Oh bisogna fare allegria pel figliuol prodigo ch'è tornato! " disse Stefano, e bruscamente, come soleva lui, gli schioccò in viso due baci. A Giovanna bastò baciarlo una volta con labbra lievi e tremanti, e due grosse lacrime che le scendevano per il viso emaciato. " O come mai," poi Stefano ripigliò, " t'hanno lasciato uscire, essendo rimasti intesi, che, o io - 134 - o Filusella, ti si sarebbe venuti a prendere col baroccio? carità di spedale! a te che se' spedito hanno fatto proprio un bel servizio! " Con quella parola spedito, ripetuta così cruda cruda come l'avevano detta a lui la monaca ed i pappini, Stefano volle far capire quanto fossero stati inumani que' signori dello spedale a rimandargli il figliuolo in uno stato che miracolo se non era morto per via! " Eppure, " ei seguitava a dire, " de' panieri di ciliege e de' mazzi di fiori n'hanno avuti parecchi, perchè t'avessero cura e un po' di riguardo: ma chè! siamo villani e tanto basta, l'ho sempre detto io! se tu fossi stato di dentro città, allora t'avrebbero trattato in un altro modo, brutti porconi! domani alla monaca glielo voglio dire, a quella...! " Ma domani gli chiusero la bocca subito, quando gli dissero che non gridasse tanto, e che ringraziasse Dio che quel giovane poteva far pochi salti più, altrimenti se ne sarebbe occupato il bargello. E raccontatogli tutto, Stefano non ebbe che rispondere; si convinse sempre più che quel figliuolo era pessimo, e lo voleva, tornato a casa, rimproverare aspramente. Ma appena lo rivide, colà seduto in una scranna presso il camino, Stefano pure ammutì, - 135 - nè seppe far altro che mettersi sulla panca a sedere, tutto pensieroso. Giovanna e Carmelinda attendevano alle loro faccende; e i ragazzi di Filusella uscivano e rientravano correndo in casa, e si correvan dietro per la cucina, chiassando intorno all'infermo. Questi, al lividore del viso, al silenzio continuo, all'immobilità accidiosa delle membra, quasi gli pesasse d'alzar pure una mano, sarebbe parso uno spettro, se non fosse stato il frequente tossire, e quegli occhi grandi, infossati che guardavano disperatamente muti e lucenti. La fiamma schioccava allegra nel gran camino sotto il paiuolo, e Giovanna o Carmelinda vi restavano ritte dinanzi a rimetter legna, e badare che il paiuolo non traboccasse: nessun parlava. L'amico Tognaccio gliel'aveva ben calzato il coltello fino al polmone: la piaga esterna s'era richiusa, ma dentro continuava a stillar sangue vivo; e ora lo strazio morale, la certezza della prossima fine, lavoravano lavoravano ad approfondirla la coltellata, a finir di disfare velocemente la trama di quella misera esistenza. Egli non parlava: ma le commozioni interne gli si vedevano continue in un fatuo rossore che gli s'effondeva a quando a quando nel viso cadaverico: un rossore come di sangue annacquato che salisse in pelle in pelle a un'imagine - 136 - di cera verdastra, con due fiaccole divoratrici negli occhi. E siccome il nostro buon prossimo, quando vi vegga sì malandato che più non abbia alcun motivo d'invidia, allora v'ha compassione sincera, e prova gusto a mostrarvela e anche si compiace a sentirla in sè; così, quanti villani capitavano in quella cucina erano ben contenti di palesare la loro gran compassione al povero Amerigo, dicendogli intanto di farsi coraggio perchè sarebbe presto guarito. Lui che invece si sentiva morire, rispondeva a' suoi consolatori con delle occhiate lucenti d'odio: non voleva che lo sentissero tossire, e, strascicandosi, s'allontanava, come una larva, da casa, e andava a celarsi a piè di qualche ulivo dove poteva tossire e tossire, senza che lo sentisse nessuno. Era di luglio, e oltre il verde fruttuoso di tanti alberi di cui era piena la china, spiegavano nella valle feconda i grani maturi la loro ricca biondezza lieta, ondulante, vasta. Era un mormorio di ruscelli allegri tra l'erbe verdissime, e il fumo dei casolari saliva nella pace del cielo.... E morire!... Perfino i foschi campanili della città, e le mura grige che la circondano tra le ombre degli ulivi, erano avvolti in un puro e luminoso riflesso che ne - 137 - ricreava la secolare tristezza.... Il sole animava tutto: animava le fronde, i fiori, le acque, gli uccelli, gl'insetti, le lucertole, le farfalle.... E morire!... E il cielo era tutto un puro zaffiro con due o tre nuvolette che sedevano come neve lucente sulle montagne chiare, in un mar di splendore: e dalla valle saliva il canto d'una giovane contadina che le piante nascondevano all'occhio: ma nulla era più giocondo e soave di quel canto: come vibrava argentino! come s'espandeva sereno! i colli intorno verdeggianti pareva che l'ascoltassero con diletto.... E morire!... In mezzo a questa corrente impetuosa di vita, morire!... In mezzo a una corrente che premeva, palpitava in ogni essere, e tutto avvolgeva nel suo fulgore, nella sua gioia, nel suo moto inesauribile, sentirsi struggere, sentirsi annegare, affondare senza rimedio!... Ah! la belva ferita dal cacciatore, e che va a morire lontano, non prova anch'essa lo stesso strazio? Ma quanto all'uomo, il sentimento della propria morte in mezzo alla vita può recare anch'esso qualche dolcezza a un'anima pura e virile, non avida dell'onda infida e trista che gli fugge dal labbro. Egli invece ne aveva l'animo sì esacerbato che provava in certi momenti una specie di voluttà - 138 - nel vedere agonizzare gli agnelli, e i mansueti tremanti vitellini che il coltello di suo padre aveva colpiti per poi venderli in piazza. Ben faceva la morte a limitargli, ogni giorno più, le forze e lo spazio. Ormai non s'alzava dal letto che per andarsi a sdraiare sul pianerottolo della scala esterna, dov'era un po' di ventilazione in quell'estate caldissima ancora, sebbene si fosse inoltrati già nel settembre. Gli agricoltori pei campi, i cittadini dalle finestre delle loro case, guardavano il cielo, invocavano acqua acqua, e il cielo, sempre in istella, turchinissimo come un cielo affricano, avvampava senza che mai vi sorgesse una nube, stremava l'erba, divorava le messi, asciugava i pozzi e i torrenti, affogava tutti nel polverone delle strade cangiate in forni e in deserti. Ma come parve trista, l'assetata campagna, al primo dirompere delle piogge autunnali! Pareva che quelle piogge avessero spento improvvisamente l'estate, e che la terra umida e senza sole, e coperta lontano da un sottil velo di nebbia, la rimpiangesse. Allora, mentre le mandre scendono malinconiche alla pianura, e i primi fuochi invernali s'accendon sulla montagna, l'infermo fu affrettato più celermente al suo fine. Continuavano tutti a circondarlo di compassione: - 139 - l'unica a non mostrargliela mai era sua madre. Quella veramente buona e semplice donna gli prestava tutte le cure sempre tranquilla, come se di giorno in giorno avesse attesa la guarigione del suo figliuolo. Gli stava seduta accanto pia, rassegnata, paziente le intiere giornate, e quando in qualche bella giornata d'ottobre lo portava sulla scaletta esterna, adagiandolo sul pianerottolo, badava bene di nascondergli lo scheletro ch'era dipinto là, sull'uscio della camera mortuaria, con l'orologio e la falce. Amerigo appoggiava le spalle al muro, e stendeva giù in terra, lunghissime e stecchite, le gambe. La sua testa non aveva più nè carne, nè fibra: pareva diafana; ad ogni momento la voltava e la rivoltava, e agitava a fatica la mano ossuta a liberarsi dalle mosche atrocemente insistenti: e ansava, ansava: tossiva, tossiva. Intanto finiva per le campagne la festa dell'estate: gli alberi si lasciavano placidamente cadere il velo delle foglie ingiallite che scendevano come lacrime al suolo; e gli alberi umidi ergevano dalla terra nera i tronchi mezzo sfrondati incontro alle tristezze autunnali: nondimeno un desio di liete villeggiature, un ardore di vendemmia e di caccia errava ancora pei colli.... - 140 - " Povero giovinotto! " disse l'Angiolina, una ragazza di que' dintorni dopo che ebbero tutti insieme recitato, in quella rustica cameruccia, un De profundis al morto incoronato di fiori: " era tanto bello, e s'è strutto come una candela! " X. Ma dopo la morte d'Amerigo cessò quell'apparente tranquillità di Giovanna: non poteva pensare a quel figliuolo senza che un velo di pianto le rilucesse negli occhi. Non pensava più ai dolori che le aveva dato, nè a quanto bestialmente fosse vissuto, ma pensava a tutta la cosa in sè miseranda, all'immagine sofferente che l'era rimasta dell'infermo, in cui ella non vedeva ora un colpevole, ma solo un figliuolo infelice. Forse in ciò la ingannava la sua tenerezza, perchè, sfuggendo ad ogni savio calcolo razionale, è difficile che la misura dell'amore e dell'odio sia giusta. Ma Stefano, invece di lasciarle scorrere quelle lacrime dolcemente, e mostrare di non accorgersene, pretendeva d'asciugarle con le impazienze, e col domandare a Giovanna perchè piangesse; ed era lo stesso che domandare all'abete perchè gema dalla ferita che v'aprì il boscaiuolo, o - 141 - alla sensitiva perchè al tatto rabbrividisca, o al bellissimo cardo perchè, colà romito sotto la siepe, dilati al sole le sue spade d'argento e poi le richiuda quando il tempo s'inforca. Ma quello di Stefano era pure un modo anch'esso d'esprimere il proprio affetto, quasi la moglie, reprimendo il suo pianto, avesse potuto reprimere e non accrescere la violenza del suo interno dolore. Piuttosto sarebbe da domandare perchè di quelle lacrime pie e silenziose sia solo capace la donna buona che serbò sempre l'amabilità della gentilezza e del cuore: ma come presumere d'indagare i segreti che si celano nell'intimo delle cose?... e le cose poi si riportano tutte a que' due grandi arcani principii del male e del bene, dei quali ogni essere, brevemente vivendo, esperimenta il potere. E noterò un altro cambiamento singolare che, dopo la morte d'Amerigo, avvenne in Giovanna. Mentre prima non poteva sull'imbrunire entrar sola nel cimitero senza temere di sentirsi a un tratto soffiare in viso il sospiro di qualche anima, come dicevano ch'era successo più volte; ora l'andarvi di notte o di giorno per lei era lo stesso: dopo che le ci avevano sotterrato il figliuolo in quel cimitero verde, là sotto casa sua, in un cantuccio riserbato - 142 - a' più poveri, Giovanna non aveva più paura dei morti. Il sole estivo, cadendo, aveva ricinto l'occaso d'una cintura di bronzo dorato, e per la campagna, sulle cime dei colli, tra le viti e gli olivi, rimanevano ancora quegli opachi riflessi senza luce che sono come il sorriso che avanza alla vita. Per i viali del cimitero, mesti nella chiarezza crepuscolare, e ancora cocenti, sussurravano i rosai, le mortelle nere, i cipressi, alitava l'aura che portava colà l'ardore del grano battuto dalle aie polverose; e tutti uscivano allora da quel luogo tristo, cacciati dalla notte che veniva: tutti, fuorchè Giovanna. Eppure la notte colà aveva un aspetto così tetro, così minaccioso, specialmente quando non lasciava vedere, tutta coperta di nubi, una sola stella; o quando laggiù, dalla montagna nerissima sorgeva su i campi riarsi, sulle tacite messi, la luna di fuoco senza raggi, e la salutava da lontano un mormorio confuso di grilli e lo stridere delle ultime cicale: qual luce ardeva in mezzo agli affanni, in quella donna addolorata e solinga, in quel cuore trambasciato di madre? Ma in famiglia, nè lei nè altri, ricordavano mai Amerigo. Lo ricordavano soltanto dicendo il rosario la vigilia dei morti, quando sulle memorie - 143 - degli ultimi trapassati sembrano squillare, per un momento, le trombe della risurrezione. Stavano quei villani tutti raccolti in cucina, e tutti inginocchiati: Carmelinda sola era in piedi, davanti al grande camino, con la padella, in cui faceva ballare i marroni: la fiamma avvampava e sbalzava i suoi riflessi mobilissimi per la stanza; e di fuori s'udiva abbaiare Pronto, il can da pagliaio, così chiamato perchè, diceva Stefano, " era pronto lui al suo servizio. " Quella sera abbaiava più spesso e più ostinato, vedendo, dall'aia oscura, tutto l'ampio cimitero sparso di lumicini, perchè in quella notte sono ben poche le tombe su cui non risplenda un qualche lume portatovi dalla carità d'un congiunto. E dopo il rosario era sciabà. Il vin nuovo, al lume della lucerna posata in mezzo, smagliava accesi rubini per i bicchieri, gorgogliava e rosseggiava anche sulle labbra dei fanciulli. Lo lodavano tutti perchè era faccenda del babbo, nè egli avrebbe permesso che altri se ne ingerisse; e mani grosse e piccine rapidissime andavano e venivano ai marroni rovesciati caldi bollenti sulla bianca tovaglia. A Stefano scintillavano gli occhi come due punte d'acciaio, e rubizzo e infocato in viso, squassava le braccia nerborute raccontando ai nipoti, disattenti, le prove - 144 - di forza e di coraggio o sue o di suo padre, il tremendo Margaritone, terrore dei Fiorentini. Così passavano gli anni veloci: Giovanna s'era fatta una vecchiarella pensierosa, anche Filusella imbiancava; Carmelinda aveva sempre i capelli nerissimi, ma il personale sformato dalle fatiche e dai parti; Adamo ed Eva salivano l'erta della vita, e rifioriva per essi, con le sue imprudenze, le sue violenze, i suoi sogni, la gioventù che tante cose spera e tante ne ignora; e quanto a Stefano pareva che gli anni non bastassero a vincere o menomare la sua ferrea salute. Sebbene già s'inoltrasse nella vecchiaia, nondimeno la fatica non gli pesava. Fosse estate o fosse inverno, si vedeva sempre, tra pianta e pianta, biancheggiare nel podere la camicia di questo villano curvo al lavoro. Col grosso scarpone spingeva giù bene la vanga, nè s'arrestava un momento a ripigliar fiato, finchè non gli fossero nericate sott'occhio tutte le zolle del campo, che egli aveva rivoltate con maravigliosa prestezza. O se falciava, non era meno svelto di quand'aveva vent'anni ad alzar la coscia per appoggiarvi su la falce fienaia, che scintillava al sole come un gran rostro, e affilarla alla cote. Talora mentre falciava gli zampettavano dietro scalzi i piccoli, vezzosi nipoti, - 145 - tenendo nel pugno qualche insetto o mazzi di fiori campestri, e parevano amorini inseguenti l'immagine austera e cupa del Tempo. In quel podere non v'era parte che non mostrasse la diligenza del suo cultore. La valletta ombrosa e umidiccia era tutta coperta di frutti e d'ortaggi, e terminava laggiù col verde del granturco e della saggina; le viti, lungo le falde del colle, s'avviticchiavano ai pioppi dondolando