Chelli Gaetano Carlo
L'eredità Ferramonti
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1884
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GAETANO CARLO CHELLI L'EREDITÀ FERRAMONTI Ho intrapreso un'opera vasta di osservazione, nella quale i punti d'ombra e di luce si avvicendano naturalmente, come si avvicendano nella battaglia umana, di cui tento ritrarre alcuni episodi. Quello che segue è fitto di ombre. Non premetto l'avvertenza per farmene scudo contro le suscettibilità pronte e ringhiose della morale borghese. Mi ci trovo indotto piuttosto, perchè non si arrivi fino ad incolparmi di respingere dall'opera mia la estrinsecazione di sentimenti alti e puri, anche ridotta alle funzioni di antitesi artistica. Se così fosse, tradirei la verità per partito preso, mancando al solo scopo che mi sono prefisso. Pel caso, adunque, che mi tocchi qualche lettore, combattuto fra il desiderio di restarmi fedele ed i paurosi presentimenti delle mie scelleratezze, posso promettere che, procedendo insieme, non incontreremo sempre putredine. GAETANO CARLO CHELLI Roma, luglio 1883. I. Da Piazza di Ponte a Campo di Fiori, padron Gregorio Ferramonti godeva la notorietà e la considerazione di un uomo, che si ritiene quasi milionario. Aveva costruito da sè la propria fortuna. Dei vecchi lo rammentavano ancora cascherino di Toto Setoli, un fornaio al Pellegrino, che lo aveva raccolto per carità. Poi il cascherino era passato garzone di banco; poi era andato ad aprire un buco di bottega, di faccia appunto all'antico padrone. Gli rubava la clientela, dopo avergli rubato i quattrini per fargli quella figuraccia. E da quel momento, la sua barca aveva sempre avuto, come si dice, il vento in poppa. Ma si susurravano delle brutte storie: il fallimento di Toto Setoli, dopo due anni di abile concorrenza da parte dell'antico garzone; il suo schiattare di dolore e di rabbia. Prima di stender le gambe, gli era pure toccato di veder Ferramonti lasciare la botteguccia dirimpetto, per occupar da padrone quella dov'era entrato cascherino. Era stato il colpo di grazia. Setoli n'era morto mandando a Ferramonti mille maledizioni, predicendogli che nella nuova bottega appunto avrebbe trovato il suo castigo, se c'era una giustizia divina. Gregorio ci aveva riso su. Il trasloco lo metteva all'onore del mondo. Riapriva la bottega rinnovata nell'arredamento di legno chiaro e nella scialbatura celeste nei muri; un lusso! Attirava maggior clientela mettendo al banco una moglie un po' più attempata di lui; ma geniale, ridanciana, appetitosa e scaltra. Un altro pasticcio. La moglie, già vedova del cameriere di un monsignore, aveva portato a Ferramonti dei capitali d'origine misteriosa, e gli aveva regalato un figlio, dopo sette mesi scarsi di matrimonio. Ma se i maldicenti s'erano sbizzarriti, il fornaio aveva avuto ben altro pel capo a cui pensare! Gli piovevano le protezioni; si slanciava nella grande industria, approvvigionando seminari, conventi, educandati e caserme. Per anni ed anni, il forno Ferramonti aveva avuto un lavoro da sbalordire, conservando le sue apparenze modeste di bottega aperta nel cuore di un quartiere popolare. Con tutto ciò, poco dopo il Settanta, senza che nei moventi della sua risoluzione entrassero i desideri di riposo di un trafficante arricchito, padron Gregorio si disfece del forno, concludendo bensì un affare vantaggioso. Vedovo e nel fiore della salute, lo aveva preso il disgusto di un'opera destinata a morire con lui. Eransi a poco a poco dileguate certe sue fantasticherie d'altri tempi: le speranze di vedere i figli succedergli nell'industria; aumentare indefinitamente le ricchezze della famiglia; fondare una dinastia di Ferramonti fornai, padrona di far la pioggia ed il sereno nell'Arte Bianca della piazza. Gl'invidiosi ridevano, trovando che il castigo minacciato da Toto Setoli colpiva appunto da questa parte Gregorio. In realtà egli era un padre disgraziatissimo. Mario, il suo primogenito, sciupato dalla madre, aveva sortito tutte le disposizioni possibili alla vita dello scavezzacollo. Vestiva da elegante; nuotava nei debiti; era un donnaiolo sfrenato, capace di ogni porcheria. Era stato il primo ad uscir di casa, nel Sessantotto, a ventidue anni, dopo una scena ignobile. Padron Gregorio non aveva più avuto relazioni con lui, lasciandolo vivere una vita equivoca d'avventura. Nondimeno, per gran tempo, Mario aveva trovato il mezzo di spiluccare i quattrini del papà in collera: faceva debiti vergognosi, vere truffe da rischiarci la galera. Il fornaio pagava per risparmiare al proprio nome un tal disonore. Gli altri due figli, Pippo e Teta, non l'avevano intesa mai così. Essi erano cresciuti cogli istinti dell'ambiente bottegaio, che spingono una famiglia ben provveduta a privarsi del necessario per accumulare. Fin da principio, quando Mario s'era imbrancato coi fannulloni ben vestiti del Corso, lo avevano considerato come un ladro della fortuna comune, serbandogli un rancore profondo di avari minacciati. N'eran nati litigi violenti, nei quali la signora Geltrude, la moglie di padron Gregorio, aveva dovuto sentirne dai figli d'ogni colore. Le avevano gettato in faccia le sue predilezioni per un birbaccione nato in casa per forza, chiedendole se non fosse per lui così tenera appunto perchè le rammentava un passato non confessabile. E non era bastato loro che la povera donna ne morisse di vergogna: dopo aver spinto essi stessi il padre a cacciar via Mario come un cane, il loro odio s'era inasprito alla scoperta che il vecchio continuava a pagare i debiti del reietto. L'onore della famiglia!... Questa eterna scusa, facendoli andare in bestia, suggeriva loro risposte ciniche. Sarebbe stato curioso sapere a puntino che cosa ci avesse che fare la famiglia con quel furfante! Ciò che premeva, erano i suoi continuati ladrocini. Si facevano dei calcoli a memoria: mica Mario ci si era messo per scherzo! Si contavano a migliaia gli scudi carpiti da lui. E Pippo risparmiavasi il pudore delle perifrasi: c'era dunque un patto segreto per mantenere i vizi al bastardo? O forse padron Gregorio preferiva rendersi carnefice del sangue suo, per paura di dannarsi l'anima col lasciar andare in galera un maledetto figlio di prete? Infine, padron Gregorio si vide costretto a levarsi di fra i piedi anche il secondo rampollo. Gli dette tremila scudi in contanti perchè andasse altrove ad aprirsi un forno per conto proprio. Ma ci guadagnò un nuovo dispiacere. Pippo, per fare appunto dispetto al padre, ebbe la matta idea d'impiegare i tremila scudi nell'acquisto di un negozio di ferrarecce a S. Eustacchio. Il fornaio fu proprio per impazzirne. A inventarlo apposta, non ne sarebbe venuto fuori un affare più sgangherato. Per compier l'opera, Pippo sposava anche la figlia del trafficante che lo aveva messo nel sacco, una smorfiosa che faceva la contessina, forse per dare a bere agli imbecilli che la sua miserabile famiglia aveva messo da parte qualche diecina di lire, oltre i tremila scudi truffati al bestione da essi raggirato! Allora, disilluso, il vecchio Ferramonti vendette il forno, gettandosi in una esistenza di sfaccendato che rimastica i propri dolori ed i propri rancori. Bastava parlargli dei figli maschi per fargli perdere il lume degli occhi: non voleva neppure udirne il nome; li malediceva, raccontando le loro infamie, ripromettendosi di fargliele pagar salate tutte in una volta. Era difficile prevedere in qual modo. Non cessava dall'amare il danaro e dall'accumularne, seguendo un gretto regime di vita, a malgrado delle sue ricchezze. I confidenti che si sceglieva pei suoi sfoghi di padre indignato, sogghignavano, pensando che le due perle di figliuoli avrebbero un giorno o l'altro, per tutto castigo, messo le mani sopra un gruzzolo capace di stuzzicar l'appetito anche agli stomachi meglio pasciuti. Ma taluno avvertiva, che Ferramonti, fiutando le buone occasioni, disfacevasi gradatamente dei beni stabili ch'era venuto acquistando col crescere della sua fortuna commerciale. Meditava certo qualche cosa: forse una donazione alla figlia dell'intero patrimonio convertito in capitali mobili, che si prestano a farne quello che si vuole con un semplice giuoco di mano, al momento opportuno. Ebbene, per se stessa, era un'opinione arrischiata. Padron Gregorio, nei suoi momenti di penose espansioni, rivelava pure i crucci che gli aveva dato e che continuava a dargli la figlia. La definiva della stessa razza dei fratelli. Anch'ella, in un'età in cui le ragazze hanno almeno la pudicizia del contegno, aveva raccattato le maldicenze della strada, per farne onta alla madre, per vessare il padre, per dare un pretesto all'odio suo contro Mario. Poi, non si riusciva a capirla: era tirchia, gretta, interessata fino all'esagerazione, e aveva certe stravaganze cocciute di cervello guasto. Leggeva dei romanzi; faceva la sentimentale; all'occasione faceva pure la civetta. Sul principio del Settantadue, Ferramonti si illuse per un momento ch'ella, nel proprio interesse, gli avrebbe dato almeno una soddisfazione. Le si era offerto un partito d'oro: un droghiere al Tritone, pieno d'intelligenza e di attività, ch'era sulla via di crearsi un grosso patrimonio. Lei stessa, del resto, aveva allettato il droghiere, incontrandolo ai concerti di Piazza Colonna, e, qualche volta, a teatro, con mille smorfie, con mille incoraggiamenti. Ebbene, quantunque egli fosse pure un bell'uomo, di appena quarant'anni, Teta aspettò che la chiedesse formalmente in moglie, per rispondergli un no tondo, ostinato. Non ci fu verso di rimuoverla. Preparava al padre una bella sorpresa: due mesi dopo si fece rapire da un impiegato a duecento lire al mese. Ferramonti ebbe a morirne d'un accidente. Consentì al matrimonio per riparare allo scandalo; ma giurò che non avrebbe fatto vedere alla figlia la croce d'un centesimo. Quando lo sposo si presentò per parlare di dote, nacque una scena tragicomica; l'antico fornaio, furibondo, lo trattò da straccione e gli mostrò la porta, minacciandolo di pigliarlo a calci nel sedere se si tratteneva un minuto di più. Paolo Furlin, lo sposo, si ritirò per tentare delle vie più lunghe forse; ma meno pericolose di certo. Reclamò la dote con un'intimazione giudiziaria, che colse Ferramonti di sorpresa. Padron Gregorio ripugnò da una lite di tal genere, quantunque non ne fosse dubbio per lui l'esito. Cedette le armi; assegnò a Teta i tremila scudi che aveva assegnato a Pippo, e s'inabissò più che mai nell'amarezza dei suoi rancori. Visse un anno così, come un superstite alla rovina della propria famiglia. II. Pippo non aveva affatto preveduto di trovare nella bottega di ferrarecce anche la moglie. Nondimeno il suo matrimonio fu proprio la conseguenza necessaria dell'acquisto. In mezzo ai chiodi, ai badili ed alle toppe, ascoltando padron Giovanni Carelli, che gli faceva la presentazione della bottega, prima di firmare il contratto, il giovine Ferramonti capì la gravità del suo colpo di testa. Mandando al diavolo l'Arte Bianca per fare un dispetto al padre, s'era figurato che il traffico delle ferrarecce fosse preferibile a tutti: un pezzo di ferro è un pezzo di ferro, che ha il suo prezzo determinato, e che i compratori acquistano quando ne hanno bisogno, senza che