al vento i lievi tralci scherzosi, e gli smilzi ulivelli s'arrampicavano su su fino al cimitero, fino alla casa, effondendo un colore grigiastro pel poggio che ricordava una testa umana quando incomincia a imbiancare: insomma non v'era luogo in quello spazio arioso dove non fosse tutto disposto ordinatamente e quasi con eleganza. Ciò dipendeva dall'amore che Stefano portava alla terra che coltivava: egli l'amava tanto quanto Amerigo invece, con le idee stupidissime accattate nei ritrovi plebei, l'aveva spregiata. Quegli stessi ritrovi, e i danni e gli avvilimenti inflittigli dalla ciurmaglia civile, avevano (già l'abbiamo veduto) intorbidato il giudizio anche a suo padre. La passione delle fatiche campestri non gli era punto scemata a suo padre, ma gli era sorta nell'animo una bassa stima dello stato villesco, fino a riguardarsi - 146 - inferiore ad ognuno che dimorasse in città, fosse pure un ciabattino, o merciaio ladruncolo, o altro miserabile scalzacane. Onde la velleità nata in lui d'elevarsi nel figliuolo Amerigo, intendendo di ricavarne un trafficante vinaio, e un erede dello zio. Tutti i suoi rigori e tutte le sue asprezze contro il figliuolo non erano derivate infine che da un sommo affetto di padre, il quale fa tutti gli sforzi possibili per incamminare e spingere il figliuolo per quella via che dovrà un giorno portarlo a essere cittadino rispettato e felice. Il figliuolo invece era finito male, senza che perciò le speranze di Stefano avessero cessato di rivolgersi sempre a quel segno dell'eredità del fratello, anche perchè il fratello tali speranze seguitava, a pro suo, ad alimentarle con quelle paroline che costan poco, incoraggian molto e tengono a bocca dolce. Ciò, è vero, non sarebbe stato possibile senza quella ingenuità d'uomo primitivo, ammalizzito e cupido che costituiva il fondo del carattere di Stefano, il cui sogno era di comprare quel podere che ormai poteva dirsi creazione delle sue mani, tanto avevalo migliorato; e vagheggiava pure di ritondarlo laggiù col camperello del suo vicino, dove lungo il fosso si stendeva quella nera e folta macchia di pruni. Ora l'unico mezzo di riuscire a questo erano gli scudi di suo fratello, - 147 - e perciò ci pensava sempre, e pensava anche, Dio gli perdoni, che suo fratello ormai era pieno d'acciacchi, i quali facevano dubitare la sua morte vicina. " Quel povero Nando! " egli diceva a Filusella, " come è andato giù! come è fatto ito! è tutto scallaiato come un gallo che abbia avuto troppe galline nel pollaio: anch'io fui barbaro per le donne, ma poi feci sempre le cose con giudizio, e non ebbi mai il mal venereo. " Ed era pur troppo vero che il vinaio da un pezzo in qua non era più lui. Rideva ancora con quel suo faccione paffuto e grinzoso di melacotta, ripetendo le sue solite barzellette, e avventandosi dietro a dir male o canzonare questo e quell'altro; ma tali insulsaggini oziose erano simili a quei voletti corti e svogliati che in sul finire d'autunno van facendo le mosche idropiche su pei vetri, quando le rianima un po' di sole. L'uomo in fondo era triste, e andando via a capo basso e dondolante, con quel suo occhio nero e lubrico fisso a terra, gli accadeva talora di traballare come traballa, sul piano del biliardo, un birillo che fu rasentato un poco dalla battuta. Si lagnava che i dolori d'ossa lo tormentassero atrocemente, ma insieme si consolava dicendo agli amici che in vita sua aveva molto goduto, come è dato a - 148 - pochi uomini di godere. Ora gli occorrevano molte cure e anche molte dimostrazioni d'attaccamento alla sua persona, e siccome per affetto non le poteva ottenere, cercava d'averle apparentemente eguali, e anche maggiori, per interesse, non stancandosi mai di ripetere alla Beppa, a Gustavo, a Stefano e a Filusella che la sua eredità l'avrebbe avuta chi l'avesse servito meglio. La servitù dunque non gli mancava; quantunque i pretendenti, che continuavano ad odiarsi accanitamente, cercassero di scansarsi, nondimeno, sapendo che egli amava la compagnia, nè poteva star solo, gli erano sempre intorno ora l'uno e ora altro; e gli offrivano anche dei doni, i quali erano largamente retribuiti dalle mance del fastoso vinaio. La Beppa ora gli offriva una papalina di velluto con nappa d'oro, ora un paio di pantofole ricamate, ora un guanciale di morbidissimo stame su cui si vedeva effigiato, in simbolo di fedeltà, un canino inglese con occhi umani. Filusella invece gli portava i doni della campagna: panieri pieni di frutta vistose: pere burè, pesche vermiglie come il sangue, e il moscadello più dolce, e i piselli più teneri e zuccherini, e cocomeri d'una grossezza che un uomo non li abbracciava. Quando arrivavano i cocomeri, era una vera - 149 - festa in bottega. Il vinaio la mattina ne tagliava un piccolo tasserello, e poi faceva scorrere per la polpa del cocomero, o rumme o il rosolio di perfetto amore, che gli regalava padre Pio, un frate carmelitano suo amico: quindi calava il cocomero nella cisterna del palazzo, una bella cisterna che mantenevasi freschissima sotto l'arco, in un angolo del cortile, e la sera, con gli amici, era come mangiare un sorbetto. Ne facevano tutti una buona strippata, canzonando Stefano sotto sotto se c'era, o apertamente se non era della comitiva. Poi que' celioni si tiravano le bucce nel groppone o nel grugno; e pugni, spinte, scapaccioni improvvisi, insulti (tutto per celia) e canti e risa e bestemmie sino a tardi. Ma qual differenza dalla sera alla mattina! La sera il vinaio, perchè gli amici bevessero e giocassero, sbevucchiava anche lui continuamente e s'ingalluzziva faceto, ciarliero, sghignazzante, insolente, e rosso come una ciliegia: e la mattina invece giallo come una luna di novembre, lento, tartaglione, catarroso, di poche parole, irritabile, smemorato. E se gli domandavano se si sentisse male, diceva d'avere un po' la testa in campana, effetto del tempo, ma che del resto stava benone, si sentiva forte e fiero ancora come un leone. Questo diceva a uno, e a un altro poi diceva di non poterne più; - 150 - che i dolori d'ossa eran tali che lui non li desiderava neppure ai cani, neppure al suo peggiore nemico. Allora tutti in bottega gli raccomandavano con gran premura d'andare ai bagni di Rapolano. " Fanno miracoli! fanno miracoli! " dicevagli una mattina la Beppa. " E a chi lascio la bottega? " lui gridava sgomento. " A Gustavo. " " Brava! se ci fosse la bottega sola, ma...." Lasciate tutto a me e state tranquillo, nessuno vi tocca nulla. " " No: e non ne parlare, perchè direbbero che li ho rubati: non te lo dovevo dire già, e neppure lo dovevo dire a quel birbaccione del mi' fratello: ma...." " Per me ci potreste avere anche l'oro a monti, è sicuro; e dalla mi' bocca non esce nulla: se mai, lo sbaglio fu di mettere alla confidenza di tutto il vostro fratello, e di mettervelo d'intorno: che mancavan forse contadini per andare a pigliar per l'appunto lui? " " E batti!... quante volte questo discorso me lo son sentito risonare agli orecchi!..." " Scusate, io ve lo dico per vostro bene: che me n'importa a me? " " Ma te l'ho detto tante volte che io lo - 151 - presi il mi' fratello, perchè nessuno era capace come lui e di tanta fatica: infatti quel podere me l'ha ridotto che è un giardino...." " Oh che esagerazioni! che esagerazioni! son tutti così que' poderi de' corpi santi: che ci ha che fare il contadino?... è la terra che è grassa: qualunque contadino avrebbe fatto altrettanto, anzi meglio, perchè vostro fratello non è di nessuno, è dell'interesse, fa tutto per interesse, e quando le cose si fanno per interesse, è impossibile farle bene; e senza che voi ve n'accorgiate, vi ringarbuglia! " " Me?... me mi ringarburglia? sarà difficile.... anche lui, lo so, lo so, aspetta la mi' morte: l'altro giorno mi venne a dire, così a mezz'aria, di far testamento: oh! che è sonata l'ora? gli dissi: me ne ricorderò di te nel testamento, non dubitare!... me ne ricorderò! ma invece, se batto la capata prima di lui, resterà a denti asciutti il porcone, perchè se mai.... a voler fare le carte giuste, prima di lui c'è Gustavo...." " Vedete se ho ragione io? e lui che lo sa, invece, lo vorrebbe veder fuori Gustavo: che calcio in gola gli è stato sempre Gustavo! non l'ha potuto mai vedere quel povero figliuolo! anch'io vi dico di far testamento, ma io non ve lo dico per interesse, ve lo dico per Gustavo, ve lo dico per il vostro figliuolo che vi vuol - 152 - tanto bene, ve lo dico per levarvi un pensiero, ve lo dico anche per la tranquillità della vostra coscienza, come v'ha detto anche padre Pio: così quel villanaccio che aspetta la vostra morte, creperà lui invece...." " Ma dunque credete proprio che sia alla vigilia della mi' morte? " " Ma che morte! che morte! quando siamo morti non si capisce più nulla, Nandino mio! dunque bisogna pensarci prima, bisogna pensarci quando s'ha gli occhi aperti: e voi li avete ben aperti per ora: dunque via, siate bonino, gnamo! fate testamento; fatelo e poi andate subito a Rapolano. " " Sì, a Rapolano ci anderò: tenterò anche quella, e dopo, al ritorno, a comodo mio, quando mi sarò riposato, quando mi parrà tempo, farò testamento: aspetta! o che furia hai, Dio ti benedica, Beppina! abbi pazienza un momento! " La Beppa gli voltò le spalle, e se n'andò via indispettita. Il vinaio restò alquanto pensoso e corrucciato: indi s'alzò dalla sua vecchia poltrona, e andò a chiudere l'uscio del mezzanino. Essendo solo là dentro, guardava qui, guardava là; rimaneva con l'occhio fisso in una cupa meditazione, e intanto i dolori lo facevano sobbalzare e gli strappavano dei lamenti. - 153 - Dispiacendogli che potessero supporre non lontano il suo fine, non voleva dirlo a nessuno, ma si sentiva un gran male addosso, tanto che in certi momenti, anche la grande speranza che gli avevano fatto nascere ne' bagni di Rapolano, anche quella l'abbandonava. Allora tutto il pensiero di quest'uomo solo, e non amato da alcuno, raccoglievasi tremebondo intorno a quel portafoglio dove teneva riposta tutta la sua sostanza. Egli ben s'accorgeva che se a lui vecchio ed infermo stavano ancora intorno, ciò era solo per quel portafoglio spiato, agognato da essi come i cani agognano il pasto che poi si disputeranno a zannate Con aspri ringhi e rabbuffati dossi. Ed ecco rinascergli in seno la dolce speranza che quei bagni possano rendergli la vitalità, la salute, e sentesi spinto ad affrettar la partenza, ma poi il portafoglio lo ferma, e lo ricaccia di nuovo nell'incertezze. Dove metterlo? a chi affidarlo?... Portarlo con sè no, perchè si sentiva il lume della vita vacillare sì scarso in tutte le membra, da non poter vincere la paura che non gli dovesse mancare, da un momento all'altro, fuori di casa sua.... E allora il suo tesoro?... quali mani rapaci non sarebbero state lì pronte a frugarlo e portarglielo via, senza che egli, muto e inerte cadavere, - 154 - avesse potuto dir nulla, e accusare l'infame!... La possibilità d'un ladro postumo che, oltre il tesoro, gl'involasse anche la memoria, anche la lode e la gratitudine dell'erede, gli raddoppiava quel raccapriccio di morte da cui sentivasi invaso. Averlo custodito e accresciuto segretamente tutta la vita quel tesoro perchè poi andasse a finire nelle mani d'un ladro ignoto e impunito!... Per non correre questo rischio dunque, quasi propendeva di consegnare il portafoglio alla Beppa, ma quel fantasma del ladro gli risbucava allora più che mai bieco e sinistro nella brutta figura di Gasparino, il marito di colei. Gasparino era tomo, sapendo di avere il morto in casa, di trafugarlo, e poi dividersi dalla moglie, accusandola, dopo tanti anni, d'essergli stata moglie infedele. Questo avrebbe fatto Gasparino per godersi l'eredità e privarne il figliuolo non suo, e così vendicarsi dei torti di quella moglie odiata; torti che la Beppa non aveva fatti soltanto al marito, ma, pur troppo! pur troppo! anche a lui. E qui passavano per la mente al vinaio i nomi di quattro o cinque conosciuti assai dalla Beppa: e inoltre come fidarsene di lei con quella lingua? dunque alla Beppa no! piuttosto il portafoglio l'avrebbe buttato nella cisterna che affidarlo a quella donnaccia! - 155 - Questo non sapersi risolvere, perché vedeva da ogni parte un pericolo, esponeva la mente debolissima di quell'uomo a seguire, fra tutti, il partito peggiore.... Appoggiandosi al bastoncello, cominciò a girellare passin passino per le sue quattro stanzette sempre aduggiate dall'aria tetra e colata del cortile signoresco. Guardava qui, guardava là, aguzzando que' suoi occhi lubrici tra il coniglio pauroso e la volpe scaltra: guardava per vedere d'escogitare un nascondiglio: il nascondiglio più segreto, più impenetrabile che fosse possibile mai, e non riesciva a trovarlo. Così rimase perplesso e ondeggiante più giorni, nei quali ebbe a patire sempre le spietate vessazioni della Beppa, quando doverle resistere era per lui uno sforzo penoso, e un continuo arrabbiamento, ma questo alla Beppa non importava nulla. Se non che egli rimaneva fermo nel suo proposito: non voleva si parlasse di testamento, nè del portafoglio, per cui, non potendone vincere la cocciutaggine, la Beppa cominciò civettescamente a non parlargli più, a fargli il muso, e cessò pure di raccomandargli la cura di Rapolano. Ma ormai la fiducia in quelle terme, le quali, per quello che ne sentiva dire in bottega, avevano risanato tanti - 156 - paralitici, tanti ciechi e storpi e gottosi, era la sola che gli restasse: e come privarsene? Dopo una settimana dunque di penosi contrasti, gli riuscì di vincere la sua esitazione, e scrisse una lettera pressante alla sora Ersilia Finetti che gli sapesse dire la spesa per una quindicina di giorni, facendo due bagni al giorno. La sora Ersilia gli rispose che tutto compreso, cioè camera, vitto, bagno, imbiancatura, stiratura e lume, eran tre pioli al giorno:1 quanto al servizio, quello — era rilasciato alla buona grazia, alla cortesia del bagnante, il quale poi era anche padrone di non dar nulla. — " Tre paoli! " gridarono quella sera gli amici in bottega, e conclusero che a Rapolano dovevano essere tutti una gran massa di ladri. " E vuol anche la buona grazia! " disse uno. " Non solo la buona grazia, ma vuol anche la cortesia! " soggiunse un altro. " O Nando, ricordati sai di dargliela la cortesia! " " La cortesia, se mai, toccherebbe a lei a darla a me, " rispose Nando con gli occhietti fosforescenti. " Te la darà, te la darà! L'ha data a tanti! " 1 Una lira e 68. - 157 - " Avrà cinquant'anni per gamba, " soggiunse il vinaio ridendo, e poi subito facendosi serio: " tre paoli! ma si gira! ehm, se quell'acqua s'avesse noi...." " Tu ce ne faresti un vino medicinale! " " Ma l'hanno loro, l'hanno loro e ci vuol pazienza! " " Oh, che cosa sono poi tre paoli! " sclamò un grosso e pomposo verniciatore; " a pagare tre paoli ogni persona ci può arrivare." " Io, a dirla a voi, ne pagherei anche dieci de' paoli pur di liberarmi da queste doglie: starei come un dio se non l'avessi, perchè ho tutti i visceri sani, e quello che facevo a diciott'anni, per grazia di Dio, lo fo ancora:... ma quanto c'è di qui a Rapolano? " " Mah!... una trentina di miglia, credo. " " Trenta miglia! è un po' lunghetto il viaggio: mi dà pensiero con queste doglie trenta miglia!... e quanto ci mette la diligenza? " " Cinqu'ore. " " Cinqu’ore!... basta, coraggio! ma stasera, amici cari, bisogna che chiuda presto, non fo complimenti, perchè domani devo viaggiare, e ho proprio bisogno di riposo. " " Dunque, Nando, vi lasciamo col darvi la buona notte, e col pregarvi di salutarci la sora Ersilia buona grazia, e bella maniera. " - 158 - " Felicenotte: buon riposo, a rivederci: felicenotte. " " Grazie, grazie: felicenotte, Gano: addio Ghigo, addio Cencio: buona notte, Melchiorre. " E ad uno ad uno se n'andarono tutti, cantando e fischiando per la strada. Il vinaio, facendo un gran rumore, finse di chiudere la taverna, ma ne lasciò l'uscio accostato, perchè aspettava la Beppa, già avvisata da Gustavo. Prima di mettersi in viaggio la voleva ancora ammonire, voleva di nuovo raccomandarle il silenzio, e insieme voleva alleggerirsi di quel pensiero, misto di sospetto e di malumore, in cui lo metteva da un pezzo in qua il muso arcigno e torbido della Beppa; la quale non sarebbe ricorsa a quel contegno, e insieme a mille capricci e dispettucci e sgarbi civettuoli e maligni, se non avesse saputo che con tal mezzo riusciva sempre a spuntarla con l'amico, e tenerlo in suggezione. S'udì nella via deserta una lieve pesta femminile, accompagnata da una timida tosserella. Il vinaio, che stava lì sulle spine a aspettare, aprì piano piano l'uscio, la Beppa entrò rapida in punta di piedi, e senza rispondere al saluto del buon uomo, gli rimase dinanzi tutta ingrugnata, aspettando che egli con una parola, ma con quella sola, le scacciasse tutto quel tristo - 159 - dispetto dal viso. Poi cominciò a passeggiare su e giù, tutta molleggiante e impettita. Il vinaio, venendole dietro col bastoncello, s'ingegnava di prenderla con le buone e di portarle con voce soave delle ragioni che erano ottime, ma essendo contrarie ai desiderii di lei, ella persisteva a tacere o molleggiare: il vinaio le faceva delle moine, ed ella gli voltava dispettosa le spalle: era un continuo voltargliele e rivoltargliele, e, per parte del vinaio, un continuo andarle dietro e girarle attorno. Il vinaio alla fine si buttò stanco a sedere, soffiando, battendo il bastoncello, agitandosi sulla sedia, e sospirando. Ella s'accorse subito d'aver troppo trascorso con quel silenzio e quel muso, che ormai duravano inutilmente da vari giorni, e che bisognava mutar registro per vedere di condur l'uomo a confidarle, prima ch'egli partisse per Rapolano, dove facilmente poteva lasciar le cuoia, il segreto del portafoglio. L'assalì dunque, disperata e lacrimosa, con un profluvio di gemiti e di parole: gli rimproverò d'aver perduto l'onore per causa sua, d'aver perduto la pace in casa e la stima di Gasparino, d'aver perduto i guadagni; gli rinfacciò le sue seduzioni, i pesi e i dolori d'una colpevole maternità, perchè Gustavo era sangue suo, e che perciò ci pensasse, pensasse all'avvenire di - 160 - quel figliuolo, pensasse, come già gli aveva detto anche padre Pio, all'anima sua! " Ci ho già pensato! ci ho già pensato! " ripetè con angoscia il vinaio; " ma perchè non lasciarmi in pace tanto che torni da Rapolano? quando sarò tornato, farò tutto quello che tu vorrai: ma ora non posso pensare a niente, ora ho bisogno di quiete: lasciami vivere! e se mi lasci vivere, guarda, queste son cento lire che ti regalo perchè tu ti compri la cappotta col pelo per quest'inverno: ma finiscila una volta, per l'amor di Dio! altrimenti vi caccio via tutti, assassini, che non aspettate che l'ora di vedermi crepato! che mi volete far crepare prima del tempo! ma io mi vendicherò! a chi lascerò il mio non lo so! no, non lo so! e ve ne dovrete pentire, infami infami! assassini! " La Beppa, quantunque non credesse punto a quelle minacce, le parve nondimeno che fosse abbastanza per quella sera, e inutile l'insistere ancora: d'altronde le chiavi della taverna restavano a Gustavo; tutti e due dunque avrebbero avuto agio di frugare e scoprire durante l'assenza del vinaio, e verificare i vari sospetti che avevano riguardo alle sue disposizioni testamentarie, e al luogo o alle mani in cui avesse depositato il suo capitale. Era meglio dunque l'accaparrarsi intanto - 161 - le cento lire, con le quali avrebbe potuto comprarsi una bella cappotta impellicciata da starci ben calda e fare una figurona la domenica alla messa in duomo. " Io mi cheto proprio, " soggiunse; " non mica per l'uzzolo delle cento lire e della cappotta, sapete? che me n'importa? ma perchè ho paura che la vostra salute, povero Nando, ne soffra: non ne parliamo più, e fate quel che vi pare. " " Laus Deo! così mi piace! " disse il vinaio, e le dette le cento lire: quindi, tolto da un ripostiglio un bel paniere di frutta, gliele mise innanzi dicendo: " Guarda che m'ha portato oggi quel pimmeo di Filusella. " " Sì, ma prima c'è stato Stefano da voi, oggi? " domandò la Beppa con un certo dubbio natole a un tratto, che il portafoglio l'avesse dato a custodire al fratello. " Sì, abbiamo regolato le partite dell'olio. " " Per l'appunto oggi v'ha mandato a regalare le frutta; o perchè? " " Perchè me le porti con me a Rapolano. " " Oh! come se a Rapolano non vi fossero frutta! " rispose la Beppa ridendo: " ho capito via: v'ha mandato il becchino a darvi il buon viaggio. " - 162 - " E io le do a te, " disse il vinaio. " Io mangiare le frutta del becchino? no veh! no davvero!, Dio me ne liberi! odoran di morto, odoran di camposanto lontano un miglio. " " Perchè ricordare il camposanto ora? non mi dar questo dispiacere, Beppina! o sappian di morto o di vivo, son buone: sentile, portale a casa. " " Ben, via, n'accetterò una sola per gradire: datemi ora un dito di vino per bere alla vostra salute. " " Con tutto il cuore, Beppina, " e levò un certo fiasco dall'armadino. " O voi non bevete? " disse la Beppa, a cui era venuto l'idea di farlo bere, per vedere se fosse riuscita anche a farlo cantare. " No sai: il medico me l'ha proibito per via delle doglie. " " Bevete bevete! i medici non sanno nulla: sono una massa d'ignoranti e d'impostori: il vino rigoverna lo stomaco. " " Anche a te, Beppa, ti piace di sentirtelo scorrere...." e fece un certo gesto, e sogghignando tirò giù un sorsellino. " Lo credo! " " Le donne quando hanno bevuto sono più calorose, " osservò il vinaio ritornato arzillo, - 163 - e posò sulla tavola il suo mezzo bicchier di vino. " Allora si sta ferme come minchione, " disse la Beppa lisciandolo tortuosamente con una lubrica occhiata, e soggiunse: " sentite, io quando sono in compagnia non posso vedere i bicchieri scemi: con gli scemi non bisogna ragionare, bisogna empirli! " e ricolmò il bicchiere al vinaio che rimase esitante e voglioso a guardarlo. " Siete furbo voi eh? vorreste farmi bere eh? ma se non bevete voi, non bevo neppur io, carino! " ella soggiunse, guardandolo con rapace e sorridente procacità. Il vinaio subì il fascino di quell'occhio bestiale che l'aveva sempre ammaliato, e tracannò ubbidiente come un fanciullo. Voleva fermarsi lì, ma attratto dalle occhiate tremule e dal bocchino dolce che continuava a fargli l'amica, finì coll'abbracciarla, e ribevvero tutti e due, sbaciucchiandosi, allo stesso bicchiere. Ma a un certo punto egli s'arrestò cupo: non volle più bere, nè ci fu verso di renderlo più espansivo: egli era divenuto di una cupezza tragica. La Beppa, non essendo riuscita a strappargli il segreto del portafoglio, se n'andò via col rammarico d'una gatta coscienziosa a cui sfuggì il topolino, ma molto si fida della sua zampa. - 164 - Se però quegli amplessi e quei quattro o cinque bicchieri non produssero subito il loro effetto, ben egli se li sentì nel cranio e per l'ossa tutta la notte: una notte orribile, durante la quale non fece che maledire la Beppa. I dolori lo trapassavano acuti e rapidi come spade, gli saettavano l'osso sacro e la nuca come lingue di serpi, lo prendeva spesso improvvisamente un senso insopportabile di fuoco per tutto il corpo, ora aveva il braccio e ora il piede informicolati, si sentiva continui brividi, continue scosse all'occipite, e se un po' s'assopiva, era subito riscosso da indefinibili e orrendi spaventi. Nondimeno la mattina si volle alzare, e sceso in bottega, sotto gli occhi della gente, volle ancora mostrarsi forte, e avendo in piede un paio di larghe e ricche pantofole, gambettava gambettava per la taverna, panciuto e tronfio, battendo con vivacità il bastoncello, e ficcando il dito a stimpanarsi forte l'orecchio. Si fece sull'uscio a strolagare il cielo, e vedendolo squallido e abbassato su i tetti, con quella sudicia nuvolaglia che aspetta il vento e il fulmine che la squarci, credè effetto del tempo quel continuo bubbolío che sentivasi negli orecchi; e si consolò. La diligenza partiva alle due; ed egli, da quell'uomo di giudizio - 165 - che era, volle attendere ancora a qualche faccenda. Accese la lucerna (una di quelle lucerne etrusche d'ottone, sbandite ormai dal petrolio) e respingendo Gustavo, volle a ogni costo scendere solo in cantina a trombare il vino, e misurare quanto ne lasciava nelle botti avviate. Puntava il bastoncello, avanzava il piede per iscendere un altro scalino, e la lucerna nella mano paralitica gli tremava, ed egli alzandola a guardare la scala buia e lunga, pareva, scendendo, avventurare il corpo sopra un abisso. Nella taverna, di sopra, non v'erano, a quell'ora, che Gustavo e due manovali, bianchi di calcina e di gesso, che mangiavano il loro pane e cipolla, bevendovi un quartuccio di vino: tacevan le voci umane, e le mosche, riempiendo a torme nere i sudici tavoloni, e stando immobili per il muro, che vi parevano appiccicate, anch'esse presentivano il turbine. Un fievole raggio di sole trapelava di tanto in tanto da quel cielo smorto aggrondato, che poi si serrò da ogni parte, annottando vie più la taverna: a un soffio repentino di vento s'udì per la strada mulinare e alzarsi in aria la spazzatura e sbattere ripercossi usci e finestre; e poi giù goccioloni a martello su i tetti ottenebrati e le vie. - 166 - Il vinaio non ritornava: Gustavo scese in cantina, e, dopo pochi momenti, risalì con la lucerna, che nella fuga gli s'era spenta, e gridò esterrefatto, pallido, ansante: " È caduto! è caduto! su, presto, venite a darmi una mano! " I due manovali scesero in furia anche loro, e trovarono il vinaio colà dove l'aveva visto Gustavo: lo trovarono disteso per terra, con le spalle appoggiate a una botte, in mano la tromba da vino, e la testa giù penzoloni sul petto. Gli rialzarono un poco il mento, v'accostarono la lucerna, e videro un orrido esanime viso: lo chiamarono, lo scossero, tentarono di rialzarlo, ed egli ricadde giù tutto torto come un fantoccio che il burattinaio butta là, dopo la commedia. " È morto! è morto! " gridò Gustavo, e ruppe in un pianto. I due manovali lo presero risoluti, l'uno per le braccia e l'altro pei piedi, Gustavo li precedè piangendo con la lucerna, e lo portarono a gran fatica in bottega, ma tanto strapiombava quella massa pingue e disfatta, che al primo tavolone che trovarono, ve lo caricarono sopra. Gustavo si chinò a baciare quell'orrido e livido ceffo che pareva quello d'Oloferne trucidato, e pianse.... Sebbene veniva grossa quanta ne poteva - 167 - venire, la notizia si sparse subito, e correva su e giù per la via, d'uscio in uscio, da finestra a finestra; in bottega accorreva gente curiosa e anche un po' sbigottita, e fuori e dentro era un vario e caloroso vociare d'uomini e donne. " È morto Nando! — Come! o se l'ho visto un'ora fa sull'uscio di bottega! — Eppure è morto d'un colpo, Dio ci guardi! — Oh, povero Nando! — Era un gran pezzo che quell'uomo trascicava i frasconi — Se avesse dato retta a me, e fosse andato a Rapolano otto giorni prima, questo non succedeva. — Povero Nando, era un bonomo — Oh, bonissimo! — Era un usuraio! — Ma che è vero, dite, Angiolina? — O come mai? — Come si fa presto a fare il ruzzolone, davvero! — Gli vo' dire un rosario, povero Nando — Aveva sempre le buscherate — Sì ma in questi ultimi tempi andava a baciare tutti gli altari: si confessava al Carmine ogni mese da padre Pio — Si sa nulla se abbia fatto testamento? — Mah! c'è chi dice di sì, e chi dice di no — Io dico che ha lasciato tutto alla Beppa — Dicono che il capitale l'abbia lasciato a Gustavo, e la Beppa usufruttuaria — Oh, la Beppa, ieri sera, andati via tutti, venne a trovarlo, ci stette fin dopo la mezzanotte: la vidi io — Era un uomo di giudizio — Eh il conto suo lo sapeva, e deve aver lasciato molti quattrini - 168 - — Non si può dire che abbia lasciato nè venti, nè trenta, ma dicerto ha lasciato una bella somma — Era un egoista che non avrebbe fatto un piacere neppure a impiccarlo! — Con le donne era molto confidenzioso — Io dico che rinvivisce a fargli vedere il fiasco o la Beppa! — Gnamo gnamo, porta rispetto! — Oh, povero Nando, chi l'avrebbe detto ieri sera! — E dove anderemo ora la sera a passare un'ora? dove anderemo? " Queste e altre voci discordanti e assordanti riempivano di tumulto la taverna e la strada, quando si vide la Beppa farsi largo affannosa in mezzo alla folla. XI. Entrò scalmanata, bagnata, col cappelluccio a sporta che le s'era rovesciato dietro le spalle, e i due nastri gialli davanti, ne' rapidi moti, nel battere disperatissimo delle mani, le sfarfallavano qua e là, e lo scialletto nero e civettuolo l'era trascorso giù a mezza vita a festone. " Madonnina mia, madonnina mia, madonnina mia, che tragedia! povero Nando! " La Beppa allora volle dare agli astanti (tacevano tutti commossi) una rappresentazione del suo dolore che fosse pari all'enormità della - 169 - circostanza: tale rappresentazione