occorra allettarli con malizie speciali. Gli pareva sufficiente a cavarsene con onore, l'accorgimento comune ai commercianti in genere, in cui egli si era agguerrito, dalla nascita, attendendo al forno di via del Pellegrino. Invece trovava un mondo nuovo. La voce fessa di Padron Giovanni gli lasciava indovinare lenocinî, trappole giuochi di prestigio, raffinatezze del mestiere, ch'egli non aveva neppur sospettato. Gli mancava tutta una iniziazione piena di difficoltà e di astruserie. Pensò di prendere il largo; ma era già troppo tardi per la parola impegnata e per le esigenze della sua vendetta contro il padre, che sarebbe mancata colla confessione di quel fiasco enorme. S'abbandonò al suo destino, persuaso che si legava al collo una pietra per affogar più presto. D'altra parte, ripensandoci bene, una rovina gli avrebbe offerto il mezzo di giustificare una risoluzione chiassosa. Aveva bisogno di parer rispettabile; s'era per questo rassegnato allo sfratto intimatogli dal padre; ma certi istinti d'uomo brutale lo portavano spesso a fantasticare sinistre rivolte, che lo avrebbero rivelato terribile. Ebbene! ci provasse padron Gregorio a vedere il figlio suo ridotto agli estremi! ne sarebbero nate delle belle!... Tuttavia egli non voleva arrivare fino al punto di farsi derubare a man salva e burlare dai compratori. Più in confuso, almanaccava che un uomo accorto può trovare la fortuna sotto l'affare apparentemente più sgangherato. In ogni modo, bisognava bene trovare un cane che lo agguerrisse. I Carelli non gli potevano lasciare fra le mani la bottega, come si lascia un giocherello ad un bambino, perchè lo mandi in pezzi, se glie ne piglia il capriccio. Ne parlò ai Carelli, moglie e marito, colla parola insinuante e col sorriso adulatore di chi domanda un favore grande. Essi lo capivano, non era vero? Lui si trovava in bottega sperso, proprio come un uomo bendato. Certamente, per una ventina di giorni, lo avrebbero aiutato: non se ne sarebbero pentiti... no, non se ne sarebbero pentiti!... Dio buono, essi non potevano! Pippo vide i Carelli stringersi nelle spalle, guardarsi fra loro, col sorriso indefinibile dei negozianti che burlano un compratore malaccorto. Ma, nel loro freddo egoismo, erano compitissimi: davvero non potevano. Padron Giovanni non doveva più metter piede in bottega per espressa ordinazione del medico; ed avevano appunto venduto la bottega perchè neppure la signora Rosa, sua moglie, era al caso di attendere al traffico. Che aiuto poteva Pippo aspettarsi da lei? Non la vedeva? Non si poteva più muovere dalla sua sedia. Dicevano, in fondo, la verità; offrivano a Pippo un bello spettacolo!... Padron Giovanni allampanato, afflitto da una tosse cavernosa, logorato da una tisi senile; la signora Rosa enorme, sformata dalla pinguedine, che la immobilizzava su di una poltrona, e che la soffocava d'affanno al più piccolo sforzo di attività. Per un istante Pippo si lasciò vincere dallo scoraggiamento. Lasciò cascarsi le braccia; fece un viso angoscioso d'uomo forte che si dichiara vinto. — Mi pare che ci sarebbe un mezzo per conciliare ogni cosa — balbettò una voce timida di ragazza. Si voltarono tutti. Era la prima frase che Irene, la figlia dei Carelli, metteva nel colloquio, al quale aveva assistito in disparte, a cucire. — Dio mio, sì, ci sarebbe! — insistè sorridendo, convinta. Corrispondeva allo sguardo che Pippo teneva fiso in lei, incerto fra una speranza rinascente, ed il timore di trovarsi un'altra volta deluso e burlato. — Ebbene, se lo trovi, siamo qui — incoraggiò padron Giovanni. — Quando si può, non si nega mai un favore ad un amico. Allora Irene si spiegò brevemente: perchè non sarebbero scese in bottega, la madre e lei? Giacchè abitavano al secondo piano della stessa casa, era il male di portarsi giù, qualche ora del giorno, i loro lavori donneschi, per una diecina di giorni. In capo a questo periodo, il signor Ferramonti non avrebbe avuto più nulla da imparare. Prendeva la cosa sopra di sè. I vecchi Carelli si consultarono cogli occhi, perplessi, con mille obbiezioni sulla punta della lingua. Non avevano preveduto affatto la proposta. Ma ad un tratto, dopo aver guardato anche la figlia, la signora Rosa annuì risolutamente: sicuro, si poteva provare; Irene era abbastanza esperta. Lei, la signora Rosa, avrebbe trovato un posticino comodo, dietro al banco, mentre sua figlia si sarebbe ingegnata ad insegnare al signor Pippo tutto quello che facea di bisogno sapere. L'espediente era proprio bene imaginato, ed il signor Pippo se ne sarebbe trovato contento. Rimasero così. Pippo accettò disilluso, costrettovi dalle circostanze, che non gli offrivano un mezzo migliore. Glie ne capitavano davvero d'ogni colore! Adesso doveva prender lezione da una povera creatura, che non aveva neppur mai vista in bottega e che considerava come una stupidina, impastata soltanto di vanità. Infatti Irene, nella fiorente leggiadria dei suoi diciotto anni, era, per ciò che rifletteva la sua indole, un fiore delicato di modestia angelica, e per ciò che rifletteva la sua figura ed il suo tratto, una bellezza affascinante di signorina. I Carelli la custodivano come si custodisce un tesoro, la mandavano vestita da principessa, le procuravano ogni sorta di divertimenti onesti. Ma non c'era lingua velenosa di vipera che potesse dirla guastata da tali trattamenti. Non le si erano mai conosciuti intrigucci o passioncelle di gioventù. Forse i possibili aspiranti alle sue preferenze, pensando che il matrimonio era il solo risultato possibile di un passo decisivo verso di lei, vi rinunciavano, intimiditi da un'altra riflessione: una moglie così, sarebbe stata ottima con duecentomila lire di dote, e lei, figlia di trafficanti poco fortunati, non aveva un centesimo. Da parte sua, lei agiva come poche altre avrebbero agito al suo posto: non le si poteva rimproverare il minimo atto, la più innocente civetteria per trarsi dietro i cascamorti. Sarebbe stato negare la giustizia divina il dubitare sull'avvenire suo. Era un tipo di bruna; ma di bruna calma, senza linee capricciose, senza bagliori provocanti. Una di quelle bellezze tutte simpatia, che suscitano pensieri di voluttà miti, desideri vaghi, soavi, pieni di serenità. Soltanto i suoi occhi bruni restavano impressi talvolta: due grandi occhi profondi, che si velavano sotto le palpebre, che illanguidivano all'ombra delle ciglia lunghissime; ma che, in certi momenti d'oblio e di animazione, scintillavano di fierezza e di energia. Era una trasformazione rapida, che faceva presentire un essere ignoto sotto le calme apparenti della fanciulla Un uomo sul genere di Pippo Ferramonti doveva provare per lei una specie di disprezzo istintivo. Non aveva nè le procacie di una ragazza atta a servire da richiamo ad una clientela di maschi viziosi, nè la dura e fredda energia di una bottegaia d'istinto, che si dimenticherà d'esser donna per diventare una macchina da far quattrini. A sentirla profferirsi per istradarlo nelle malizie del traffico delle ferrarecce, Pippo avrebbe voluto volentieri riderle sul viso. Promettevano, per Cristo! d'esser curiose quelle lezioni. Ci mancava appunto l'intervento di una smorfiosa, perchè quella brutta commedia finisse in ridicolo! Or bene, i brutti pronostici di Pippo non si confermarono. Una volta scesa in bottega, Irene provò col fatto, che il traffico delle ferrarecce non aveva segreti per lei. Bisognava vedere come lusingava i compratori, come li solleticava, come li domava, rendendo vano il mercanteggiare di qualche arrabbiato che trovava i prezzi esagerati! come accreditava la merce! Aveva certe affabilità insinuanti di venditrice discreta, che ha già chiesto il meno possibile per simpatia del cliente; certi sospiri di donna che reprime il dispiacere di privarsi di una cosa cara e preziosa. Il suo colpo d'occhio sicuro non la ingannava mai, nella farraggine degli articoli svariatissimi; diceva i prezzi per intuizione pronta, senza la fatica di consultare i segni convenzionali del commercio, da cui sono indicati. Pareva nata e vissuta sempre nella bottega, e si sarebbe detto che ne avesse fatto il suo piccolo mondo. Ma ciò era il meno. Riusciva ben più utile a Pippo, coll'iniziarlo metodicamente alla conoscenza intima del suo nuovo mestiere. Gl'indicava come si distinguono le qualità del ferro, le tempre dell'acciaio, le diversità delle leghe e delle fusioni; quali fossero gli articoli su cui si guadagna di più, di maggiore smercio, più suscettive di sfuggire ai prezzi correnti della piazza. Una ad una, con minuti particolari, andava nominandogli le case produttrici colle quali conveniva stare in buone relazioni, e quelle di cui bisognava diffidare. C'erano delle camorre che un commerciante sagace e risoluto poteva sfuggire; ma ve n'erano altre a cui bisognava invece necessariamente assoggettarsi. Per esempio, il commercio del ferro in verghe e della ghisa da rifondere: sarebbe stato un sogno pensare ad aver questi generi di prima mano. I fratelli Mazzei ne esercitavano il monopolio di grossisti, e di commissionari sulla piazza. Non si sarebbe trovata una Casa rispettabile che non fosse già vincolata da speciali contratti con loro; ma trovato anche il mezzo di superare questa prima difficoltà, una guerra aperta coi Mazzei avrebbe significato il fallimento nel termine di tre o quattro mesi. Era già accaduto più volte. Pippo ascoltava sbalordito. La maraviglia e l'ammirazione l'ammutolivano dinnanzi ad Irene, nelle penombre della bottega vasta e nera. Si sentiva dominato, accorgendosi di avere scoperto una donna-miracolo quando meno se lo aspettava. Ne intuiva le nascoste energie, fino al punto d'esserne intimidito. Era una cosa incredibile: Irene non lasciava il suo fare modesto e semplice, non aveva un atto che tradisse in lei la coscienza della propria forza. Parlava colla sua voce naturale e gentile, con certe perplessità di persona non sempre sicura di sè. Ad udirla da lontano, senza distinguerne le parole, sarebbe stato impossibile imaginare quali maraviglie di criterio andava rivelando con quel suo tratto da signorina impastata per pascersi di frivolità. I giorni passavano così rapidamente. Pippo, sgomento all'idea che quei lunghi abboccamenti dovevano pur cessare prestissimo, faceva apposta l'idiota per prolungarli. Disgraziatamente, Irene sfatava un tal giuoco, colla sua pazienza ammirabile, dando certi schiarimenti brevi e precisi, che bisognava capire per forza. Allora Pippo cercò di rubare il tempo alle lezioni, assentandosi dalla bottega, mendicando argomenti estranei. Un giorno si accorse di aver trovato il fatto suo, senza averci pensato. Da un quarto d'ora la ragazza assisteva muta, ansiosa, ad un'esplosione delle segrete amarezze di lui. Ah, sì? n'era curiosa? Ebbene, lo avrebbe visto, quanta roba c'era da buttar fuori... Sfuggiva a Pippo la confessione dei suoi rancori di fratello e di figlio, tutto il dramma di cupidigie in lotta che aveva sgominato la famiglia Ferramonti. Non eran discorsi da farsi ad una ragazza; ma erompevano dalle labbra sfrenate di Pippo, nella concitazione di un'indole che trova alfine uno sfogo. Nel fondo della bottega, tra le bige oscurità dei grossi ferrami, interrotte da riflessi giallicci di ottoni, e da lucentezze chiare