si potrebbe dividere in varie scene. Scena prima: Ella guardò il morto ripetendo benissimo tutti quegli sguardi, quei fremiti, quei sospiri, quegli orrori, quei raccapricci che sono altrettanti precetti teorici per raggiungere nella disperazione il massimo effetto. Scena seconda: Passò quindi a una varietà d'atti e d'attucci con la testa e col corpo, dondolandosi avanti, dondolandosi indietro, appoggiandosi a questo, appoggiandosi a quello per non svenire, con la destra premendo il cuore, e torcendo il capo come vediamo fare alla gatta quando si lecca. Scena terza: Cominciò a muoversi intorno scongiurando gli astanti a ripeterle il funestissimo caso, e ricordando a uno a uno i rimedi che si sogliono in tali disgrazie apprestare, per accertarsi se li avessero almeno tentati tutti. Scena quarta: Rassicurata quanto ai rimedi, s'inginocchiò a' piedi del morto in mezzo alla folla, e vi restò alquanto in tacita orazione e sì fervorosa che pareva si fosse posta in diretta corrispondenza con la bell'anima del defunto. Scena quinta: S'alzò, si fece il segno della croce, sostò immobile un poco, si tenne un poco il fazzoletto sugli occhi, e così bendata fu presa - 170 - da un tremito convulso piangendo: quindi si strinse al seno il suo Gustavo, e poi se lo ristrinse un'altra volta in disparte, domandandogli se il povero Nando aveva il portafoglio in saccoccia. " No, " le rispose il figliuolo piagnucolando, " andate di sopra; è tutto aperto, in qualche luogo lo troverete: presto! " " Mettiti sulla porta, " ella gli rispose sommessa, " e se mai Stefano apparisce alla cantonata, vienimi a avvertire subito. " Aspettò ancora un poco afflittissima, e quando vide che nessuno badava a lei, essendosi di nuovo tutti rivolti a guardare il morto e a discorrerne, girò, più rapida d'una biscia che si ripone inseguita, dietro la scena che copriva l'uscio del mezzanino, e sparì. Intanto Stefano e Filusella, avvisati subito da un amico, a cui avevano dato quell'incarico in prevenzione di tutti i casi possibili ad accadere, essi pure, sotto quel diluvio d'acqua, correvano alla taverna. A chi gli domandava a Stefano dove corresse tanto, egli rispondeva: " È morto il mi' fratello: " con quella stessa voce con cui avrebbe annunziata qualunqu'altra cosa ordinaria. Padre e figliuolo entrarono grondanti e trafelati nella taverna, e tutti rivolsero gli occhi a - 171 - Stefano: Filusella, tenendosi stretto al petto con le due mani il cappello, gli veniva dietro timido, silenzioso, senza guardar nessuno. Stefano ruppe la pressa che gli opponeva la gente, e accostatosi al tavolone, s'arrestò davanti al povero Nando colà deposto, con la testa appoggiata sopra un guanciale. La lucerna etrusca, che gli avevano messa vicino sopra una sedia, ventilava su quel viso immobilissimo un lieve chiarore, e gli comunicava, a cagione delle nere occhiaie e delle livide rughe, un certo moto d'ombre che lo rendeva più spaventoso. Stefano si scoprì tacitissimo il capo e si voltò a Filusella che aveva accanto: Filusella non aprì bocca, ma come persona intendente, strinse forte le labbra, e disse tutto con un'occhiata: quell'occhiata accorta la ripetè per due volte a suo padre, al quale s'inumidirono un poco gli occhi: poi vedendo di striscio la Beppa, diè nel gomito due o tre volte a Filusella, e gli occhi gli lampeggiarono di furore. La Beppa s'era così sbrigata che pareva non si fosse mossa punto di là presso il morto, a cui allora, scorrendo a fretta a fretta la corona, bisbigliava il rosario: nessuno, fuorchè Gustavo, l'aveva vista andare e venire. Ma in quel momento il suo viso non poteva serbar sempre quella maschera di falso cordoglio: di - 172 - sotto la maschera trapelava spesso tale imperiosità e tale dispetto, che pareva covare in seno un'ingiuria atroce, e star lì pronta ad aspettare il momento di far valere un proprio diritto. Stefano a ritrovarsela lì, davanti al fratello morto, con quell'aria ora compunta, e ora sfacciata di pretendente e di spiatrice, quel rovello che aveva represso tanti anni, ogni volta che s'era abbattuto in colei, ora se lo sentì tutto muggire dentro e forzar le dighe: le occhiate che le dava e quelle che riceveva da lei, che pur seguitava a bisbigliare fervidamente il rosario, erano come un irrompere di mute saette: una tempesta umana era vicina a scoppiare. " Ma che cosa ci siete venuta a fare voi qui? " egli le domandò con calma. " Quello che ci siete venuto a far voi! " " Io sono il fratello. " " E io son l'amica. " " E chi è stato il primo, " egli domandò, " ad avvedersi del morto giù in cantina? " " Lui, " dissero due o tre accennando Gustavo in mezzo al silenzio di tutti, perchè tutti ascoltavano attoniti, e sentivano per l'aria l'uragano vicino. " Dunque gli avrai trovato in tasca un portafoglio di pelle rossa, che sempre teneva addosso: e dov'è questo portafoglio? " - 173 - " Io lo posso domandare a voi! " rispose Gustavo arrogantemente; " in tasca non gli abbiamo trovato che questi dieci scudi, che gli dovevano servire per la cura di Rapolano. " " Non è vero, e se il portafoglio non si trova, tu l'hai rubato! " tonò Stefano vibrandogli contro l'indice teso. " Voi l'avete rubato! " allora si scatenò a dire la Beppa, con due occhi che parevano due lingue di vipera assalita: " l'avete rubato voi ieri quando veniste dal povero Nando! " " Io l'ho rubato? ah villanaccio! " gridava Gustavo. " Io? l'ho rubato io? " gridava Stefano battendosi il petto, ed a testa fieramente alta; " io? ah cagna! porca! cignala! " " Ah villanaccio! ah ladro! guitto! schifoso! lebbroso! ora vedrai! " Per quel sentimento così umano che ci obbliga a riguardare ogni persona morta come sacra al rispetto di tutti, tanto che in faccia ad essa (purchè peraltro sia appartenuta alla nostra medesima religione) ci leviamo sempre benignamente il cappello, anche quando il suo umile stato l'abbia sempre sottratta da viva ad un tale onore; per questo sentimento che allora veniva offeso in modo sì basso dall'animo venale e tristo di quei litiganti, si levò subito - 174 - tra la gente che circondava il cadavere un mormorio e poi un clamore sincero d'indignazione. Come!... il povero Nando era appena spirato, era ancora caldo, giaceva immobile e corpulento sul tavolone, in mezzo al cordoglio de' suoi amici e de' suoi compagni: giaceva in quel silenzio riverenziale del corpo umano in faccia all'arcana maestà della morte che l'ha colpito, e alzar la voce in quel modo, e trattarsi d'ogni vituperio, e osar perfino di venire alle mani!... Quale profanazione! Tutti si trovarono d'accordo a volerla impedire a ogni costo. Gli uni agguantarono Stefano e Filusella, gli altri saltarono addosso a Gustavo, e tenendo chiusi, e quasi soffocati in mezzo, quei furibondi, i due gruppi squassavano qua e là, ondeggiavano, si piegavano come due ciurme intorno all'albero maestro trascinate via dai marosi. Stefano e Filusella, abbrancati ai polsi e alla vita, stiravano innanzi il collo, gonfiavano innanzi il petto tentando di rompere tante braccia, e avventarsi a Gustavo: e Gustavo faceva lo stesso, respinto indietro dall'altro gruppo: se non che, non essendo temuto come Stefano, gli davano a Gustavo, per calmarlo, dei sonorissimi pugni. La Beppa batteva le mani in mezzo tragicamente, le intrecciava, alzava gli occhi al cielo, ed urlava: era un - 175 - finimondo, allorchè per buona fortuna accorse, chiamata in tempo, la squadra degli sbirri col capitano. " Ah popolaccio indegno! galeotti! canaglia! " ma siccome le buone non bastavano, come disse il capitano nel suo rapporto, gli sbirri cominciarono a far piazza pulita in altra maniera.... Questo si sentiva prendere un ciuffo dietro e tirar via per la cuticagna, l'altro sbatteva i denti a una ginocchiata appoggiatagli di sotto in su a posteriori, quello voleva parlare ed era sbatacchiato nel muro, quell'altro voleva difendersi e gli era messa al petto la bocca del pistolone, per cui allibiva e taceva, e in un fiat sparvero tutti; non rimasero nella taverna, di cui fu chiusa la porta, se non i quattro litiganti già ben legati, malmenati e frugati. Ma il portafoglio non venne fuori.... La Beppa, per farla chetare, il poco cavalleresco capitano le diè uno schiaffo, che fu come l'ultimo bugliolo d'acqua sopra un incendio. Tornò a regnare, intorno al povero Nando, un religioso silenzio, non rotto da altro che da profondi sospiri e da qualche fremito compresso. Gli sbirri, rimesse nella tasca della cacciatora le pistole a pietra focaia, ultimo avanzo dei dragoni napoleonici, si gettarono qua e là - 176 - a sedere per le panche dell'oscura taverna, e ora guardavano il morto, e ora ghignavano facendo orribili boccacce ai quattro delinquenti silenziosissimi e truci.... Intanto il cancelliere del tribunale, seguito dal capitano e dal coadiutore, frugava tutta la casa, e apponeva su tutte le cose del morto il regio sigillo. Stefano si pentiva d'essersi lasciato trascinare dall'ira: quanto gli avrebbe giovato di più la prudenza! Poteva darsi, anzi era probabilissimo, che suo fratello avesse riposto il portafoglio su in casa, e allora, invece che in mano sua, ora cadeva in quelle del cancelliere. La sua precipitazione d'uomo ingenuo e focoso aveva guastato tutto. Ma egli quell'odio contro la Beppa e Gustavo l'aveva troppo a lungo e troppe volte calcato, perchè in quel terribile incontro non esplodesse: ora, come sempre suole accadere, egli si pentiva di questo che era un ultimo effetto naturale, non della causa che l'aveva prodotto; e se ne pentiva, al solito, non per la cosa in sè come colpevole e trista, ma perchè essa era riuscita in suo danno: danno che avrebbe potuto evitare, egli pensava, con un po' più di tattica e di pazienza.... E lì in piedi legato, alto, cupo, e giù a capo basso, pareva Polifemo cieco, perchè, immobilissimo, - 177 - teneva tesi gli orecchi come se negli orecchi avesse raccolta tutta la vita, per tentar di cogliere qualche parola del cancelliere che si sentiva discorrere per le scale della cantina, e poi su al mezzanino. Ma finita la visita, il cancelliere riscese in bottega, e disse che il portafoglio non era stato trovato in nessun luogo. La Beppa e Stefano, presi più che mai dal sospetto reciproco, si scambiarono allora un'occhiata bieca d'accusa, la quale diceva chiaramente con qual furore si sarebbero di nuovo azzuffati se non ci fosse stato di mezzo l'autorità. " Ieri...." disse quindi la Beppa. " Fate silenzio! aspettate d'essere interrogata, " gridò il capitano degli sbirri. " Vi permetto di parlare, " disse il cancelliere più civilmente, " e lei, coadiutore, scriva. " " Ieri questo villanaccio...." " Male! s'incomincia male! " esclamò il cancelliere accigliato, " ricordatevi che qui non siete in piazza: siete davanti al magistrato dell'imperiale e real governo: parlate dunque come si deve. " " Ieri quest' omo venne, lustrissimo, a visitare quel poveromo là.... il povero Nando, che doveva andare a' bagni di Rapolano, e che son certa e sicura gli dette a tenere quel portafoglio. " - 178 - " Dio, mandami un accidente so questo è vero! " tonò Stefano alzando la testa, e squassando le due braccia come Sansone quando abbracciò le colonne. " Silenzio! " gl'intimò il cancelliere. " Ne sono certa e sicura, sor cancelliere, " ripetè ancora, con voce afflitta e di ferma convinzione, la Beppa. " Posso parlare? " domandò Stefano che scoppiava. " Non ancora: e come potete asserirlo? " " Me lo disse ieri sera il povero Nando. " A quella menzogna improvvisamente scaricatagli dalla Beppa, gli occhi di Stefano parvero quelli d'un falco, quando a un'orrenda beccata dell'avversario erge il collo repentino per avventarsi. Alla Beppa invece era parso di dire una verità, tanto desiderava che Stefano apparisse agli altri, come senza alcun dubbio appariva a lei, il vero ladro del portafoglio. " Posso parlare? " ripetè Stefano divenuto smorto come un cadavere, e gocciolando sudore giù dalla fronte aspra e rugosa. " Non ancora, " rispose tranquillissimo il cancelliere, e rivolgendosi di nuovo alla Beppa, con astuzia curialesca le domandò: " E dite, che somma conteneva quel portafoglio? " " Io non lo so, " ella rispose sdegnata come - 179 - se quella domanda del cancelliere l'avesse offesa nell'onore, " so che il povero Nando non trovava mani abbastanza sicure, e questo vuol dire che c'eran delle migliaia: ma ripose male la sua fiducia a riporla in quel...." " Posso parlare? " " Parlate. " " Ragionare è un conto, " gridò Stefano, " e voler dire una cosa è un altro! ah dunque il mi' fratello gli disse a lei d'averlo dato a me il portafoglio? " " Sì: non è vero Gustavo? " " È vero, è vero! " " Oh impostori! calunniatori! inventori! bugiardi! ah se non fossi legato sarebbe venuto il momento di farvela vedere: chi vi scamperebbe? chi? assassini! Filusella, non senti? " Filusella sentiva pur troppo e tutto pesto e malconcio, col suo cappelluccio fangoso che gli era caduto ai piedi, guardava con fulmineo stupore la Beppa, Gustavo, il cancelliere, gli sbirri, il su' babbo: voleva dire e stava per dire un monte di cose alla volta, e non trovò il verso di dirne una. " Bugiardi! " seguitava a dire Stefano avventando la testa a denti stretti, e battendo l'erre come un frombolo di saetta: " sor cancelliere, quanto è vero che son cristian battezzato, - 180 - lo giuro pel santissimo sacramento dell'altare, e mi pigli un accidente subito, e Dio m'acciechi in questo momento, e la testa mi sia mozzata, e la terra mi si sprofondi qui sotto i piedi, e Dio mi danni all'inferno con tutti i Casamonti per tutta l'eternità, se questa non è una calunnia, se questa non è un'invenzione di quella donna e del su' figliuolaccio: vada a casa mia, sor cancelliere: vada! è padrone! frughi per tutto! per tutto! e se trova il portafoglio mi faccia tagliar la testa: il portafoglio l'ha avuto lei! gliel'ha cavato di sotto lei al mi' fratello! lei! sì lei!..." " Calunnia! calunnia! calunnia! " strillava la Beppa volgendo il viso per non vedere Stefano, e alzando inorridita le braccia. " Io, sor cancelliere, la politica non l'ho studiata come quella donnaccia! " " E devo ricordare anche a voi, " disse con fredda e severa gravità il cancelliere, " che davanti al magistrato non son permesse contro chicchessia le parole ingiuriose? " " Quella buona donna allora. " " Non son permessi neppure i sarcasmi! " gridò il cancelliere. " Quella donna, " ripigliò Stefano, abbassando gli occhi furibondi, e parve