di arnesi bruniti, successero scene indescrivibili: la voce grossa di Pippo invadeva l'ambiente scoppiando, ruggendo, con veemenze furibonde, che avrebbero fatto gelare il sangue nelle vene. Nel suo risentimento contro il padre, egli arrivava fino al punto di giustificare i ladrocini del fratello Mario. Meritava ben peggio, il vecchio esoso: a girare il mondo non si sarebbe trovato un ugual mostro traditore del sangue suo. Faceva l'elemosina di tremila scudi ad un figlio che lo aveva sempre aiutato, senza defraudarlo mai di un centesimo, lui che contava le centinaia di migliaia! No, per tutti i santi: non poteva andare a finir bene. Pippo sarebbe ammattito se avesse dovuto rinunciare alla speranza di una vendetta solenne. Ma Pippo pagava salati simili eccessi. Gli troncava le parole in bocca uno sguardo supplichevole, un brivido d'orrore da parte d'Irene. Egli perdeva la bussola, gettato d'improvviso nell'annichilimento della vergogna. Non sapeva acconciarsi all'opinione che la fanciulla doveva formarsi di lui, ed a sua volta tremava soprafatto dal disprezzo di se stesso. Avrebbe voluto almeno ch'ella agisse diversamente; lo ritenesse degno della collera sua; esigesse da lui promesse di pentimento. Si sarebbe sentito capace di qualunque umiliazione, a patto di non vederla più in quello stato. E riducevasi a non aver neppure il coraggio di scusarsi. Allontanavasi pallido, sfatto, giurando a se stesso che non le avrebbe dato più tale spettacolo vergognoso della propria perfidia. Lei non faceva nulla per trattenerlo. Ma quando si rivedevano, sapeva, con parole velate, rivolgergli certe esortazioni di buona creatura, che gli mettevano nel cuore tenerezze strane. Egli si abbandonava ad un infrollimento voluttuoso. Forse, ad intervalli, riacquistava la coscienza della propria superiorità d'uomo forte, positivo e brutale dinnanzi a quell'indole dolce e riguardosa di ragazza; ma una specie di allettamento ignoto, acuto, magnetico, lo portava a bamboleggiare lui pure in cose tenere, come un effeminato od un imbecille. Passò un mese; Pippo non ebbe più nulla da imparare; mancò alle Carelli ogni scopo di restare in bottega. Una mattina la signora Rosa annunciò al giovine commerciante che il domani, lei e sua figlia, sarebbero rimaste in casa. Se ne andarono verso le due dopo mezzogiorno, l'ora di pranzo, augurandogli cordialmente mille fortune. Pippo ne risentì come lo stordimento di una mazzata in testa. La notte non dormì, agitato da mille pensieri. Al domani si trovò così solo, così desolato, così smarrito, che la bottega gli parve odiosa. Allora, subitanea, gli balenò una idea: perchè non avrebbe sposato Irene Carelli?... Tutto gli consigliava un tal passo. A ventisette anni, padrone di negozio, egli non poteva restar celibe. Una moglie lo avrebbe aiutato, lo avrebbe posato da borghese rispettabile e serio. Poteva senza dubbio aspirare ad una dote che Irene non aveva; ma ella valeva ben più che una dote. Lei sola, coi suoi modi da signorina e colla sua grande abilità, avrebbe fatto prosperare il negozio, attirandovi una clientela da guadagnarci dei capitali. Bisognava proprio dire che i Carelli erano una coppia di vecchi stupidi per non averlo capito loro prima di ogni altro. La difficoltà stava nel vedere se Irene avrebbe accettato lui proprio. Da questo lato egli era assalito da veri sgomenti d'uomo timido che aspira a cose straordinarie. Per quanto modesta e buona, la giovinetta non era certo così malaccorta da ignorare che poteva pretendere una posizione ben superiore a quella di mercantessa di ferrarecce. E d'altra parte, la sua educazione, i suoi gusti e l'indole sua dovevano necessariamente renderle ripugnante l'idea di unirsi ad un uomo rozzo, ineducato, volgare. Pippo si creava un quadro orribile di se stesso; la disperazione lo schiacciava. Ma che! era una sciocchezza pensare soltanto a tal sogno! Invece Pippo continuò a pensarci tre o quattro giorni, interminabili. Alla fine sentì di non poter più sopportare lo spasimo. Lo pigliava l'idea funebre di attaccare un nodo scorsoio ad un gancio della bottega, e di passarvi il collo. Ma questo eccesso gli dette il coraggio che gli mancava. Una domenica mattina, all'improvviso, salì dai vecchi Carelli a far loro sapere che perdeva la testa appresso ad Irene, e che desiderava la ragazza per moglie. Si mostrarono sorpresi, incerti, combattuti fra il desiderio di fargli piacere, e l'idea di non rinunciare a certi progetti cui alludevano con frasi indefinite. In ogni modo, doveva pensarci bene Irene, e decidere lei stessa. Loro, all'infuori dei buoni consigli che la gravità della circostanza imponeva, avrebbero lasciato piena libertà alla figliuola di risolversi come il cuore e la ragione le avrebbero suggerito. Non era un linguaggio da buoni amici e da galantuomini?... Ebbene: domandavano il tempo necessario per ben riflettere, ringraziando in ogni modo il signor Ferramonti. La condussero per le lunghe altri sei giorni. Il povero Pippo dimagriva a vista d'occhio, ed offriva robinetti a chi gli domandava toppe inglesi, e chiodi a chi voleva raspe. Se avessero aspettato ancora di più, sarebbe successo qualche grosso guaio. Ma il sabato successivo dissero di sì, dopo avere ottenuto da Pippo le più formali rinuncie a qualunque pretensione di assegni dotali presenti o futuri. Il matrimonio fu affrettato, prendendo il tempo strettamente necessario per le formalità legali. III. Nonostante la coadiuvazione d'Irene, il traffico delle ferrarecce non prosperò quanto Pippo si era aspettato. Ci vollero dei mesi perchè i guadagni raddoppiassero; poi, raggiunto un tal limite, lo sviluppo si fece più lento ancora. Nelle sue illusioni di bottegaio innamorato, Pippo aveva sognato una fortuna sùbita ed iperbolica coll'utilizzare la giovine donna. I disinganni della realtà lo irritavano e lo rendevano ingiusto. Ma dunque egli era nato decisamente sotto una cattiva stella? Sta a vedere che l'essersi lui messo a negoziare di ferrami faceva venir di moda i cardini ed i catenacci di ricotta! Irene doveva affaticarsi a calmarlo. Lo rimproverava sorridendo di lamentarsi a torto. I loro guadagni non erano forse in continuo aumento? Che cosa voleva di più? Essi avevano ogni motivo di sperare nell'avvenire; ma bisognava saper pazientare. Le fortune solide sono quelle che s'innalzano a poco a poco cogli scudi sudati che producono gli scudi e li moltiplicano. Quelle altre, messe insieme dal mattino alla sera, sono campate in aria ed un lieve soffio le disperde. No, non avevano ragione di lamentarsi. Nei primi tempi Irene aveva trascorso le sue giornate in bottega, dirigendo lei di fatto il traffico, consigliando e guidando il marito nelle cose più minute ed in quelle più gravi. Poi era comparsa soltanto in certe ore determinate, per esercitare una sorveglianza più sintetica. L'acquisto di un commesso, reso necessario dall'aumento di lavoro, liberò i due coniugi dalle cure della vendita minuta, e permise a Pippo di assumere sopra di sè maggior parte della direzione suprema. Allora Irene non si fece più vedere che un paio di volte per settimana, brevi momenti, all'impensata. Era come l'apparizione di un altro mondo, in mezzo ai metalli accatastati sugli scaffali, ammucchiati negli angoli oscuri, invadenti il pavimento colla ruvidezza plutonica dei grossi ferrami. Lei portava nell'ambiente annerito da un polverìo di fucina, una nota di eleganza, un fascino di sorriso ed uno splendore di bellezza, onde pareano risentirsi e rispondere i luccichii gialli delle bruniture d'ottone, i luccichii bianchi delle bruniture d'acciaio. Poi spariva lasciandosi dietro l'effluvio lieve di verbena che profumava le sue vesti, un fremito, una gioia, una ebbrezza sottile che penetravano uomini e cose. Pippo aveva voluto lui stesso l'allontanamento della giovine donna dalla bottega. Era troppo invanito di lei per soffrire di vederla al banco come una borghese qualunque. Non gli importava rinunciare all'utile di un così prezioso aiuto. E d'altra parte, il rinunciarvi era forse un abile tratto di previdenza e di scaltrezza. Se nella testa d'Irene frullavano dei progetti per l'avvenire, non conveniva ch'ella vi fosse distratta dalle cure del traffico. Egli si era appunto messo pel capo che sua moglie mulinasse dei progetti d'ambizione e di fortuna, i quali aspettavano, secondo lui, l'occasione di manifestarsi. Attribuiva alla giovane donna qualità segrete, forze ignote, che nessuno poteva sospettare, appetiti implacabili, che si acuivano sotto la vernice di quella sua dolcezza. Non dubitava punto sul successo di lei, sulla validità dei mezzi ch'ella avrebbe impiegato; al contrario, aveva una fede in lei così cieca, che non la interrogava neppure. Si limitava ad aspettarla all'opera, con una muta ansietà, rendendosi frattanto il suo schiavo, secondandola ciecamente, dimenticando per lei tutte le tradizioni di grettezza e di parsimonia ond'era cresciuto, assimilandosene le passioni. La giovine famiglia non metteva da parte un centesimo. Aveva montato un comodo quartiere in via di Torre Argentina; teneva due persone di servizio; si trattava bene negli abiti, nel vitto, nei divertimenti. Irene trasformava il marito, facendone un uomo possibile; ma non si accorgeva che, sotto un certo punto di vista, lo peggiorava. Infatti, s'egli era più spigliato, più corretto, se gli si affinavano i tratti, ed il suo linguaggio diventava meno scorretto e sboccato, questa ripulitura esteriore lo educava alle livide dissimulazioni di un ipocrita. I suoi odî contro i propri parenti acquistavano di perfidia e d'intensità quello che perdevano di brutale virulenza. Del resto, continue cagioni si accumulavano per rendere sempre più acre e mortale questo antico veleno: la chiusura del forno a via del Pellegrino; le vendite di stabili che rivelavano nel vecchio Ferramonti il progetto di una spogliazione; le notizie che arrivavano fino a S. Eustacchio, portatevi dagli oziosi e dagli inframmettenti, sui propositi manifestati da padron Gregorio riguardo ai figli. Spesso Pippo faceva di tutto per distogliersi da tali pensieri, pauroso d'esserne spinto a qualche delitto, che lo avrebbe compromesso. Ma egli aspettava ancora la morte del padre, come l'occasione di un'acre gioia: l'ebbrezza immensa di una vendetta ottenuta dal caso. Irene parve persuasa di non poter nulla su tale stato dell'animo del marito. Rassegnavasi al fosco dramma di passioni e di odi che rendeva realmente impossibile la felicità della sua casa. Ella ottenne soltanto che Pippo cessasse di prenderla confidente dei suoi sfoghi. Voleva egli farla morire di dolore, di vergogna e di raccapriccio? Lo supplicava come si supplica il Signore: domandava di essere risparmiata, come la prova suprema di amore che Pippo potesse darle... E dove la giovane donna potè, si fece mediatrice di pace. Così, prese vivamente ad attenuare il fallo commesso da Teta, sorella di suo marito, non appena le nozze lo ebbero sbiancato agli occhi del mondo. Pippo ne aveva provato un piacere perfido, pensando al dispiacere, alla vergogna, ed ai furori di suo padre; ma non aveva perciò affettato meno il contegno di un borghese onesto offeso nei suoi sentimenti di dignità, di pudore e di morale. Era una cosa da ammattirne: la sua famiglia voleva assaggiare tutti gli scandali! A lui, Pippo, non restava altra soddisfazione che quella di non aver più nulla da spartire coi suoi. No, non riconosceva più parentela!... In fondo, non sapeva darsi pace della scelta imbecille di Teta. Bisognava dire ch'ella avesse perduto totalmente la testa! Darsi ad uno straccione d'impiegato, dopo aver disprezzato un droghiere pieno di quattrini e di speranze!... Del resto, Pippo non dubitò un istante che lo scopo di Paolo Furlin, il rapitore, non si risolvesse a prendersi sulle spalle una calìa della forza di Teta, per tirare ai quattrini del vecchio fornaio. Ed il giovine trafficante di ferrarecce provava una sorda paura del nuovo avversario contro il quale avrebbe forse dovuto lottare un giorno o l'altro. Era la diffidente soggezione degli uomini, che sanno appena imbastire con mano incerta e pesante una lettera di commercio, verso gli arzigogolatori di scritture. La lite mossa da Furlin al suocero per la dote di Teta non rassicurò certo Pippo. Dunque l'impiegato non voleva perdere un giorno di tempo? Ci teneva a mostrar subito ai Ferramonti che sarebbe stato un osso duro da rodere? Corpo di Cristo! ci mancava anche quest'altra seccatura!... Ma mentre Pippo cercava di mettersi in guardia per tutelare, al caso, i propri interessi, venne fuori il miserabile accomodamento dei tremila scudi accettato da Furlin. Il trafficante di ferrarecce ghignò, sollevato: infine, anche per questa volta, il diavolo non era così brutto come si dipingeva. Sta a vedere che sotto la scorza di Furlin ci si trovava un impasto di minchione. Irene si prevalse di tale disposizione d'animo per cantare le lodi dei cognati e per cogliere di sorpresa il marito con certe rivelazioni quasi incredibili. — Davvero, — diss'ella col suo sorriso buono — tua sorella e tuo cognato sono gente per bene. Si amano; vivono decorosamente e modestamente, non domandano niente a nessuno. — Si sa, tu ci hai della simpatia — osservò Pippo. — Infine, sono parenti stretti. Senza dubbio, Teta ha commesso uno sproposito; ma Dio mio! tutti possiamo trovarci al caso di sbagliare, e tu hai torto a serbarle rancore. Siete stati sempre i più affezionati della famiglia, gl'interessi dell'uno rimangono ancora quelli dell'altro. Bisognerebbe che tu ci riflettessi un pochino di più... Andò assai per le lunghe. In una espansione del cuore si tradì: ella non parlava a caso; conosceva i Furlin; sapeva giudicare la gente che avvicinava. — Tu li hai avvicinati? — esclamò Pippo sbalordito. Lei non seppe mentire. Tremava. Suo marito doveva perdonarle, ma ella soffriva troppo di tutte quelle discordie di famiglia. E del resto, anche il caso ci si era messo di mezzo. Recandosi una domenica in visita dalla signora Rosati, ella non aveva potuto sospettare d'incontrarci Teta. — E poi? — balbettò Pippo. — E poi, ci siam riviste quattro o cinque volte. Mi pare proprio di aver trovato una sorella. Credimi: tu ti troverai contento di una riconciliazione. Pronunciò l'ultima frase col parlar lento e misterioso che usava, quando voleva decidere il marito a secondarla ciecamente. Infatti egli non seppe resistere, fantasticando ancora disegni nascosti nella condotta della moglie. Giacchè lei ci teneva tanto, perchè si sarebbe ostinato a farci la figura di un uomo di macigno? Il passato era il passato: ci si poteva mettere su un piastrone. Se i Furlin venivano, egli non avrebbe sbattuto loro la porta sul viso. Due giorni dopo, la riconciliazione era un fatto compiuto. I Furlin si presentarono coll'aria di due sposi in visita, accolti da Irene nella stessa guisa. Poco appresso, Pippo entrò nel salotto come per caso; fratello e sorella si abbracciarono, ricambiandosi il bacio della pace. Paolo Furlin evitò abilmente le allusioni al passato, si disse felice di stringere cordialmente la mano al fratello di sua moglie. Sarebbero stati buoni amici, dovevano darsi del tu! — Per me... figurati! — sorrise Pippo, vinto dall'aria di tenerezza che spirava intorno. — Sei un bravo ragazzo! — proclamò Paolo Furlin. — Io amo e stimo gli uomini del tuo carattere: seri, avveduti, che sanno guadagnare del danaro, e farsi voler bene da un angelo di donna. Questi simpaticoni si trovano nel commercio. Io amo il commercio. Sono impiegato perchè mi ci hanno voluto i miei parenti, perchè non ebbi il coraggio di dare un dispiacere a mia madre. Che volete, la va sempre così: un niente decide del vostro avvenire. Cose del mondo!... Parlava lui solo, interminabilmente, impedendo agli altri di rispondergli. Aveva la sovrabbondanza di frasi e l'accento gutturale del dialetto veneto. Pippo lo ascoltava soltanto, un po' stordito, mentre Irene e Teta, sedute sullo stesso amorino, si facevano delle confidenze di donna. Pippo pensava che il cognato poteva esser benissimo una brava persona; ma che i suoi meriti non gli toglievano un'aria d'armeggione e d'intrigante. Era anche, tutt'insieme, una figura buffa: alto, magro, cogli occhi bigi, i capelli di un rosso sbiadito, pieno di smorfie e di gesticolazioni curiose. Ma Pippo sentiva rinascere le sue sorde diffidenze: vedeva in Paolo Furlin un uomo a lui superiore nella nascita, nell'educazione, in un cert'ordine di scaltrezze. Si persuadeva sempre più che non era quello il tipo da rapire per amore una ragazza sul genere appunto di Teta. E lo colpiva il contegno della sorella. Lei stava intorno al marito cogli atti di una cagna domata che guaisce d'amore ed è pronta a saltare alla gola di chi le minaccia il padrone. Le aveva dunque dato a bere qualche filtro, il furbo impiegato?... Nondimeno, Furlin era in buonissima vista, già segretario al Ministero dell'interno, a malgrado de' suoi ventisette anni. Gli pronosticavano una brillante carriera, e si aspettava di saperlo nominato cavaliere tra non molto. Il ratto di Teta lo aveva danneggiato momentaneamente, fino ad esporlo al rischio di un trasferimento nelle amministrazioni provinciali; ma il matrimonio sollecito ed i buoni precedenti dell'impiegato avevano dissipate le nuvole. Non si parlava più della scappata, se non per trovarci un sapore di romanticismo che rendeva Paolo Furlin interessante agli occhi di qualche alto funzionario dalle idee larghe ed ardite. Si era cercato di conoscere l'eroina dell'avventura, di avvicinarla; le si attribuivano attrattive e pregi nascosti. Nondimeno Paolo introduceva la moglie a poco a poco nelle conversazioni e nei ritrovi del mondo burocratico, rendendo così più sicura e più completa l'accettazione di lei, ed educandola, frattanto, con una cura minuziosa, ai modi, al linguaggio ed alle abitudini di cui non poteva ormai fare più a meno. Per conto proprio, egli era dovunque festeggiatissimo. Se ne teneva un po'; parlava di commendatori, di duchi, di senatori, di deputati, di magistrati, colla noncuranza e la familiarità d'un uomo avvezzo. Ed era un compagno prezioso nelle brigate; forse loquace più del bisogno, talvolta; ma inesauribile, pronto alla barzelletta, fornito di una copiosa raccolta di rivelazioni, di fattarelli piccanti, di maldicenze, di piccoli scandali, che fanno protestare a fior di labbra, sorridendo, e si ascoltano sempre volentieri. Infine, ammogliandosi, egli aveva rinunciato ad una gaia esistenza. In quel primo incontro fra parenti, Paolo cercò di porsi naturalmente sotto un punto di vista favorevole; fors'anche di colpire l'imaginazione dei cognati. In realtà, a poco a poco, crebbe nel concetto di Pippo. Costui cominciava a sentire come un solletico dolce: il germogliare, nel proprio cervello di bottegaio, di una vanità di villan rifatto. Infine, doveva confessare a se stesso che fa un certo effetto potersi dire parente di un personaggio di conto che vive nella miglior società. Può anche essere utile in qualche occasione, anzi in molte occasioni. Si alzarono con grandi esclamazioni di gente sorpresa dall'ora tarda, promettendo di rivedersi il più frequentemente possibile. Ma Paolo non se ne contentò: perchè la domenica prossima i Ferramonti non andavano a mangiar quattro risi dai parenti? Non dovevano dir di no. Si sarebbero rivisti dunque domenica, a tavola. Un piatto di buon viso avrebbe supplito al resto. Che diavolo! non erano per nulla tra fratelli e tra cognati. — Ha delle buone qualità, Paolo! — sentenziò Pippo appena partiti i Furlin. Irene sorrise. IV. Quella relazione si cementò. Furlin seppe rendersi utile, procurando al cognato certe forniture di minuti oggetti: maniglie, arpioni, toppe, chiodi. Non erano affari molto grassi; ma assicuravano un guadagno positivo, e preparavano il terreno ad operazioni più importanti. I grandi lavori per l'assetto della capitale avrebbero dato occasione a metter meglio le mani in pasta. Allora Pippo, nella sua logica d'uomo interessato, rammaricò il tempo perso a fare il sostenuto. Quante vantaggiose combinazioni erano probabilmente andate a monte nel frattempo! E dire che, senza Irene, egli non avrebbe mai consentito a riaccomodarsi con Teta ed a stringer la mano a Paolo. Oh, gli uomini! che imbecilloni sono talvolta! Si montava la testa, incapace ormai di distinguere tra i fumi di vanità, e le speranze di fortuna. Assumeva delle arie di signore, non volendo sfigurare fra le nuove conoscenze che incontrava. Un altro effetto dell'opera di Furlin. Questi introduceva la cognata in società, e, per Irene, erano successi continui. La trovavano bella, elegante, gentile, modestissima; delle signore, specialmente giovani, erano prese come da un solletico vago di amor proprio, nell'agguerrire, nello spingere, nel lanciare quella cara ritrosa. Il quartiere in via di Torre Argentina cominciò ad esser utile a qualche cosa, empiendosi di un fruscìo di gonne, echeggiando di certe risa perlate, fremendo al mormorìo misterioso di confidenze frivole, saturandosi di profumi sottili. Pippo non accorgevasi affatto che queste nuove abitudini gli assegnavano un posto molto secondario, molto nell'ombra. Gonfiava a scoppiarne nel ricevere certe strette di mano che gli si accordavano, quando non se ne poteva fare proprio a meno. In tali circostanze noiose, lo trattavano come un rappresentante della grossa borghesia, parlandogli del grande commercio. Si fingeva d'ignorare ch'egli attendesse personalmente alla bottega a S. Eustacchio. E si coglieva il primo pretesto per piantarlo, mandandolo centomila volte a casa del diavolo, tacitamente. L'averlo per marito, era il solo torto che si rimproverasse ad Irene. Ne valeva molti. Ma se Pippo era cieco per se stesso, non lo era per la sorella. Ne rideva a perdifiato, il bestione. Era dunque possibile ridursi così? Una serva non sarebbe stata più sottomessa, non avrebbe rinunciato alla propria volontà più di quello che lei non facesse col marito. Bisognava creder davvero, che non ci avesse più una goccia di sangue nelle vene. Via! se Furlin si contentava soltanto di tenerla in conto di una scopa, era da fargliene un merito. Un altro al posto di lui, chi sa come si sarebbe sbizzarrito! I Ferramonti presero a frequentare i martedì della signora Minelli, la moglie di un mediatore d'affari. Era l'effetto di un fenomeno poco esattamente definibile; ma che moglie e marito avevano subìto in pari grado. Non si affiatavano nel ceto degl'impiegati, essi bottegai, figli di