ringoiare un ruggito. Dopo qualche minuto di tremendo silenzio, - 181 - il cancelliere, squadratili tutti e quattro, disse soavemente: " Basta per oggi: vadano pure. " E scortati dagli sbirri furono condotti tutti e quattro, frementi e sospirosi, in prigione. XII. Il fatto levò rumore, gli sbirri furon lodati per la prontezza con la quale eran corsi a metter fine al disordine, e il nome del morto profanato, del povero Nando, correva per le bocche di tutti. Non trovavano parole bastanti a condannare la venalità di quel villanaccio che, invece di piangere il fratello, aveva pensato solo ai quattrini, facendo tutto quel putiferio. Con questa lodevole indignazione mostravano tutti una tal purità di sensi e tanto disprezzo per il danaro, che certo era una vera compiacenza, una dolce maraviglia l'udirli. Tutto il torto lo davano a Stefano, perchè la Beppa se ne stava lì zitta zitta accanto al morto a dirgli il rosario, tutta immersa nella preghiera e nell'afflizione, e non avrebbe aperto bocca a ripeter nulla, e tanto meno poi in quel momento, se non era il primo Stefano a provocarla, incolpando lei ed il figliuolo d'aver rubato il portafoglio. Così diceva la Beppa stessa, e così - 182 - confermavano i testimoni a una voce. Che poi un portafoglio ci fosse stato, di questo non c'era più alcuno che dubitasse, dopo le chiacchiere che ne aveva sempre fatte la Beppa, e anche perchè i vecchi frequentatori della taverna giuravano d'aver veduto il vinaio mettervi mille volte i biglietti di banca, e lo portava sempre con sè, non osando di mostrare troppo apertamente d'essere ricco, ma lasciandolo un poco subodorare per essere più stimato e più riverito. Tutti dunque affermavano con assoluta certezza che il vinaio aveva lasciato gran capitali: e chi diceva venti, e chi cinquanta, e chi ottanta, e chi centomila. Dov'erano andate tutte queste ricchezze?... chi era il ladro?... questo era l'importante, questo era ciò che si voleva sapere. S'aspettavano dunque da un giorno all'altro che il ladro fosse scoperto. " S'è scoperto finalmente questo ladro? " l'amico domandava all'amico incontrandolo la mattina per via, e si facevano pure delle scommesse. È da deplorarsi che poi tali scommesse andassero tutte fallite, perchè sarebbe stata una bella sodisfazione anche quella di poter dire per esempio: — La scommessa l'ha vinta il tale, oppure il tal altro: — ma fallirono, perchè riuscite vane le perquisizioni in casa di Stefano e della Beppa, - 183 - e vana pure ogni altra ricerca, l'autorità fu costretta a scarcerare i quattro ingabbiati. Allora avendo delusa l'aspettativa del pubblico, non è a dire a quali censure non rimase esposto il governo; censure che erano tollerate perchè non di natura politica, ma dicevano tutti che i danari dello Stato erano spesi molto male a pagare degl'impiegati così inetti, così pimmei. Su quei quattro intanto rimase il sospetto del pubblico severissimo. Quando Stefano dunque, uscito di prigione, come unico erede del fratello ne riaprì la cantina per vendere il vino che ancora rimaneva in tre o quattro botti, gli amici del povero Nando s'accordaron di non andarci e lasciarlo solo colà in quel tenebroso stanzone, in compagnia dei boccali e delle panche vuote. Stefano, che si sentiva soffocare in quell'aria e rodevasi dalla rabbia, non vedendo venir nessuno, neppur le serve e le ciscranne della strada, anch'esse indignate contro di lui; fu costretto a ribassare grandemente il prezzo, e allora ci fu tal folla di donnacchere al finestrino e d'amici nella taverna che in un giorno o due le botti del povero Nando furon vuotate. Compiuta questa faccenda, Stefano vendè a un rigattiere di piazza i mobili del fratello, chè per la sua casa campestre erano troppo di lusso e - 184 - superflui, ne vendè pure la tuba, la canna d'India, il rotolò con la nappa, e le giubbe: quindi se ne tornò con quei pochi al podere, e nell'antico palazzo dei conti Della Pula si vide chiuso finalmente anche il finestrino della cantina: un finestrino che colpiva così chiuso col suo silenzio, dopo che per tanti anni aveva raccolto intorno a sè tutto il buonumore e tutto il chiacchierio di quella malinconica strada. Tornato al podere, la fatica e l'aria libera e pura del poggio non calmò più, come soleva un tempo, gli spiriti di quell'uomo. Egli era sicurissimo che l'eredità del fratello gliel'avevano carpita la Beppa e Gustavo, i quali credevano lo stesso di lui. Le due parti nemiche dunque rimuginavano pensieri di sangue, e quest'odio reciproco che derivava da un reciproco sospetto, anzi, più che sospetto, certezza, gorgogliava e s'inaspriva nel pensiero ostinato e insodisfatto della vendetta. La carcere sofferta, gli ammonimenti e le minacce severissime ricevute dal vicario e dal capitano degli sbirri, alla cui sorveglianza erano sottoposti, li tenevano a freno ancora, ma quel non essersi potuti sfogare, quell'odio compresso stabiliva una tensione violenta molto pericolosa: da un momento all'altro poteva succedere un nuovo scoppio; quindi, imbattendosi per la strada, badavan - 185 - bene di non guardarsi, perchè ehm!... sarebbe bastato un'occhiata! L'eredità del vinaio, per le stupide ciarle che n'eran corse, andava moltiplicandosi nel loro cervello, sicchè favoleggiavano di somme troppo maggiori del vero, e il cruccio e il rammarico crescevano in proporzione del danno che credevano d'aver ricevuto. Non mancavano intanto d'inviare al povero Nando, che era morto ab intestato, tali giaculatorie che certo non valevano ad accorciargli nè a mitigargli le pene del purgatorio. Stefano s'era veduto crollare innanzi tutto l'edifizio della sua vita. Non era stato, è vero, che un edifizio ideale, un miraggio lontano di felicità, un'illusione insomma, ma quanti pensieri non gli era costata, quante cure, per poi non raccogliere da essa che tristezza e odio mortale! Senza possedere nessuna qualità straordinaria, egli era nondimeno tal uomo da elevare mediocremente la fortuna della sua famiglia, quando per la sua condizione non si fosse trovato fuori d'ogni via d'arrivare a ciò, e la via da lui presa era cattiva e fallace, quantunque, per sua disgrazia, fosse la sola che il caso potesse offrire ai sogni ardenti della sua cupidigia. Questa sua cupidigia, unita alla sua costanza, alla sua energia, alla sua forte incessante laboriosità, l'orgoglio di cui - 186 - le umiliazioni patite raddoppiavano l'acrimonia e la virtù operativa, e l'animo inconsapevolmente e latentemente ambizioso, e che lo spingeva anch'esso, come l'interesse, a cercar di cogliere l'occasione, ed essere accorto; tutte queste qualità buone e cattive che l'avrebbero in un'altra sorte e in un altro ambiente condotto a realizzare il suo sogno, contadino e rozzo e inesperto di troppe cose come egli era, non potevano che traviarlo, e frullargli il tormento di cure e di sforzi vani e colpevoli. Aveva alla cassa di risparmio seimila lire, messe assieme a poco a poco, d'anno in anno, con la pazienza e la solerzia d'una formica. E ora, pensando che quanto aveva raccolto dalle incessanti fatiche e dagli aspri risparmi di tanti anni, era tutto lì in quel magro capitaluccio insufficiente ad assicurare al figliuolo e ai nipoti la proprietà del podere, mentre sperava il podere di poterlo comprare con l'eredità del fratello, e l'eredità gliel'avevano iniquamente rubata; egli, con tali pensieri pel capo, vedeva tutto a traverso, e perdeva l'affezione anche alla terra, parendogli tutto inutile il sudore che vi aveva sparso ogni giorno. Tanto ormai era vecchio, si vedeva innanzi un breve tratto di vita, e la meta, già vagheggiata sin dalla giovinezza, la vedeva ancora così lontana, - 187 - che troppo più gli sarebbe occorso campare per arrivarci! Il suo Filusella dunque e i suoi nipoti sarebbero rimasti sempre poveri, sempre contadini disprezzati e schiavi a discrezione di quella feccia della piazza. Questo sentimento ribelle che gli faceva aborrire ogni dipendenza da cotali padroni, plebei o nobili che si fossero, e che eragli rimasto ignoto prima d'avvicinarsi e di mescolarsi con la gente della città, ora nei disinganni della vecchiaia, dopo la morte del figliuolo, la calunnia, le ingiurie e la prigionia, riempivalo più che mai d'amarezza e di sdegno, come se l'avessero forzato a tollerare la più nera, la più atroce delle ingiustizie. In quei crucci segreti accusava anche Amerigo: come padre che cosa non aveva fatto per procurargli una sorte migliore della sua! una sorte che l'avesse elevato, e posto al sicuro dalle angherie a cui sono sempre esposti i villani: e Amerigo invece, per la sua pessima condotta e per i suoi vizi, era morto giovane, era andato incontro al ferro d'un assassino! così era rimasto campo libero alla Beppa e a Gustavo di rubargli l'eredità: un’eredità a cui come il primo dei Casamonti, e per la lunghissima servitù prestata al fratello, lui solo aveva diritto! Egli ragionava così: e la coscienza di questo preteso diritto, il sentimento dell'offesa e del danno conseguiti - 188 - alla violazione di esso, cambiavano il suo cuore in una vera fucina d'odio; tanto che se egli fosse stato meno capace di quelle riflessioni a cui lo portava il pensiero della galera e della sua totale rovina, sarebbesi abbandonato tutto a seguire quegl'impulsi violenti che trascinano sempre al male, se il timore non li rintuzzi, o la ragione, per nostra disgrazia sempre più tarda di essi, non sorga in tempo a mostrarcene l'ingiustizia, o il caso non ci metta sott'occhio la verità. Una sera seguiva quest'ordine o questo precipizio d'idee, tutti dormivano in casa (Giovanna era morta da un pezzo), e lui era rimasto solo al camino che si spegneva silenzioso. Pareva incantato colà a sedere, quasi gli paresse fatica ad andare a letto anche lui, sapendo che il letto da un pezzo in qua gli negava il sonno, gli era increscioso. Stava seduto in un vecchio seggiolone di cuoio a fiorami, che non era fatto certamente per una cucina di contadini, ma per riempire gli spazi, con altri seggioloni compagni, d'una gran sala, o anche sarebbe stato al suo posto nello scrittoio d'un astrologo o d'un umanista del quattrocento: in quella cucina, con la sua forma signorilmente antica, pareva dolersi della compagnia degli altri mobili oscurissimi e rozzi, - 189 - ed uno, vedendolo, si domandava come mai si potesse trovare in così povera casa. Ma que' seggioloni erano sparsi un tempo per tutto il grande e rovinato palazzo dei conti Della Pula, e quello era rimasto dimenticato giù al mezzanino del vinaio. Ora, di tutti i mobili del vinaio, Stefano quello solo se l'era portato a casa, e non l'aveva venduto, pensando che gli avrebbe fatto comodo per riposarvisi la sera, dopo il lavoro. In famiglia lo riguardavano tutti con una specie di riverenza, e, fuorchè il babbo, nessuno vi si sedeva. La figura di Stefano acquistava da quella nobile sedia, in faccia a quel vasto camino, l'apparenza maestosa d'un uomo d'un'altra età. Segaligno, col dorso su ben diritto alla spalliera, con due occhietti non molto intelligenti, ma che non cessavano mai d'esser vivi, ed erano terribili nello sdegno, con un forte risentimento di rughe aspre e taglienti nel viso color del rame e che, pur maschio, aveva una tal quale finezza tutta toscana di tratti, e il labbro sottile; come era bieco talora e cupo il suo sguardo! come concentravasi in un pensiero iracondo! E anche quella sera, con gli occhi fissi in que' tizzoni che si spengevano placidi nel camino, ritornava col pensiero a visitar la casa e la - 190 - bettola del fratello, volendo ancora accertarsi se non avesse per caso dimenticato qualche angolo, qualche ripostiglio, qualche cantuccio: no, da per tutto aveva messo e rimesso l'occhio ansioso e la mano. Sì: l'avevan rubato loro: la Beppa e Gustavo. Se gli veniva in mente che poteva averlo rubato anche taluno dei tanti che in quella circostanza erano corsi a invadere la bottega: — No, rispondeva a sè stesso, l'hanno rubato loro! — Tanto il vecchio odio contro la Beppa e Gustavo, e l'abitudine di vederseli sempre di fronte a contendergli, con vigilanza e ostinazione non minore alla sua, l'eredità, lo incitava a creder ladri essi soli di quello che al pari di lui avevano sì agognato; tanto si compiaceva di nutrire e accrescere quel suo odio in tale certezza, tanta voluttà provava il miserabile cuore di quell'uomo nell'attizzare e aspreggiare la passione da cui era più tormentato! — L'hanno rubato loro! — E contandoli sulle dita, incominciò quella sera a numerare tutti i mobili che erano nelle stanzette del vinaio: li contò e li ricontò, e concluse di averli tutti guardati e rivoltati a uno a uno: — L'hanno rubato loro! A un tratto gli s'illuminò la faccia d'una subitanea accortezza, ed ergendo la vita, - 191 - sobbalzò sulla sedia come se un lampo gli fosse guizzato davanti agli occhi, o come se fosse rimasto sorpreso innanzi a un'improvvisa rivelazione: scattò su in piedi, e andò tentoni cercando il lume per la cucina.... Come rimuginando e frugando in mezzo a una grande minutaglia di cose, a un tratto ci salta all'occhio un oggetto caro o prezioso che s'ignorava, o che avevamo dimenticato, così egli, ritornando mentalmente per la millesima volta a rivedere indietro i fatti suoi, finalmente aveva trovato il mezzo di ricordarsi che quel seggiolone antico dove sedeva, esso solo gli era sfuggito, perché, non dovendolo vendere, l'aveva messo da una parte, e poi, sopraffatto da' suoi cupi pensieri, non s'era più ricordato di sottoporlo come gli altri a un accuratissimo esame. Andava tentoni, e picchiando qua e là, le mani tremanti, cercava il lume, e s'impazientiva di non trovarlo subito nel momento.... Lo trovò, l'accese, e curvò la lunga schiena a guardare con attenzione grandissima il seggiolone troneggiante innanzi al basso camino. Di sopra il bel cuoio a fiorami, a cui l'uso e gli anni avevano dato una lucida tinta morata, appariva intatto, appariva liscio e pulito senza vestigio alcuno: ma palpando di sotto l'alto e duro guanciale, - 192 - ne sentì in un angolo ricucita e sovrapposta la tela. Capovolse la sedia, e toltosi il coltellaccio di tasca, sbranò la tela da un capo all'altro, strappò via un grosso batuffolo di crini di cui era imbottito il guanciale, vi cacciò dentro la mano, e.... E finalmente corri, corri e ricorri come bracco che si spasima ai quattro venti, e fiuta rapido ogni cespuglio, ogni sentiero, ogni siepe, in cerca della quaglia o della pernice, egli aveva scoperto