bottegai. Loro, di un sangue in cui non si placa l'acre febbre della caccia al danaro, sentivano di non potersi mescolare, soli e sperduti, in mezzo ad una folla assopita nei facili contentamenti di uno stipendio mensile. Ritornavano a poco a poco nel loro ambiente, a respirarvi più liberi, ad incontrarvi figure e caratteri coi quali potevano intendersi. Il passaggio attraverso il mondo burocratico aveva soltanto permesso loro di elevarsi, di scegliere, fra i propri affini d'indole e di tendenze, quelli che sapevano conciliare la lotta ardente degl'interessi coi godimenti, colle forme e colle eleganze mondane. Fu l'impresa di tre o quattro mesi, coronata da un successo completo. Una sera, tornando appunto di casa Minelli, Pippo lasciò trapelare alla moglie il suo malumore, mostrandosi rabbuiato ed astratto. Lei non parve disposta a volere accorgersene ed a provocare una spiegazione; ma ci si venne alla fine, sotto le coltri, spenta la candela. Non c'era voluto meno per dar coraggio a Pippo. — Hai un'altra amica, — osservò lui, pigliandola alla larga; — la signora... — Barbati, — completò Irene, naturalmente. — Sì, Barbati. T'è stata intorno tutta la sera. — Mi ha detto molte cose gentili. — Ma certi discorsi, se li poteva risparmiare. Mi ci sono preso un'arrabbiatura... — Cioè?... — Non sapeva parlar che di Mario. Lui sempre, in tutte le salse, come se... — Tu non sai proprio nulla! — rise la giovine donna. — Era ben naturale... — Naturale? Perchè? — Si fa della maldicenza... Ma dal momento che Flaviana stessa la sfida! ... Insomma, vogliono ch'ella abbia delle tenerezze per tuo fratello... — Per Cristo! — esclamò Pippo con un salto sul letto; — ci mancava anche questa! — Come? — domandò Irene sorpresa; — che ce ne importa a noi? — Non le hai detto che Mario è mio fratello? — rimproverò Pippo ruvidamente. — Sei stata brava davvero! — E poi? — fece la giovine donna con un accento intraducibile. — Dovevo dirle il contrario, quando me lo ha domandato? Pippo allibì. Moglie e marito tacquero. Egli era uscito dal salotto della Minelli, risoluto ad imporre alla moglie di non ripetere mai più che Mario era della loro stessa famiglia. Adesso invece sentiva ch'ella aveva ragione di ribellarsi alla menzogna. Temeva soprattutto che potesse serbargli rancore; cercava un mezzo per riabbonirla, rendendo più imbarazzante quel silenzio. — Dormi? — bisbigliò Irene. — Buona notte. — Buona notte, — rispose lui, sgomento. Al domani mattina, dopo un penoso fantasticare di molte ore, aveva imbastito il suo discorso: una trovata d'uomo abile che mette in salvo la propria dignità e rattoppa i piccoli dissidi della vita coniugale. Attaccò, appena dato alla moglie il buon giorno. — Non sei scontenta di me, non è vero? — Niente affatto. Perchè? — Non volevo rimproverarti, ieri sera. Non ho saputo spiegarmi. Sicuro: alla Barbati non potevi rispondere diversamente. Ma bisogna evitarle, certe domande. Ora, se quella smorfiosa ti si stringe ai panni, siamo in un bell'impiccio. Vedrai, si rimescoleranno delle storie da doversi invece tener seppellite come in fondo ad un sepolcro. Diranno che ci riaccostiamo a quella birba, che accarezziamo le amanti da cui si fa mantenere. Ma sì! vedrai, ti dico, come ci si guadagnerà di riputazione... — Non sai davvero quel che ti dici, — interruppe Irene stringendosi nelle spalle, con un sorriso angelico. E dette delle spiegazioni al marito rimastole davanti a bocca aperta. In primo luogo era falso che Mario facesse torto alla famiglia. Chi non lo sapeva un po' scapestrato? Ma l'essere un po' scapestrati, nei limiti giusti, nuoce forse? Certo, da per tutto, trovavano Mario simpaticissimo. Lo desideravano e lo festeggiavano nelle migliori società. Ed era un'infame calunnia, che si facesse mantenere dalle amanti; lo era pure, che vivesse all'azzardo. Nel ceto della gente d'affari aveva una posizione nota: era appunto mediatore d'affari molto accorto e molto attivo. Così unicamente trovava il danaro per vivere da signore... — Per l'amor di Dio! — interruppe Pippo, — non tocchiamo questo tasto... La giovine donna lo guardò fisso con inesprimibile compassione. — Pensi alle cambiali pagate da tuo padre? Poche migliaia di lire, trovate nei momenti critici, al cento per cento. Ci vuol altro, caro mio! Del resto, sono pazzie di gioventù nelle quali cascano tutti quelli che fanno un po' di vita. Mario le ha messe da parte... Si fermò un momento, come una donna che ricaccia in gola un'apologia. Tradivasi il suo desiderio di veder Pippo riconciliato anche col fratello, la pena che le costava il rassegnarsi a quella crudele scissura di famiglia. — Vedi bene — riprese riscotendosi: — la parentela di Mario non ci compromette, come hai temuto. Rassicurati anche sulla Barbati; è una donna delicata ed avveduta che non vorrà farci dispiacere, e che indovinerà subito di non doverci parlare di tuo fratello. Fece grandi elogi della sua nuova amica. Il marito di lei, uomo oltre i cinquant'anni, aveva guadagnato molto danaro colle sussistenze militari, nelle guerre di Lombardia. Poi ne aveva riperduti molti con infelici speculazioni, forse per aver dato troppo la testa alla politica. Ora teneva Banco di cambio, prestiti, rappresentanze e collocamenti, al Corso. Era un galantuomo; ma un esaltato. Flaviana lo aveva sposato appunto per questo; lo diceva da sè. Erale piaciuto il suo passato avventuroso di esilii, di prigionìe politiche, di guerre combattute, ritrovandoci il tipo cercato dal suo cervellino amante dello straordinario. E si doveva appunto a queste medesime romanticherie, se la giovine donna, dopo, aveva commesso qualche debolezza. Ma non si doveva rimproverarla troppo severamente. Meritavano indulgenza i suoi ventitre anni, la sua indole allegra e libera, quella sua geniale bellezza di bruna grassotta, esposta a mille insidie. Non cessava di amare il marito come un padre, come un amico; lo consigliava, lo frenava senza averne l'aria; pregava Dio sinceramente che glie lo facesse ravvedere, liberandolo da certe idee cattive di miscredente. Oh, era religiosissima, migliore assai di tante altre donne, alle quali non si avrebbe potuto rimproverare i torti che a lei volevansi attribuire, esagerandoli. In quanto a Mario, si capiva che Flaviana lo avesse conosciuto nell'occasione di qualche affare tra lui ed il vecchio Barbati. Le aveva certo ispirato interesse pel suo spirito e per le buone fortune colle donne. È una qualità che val molto nella seduzione, e che altera essa sola molte fantasie... — Birbante! — ghignò Pippo, divertito per la prima volta dall'idea che suo fratello fosse un don Giovanni irresistibile: — ha sempre tirato alle femmine, e non so che polvere ci abbia per addomesticarsele... Da quel momento il negoziante di ferrarecce si trovò trascinato inevitabilmente alla riconciliazione. Pareva che Mario fosse diventato ad un tratto un personaggio alla moda. Ai martedì della Minelli si ripetevano i suoi tratti di spirito, si narravano, attenuandone i punti scabrosi, le avventure nelle quali egli erasi mescolato. E mentre gli uomini d'affari, con gran sicurezza, gli profetavano un avvenire brillante, le signore lo discutevano, gli attribuivano ciascuna qualità di proprio gusto, lusingate, quelle che lo avevano avvicinato, di poterlo dire. Altre confessavano di averlo notato nell'incontrarlo. Buon Dio! era pur necessario vedere come fosse fatto un uomo di cui si parlava tanto! Flaviana sorrideva alle velate allusioni che volevano imbarazzarla. Trionfava, indovinando le segrete gelosie delle sue buone amiche. La sua intimità colla cognata di Mario diventava un'ostentazione piena di sottintesi, come s'ella volesse serbare ad una parente stretta dell'amante le carezze manifeste che non poteva fare a lui. Frattanto Pippo era molto impacciato. Quando gli parlavano del fratello, non sapeva come rispondere che da anni non ci aveva più rapporto alcuno. Non si poteva andare innanzi così. Vedeva Irene soffrire nello sforzo continuo di lasciare il marito padrone dei propri sentimenti, di non urtarli neppure colla più lieve allusione. Rammentava com'ella era stata felice il giorno in cui s'era fatta la pace coi Furlin. Perchè non le procurava un altro momento simile, acquistando il merito di farlo spontaneamente? Bisognava risolversi; parlarne a Teta; indurre lei pure ad accettare il progetto. La cosa sarebbe stata perfetta. Gli toccò una sorpresa. Alle prime parole Teta lo interruppe con un'esclamazione di gioia. Si era deciso, infine! Ma sicuro, bisognava troncare commenti malevoli cui dava luogo quella vecchia ed irragionevole discordia. Da mesi la famiglia aspettava appunto ch'egli capisse di aver torto. Ma adesso non v'era più un momento da perdere. Se ne sarebbe incaricato Paolo. — Paolo? — fece Pippo, fiutando un'altra novità. — Sì, Paolo. Egli e Mario sono già buonissimi amici. Si stimano molto. Mio marito crede Mario la testa forte della famiglia; ritiene che avremo il nostro tornaconto a rendercelo favorevole. E allora si rimane intesi: Paolo condurrà Mario in casa tua. Si sarà tutti contenti. Tu ed io specialmente, perchè tu ed io ci guadagneremo più degli altri. Fratello e sorella si guardarono con un lampo negli occhi. Si comprendevano; si confessavano scambievolmente, come in una crise di sincerità. Pippo non si ribellava alla muta e sardonica compassione colla quale Teta gli rimproverava la sua mancanza di scaltrezza. Che importava ad ambedue, se Mario era il bastardo della famiglia e li aveva derubati in altri tempi? Adesso potevano sfruttarlo, renderselo utile. Proprio era il momento di guardare le cose pel sottile!... Ambedue rammentarono nello stesso tempo di avere udito parlare tre o quattro sere addietro, ai martedì della Minelli, di una prossima emissione di azioni: la comparsa di un nuovo Istituto bancario. Qualcuno s'era congratulato con Irene che suo cognato fosse uno dei manipolatori dell'affare. — Allora, come debbo contenermi? — domandò Pippo, passandosi una mano sulla fronte, coll'atto di un uomo che ha il cervello in ebullizione. — Non ci pensare. Aspetta stasera. — Debbo avvertire Irene? — Si capisce. Subito. Le farà molto piacere. V. Quella sera, in casa Ferramonti passarono ore deliziose. Pippo anticipò la chiusura della bottega; andò a casa, dissimulando a se stesso le sue smaniose impazienze. Trovò la sorella e la moglie insieme. I Furlin s'erano affrettati a pranzo per uscir subito, e mentre Teta veniva dai parenti, Paolo era andato a prender Mario. Si sarebbe aspettato ancora pochi minuti. Aspettarono invece più d'un'ora, parlando di cose frivole, con una fatuità nervosa, che accusava una preoccupazione fissa. Per la prima volta Irene si mostrava diversa dal solito: un trionfo la illuminava; un trionfo di donna forte, cosciente ed orgogliosa di esserlo. Una diffidente sorpresa annuvolava ad intervalli la fisonomia di Teta, intenta a spiare la cognata; ma un sorriso d'indefinibile ironia vi succedeva; e le due cognate si colmavano di amabilità, con inflessioni di voce tenere: come di donne vinte da un abbandono molle di sentimentalismo. Pippo non badava loro, affatto. Aspettava; cercava di studiare un contegno pel momento in cui suo fratello sarebbe comparso. Era un po' pallido. Non sapeva neppure attendere alle ciarle colle quali le due donne ingannavano il tempo. D'improvviso Irene balzò in piedi correndo alla porta. Ebbero appena il tempo d'indovinare il motivo del suo grido di gioia; la videro rientrare, camminando all'indietro, traendo seco, colle due mani, Mario. Pareva soffocata dalla commozione. — Ti sono riconoscentissima, — balbettò avvicinando il cognato al sofà; — siedi. — Sei molto gentile, — diss'egli, ricambiando cordialmente le gentilezze di lei. Per un breve tempo rimase un po' perplesso; cercò istintivamente, colla coda dell'occhio, Furlin. Non andò incontro al fratello ed alla sorella ritti, immobili. — Ebbene? — esclamò l'impiegato facendosi innanzi; — siamo qui per guardarci, forse? Spinse per le spalle Mario. Questi abbracciò Teta, più vicina; la baciò sulle gote, e si volse al fratello che lo afferrava. Allora fu uno spettacolo scenico di tenerezza. Pippo era sincero; non poteva parlare; aveva dei grossi sospiri, dei fremiti possenti nello sfogo brutale della sua commozione. — Infine! — proclamò Furlin, — siamo stati un mucchio di sciocchi ad aspettare tanto tempo. Certe cose fanno bene all'anima. Non è vero, Irene? Ella era in estasi. Restava a sedere sul sofà, muta, colle mani quasi giunte, col suo sorriso d'angelo, coi suoi begli occhi vaganti nel vuoto. — Non dimentichiamo tua moglie, — disse Mario svincolandosi dalle braccia del fratello, con un lieve principio di fastidio. Forse coglieva il lato umoristico della scena; ma gli pareva che bastasse. — Impariamo dunque a conoscerci, cognatina, — soggiunse, sedendosi accanto ad Irene. — Non sarai punto edificata sul conto mio. Lo sai già; passo per un cattivo soggetto. Risero, Pippo, Teta e Paolo. Ne avevano bisogno, per uscire da quel tono di tenerezze. La conversazione divenne generale; ma Furlin prese la mano sugli altri. Narrò di aver pescato Mario al caffè Roma, smarrendosi in particolarità minute. Ripeteva le parole scambiate; dipingeva il viso fatto da Mario al sentire che si andava a casa di suo fratello. Del resto, era appunto bastato dirgli di venire. Oh, Mario si era mostrato quello che si dice un uomo di cuore. — Sta bene, — disse lui; — ma non ricaschiamo nel sentimentale, per carità. Affogheremo nel mare delle nostre lagrime. Portava nel salotto dei Ferramonti il suo tratto d'uomo elegante. Aveva trentacinque anni; conservava la figura snella, distinta. Nondimeno il suo viso appassito ed il suo sorriso freddo e scettico accusavano una stanchezza di libertino. Non somigliava certo a padron Gregorio. Aveva lineamenti delicati; mani e piedi aristocratici; un insieme di figura, di espressione e di modi fatti apposta per accreditare le maldicenze corse sulla sua nascita. Ostentava una leggerezza mordace di spirito, un abbandono d'uomo annoiato e sazio; ma non sapeva dissimulare, o forse non lo voleva neppure, i suoi acuti appetiti di avventuriero. S'indovinavano in lui le audacie dell'uomo pronto a slanciarsi sulla preda in qualunque modo ed in qualunque momento gli si fosse presentata. Evidentemente, non sapeva dove gli scrupoli stessero di casa. In mezzo al fervore della conversazione comune, la voce di Pippo scoppiò ad un tratto: — Aspettate un poco! Mi dimenticavo il meglio... Si alzò superbo; sparì. Ma ricomparve poco appresso, seguito dalle due donne di servizio cariche di sottocoppe, di bicchieri, di bottiglie, di dolciumi: un rinfresco in regola; una sorpresa ch'egli faceva ai parenti, secondando un istinto di munificenza bottegaia. Mario sorrise. Ritrovava nel fratello il figlio di padron Gregorio; nel salotto di Irene un riflesso delle abitudini e dei gusti di via del Pellegrino. Aveva una curiosa famiglia. Ed il viso di Teta si era contratto per una emozione di golosa, mentre Furlin si slanciava sulle bottiglie ed applaudiva, colla giocosa e chiassosa impazienza di un uomo elettrizzato. Ad un tratto Mario non badò più a questa scena. Lo colpiva l'espressione della cognata: un lampo di disprezzo e di collera negli occhi di lei anneriti; una ruga sulla sua fronte marmorea. Sentiva che non avrebbe dimenticato più quella rapida visione, che tradiva in un momento di oblìo le arcane energie, la sapienza dissimulatrice di un carattere eccezionale di donna. Ebbe il presentimento confuso di un dramma futuro nel quale Irene avrebbe sostenuto la parte principale. In ogni modo, là, ella era la sola che avrebbe potuto dominare e volgere a proprio vantaggio le cupidigie che si agitavano intorno a lei. Da quel momento non perdette più di vista la cognata. La esaminava collo sguardo del conoscitore che giudica. Si sentiva tratto verso di lei. E mentre il vino bevuto riscaldava i cervelli ed animava i discorsi, egli fantasticava stranamente. Irene era un'amabile donnina, dopo tutto! il suo fascino era pieno di mistero. Dove intendeva dunque di arrivare? A mezzanotte stavano ancora insieme, un po' in cimberli. Mario si alzò, rimproverando scherzosamente ai parenti di fargli dimenticare i suoi impegni altrove, e si affrettò a salutare in giro. Ma nello stringere la mano ad Irene, si trattenne più a lungo con lei. — Vedrai, cognatina: c'intenderemo fra noi. Dobbiamo stringere un patto di alleanza. — Sei un matto! — sorrise lei. — No, dico davvero. Ho dei progetti. — Se ne riparlerà. — Appunto. Adesso non c'è tempo, e non è il luogo. Spero che sarai contenta di me. — Che caro matto! — replicò Irene, appena egli non fu più presente. Furlin si dichiarò del suo parere. — Proprio così. È pieno di spirito. Vedrete quanto ci farà stare allegri. — Si riderà — soggiunse Pippo con un atto di chi scaccia una nube dal capo. — Coraggio, Paolo: un altro goccetto per stare allegri anche quando Mario non c'è. L'animazione crebbe. I due cognati asciugavano il fondo delle bottiglie emulandosi, mentre Teta si rimpinzava di dolci. Furlin, cogli occhi lucenti, gettavasi dietro le spalle i riserbi di giovane funzionario destinato ad una brillante carriera. Narrava le piccole miserie del mondo burocratico, le maldicenze dei corridoi e dei gabinetti; rivedeva le bucce ai colleghi ed ai superiori. Dio buono, ce ne sarebbero state, delle storie piccanti da raccontare, ed anche delle brutte storie! Avevano promosso alla prima classe, per merito, e gli avevano dato la croce, un segretario la cui specialità era quella di temperare i lapis. Non faceva altro; visitava uno per uno, tutti i giorni, i tavoli dei colleghi per lasciarvi i lapis temperati da lui, con certe punte più sottili di quelle degli aghi. Ma non era certo l'abilità sua che lo aveva fatto promuovere. Oltre un assortimento completo di temperini, possedeva un amor di moglie, bionda, allegra, scaltra; una donnina che si trovava da per tutto: nei corridoi del Ministero, alla tribuna parlamentare, sempre in mezzo a personaggi influenti, vestita come una principessa. Ebbene, il mondo va così appunto. Furlin diventò drammatico. Parola d'onore! non valeva la pena d'esser zelanti, di posseder titoli, di mostrare attitudine ed amor proprio. Che importava il merito? il miglior sistema era quello di farsi mandare innanzi a scapaccioni, a forza di protezioni e d'intrighi. Lui se ne dichiarava stufo; era nella pelle di un impiegato per caso, e cercava tutte le strade per uscirne. Aspettava l'occasione, la sperava vicina. Se le cose andavano bene, l'affare poteva risolversi forse anche più presto di quello che non si potesse prevedere. Oh, se Mario manteneva le sue promesse!... Fu la sua ultima frase. All'udirla, Pippo riacquistò per un istante la lucidezza dell'intelletto, smarrita nelle libagioni. Avrebbe voluto richiamare indietro il cognato, che si allontanava farfugliando; chiedergli che cosa intendesse di dire. Irene lo trattenne. Lo persuase che se c'erano delle novità in giro, le avrebbero sapute. Pel momento, bisognava pensare soltanto ad andarsene a letto. C'erano infatti delle novità. Mario aveva promesso al cognato d'interessarlo nella emissione di azioni che si preparava. Lo rivelò tre sere dopo, lui stesso, tornando in casa della cognata, dove la famiglia s'era di nuovo riunita. Dette a Furlin, a voce alta, una buona notizia: — Sai? la tua parte sarà di diecimila lire. Non ho potuto ottenere di più. Bisognava ben pensare anche alla cognatina. Con un gesto pronto, troncò i ringraziamenti del funzionario, godendosi per un istante lo stupore muto del fratello. Si volse ad Irene ridendo: — Per te ho serbato la stessa porzione. È il mio primo regalo. Si capisce che non mi darai il dispiacere di rifiutarlo. — Che razza di storia è questa? — balbettò Pippo, strozzato dallo sbalordimento. Era semplicissima. Gli accordavano settantamila lire di titoli nell'emissione della Banca Italica di Credito Generale. Egli regalava diecimila lire ad Irene e diecimila lire a Paolo. Serbava il resto per sè. Non era un bravo ragazzo? La sua figura giganteggiava in mezzo agli appetiti della famiglia eccitati. Sarebbesi detto ch'egli si prestava colla maestà di un nume allo sfruttamento sperato dai suoi nel riavvicinarlo. Pippo e Teta non sentivano rincrescimento di vedersi esclusi in quella prima occasione dalla distribuzione di danaro cominciata. I calcoli segreti delle loro cupidigie erano appagati dall'esperimento di cui risentivano un beneficio indiretto; palpitavano di speranze per l'avvenire. Del resto, l'impiegato ed i figli del fornaio avevano degli abbarbagliamenti: le vertigini delle persone che si accostano per la prima volta ai prodigi della speculazione. Mario spiegò loro il meccanismo dell'affare, minutamente, facendoli fremere, inchiodandoli muti ad ascoltarlo, a ricevere dalle sue parole l'impressione di una fiaba orientale realizzatasi d'improvviso. La Banca Italica, costituitasi colla sottoscrizione, per parte dei promotori, di quattro quinti del suo capitale di venti milioni, e col versamento del decimo sulle azioni di cinquecento lire, collocava presso il pubblico l'ultimo quinto del capitale, puramente e semplicemente. La sottoscrizione durava due giorni: il 17 ed il 18 maggio, tempo sufficiente per coprire varie volte l'offerta. Il giuoco sarebbe cominciato alla sottoscrizione pubblica. La schiera volante dei preparatori, che aveva fiutato la disposizione del mercato alla febbre dell'aggiotaggio, si eclissava, riservandosi modestamente una partecipazione alle azioni già sottoscritte. Invece, mettevansi innanzi, fra i promotori, i nomi più illustri e più rispettabili della politica, della nobiltà, della grossa borghesia, dell'alta finanza. Speculatori di second'ordine, come Rinaldo Barbati, figuravano soltanto isolatamente, come eccezione. Il Consiglio di Amministrazione era una raccolta di celebrità. L'Istituto si presentava come la provvidenza della Roma moderna. Proponevasi di cercare la propria clientela nel piccolo commercio, languente nell'anemia del credito, ch'è il suo sangue vitale. Avrebbe promosso tutte le industrie, rinvigorite tutte le iniziative serie ed oneste. Nei grandi manifesti di sottoscrizione, che occupavano le quarte pagine dei giornali e tappezzavano i quadri d'affissione, si dimostrava con dei calcoli di assoluta evidenza, che la capitale, città di consumo, poteva in brevissimo tempo, e con mezzi relativamente limitati, quadruplicare la somma dei suoi affari e diventare il centro industriale e