la selvaggina per uno di quegl'intuiti che sembrano alle volte miracolosi, e non son altro che le naturali furberie dell'istinto; ovvero sono l'ultimo resultato d'un lungo lavorío della mente, la quale simile a talpa cieca scava e scava finchè talora trova il modo d'arrivare alla luce, o di scorgere il vero. Gli corsero i rigori da capo a piedi a pensare che anche quel seggiolone poteva esser caduto nelle mani del rigattiere: ma di non venderlo gliel'aveva certo ispirato, egli pensò, l'anima del povero Nando, perchè andasse a lui solo e non ad altri l'eredità: col viso raggiante d'un'infinita allegrezza, stette un attimo a bisbigliare sommesso guardando come rimbecillito o trasecolato il seggiolone capovolto e squarciato, e il grosso portafoglio che stringeva nel pugno. Era quel medesimo portafoglio che il - 193 - suo fratello tanti anni prima s'era tolto di tasca quel giorno che fecero insieme il contratto del podere! " Oh anima benedetta! Oh anima santa, che mi sei comparsa in sogno la scorsa notte!... ce n'è, ce n'è de' biglietti: ce n'è meno di quelli che dicevano: ma pure ce n'è tanti! ce n'è tanti!... uno, due, tre, quattro.... " Ce n'è tanti che bastano per la compra di tre poderi e di dieci paia di bovi!... ora addio miseria! son ricco! muoio contento! non ho più nulla a desiderare!... grazie grazie grazie, povero Nando! e, io che t'ho maledetto tante volte! che tu possa essere benedetto in eterno,... e questa lettera sigillata? dev'essere il suo testamento, e se avesse lasciato tutto a me! allora io non ho che mostrarlo, e poi comprare il podere: non so leggere! non so leggere! " Dopo un po' di consiglio preso con sè medesimo, si persuase che di Filusella poteva esser sicuro.... Filusella sapeva un po' leggicchiare pel suo consumo, cioè quanto bastava al suo ufficio di beccamorti, ad ottenere il quale aveva dovuto anche lui sottoporsi da ragazzo a quella prima stroppiatura dell'uomo, che è la cattiva scuola. Egli dormiva in un lettone spazioso con Carmelinda - 194 - e i figliuoletti minori, e allora russavano tutti, mentre un chiaro raggio di luna, entrando dai vetri della finestruola, pareva vegliare, in gran silenzio, quei placidi addormentati: russavano beatamente, ognuno per conto suo, e dimostravano con quella musica discorde, intollerabile a orecchi desti, quanto il loro sonno fosse profondo. " Svégliati! " " O madonna! madonna! " gridò Carmelinda, alzandosi a sedere sul letto, e sporgendo le mani contro l'ignoto che veniva affannoso di notte a violare il suo talamo. " Zitta: son io, il babbo! non mi vedete? " " Sì: o che volete? " " Ho bisogno di parlare a Filusella; chiamatelo anche voi: chiamatelo, via presto!... scotetelo forte! " " Filusella! Filusella! il babbo vi vuole! " Ma ce ne vollero delle chiamate negli orecchi e degli strattoni prima che il beccamorti, tronfiando, masticando, rivoltandosi, dando terribili calci, e brontolando, si trovasse, quasi senza saperlo, fuori del letto. Suo padre, trascicandoselo dietro come un vitello restio, lo portò giù in tinaia per non esser sentiti da Carmelinda, la quale dicerto sarebbe venuta all'uscio a ascoltare. Ma Filusella, non desto - 195 - ancora del tutto, con la barba e i capelli rabbuffati, gli occhi socchiusi e coperto d'una lunga camicia di rozzo panno, sarebbe ricaduto a dormire in tinaia, se suo padre, prendendogli le due spalle, non gli avesse dato l'ultima scossa, soffiandogli negli orecchi: " Svégliati, perdio!... che il portafoglio del povero Nando è trovato! " " E dove l'avete trovato? " egli rispose, ficcando gli occhi spalancati nel viso pallido di suo padre. " Nel seggiolone. " " Nel seggiolone?..." " Sì: dentro l'imbottitura. " " Nel seggiolone di cucina? " " Sì! sì!..." " Oh figlio d'un cane! guarda dove l'aveva cacciato! e ci ha fatto tanto penare! e voi l'avete cercato tanto, e poi c'eri sopra a sedere! " " Non parlarne veh! non parlarne! " sclamò Stefano alzando la mano minacciosa sul figlio, come per mettergli sulle labbra un sigillo eterno. " Fate conto d'averlo detto alla fossa che ho scavato stamani. " " Pensa che questi quattrini un giorno saranno tuoi e de' tuoi figliuoli. " - 196 - " E quanti sono? " " Questo non sono obbligato a dirtelo: leggimi subito questo foglio, ma a bassa voce: ” e s'affacciò all'uscio a guardar nel campo in cui rideva la luna: " era nel portafoglio; dev'essere il suo testamento. " Filusella, non leggeva troppo spedito, nè il vinaio aveva una molto chiara calligrafia: nondimeno tanto fecero che arrivarono finalmente a capire l'ultima volontà del defunto. Capirono che egli nominava suo erede universale Gustavo Cirimbelli figliuolo suo, vincolandolo d'un legato a favore di tre altri figliuoli suoi naturali, Giovanni, Francesco e Antonio Degl'Innocenti, avuti da una certa Amabilia Santini, ragazza di civil condizione, andata poi a servire a Firenze, e colà maritatasi a un ombrellaio: e di tutti era indicato dal testatore coscienzioso il domicilio e il mestiere. Quanto poi al proprio fratello Stefano, con lui il testatore non credeva d'aver obbligo alcuno, perchè troppo bene s'era servito da sè nelle raccolte del podere.... " Oh, anima buggerona! " sclamò Stefano a questo punto: — e aveva sempre mostrato in ogni cosa, continuava a dire il testamento, di non ascoltare altra voce che quella dell'interesse. — - 197 - " Oh, porco fottuto! o lui che cosa ha fatto tutta la vita?... già questo foglio e che conta? i testamenti si fanno, ma in carta bollata, e per mezzo di pubblico notaio; e questo nessun l'ha visto. " " Ne siete proprio sicuro? " domandò Filusella. " Altro! se l'avessero visto, con tante che n'hanno dette, ti pare! avrebbero detta anche questa: se loro son furbi, io son più furbo di loro! Che Gustavo e che Antonio, e non so chi altro Degl'Innocenti? chi li conosce questi farabutti?... io non so chi siano! no signore! questi quattrini son miei: io sono venuto al mondo prima di loro, io sono il più vecchio dei Casamonti, io al mi' fratello gli ho fatto il servitore tutta la vita, io per lui ho sofferto la carcere, ho sofferto perfino il nome di ladro!... È Dio benedetto che ha voluto così per riparare all'ingiustizia d'un fratello ingrato! sì ingrato! e io sarei il più gran baggiano di questo mondo, se ora non mi prendessi tutto: questa è roba mia! quando scrisse questo foglio dicerto aveva bevuto, tu sai che aveva il vizio di bere: no, questo non è un testamento in regola! " E accostatolo al lume, il testamento andò in fiamme, ed egli soggiunse: " Ecco, ora è festa finita! domani darai - 198 - questi tre paoli al cappellano perchè gli dica una messa, ma, ricordati bene.... mi pento quasi d'avertelo detto: che non ti scappi detto, alle volte, con Carmelinda! bada! la maledizione del padre ti colpirebbe!..." " State sicuro: la bocca mia è la bocca d'un morto. " E Filusella tornò a dormire approvando pienamente l'operato del babbo, e si rallegrava tutto pensando che quell'oro era anche suo: l'oro — il quale, come diceva quel tale abate ai discepoli, toglie al regno divino la maggior parte dell'anime. — XIII. Ma l'averlo trovato così inaspettatamente non mutò punto i costumi, nè le abitudini ordinarie di quei campagnuoli. Stefano fu veduto sempre con la stessa lacera giubba di mezzalana a vendere in piazza, Carmelinda continuò a girare il fuso e cantarellare sulla porta di casa, chiamando ora l'uno e ora l'altro de' suoi figliuoli, e Filusella continuò in cappa nera e con le cigne in mano a attendere zitto zitto la Misericordia col morto, nell'atrio del camposanto. Stefano anzi raddoppiò il lavoro premendogli - 199 - che le raccolte del podere crescessero e così potesse attribuirsi anche a queste la sua ricchezza, la quale bisognava già che prima o poi, in qualche modo e da qualche parte, spuntasse fuori. Non lasciò dunque cantuccio di terra dove avesse visto che poteva provar bene questa o quella sementa, senza ingegnarsi di farla fruttare più che potesse. Così, per esempio, al confine del cimitero, dove questo gli veniva a baciare, si può dire, l'erba del campo, o meglio i cardi e l'ortiche di quel tratto incolto che s'estendeva fra il cimitero e la casa del contadino; in quel limite il caso aveva voluto che fossero seppellite alcune delle lingue più operose del luogo. Sarebbe troppo contrario al bel costume di prodigare la lode colà dove non la raccoglie e non la crede nessuno, cioè sulle fosse dei morti, dicendo che erano state lingue malvage, come d'altronde sarebbe lode troppo modesta il riconoscere soltanto del sale in ciò che erano venute producendo incessantemente. Ora quel loro sale lo facevano tutto quanto rifluire a benefizio di quella florida piantagione di patate, che Stefano aveva fatta, quasi presago, vicino ai loro tumoli silenziosi. Qual misterioso e sotterraneo e continuo scorrere di fluidi generosi tutto a vantaggio delle patate! un vero e grande opificio chimico sempre in moto il - 200 - giorno e la notte, ma senza apparecchio meditato e ingegnoso, senza falsi ingredienti, senza rumore di cilindri, senza strepito di rotelle, nè di pulegge. Ammiriamo dunque anche in questo fenomeno il provvido magistero della sapientissima natura che non produce nulla d'inutile, riconosciamo anzi che tutto è infinitamente benefico, tutto è prezioso nell'universo. La superiora delle Teresiane, che tenevano un pio istituto d'educazione, gustava molto di queste patate. " Le patate, " ella diceva a Stefano, " sono il cibo più sano, più leggiero e più nutritivo di quanti, per sua bontà, ce n'accorda la Provvidenza, e noi ne facciamo un consumo immenso con tante educande che abbiamo, ma le vostre poi, o Stefano, le vostre sono così gentili, così saporite.... col sale! " E anche la superiora, al cui occhio di certo nulla sfuggiva, anche lei diceva che Stefano, da qualche tempo, era divenuto un altr'uomo: la divina misericordia finalmente gli aveva ammollito il cuore, perchè era più trattabile, più giusto nel peso, più rispettoso, anzi ora era rispettosissimo!... e non stava più tanto a leticare come prima per il soldo e il quattrino. Carmelinda (a cui Filusella erasi ben guardato di confidare il segreto) faceva ben capire, parlandone sulla porta del podere, che quel - 201 - cambiamento era lei che l'aveva operato, perchè, a tempo della povera Giovanna, Stefano non era mai stato così pacifico e così umano: non lo sapeva prendere quella donna. E Carmelinda ne sorrideva giovialmente e se ne gloriava. Quelli poi che, per il piacere di sentirlo inveire contro la Beppa e contro Gustavo, cercavano di tirarlo a parlare dell'eredità andata in fumo, ora la smessero, perché lui rispondeva sempre con cristiana rassegnazione: " Non me n'importa, il Signore non l'ha voluto, e ci vuol pazienza! nacqui povero e povero morirò: non l'avete visto sulla soglia del cimitero vecchio quello scheletro coronato che tiene in mano quel cartello? su quel cartello sta scritto: Nacqui Grande, vissi Re, e son morto: tutti s'ha a morire, e che importa dunque essere poveri o ricchi? a me i quattrini non m'hanno fatto mai gola: se li godano pure: io per me non ci penso più. " Invece ci pensava, e come! Perchè nessuno lo può negare: l'ingiustizia, per una legge misteriosa ma inevitabile, non lascia mai di pungere il cuore di chi la pensa e la compie. Se oggi Stefano appariva più ragionevole e calmo perchè non più attristato dall'odio e dal rammarico delle speranze fallite, quante altre cure - 202 - non l'agitavano! l'agitavano la paura, il sospetto, e di quando in quando un po' di paura dell'inferno; nè gli valevano le messe a placare l'anima del fratello. Prima, la coscienza del male e delle ingiurie sofferte ingiustamente lo rendeva ringhioso contro tutti, e gli avrebbe fatto guardare a testa alta anche la morte: oggi la paura d'essere derubato o scoperto lo faceva sempre tremare, lo piegava sempre a cercare d'accaparrarsi con maniere insinuanti e servili la benevolenza e la stima d'ognuno. Ecco perchè dicevano che Stefano era divenuto migliore nel modo che il mondo vuole che uno sia tale. E se oggi dall'onda della fortuna (una fortuna più trista che buona) era stato portato a un tratto vicino al pomo non suo ma che aveva tanto desiderato, come coglierlo questo pomo, come riuscire ad assaporarlo senza che Argo non si destasse e non lo fissasse co' suoi cento occhi maligni? Stefano e Filusella, anche essendo soli in mezzo al silenzio del loro campo, osavano appena di bisbigliarne tra loro guardandosi intorno col timore che quel bisbiglio non arrivasse agli orecchi di qualcheduno: si credevano sempre spiati: e cercavano d'accarezzarlo Argo, cercavano di sopirlo, perchè la buona bestia non s'accorgesse di nulla, non abbaiasse. - 203 - Stefano, per cambiare ora l'uno e ora l'altro de' grossi biglietti dell'eredità rubata, la prendeva cautamente larga. Non andava più come una volta ai mercati ne' paesi all'intorno, ma per la strada vecchia e diruta del Mont'Amiata calava giù alla Paglia, e per estensioni basse, dove annidano appena i corvi, attraversate le nere casucce d'Acquapendente, e i boschi di querce che fanno ghirlanda cupa a Bolsena, di là s'inoltrava solo fino alla bella Viterbo, nel tempo che i bufali romani, cacciati dalla verga del vaccaro, corrono a torme intorno alle triste mura di Desiderio, empiendo di corna lucenti e di muggiti la fiera. E andava pure a Toscanella, a Sutri, a Corneto, ultima città, morta laggiù nello squallore malsano, tra la necropoli etrusca e il mare infinito. In que' luoghi Stefano si dava per un fattore, vendeva la cattiva vaccina che ci aveva portato, barattava i biglietti e tornava con bestie novelle e con buona somma di scudi romani nella ventriera. Di qui la voce, da lui fatta abilmente correre, che nelle vendite e nelle senserie, di cui lo ricercavano come intendentissimo di bestiame, Stefano guadagnasse assai nel Romano, che allora, per quella gente che non usciva mai dal paese, era come dir nella China. E Adamo ogni dato tempo portava alla cassa di risparmio de' rotoletti - 204 - di 15 francesconi l'uno, che il nonno gli legava alla tasca della giacchetta, temendo non li perdesse. Ma Argo già mugolava, e la gente continuava a ciarlare che Stefano faceva degli affari per vero dire un po' troppo grassi nella maremma romana; quando, dopo qualche anno, si seppe un bel giorno che egli aveva comprato il podere del cimitero sborsando un acconto di novemila lire, e prendendo tempo all'intiero pagamento dieci anni: allora