commerciale di una vasta regione. Insomma, il terreno era ben preparato. Importava saper cogliere il momento giusto, per vendere col maggior profitto possibile. Si sarebbero riscaldati i ferri gradatamente, cominciando con un premio di quindici lire, per arrivare almeno a cento. Ma una bella giornata, favorevole all'accorrenza dei compratori; una buona notizia; un nulla, potevano determinare un successo assolutamente imprevedibile. In ogni modo, non si correva affatto il pericolo di vedersi restare in mano neppure uno dei titoli ad averne per mezzo milione. — Come? — domandò Pippo: — darai aria a tutto? Mario lo guardò, stringendosi nelle spalle, con un sorriso inesprimibile. — Mi credi così ricco da trovar dentro al cassetto il danaro pel versamento dei decimi? — diss'egli; ma non aggiunse altro, rinunciando alla fatica vana di maggiori spiegazioni. Si volse ad Irene ed a Furlin: — Sapete che le vostre diecimila lire sono nominali, non è vero? In realtà, si ridurranno a molto meno. Bisogna contentarsi dell'onesto. Per compenso, non vi domando le mille lire che ciascuno di voi mi dovrebbe pel versamento del primo decimo. Semplicizzeremo. Ritirerò a credito, per poche ore, i titoli miei e vostri; escirò; venderò; rientrerò per pagare il nostro debito, e vi porterò le differenze dei premi che avrete guadagnato. Avrebbero voluto portarlo in trionfo. Li faceva impazzire; accendeva nel loro sangue la febbre dei sùbiti guadagni, la passione della caccia rabbiosa al danaro, che si fa senza rischio e senza fatica, nell'agguato sicuro del furbo che lavora sulla cupidigia e sulla credulità umana. Irene lo fissava muta, col viso pallido, con un fremito delle narici, con un'ardente intensità dello sguardo. Lo aveva appena ringraziato; non faceva nulla perchè egli badasse a lei. Forse ne aveva paura. Al momento di salutarsi lo trattenne un istante, parlandogli con voce che aveva singolari e nuove inflessioni. — Con tutti questi vostri affari, vedrai spesso Rinaldo Barbati, imagino. Egli la guardò un istante negli occhi. — Ma sì... Appunto: debbo andare da lui anche stasera. — Allora, saluta Flaviana. Non la vedo più da cinque giorni. VI. — Eccomi qua, cognatina; ti porto il tuo danaro, — disse Mario, entrando nella stanza da lavoro d'Irene, e stringendo la mano alla giovine donna. Era la mattina del 23 maggio. I due cognati si trovavano soli per la prima volta. Irene accennò a Mario una sedia, vicino al tavolinetto rotondo dinnanzi al quale cuciva. Gli sorrise. — Vuoi esser gentile fino all'ultimo. Perchè ti sei preso l'incomodo?... — No, no! Gli affari, mia cara!... Facciamo i nostri conti da gente positiva. — Mah!... se lo credi necessario, facciamoli, — diss'ella ridendo dello strano travestimento che Mario dava al suo dono. Egli cavò di tasca una busta; riscontrò il danaro contenutovi: milleottocento quarantasette lire e venticinque centesimi. Appunto. Era la parte di sua cognata. — Tanto! — esclamò lei, sorpresa: — come va? — Il guadagno è stato maggiore del previsto. Abbiamo buon fiuto, eh, cognatina? — Me lo provi, — assentì lei, con un'ultima frase scherzosa. Poi la sua espressione mutò. La riconoscenza splendeva nei suoi occhi, in tutto il suo viso. Lei non avrebbe imaginato tanta bontà d'anima, tanta generosità. Come avrebbe potuto dimostrare a Mario, che non era un'ingrata? — Vuoi farmi proprio piacere? — disse Mario; — proprio? Ebbene, non ne parliamo più. Me lo prometti? — Mio Dio, se lo vuoi... — Siamo intesi. Ti rammenti? Nel nostro primo incontro ti dissi, che saremmo andati d'accordo. Dobbiamo fare un patto fra noi. — Sarebbe? — Associamoci. — Associamoci... Cioè!... A quale scopo? — soggiunse con una ingenuità simulata, mentre scrutava il cognato. Egli non rispose subito. Guardò a sua volta la giovine donna, quasi diffidente. Poi prese il suo partito. — Supponi ch'io voglia trovare un mezzo qualunque per dimostrarti la mia simpatia: ecco lo scopo. Farò i tuoi piccoli affari; sarò il tuo banchiere privato. Lasciami una parte del danaro che ti ho fatto guadagnare. M'impegno a costituirti un capitaletto, per le tue spese personali. — Insomma, vuoi ancora obbligarmi. Ma allora debbo domandartelo un'altra volta: a quale scopo? — Sei curiosissima! Hai torto. Ella lo imbarazzava. Nel silenzio che successe alle ultime sue parole, Mario credette sorprendere sulle labbra della giovine donna un sorriso lievissimo. Nondimeno, la figura di lei accasciavasi in una grande mortificazione. Ella rappresentava certo una parte. — Vuol dire che mi respingi? — chiese Mario. — Che idee ti frullano stamani pel capo? — esclamò lei ribellandosi. — Non ti capisco. Se mi domandi una gratitudine eterna, ed un affetto di buona cognata, ci è forse bisogno di patti? Voglio dirti tutto il mio pensiero: ho forse l'egoismo della paura. Mi pare che tu aspiri a cose troppo difficili; e mi sgomenta l'idea d'essere associata al tuo destino, nel dubbio... sì! nel dubbio di una caduta possibile. — Allora, impediscimi di cadere. Sii con me per questo. Mi consiglierai; m'indicherai la falsa strada quando correrò il pericolo di trovarmici. Per questo ci vuole appunto una donna prudente ed accorta. Tu... — Vuoi proprio burlarti di me? — interruppe Irene sorpresa. — Come sarebbe? Tu non vuoi capirmi. — Senti, — diss'ella nervosamente: — mi giudichi forse a rovescio. Ti capirei se tu fossi un altro, oppure se tu fossi in un'altra condizione. Ma v'è una donna di cui ti burli, sicuramente, confessalo. È forse morta, Flaviana? Ella era trasfigurata, nel fremito della passione, che tradiva tutti i suoi orgogli, tutte le sue gelosie, tutte le sue esclusività di donna. Ma fu come un baleno. Ritornò subito in calma; un freddo sorriso d'ironia rivelò un altro lato ignorato della sua indole. — Davvero mi fai perdere la testa. È che ti esalti sognando, o uomo positivo! e mi pigli per una donna da romanzo. Vedi: non sbagli forse nella massima. Ci sono in realtà delle donne capaci di spingere un uomo dovunque vogliono; dove, egli solo, non arriverebbe mai. Ma una ogni diecimila, ed io non sono di quelle; e neppure Flaviana, credo. Ne vuoi una? Cercala; ma bada alla scelta, perchè potresti andare a picco quando meno lo credi. Egli la lasciava parlare, ritrovando il proprio sorriso d'uomo sicuro, in un crescente fascino che quella donna esercitava su di lui. Essa poteva dire tutto quello che voleva; era proprio quale Mario l'aveva imaginata, quale desiderava che fosse. — Se vuoi proprio un consiglio, — proseguì Irene, — lascia andare le fantasie, e contentati di quello che hai. Flaviana ti vuol bene, ti è stata utile, può ancora giovarti, molto. Non merita, per te, neppure il rimprovero di leggerezza e di volubilità che le fanno. Allora, perchè mediti così, all'azzardo, senza uno scopo determinato, di recarle dispiacere? È uno sbaglio, questa ricerca ad occhi bendati in cui ti affatichi... — Non sei esatta — osservò Mario. — Cioè? — Non pensavo affatto a cercare. Ho trovato, ed ecco tutto. — Sì? Vuol dire che sei ancor più da compiangere, povero Mario! Hai trovato me. L'hai fatta, la bella scoperta! — Che t'importa? Infine, mettiamo, se ti piace, le carte in tavola. Non vuoi metterle tu? Ebbene, permettimi almeno di farlo, io solo. Egli perdeva di nuovo la calma. Ne aveva fin sopra ai capelli di quei discorsi artificiosi ed inutili. Si alzò; guardò finalmente la giovine donna in atto di sfida. La diffidenza che vide in lei, pure alzatasi, lo rese anche più brutale. — Non ho mai creduto alle tue arie di donna modesta e timida. Ho indovinato la tua forza e la tua abilità, quand'ho saputo che un uomo della stoffa di mio fratello ti sposava, senza dote, dopo aver speso l'ultimo soldo a comprare la bottega di tuo padre. Poi hai trasformato Pippo; gli hai fatto accettare le abitudini, i dispendi della tua casa; l'hai riconciliato coi Furlin, ed essi sono venuti qui, a farti la corte. Ed io? Guardami bene in viso: negami, se ti basta l'animo, che sono qui perchè mi ci hai voluto, e che mi ci hai voluto perchè hai bisogno di me, forse. Sull'onor mio, comincio a credere che tu valga meno di quel che pare, solo perchè ti ostini a finger con me. Ella lo aveva ascoltato pallidissima, fremente. All'ultima frase trasalì. — Pensa a quello che dici — balbettò con voce sorda. — In ogni caso sarebbe troppo tardi, — ribattè Mario, esaltato. — Meglio che tu mi ascolti fino alla fine. — Ti proibisco di continuare. Non ti perdonerò mai questa scena indegna. Lasciami! — No! Furibonda, lei si slanciò come una tigre, quasi avesse voluto schiaffeggiarlo. Poi, d'improvviso, soggiogata dal suo sguardo dominatore, indietreggiò, si gettò fremente sopra una sedia. Ebbe un singulto che parve un ruggito. — Se tu ci avessi messo un po' di buona volontà, il nostro colloquio non avrebbe preso una tinta così drammatica, — disse Mario, sarcastico ed inflessibile. — L'agitarsi non è da gente seria. Ascoltami più tranquilla. Irene lo guardò come se non lo avesse compreso, o come decisa a vedere fin dove egli si sarebbe spinto. Mario alzò leggermente le spalle e sedette di nuovo, a sua volta, in faccia a lei. — Hai un progetto ed uno scopo. Ma se vuoi fare degli altri i tuoi strumenti, questa parte a me non conviene. Diciamo un'altra volta la parola che ti spaventa: alleato, o nulla. Ad una posizione diversa, preferirei esserti nemico, nuocerti. Lo farei; sento che il non averti meco mi spingerebbe verso di te a tutti gli eccessi, a tutte le crudeltà. Pensaci. Aspettò che la giovine donna gli rispondesse. Quando la vide ostinata nell'atteggiamento e nel mutismo di dianzi, non seppe nascondere più oltre il vero carattere della sua commozione. — Non è possibile! siamo fatti troppo per intenderci. Non capisci che non conosco un'altra donna del tuo valore? Hai tutto: la bellezza, la prudenza, la scaltrezza e la forza. Fai la paurosa!... Oh, io davvero ho spesso paura di te. Mi fai sognare ad occhi aperti. Non posso imaginarti sempre nella tua condizione attuale: ti vedo salire dominatrice, farti ricca e potente. Io sono un affamato a caccia della fortuna, non è vero? Ebbene! son certo che le mie brame diventano desiderî di bambini paragonati alle tue. Vorrei aiutarti, farti vedere un giorno, quando si fosse arrivati insieme, che io sono degno di te. Spinse innanzi la sedia; giunse a toccare con le ginocchia le ginocchia d'Irene; s'impadronì delle due mani ch'ella gli abbandonò incosciente. S'inebbriava, sentendo il fremito di quella vaga persona, il fiotto ardente di quel giovane sangue. Indovinava il palpito del cuore di lei dall'ansia del seno ricco, fatto procace. Coglieva l'incanto di un turbamento profondo che illanguidiva gli occhi splendidi e faceva tremare le labbra semiaperte e vezzose della donna; e il grido del trionfo gli saliva dal petto. Irene gli si abbandonava. — Persuaditi una buona volta — proseguì balbettando: — non ti verrebbe da me nessun ostacolo, mai. Se diffidi di me, ti metterò a parte di tali segreti, che potrai schiacciarmi alla prima occasione. Un amico, un confidente bisognerà pure che tu te lo scelga. Perchè non sarò io quello? — Ebbene, sia come vuoi, — diss'ella in un abbandono subitaneo e completo. — Sei contento? Bada di non pentirtene, troppo tardi. — È forse possibile? — Chi lo sa? sono