Argo ringhiò. " Altro che maremma romana! imbecilli! " dicevano Gustavo e la Beppa infuriati: " quello è sangue cavato dal portafoglio! " La Beppa, con la franchezza sfacciata che assumeva in tali occasioni e vestita con abiti di gran lusso, non faceva che domandare udienza ai più alti funzionari della città, e da essi scendeva ai più bassi, agl'imi che comandano ai potenti, eccitandone lo zelo sbirresco con quello che ancora le rimaneva di lusinghe muliebri, coi danari e con le promesse. Ma per quanto avessero in animo di scoprire, non apparve nulla di reo contro Stefano, nulla che lo provasse ladro dell'eredità del vinaio, che ormai dormiva da cinqu'anni il sonno eterno. La Beppa e Gustavo non se ne potevano persuadere e seguitavano a battere ancora alle bussole degli uffici, e alle case degl'impiegati, - 205 - esigendo che più non avessero fine le indagini e le ricerche: per cui il vicario, seccato da queste pretese irragionevoli, come definitiva conclusione un giorno disse a Gustavo: " Vi abbiamo comunicato che i commessi di pubblica vigilanza attinsero bonissime informazioni su quell'uomo: è un uomo religioso, onesto e laboriosissimo. Per accondiscendere alle vostre domande e a quelle di vostra madre furono fatte altre perquisizioni al suo domicilio, e non fu rinvenuto nulla. Le sue partite sono in perfetta regola: prima ancora della morte del fratello aveva un deposito alla cassa di risparmio di circa seimila lire: ora questa somma fu da lui aumentata mediante il frutto del 5 per %, mediante le raccolte abbondantissime, e i guadagni della vendita in piazza, compra e vendita di bestiame, senserie, e che so io. Io non dovrei scendere con voi a questi particolari, ma lo faccio per non ricorrere a misure più rigorose: perchè per parte vostra e di vostra madre è proprio una fissazione e anche una malvagità quella di venirci sempre a far perdere il tempo rimettendo fuori la storia ormai vecchia del portafoglio: un portafoglio che non è esistito se non nella fervida vostra immaginazione! un portafoglio che è come l'araba fenice, perchè se non fosse come l'araba fenice la polizia in - 206 - cinqu'anni avrebbe saputo trovarlo: perchè la polizia sa tutto, la polizia scopre tutto, vede tutto, conosce tutto: avete capito?... Se avete capito tanto meglio per voi, e anche per me, perchè non avremo più seccature: non voglio sentir altro veh! non replicate! non replicate! andate! " Quando Gustavo ebbe riferito alla madre questo discorso, la madre provocò in tutte le donnicciuole del vicinato un clamore d'indignazione e di maraviglia contro quell'asinaccio, quel becco cornuto, quel pasto gonfio (essendo egli grasso) del vicario. Tutte davano un buon consiglio alla Beppa e a Gustavo: consigli maliziosi o anche audaci, ma tanto poco praticabili che il rimedio era peggiore del male; e non una parola che mirasse piuttosto a calmare e non incitare di più gli spiriti di que' due che reclamavano accanitamente l'eredità. Gustavo non la mandava giù, e qualche cosa voleva fare a ogni modo. La domenica seguente dunque per veder d'attaccarla, per veder di sfogarsi un poco, lui e altri dieci o dodici compagnacci uscirono schiamazzando fuori di porta nel pomeriggio, ed entrarono nel podere di Stefano. V'entrarono dalla parte di sotto, dove la strada tra campo e campo serpeggia a piè - 207 - de' poggi continui, e si perde in mezzo alle crete. Ebbero l'avvertenza, per aver libera alle spalle la ritirata, di non scostarsi troppo dalla siepe che cingeva il podere, e si sdraiarono da padroni in mezzo ai solchi, attaccandosi ai fiaschi portati da un vecchietto furfante, e levando grida bestiali. A quelle grida Stefano, Filusella, e con loro Adamo e Abele, armati di buoni pali da vite e col cane, comparvero minacciosi sul colle. " O villanacci! o ladri! o bifi! o spoglia morti! uh uh ih! " così furono salutati da coloro laggiù di lontano nella valletta verde. Il cane riempiva de' suoi orrendi latrati tutta quella estensione quieta e serena di campi e di colli: i contadini seguitavano a tenerlo indietro legato, e stavano fermi, con occhi intenti a guardare. Gustavo e i suoi amici, vedendoli sì pazienti, raddoppiarono l'urlata, e si gettarono in mezzo a pestare il grano, a ballare, farvi salti e capriole, cogliendo frutta e stroncando i rami. Ma fu un momento: perchè i quattro contadini si precipitarono, coi pali in aria, giù per il pendio del colle molto scosceso, e coloro, quando si sentirono ronzare vicino i poderosi bastoni, schizzarono dalla siepe che il cane già li azzannava tre o quattro, e sparvero - 208 - in un baleno, lasciando le armi sul campo, cioè i fiaschi vuoti. Quando furono in luogo salvo, fremendo, guardandosi le natiche, i panni laceri e le zannate del cane, giurarono di vendicare un simile affronto dicendo di non poterlo tollerare da nessuno, e tanto meno poi da quei villanacci. Quei plebei parevano presi anch'essi dall'orgoglio del sangue: Gustavo intanto gongolava d'avere associato al suo odio contro Stefano degli alleati; e quali alleati! " Bisogna pigliarlo a solo quando non ha il cane! " dissero, e fissarono di ritrovarsi la domenica ventura sul prato delle Burella, luogo che indicò Gustavo, sapendo che Stefano la festa, dopo aver fatto quattro chiacchiere in piazza, vi passava sull'imbrunire per tornarsene a casa. Vien la domenica, e all'ora stabilita s'appostano a una casetta, la quale ha l'uscio in un canto del prato e, dall'altra parte, di là dal muro che lo ricinge, si sprofonda giù tra le ficaie d'un ortaccio, insalvatichito da secoli, tra le mura d'un antico baluardo: dietro il tetto spuntano tra i rami degli ulivi le campanuzze delle monache di Sant'Anna. Una volta ci stava l'arcidiacono del duomo in quella casetta, ma morto lui, volendoci troppo a restaurarla, - 209 - non ci tornò più nessuno, e rimase abbandonata a ricordare nella sua gentile e decadente umiltà la bella architettura di certe modeste dimore del cinquecento. Ma il luogo è quasi deserto, e in mezzo a conventi solennemente taciti e chiusi, in fondo alla città, spira un che di misterioso, come se si fosse in mezzo ai sotterfugi e agli agguati. " Eccolo! " Stefano aveva passato il vecchio arco che dalla città mette nel prato delle Burella, e si avviava solo solo verso quella porta laggiù, in fondo alla via che vi declina scoscesa, e che non vede continuamente che funerali. Le campane di Sant'Anna avevan cessato di sonare querule ed argentine le ventiquattro, e tacevano vibrandone ancora il suono per l'aria oscura: il vecchio contadino, venendo oltre, non li vide se non quando gli furono vicini e l'ebbero circondato. " Questo è partito fatto! " egli disse fra sè riconoscendo Gustavo, e arrestandosi cauto a spiare. " Dunque tu l'hai comprato il podere col sangue levato dal portafoglio di mi' padre! " disse Gustavo, volendo indurre il contadino ad attaccarla pel primo. " Ma tu non sei il figliuolo di Gasparino? " - 210 - domandò Stefano senza mostrare inquietudine alcuna, se non nel ciglio aggrottato e nell'occhio attentissimo. " No: io sono il figliuolo di Nando, e tu, assassino, m'hai spogliato! " " Che dici mai! tu sei figliuolo di Gasparino: o non ti vergogni, caro Gustavo, a far torto a tu' madre in questa maniera? tu' madre io la conobbi sempre una donna onesta. " " Non tocca a te a dirlo! e se non mi rendi quello che mi hai rubato, t'ammazzo! " " Smettiamo, ragazzi! non portiamo qui le questioni, se no...." " Oh! tu che dai a tutti, a me non mi dai! " gridò un abbaiatorello smilzo come un'anguilla, levando su il dito indice fino a toccare il mento del vecchio. A quel nuovo insulto egli non si potè più tenere: volendosi aprire il passo, ne prese uno alla vita, e lo rovesciò come l'orso rovescia a pancia all'aria il mastino, per adoprare le branche contro un altro mastino che l'azzanna da tergo. E così ne caddero altri, mentre tutti cercavano di spingere Stefano verso una muriccia di sassi, prossima alla casetta dell’arcidiacono, e tentavano d'attraversargli le gambe per farlo precipitare e liberarsi dai colpi coi quali egli li teneva lontani. Riuscirono finalmente a stringerlo - 211 - e farlo cadere addosso a Gustavo che già aveva afferrato, e lo sbatacchiava sulla muriccia con una mano, e con l'altra si difendeva ancora alle spalle, e tentava di rialzarsi ancora da terra; e si rialzò, ma sospinto di nuovo a tergo ricadde con Gustavo che ancora stringeva, e lo coprì con tutto il corpo, e lo schiacciava e lo mordeva sotto di sè. Tutti gli altri allora furono sopra a Stefano furibondi, e lo finirono a colpi di pietra sul capo. Poi fuggirono per le vie quasi deserte con le quali va terminando la città vetusta sovra pergole di giardini e placidi ariosi campi d'ulivi, in faccia alle montagne ridenti. Gustavo, riavuto dopo poco il conoscimento, inorridì a trovarsi Stefano sempre addosso, ma che non si moveva più, e sanguinava. Chiamò i compagni, implorando soccorso per amor di Dio!... non gli rispose nessuno. Accortosi che l'avevan lasciato solo, tentò se poteva almeno liberarsi di Stefano che gli pesava orrendamente sul petto, e lo imbrattava di sangue: ma esausto e ferito anche lui, potè appena, con grande sforzo, muoversi tanto da scostare la testa da quella gelida e fracassata del suo nemico. Credendosi vicino a morire, prese a recitare l'atto di contrizione, l'atto di fede, l'atto di speranza e di carità: ma ad ogni momento - 212 - s'interrompeva per gemere e chieder soccorso per l'amor di Dio!... sperando che qualcuno l'udisse in quel buio: ma nessuno gli rispondeva. Eppure qualche passante l'udì, ma s'affrettò a battersela cheto cheto, temendo pericoli o di andare incontro a citazioni, testimonianze, e anche a fastidi maggiori: non si sa mai! Finalmente alcuni giovani, abbattendosi pure a passar di là, s'arrestarono e tesero gli orecchi a quel gemito che sonava nella notte buia così cupo, così sinistro! Era proprio il gemito d'una persona che moriva laggiù sola in fondo al prato, vicino alla casa dell'arcidiacono, e bisognava soccorrerla. Corsero a prendere una lanterna all'osteria dei Tre Mori al chiassuolo, tornaron veloci e atterriti s'avanzarono col lume pel prato.... Scorsero Stefano e Gustavo distesi e confusi sulla muriccia nel sangue, l'uno immobile e l'altro sotto che respirava ancora e gemeva e diceva che l'aiutassero per l'amor di Dio!... Due sbirri che erano a bere all'osteria dei Tre Mori, e s'erano inoltrati pei primi, s'opposero alla folla che già ingrossava, non permettendo che que' due fossero punto rimossi dal luogo e dalla posizione in cui si trovavano, finchè non fosse venuta l'autorità. Questa non - 213 - tardò a venire, seguita dai cataletti della Misericordia, e dalle torce che colorivano d'una luce fumosa e rossiccia l'alta muraglia del monastero e la folla vociferante e brulicante pel prato. Il medico verificò la morte di Stefano, riconobbe come gravi le ferite di Gustavo; ferite che egli aveva ricevuto non solo per mano di Stefano, ma anche dai compagni accecati nella furiosa lapidazione. Quindi, eseguite tutte le altre formalità che domanda la legge, il Capo-Guardia della Misericordia battè la mano: a quel cenno gl'incappati alzarono su i due cataletti, otto di loro vi sottentrarono con la spalla, e il nero corteo s'avviò allo spedale tra i bagliori funerei delle torce che spandevano per quelle vie anguste e tetre fumo e fiaccola al vento. Gl'incappati che portavan Gustavo andavano lenti e misurati per evitargli ogni scossa dannosa; ma l'altro cataletto col morto passò rapido innanzi, in mezzo al rumore delle corone che cingevano i fianchi, e giunse assai prima allo spedale. Il cadavere di Stefano fu deposto subito sul marmo della sala anatomica. Il regio procuratore, il medico fiscale, il chirurgo maggiore, e un praticante di medicina in gabbanella circondavano l'ucciso, aspettando che il - 214 - pappino l'avesse spogliato. Toltagli la camicia sanguinosa, apparvero quelle solide membra d'atleta, aventi dall’immobilità, dalla tensione dei muscoli, e dall'occhio fisso e velato quel non so che di gravemente immemore che è proprio dei corpi spenti: e tutti coloro sporsero il collo. Egli aveva cinta e ben fiancata la vita da una larga fascia di cuoio, la quale sosteneva ben saldo, aderente alla carne, un... " Un portafoglio! " gridarono tutti. " Dev'essere il famoso portafoglio! " soggiunsero, e visto che conteneva ancora molti biglietti non dubitarono più che non fosse quello, e che egli non l'avesse rubato: allora nuovi gridi di maraviglia successero al silenzio che prima aveva accompagnato la lugubre operazione. XIV. Nel tempo in cui accadde questo racconto (tempo ormai già remoto) forse era anche maggiore la distrazione e un certo diletto che si prova parlando degli scandali e de' fatti atroci, perchè allora ognuno non conosceva che quelli particolari del suo cantuccio, e non tutti gli altri che accadono in ogni angolo della terra, e di cui oggi ogni ciabattino che legga il giornale - 215 - può essere informato con profitto non minore al piacere. Quindi per alcuni giorni non si parlò d'altro: e se da un lato s'inorridiva alla perfidia e alla malizia di quel villano, non si rifiniva poi di strabiliare a tanta imbecillità quanta in quell'occasione ne aveva mostrata la polizia. La Beppa, quantunque avesse il figliuolo in serio pericolo allo spedale, nondimeno, tra le lacrime e le smorfiette, non poteva celare la sua gioia per il trionfo, ella diceva, dell'innocenza. Quella povera donna infatti aveva detto la verità affermando che il portafoglio era stato affidato dal vinaio a quel furfante di suo fratello; invece di crederle dunque, trascurarono una tale preziosa dichiarazione, e così era naturale che venissero a perdere ogni traccia del portafoglio, quando lui invece, il giorno che avvenne quel tafferuglio nella taverna, l'aveva addosso!... già l'aveva addosso il portafoglio! oh, che imbecilli! — Così s'andava dicendo, e parlando di Gustavo si compiacevano di dipingerlo peggio d'un ecceomo: petto, gola, gambe, costole, braccia erano tutte un livido solo: un occhio ingolfato in una meteora sanguigna, la testa scotennata in più punti, tre denti fatti saltar via con un pugno, e un orecchio ciondoloni per un morso: - 216 - bisognava vederlo, via! bisognava vederlo! pareva proprio strappato di bocca a una tigre!... Chi ha mai pensato alle vicissitudini, ai cataclismi, ai casi buoni o sinistri che si sviluppano dalle ciarle? Da queste qui si sviluppò una corrente sentimentale e quasi fanatica per Gustavo, la quale venne crescendo in ragione che cresceva l'obbrobrio rovesciato dall'altra parte sul nome del contadino: onde poi le bilance della giustizia, come uno strumento fisico che si risenta d'un'influenza atmosferica o tellurica, presero a muoversi in questo senso, concorrendo i giudici nel ritenere Gustavo vittima più che reo, e Stefano un vecchio tristo e rapace, causa prima dell'eccidio, e come tale non immeritevole d'averne sofferto in sè la più tragica conseguenza. Stabilito per le deposizioni di alcuni, ai quali Stefano, ne' primordi della sua carriera piazzesca, aveva fatto sentire il valore delle sue mani, che egli era una pellaccia d'uomo violento e attaccabrighe, ci volle poco ai testimoni dell'altra parte, perchè il contrasto o l'effetto fosse anche più forte, e ridondasse tutto a carico del villano, a rappresentare Gustavo quale sarebbe il docile agnello a petto al lupo crudele. Il sospetto che Gustavo fosse stato il ladro del portafoglio era l'unica ombra che avesse - 217 - offuscato, per qualche anno, la sua onesta riputazione: ora la verità, come sempre, dicevano, era venuta a galla, ma non prima che quel povero diavolo ne avesse molto sofferto nell'onore, nell'interesse e nella persona. Dunque, per farla breve, Gustavo fu assolto: e tanto può il contagio della falsa sentimentalità, o d'un'idea ingrossata dal consenso dei più, la quale si comunichi ai cervelli come si comunica lo sbadiglio, che i tristi e sciocchi compagni di Gustavo, se non furono assoluti, ci mancò poco, ed ebbero pena mite. Il desiderio della parte peggiore del volgo, cioè della maggioranza, fu del resto benissimo interpetrato dall'uomo di legge, dal difensore, il quale nella narrazione oratoria rappresentò Stefano per la figura più tetra e sinistra che mai fosse sorta dalle evocazioni e dalle prosopopee criminali. Piacque molto la sua orazione, di cui qui riferisco un brano, come si lesse stampato nell'aprile del 1838: — Quest'uomo rapace — perorò l'avvocato — quest'uomo avaro, quest'uomo violento, subdolo, cupo, facinoroso, come la indefettibile testimonianza della pubblica voce ha patentissimamente mostrato, come le condanne e le multe numerose in vari tempi da esso sofferte provano ad evidenza, quest'uomo, primo a procedere - 218 - a vie di fatto contro Gustavo Cirimbelli di Gasparino, quando Gustavo Cirimbelli di Gasparino non voleva che querelarsi dell'incalcolabile danno che e nell'onore e nella estimazione per la occulta fraude di lui aveva sofferto; quest'uomo, o signori, andò di per sè medesimo incontro al proprio inevitabile, al proprio meritato destino. E valga il vero!... Non fu egli che avendo ricevuto dal fratello Ferdinando il portafoglio in fiduciosa custodia, con la cospicua somma che in detto era contenuta, in luogo di produrlo immediatamente, come doveva, in faccia agli eredi testamentari (imperciocchè io non dubito che in detto portafoglio non si trovasse contenuto pure il testamento olografo del defunto), sel tenne invece nascosto e indebitamente se l'appropriò quando il fratello Ferdinando venne in compendio a morire? Non fu egli che conseguentemente a ciò fece patire a Gustavo Cirimbelli di Gasparino e alla madre sua Giuseppa la prigionia, obliterandone la buona fama, anzi inquinandola d'un'odiosissima taccia, per la quale al sullodato Gustavo col mancargli poscia, o signori, della pubblica stima, anche il credito, anche il guadagno, anche il mezzo di procurarsi un onorato pane venne a mancargli? Non fu egli che comperando coi danari sottratti agli eredi, e molto verisimilmente - 219 - allo stesso Gustavo di Gasparino, il podere del cimitero, suscitò naturalmente in Gustavo la consolante speranza che, dove fosse riuscito a scoprire in lui il vero e unico autore del furto, avrebbe potuto rimuovere da sè l'ingiusto odioso sospetto da cui, innocentissimo, egli si vedeva colpito? Non fu egli che colà sul prato delle Burella, invece di placare con mitezza di parole e mansuetudine d'atti, come dalla colpevole sua sinderesi e dalla più elementare prudenza doveva essergli consigliato, l'offeso Gustavo e gli amici suoi, non dubitò invece (primo a trascendere alla violenza e nell'ira) di provocare in essi il giusto e legittimo diritto della difesa? Perchè alla violenza, o signori, non poteva essere opposta che la violenza. E siccome all'occhio chiaroveggente e infallibile del giudice addottrinato e imparziale può la verità anche da un piccolo segno o menomo indizio apparire, questo è il punto dove io mi voglio fermare, questo è l'Achille de' miei argomenti. Perchè basta che riportiate, o signori, e sia pur per poco, il pensiero alla posizione in cui e l'uno e l'altro, cioè il morto Stefano Casamonti e il ferito Gustavo Cirimbelli, furono trovati colà giacenti sul prato delle Burella, teatro nefasto del deplorevole avvenimento; non prova ella abbastanza tal posizione, - 220 - soggiacendo Gustavo, e — in ferocissimo atteggiamento tuttavia, benchè estinto — Stefano soprastando, che Stefano e non Gustavo fu l'aggressore? E ora chiedo tutta la vostra attenzione, o signori: dal considerare la posizione predetta, quale è esattamente designata nel processo verbale dall'autorità politica redatto sul luogo, non sorge chiarissimo a comprendersi da ognuno che ha fior di senno il naturalissimo impulso che, come essi confermano ad una voce, trascinò gli amici di Gustavo Cirimbelli a quell'atto funesto?... atto deplorevole in sè, non lo nego, o signori, ma non più condannabile d'ogni altro che derivi da fatale necessità di forza maggiore. Ed essendo essi ora chiamati a rispondere di quell'atto, sia mite, o magistrati, sia mite, se vuol'essere giusto, il vostro giudizio: sì, o spettabilissima, onorandissima Corte, sia mite, perchè un tremendo dilemma dovè offerirsi agli amici di Gustavo Cirimbelli in quella contesa. E il dilemma è questo: o essi, esclusa l’intenzione d'ucciderlo, tentavano in tutti i modi che lor si porgessero acconci di far desistere Stefano Casamonti dalla sua feroce violenza, ovvero abbandonavano il caro compagno ed amico, come tra gli artigli d'una belva s'abbandona la preda, in balía di Stefano, il quale era già per farne orrendo e - 221 - ultimo scempio. E quale di noi, o signori, quale di quanti siamo qui raccolti davanti al supremo intangibile nume d'Astrea, davanti all'augusto simulacro dell'adorato e venerato nostro Sovrano, in questo luogo che ci ricorda ad ognora le glorie degli avi nostri (a questo ricordo degli avi un fremito d'orgoglio scorse per l'uditorio), in quest'aula magna della suprema Corte; quale io domando avrebbe lasciato in tal frangente, in tal conato, in tal pericolo di morte l'amico: l'amico dolce d'infanzia, l'amico provato nel giorno della sventura, l'amico degli onesti diporti; quale l'avrebbe lasciato io domando senza difenderlo, senza tentare almeno di strapparlo dalla mano di quel crudele, dalla mano di quell'omicida, dalla mano di quel violento? Era questione di morte o di vita, o signori, e la vita di Gustavo Cirimbelli non poteva esser salva per la difesa de' suoi amici, non poteva egli esser reso al seno di sua madre, se non con la morte dell'implacabile, dell’inesorabile suo nemico.... ec. ec. ec.... Alcuni pochi, non persuasi o annoiatissimi, sbadigliavano e scotevano il capo, ma i più si lasciavano rapire dalla parola, dal gesto, dalle sbracciate di toga dell'oratore che, levandosi e rimettendosi il berrettone, e asciugandosi la collottola e il viso, si sporgeva tutto dalla tribuna, - 222 - e quando gridava più forte un mormorío di consenso scorreva per l'aula affollata e poco odorosa. E siccome la difesa durò più ore, non ammiravano soltanto la potenza del suo ingegno, ma anche quella più formidabile ancora de' suoi polmoni. Ammiravano pure le sue sembianze, essendo egli un bell'uomo. Alcune dame pareva se lo volessero appropriare tutto con gli occhi, e, mostrandosi impietosite, dicevano di comprendere ciò che dovevano sentire per lui le madri degli accusati. Nè vi mancò il giudizio d'un letterato (giudizio che poi fu ripetuto anche dai non letterati), il quale sentenziò che egli univa a demostenica forza lo splendore di Cicerone: dopo il qual giudizio quell'oratore, senza far altro, si godè per tutta la vita la nomea di bellissimo ingegno. In mezzo a tante ciarle, a tanta menzogna, a tanto esagerare fatuo e maligno, chi non parlò, o parlò meno di tutti, fu Filusella. Una volta sola in tribunale s'udì la sua voce accusare quei tristi d'essergli entrati nel campo, con ogni sorta di brutte provocazioni, la domenica prima del misfatto, ed essi negarono, e lo sfidarono a produrre i testimoni. E Filusella rispose che ne avrebbe avuti cento dei testimoni! Invece non ne trovò neppur uno. Tra i contadini, ciascuno facendo vita da sè nel suo - 223 - casolare e ne' limiti del suo campo, non c'è vincolo di casta, non c'è forza nè malizia d'associazione. E inoltre Gustavo e i suoi amici avevano troppo partito in piazza perchè, accusandoli, quei villani che avevano con la piazza tutti i loro interessi, non si fossero poi trovati a pagarla cara. Filusella dunque ebbe un bel ricorrere alle casucce de' suoi vicinanti, chiedendo a questo, chiedendo a quello! nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito, nessuno proprio poteva dire che la cosa fosse successa in quel modo; perciò non fu presa in nessuna considerazione l'accusa di Filusella. E mentre l'avvocato nel colorire Stefano studiava gli effetti oratorii, Filusella piangeva nascosto e disprezzato da tutti in un canto di quell'aula maestosa. Solo certe donne di cuor popolano e gentile ne furono commosse, e gli rivolsero qualche parola benigna che consolò il beccamorti. Ma più tardi, trovandosi solo sotto la volta del sotterraneo, il beccamorti dava giù certi colpi alti di zappa come se in quella fossa avesse voluto seppellirceli tutti, coll'avvocato. Più ci pensava, e più sentiva di non poter proprio dir nulla che valesse a giustificare suo padre. Dicendo che suo padre una sera il portafoglio l'aveva trovato nell'imbottitura del seggiolone, era probabilissimo che l'avessero - 224 - creduta una fiaba; o anche prestandogli fede, che forse con questo veniva a scusare suo padre dell'esserselo il portafoglio zitto zitto intascato, distruggendo un documento che attestava in ben altro modo la volontà del fratello? Inoltre con una simile affermazione non veniva a denunziare sè stesso d'essere stato complice di suo padre, quando invece poteva dare a credere d'ignorare ogni cosa? e perciò taceva, ma con suo estremo dolore. Dall'altra parte invece si rideva e gioiva. Gustavo, fatto più ardito dalla sentenza assolutoria del tribunale, incitato dagli amici e dalla madre, che ora faceva benissimo la sua parte di vittima immacolata e pudica, reclamava l'eredità, affermandosi figliuolo di Ferdinando Casamonti. Ma questi non avendolo riconosciuto legalmente per figlio, e mancandone il testamento, Gustavo, per quanto dicesse, non potè far valere le sue pretese nè come erede legittimo, nè come erede testamentario. Restava quindi un erede necessario nel consanguineo più prossimo, e questi era Filusella. Ma il tribunale non aveva ancora pronunziato questa sentenza a favore di Filusella, che ecco muovergli incontro la coorte formidabile de' suoi zii paterni, i quali, da quel giorno che s'eran divisi da Stefano a Poggio Sole, non - 225 - s'erano fatti più vivi nè con lui, nè coi nipoti, nè col vinaio, che neppur lui li voleva d'intorno. Nove ne rimanevano ancora in vita! e tutti poverissimi, fuorchè Pasquale che, essendo rimasto agricoltore nelle terre fortunate d'un padrone filantropo, se la ripassava benino: ma gli altri, che la boria o la traditrice speranza d'una vita più comoda aveva attratti in città, Fortunato, per esempio, raccattava la spazzatura, Girolamo era scaccino in una chiesuccia miserabile, Innocenzo, smesso il ciccaiolo perchè le cicche, avendo Leopoldo rincarato i sigari, era come cercar le perle, coltivava l'industria degli ossi e de' vetri rotti, Filippo, detto Rubaciuchi, faceva il negoziante di tube vecchie portandole a spasso ben lustre: insomma erano disperatissimi tutti, ma cittadini. Però quando seppero che potevano anch'essi concorrere legittimamente all'eredità, allora il loro cuore s'aprì per la prima volta alla gioia, e Rubaciuchi ci mancò poco che non scaraventasse in mezzo di strada le sue tube vecchie. Perchè se la prossima e irrepugnabile parentela costituiva un diritto per il quale l'eredità del defunto Ferdinando Casamonti, già vinaio del nobilissimo Francesco Della Pula, in Via del Carroccio, era devoluta al di lui nipote Domenico, detto il Filusella dei morti; - 226 - come mai lo stesso diritto non poteva valere egualmente, anzi in grado maggiore, per i fratelli superstiti del defunto, cioè non poteva valere anche per Innocenzo, Serafino, Pasquale, Pietro, Filippo, Girolamo, Giovanni, Fortunato, Agostino?... — Filusella corse subito a trovare un procuratore, il quale, essendo un galantuomo incapace d'approfittarsi de' ghiozzi, s'astenne dal servirlo, e lo consigliò a non mettersi in quella lite. E Filusella corri subito da un altro che, conosciuto con chi aveva che fare, si mostrò con lui tutto cuore, tutto condiscendente, e sempre pascendolo di speranze, a poco a poco Filusella finì il podere, fuorchè la parte che dovè cedere per legge agli zii. " Ecco quello che si guadagna," allora gli disse un prete non senza un pio sorrisetto, " a comprar roba di chiesa! " perché quel podere era appartenuto un tempo ai reverendi padri domenicani. E questo disse il buon sacerdote tanti anni prima della spaventevole ruina del temporale!... Onde Filusella spesso poi ripeteva a' suoi figliuoli: " Se volete far bene, non dovete mai comprar roba di chiesa! " Ma che cosa potevano essi comprare, se Filusella morendo non lasciò loro che la zappa - 227 - del beccamorti? e insieme la raccomandazione di non desiderare troppo le ricchezze e le eredità, e d'andar sempre per la via retta, che è la più liscia: quella in cui sono pure possibili tutte le umane tribolazioni, fuorchè le due che turbano più giustamente la serenità della vita, e sono la colpa e il rimorso. E d'allora in poi il cimitero s'estese tanto che oggi la pace dei tumoli erbosi ricuopre anche il luogo dove sorgeva una volta la casa dei poveri discendenti del forte Margaritone, terrore un tempo di Firenze e dei Fiorentini. FINE.