tanti i casi... Egli fece un gesto di noncuranza suprema. — Mettimi alla prova. Comincia da questo momento ad impormi i tuoi patti. Lei sorrise. Non trovava nulla, assolutamente nulla da chiedergli. Al caso, le circostanze li avrebbero ambedue consigliati. Mario doveva condursi, come se il loro abboccamento non fosse accaduto. Sopra ogni cosa non recare alcun dispiacere alla Barbati, non ferirne alcuna gelosia o suscettività. Non se lo meritava, povera e cara Flaviana! Irene parlò lungamente così. Ritrovava le vellutate inflessioni della sua dolce voce; la modesta calma della posa. Nondimeno, guardava sorridente Mario, con una espressione di sicuro dominio. Non dissimulava più le segrete energie della sua tempra eccezionale; anzi ne faceva un primo esperimento sull'uomo che non aveva voluto esser da lei soggiogato alla guisa degli altri. Lo frenava; se lo teneva davanti calmo e docile, col suo fascino di donna forte. E tutta la passione che aveva vibrato prima del loro accordo, sembrava morta. Si parlavano e si guardavano, come due persone serie ed avvedute, che trattano insieme un interesse materiale comune. Le loro mani non si toccavano più e non si cercavano neppure. Ma quando parve che non avessero altro da dirsi, nel breve silenzio che precede i saluti, una fiamma di desiderio riapparve negli occhi di Mario. — Te ne vai? — chiese la giovine donna porgendogli la mano, mentre si alzavano ambedue nello stesso tempo; — quando ritorni? — Mi assegni dei limiti per vederti? — Al contrario! Non sei della famiglia? E d'altra parte, non ci pensi già più ai nostri comuni interessi?... S'interruppe; gli lasciò la mano. La voce e i modi di lei erano tutta una strana provocazione. Peraltro Mario, diffidando forse di lei e di se stesso, si vinse. — A rivederci, dunque — disse, allontanandosi. Ma, attraversate due stanze, udì la giovine donna richiamarlo ripetutamente; la vide, volgendosi, corrergli appresso, invitarlo a tornare di là. Ah, egli cominciava col dare un saggio famoso di smemorataggine! ... — Che cosa è successo? — interrogò lui, non comprendendo ancora. — E il capitale che volevi farmi crescere indefinitamente? Oh, la testa sventata!... Ella rideva; lo burlava, con un riso provocatore, godendosi la sua confusione. Poi, quando vide ch'egli a sua volta abbracciava il partito di riderne, gli lanciò un'ultima frecciata: — Hai fatto dunque da burla? — No, tu mi fai perdere il cervello, solamente. Allora, mi nomini tuo agente di affari? — Necessariamente. Mi renderai conto mese per mese. Se le operazioni andranno a male... — Non è possibile. — Tutto è possibile, caro mio. Se andranno a male, ti permetto fin d'ora di perderci fino a mille lire. Eccole. Le tolse dalla busta lasciata sul tavolinetto da lavoro, e le porse al cognato. — Vuoi un'obbligazione? — diss'egli, riponendo i biglietti nel portafogli. Lei non gli rispose. Lo guardò sbalordita ed offesa. — Non t'impermalire — raccomandò Mario, indovinandola; — basta così. La mia sventataggine di un momento non t'impedirà d'esser contenta di me. Del resto, ti ringrazio; mi fai andar via quasi felice. — Quasi? Come sarebbe a dire? — Lascia andare. Non ho fretta. Bisognerà pure arrivarci... — Mi fai grazia di spiegarti? Non capisco proprio una parola. Però ella aveva negli occhi e nel viso il desiderio dell'uomo votatosi a lei. Mario le si avvicinò tanto, che parve volesse riscaldarla col suo alito ardente. — Tu invece hai pure capito, che, un momento fa, scappavo come un vigliacco — le disse a bassa voce; poi correggendosi subito: — Cioè, no! È invece che tu mi mettevi la febbre nel sangue, e che, per oggi, non mi avresti concesso nulla, neppure un bacio... — Sta zitto! — esclamò vivamente, trasalendo, la giovine donna: — questo mai, mai! Rammentati che sono tua cognata... — Oh, il grande ostacolo! Mai? Ma s'è il nostro destino. E allora, perchè non subito? Credi forse che io potrò frenarmi sempre? Cercò di avvincerla. Ella si svincolò selvaggiamente, si allontanò con un balzo agile; gli si volse da lontano spaventata: — Per carità, Mario, lasciami in pace. È una infamia, un sacrilegio; ho orrore di te. Griderò se non te ne vai... Ma la tentazione ond'era presa da dieci minuti, le lampeggiava negli occhi, le ardeva sul viso. Non seppe fuggire ancora nel vedere il cognato riaccostarsele. Ed egli pure era tremante come lei. Non imponeva: supplicava colle mani giunte. Ma perchè voleva esser così crudele? Chi lo avrebbe saputo?... Credeva davvero possibile vivere insieme tutti i giorni, come due pezzi di ghiaccio? Poi egli scese a delle concessioni: non le domandava nulla di colpevole, nulla che una sorella non possa concedere al fratello: un bacio soltanto. — E poi te ne andrai? — diss'ella ad un tratto, pazza. — Me ne andrò. — Lo giuri? Giuralo! — Te lo giuro. Ti basta? Lei stessa gli porse le labbra frementi. Sospirarono ambedue forte nel bacio, e si lasciarono così, allontanandosi l'uno dall'altro come se si fuggissero, senza più guardarsi. VII. Lo sbandamento estivo rese più frequenti e più intimi i ritrovi nel salotto in casa d'Irene. Divenne un'abitudine di tre sere per settimana almeno: un piacere pel quale si rinunziava molto volentieri alle passeggiate del Corso, ai concerti di Piazza Colonna, ed agli spettacoli del Politeama e del Corea. I Furlin dimenticarono un progetto di gita nel Veneto; Mario antepose quella specie di conversazione borghese ai suoi passatempi di scapolo. Si raccoglievano intorno ad Irene come parenti che si vogliono reciprocamente il maggior bene, senza cercare e senza desiderare l'intervento di estranei. Avevano fatto soltanto un'eccezione pei Barbati, che trattavano come di casa e che si erano avvezzati a vedere immancabili. Del resto, non poteva essere diversamente: Irene e Flaviana erano diventate due amiche del cuore, tenerissime l'una per l'altra. E si cullavano nel diletto dei trattenimenti innocui, coi quali una brigata di gente per bene ammazza il tempo, cercando di dimenticare le cure gravose e le noie della vita. La stagione perduta per gli affari pareva cullare quel pugno di attività in una molle noncuranza di oziosi. Le preoccupazioni degl'interessi materiali morivano sull'uscio del salotto, dove i sospiri e gli strepiti della città impigrita nella caldura penetravano cogli aliti snervanti di un venticello notturno. Solo fra tutti Paolo Furlin, condannato alla eterna galera del suo ufficio, poteva permettersi la libertà di sfogare i suoi dispiaceri in quel fidato rifugio dov'era compreso e consolato. — Voialtri siete felici! — esclamava, guardando Pippo, Mario e Rinaldo Barbati, con un'invidia senza fiele: — avete i vostri affari; li curate come meglio vi piace; siete uomini liberi. Io no. Sento tutto il peso della mia schiavitù, io. Sfido! sono impiegato contro voglia, per combinazione... Era il suo ritornello obbligato. Nondimeno si lasciò facilmente consolare fino alla pubblicazione dell'elenco ufficiale delle ricompense equestri largite per lo Statuto. Aspettava la croce con tanta sicurezza che la sua vanagloria di funzionario lusingato gli rimproverava spesso le sue escandescenze di ribelle. Disgraziatamente, l'elenco non portò il suo nome. Non volle creder subito alla realtà. Sperò in una omissione, che la partecipazione del decreto avrebbe riparato. E frugò nei più segreti meandri del labirinto burocratico per appurare meglio le cose. Poi, quando non potè più illudersi, ebbe vergogna di confessare il proprio insuccesso. Assistè un lungo mese in disparte alle conversazioni della famiglia, non domandando, anzi respingendo conforti; chiudendosi in fondo al cuore il suo livido affanno. Più tardi rivelò il segreto a forza di mezze parole sfuggitegli dalle labbra nei momenti di abbandono e di oblio. Allora, trovata una via di uscita, il suo veleno schizzò fuori tutto. La sua indole maldicente si sfrenava in una rabbiosa protesta d'uomo deluso, in una intemperanza di linguaggio da fargli meritare la destituzione. Pretendeva di non parlare per sè. Posava da filantropo, e da uomo disinteressato, superiore a certe miserie. Ridevasi di uno straccio di croce, che non si era mai dato il pensiero di sollecitare. Ma costretto a controgenio di vivere nella baraonda burocratica, non ne poteva più. Gli saltava troppo agli occhi il marcio che v'era dentro; lo indignavano troppo le prepotenze, le ingiustizie e le miserie che si succedevano intorno a lui. Perorava la causa della moltitudine affamata: gli straordinari a settantacinque ed a novanta lire al mese; gli ufficiali d'ordine saliti a millequattrocento lire dopo vent'anni di carriera. Li dipingeva come i soli stromenti utili ed attivi del macchinismo amministrativo, curvi nel loro lavoro da forzati sette, otto, dieci ore del giorno, intisichiti dalla fatica e dalla povertà, dinnanzi agli ozî grassi ed insultanti delle classi superiori. Ripeteva i cancans di cui erano piene le pensioni a sessanta lire al mese e le trattoriacce che dànno la zuppa a tre soldi ed il lesso guarnito a sei. I suoi pudori e le sue intolleranze d'uomo morale n'erano urtati fino all'esagerazione. Perdio! se ne vedevano proprio d'ogni colore: avevano messo in pianta Stefano Vaghi, uno scavezzacollo rovinato, senza la più derisoria formalità d'esami, nominandolo di primo acchito vice segretario. Questo sfregio scandaloso ai regolamenti in vigore, era stato possibile, perchè Vaghi aveva spartito i favori di un'attrice del Quirino col commendatore Aglianè, un alto funzionario provvisto di numerosa famiglia. Qualche volta gli ascoltatori di Furlin si guardavano fra loro. Indovinavano ch'egli aggiungeva frange ai suoi racconti e lavorava di fantasia più del dovere. Ma non glie ne facevano carico, attribuendo le esagerazioni e le invenzioni ad un effetto dei suoi affanni e dei suoi rancori giustissimi. Del resto, tali spassionature restavano una parentesi negli argomenti di cui la parte maschile si occupava a preferenza. Non passava una serata senza che scoppiassero interminabili discussioni politiche, nelle quali Furlin, Barbati e Pippo si accapigliavano da buoni amici rissosi. Quando il funzionario aveva svelato una nuova magagna dell'amministrazione, anche le sue parole davano un pretesto per tuffarsi tutt'insieme nella corrente procellosa delle loro lotte di principio. Allora Furlin cessava d'esser compatito: diventava un gladiatore contro due opposizioni che si alleavano per combatterlo, lui, l'uomo d'ordine, il difensore convinto del potere costituito. Rinaldo Barbati gli serbava i suoi più neri sarcasmi di tribuno; un'ironia olimpica di tutto il viso, le cui grandi masse, le sopracciglia folte, e la gran barba fluente, facevano pensare ad una imagine di Padre Eterno. Ebbene? E poi? Pensava per caso Furlin di aver narrato qualche novità? Aveva forse l'ingenuità di credere che qualcuno s'illudesse che le cose potessero andare diversamente? Evvia! era la conseguenza del sistema, e la piaga non poteva sanarla, perdio! che il popolo stanco di pagar lui per tutti. Ma l'ora del rendimento dei conti doveva suonare presto o tardi, inevitabilmente. Oh, se ne sarebbero viste delle belle! Pippo ammiccava a sua volta. Chi poteva dubitarne? Che cosa c'era dunque di stabile nella baracca? Quand'anche nessuno avesse voluto prendersi l'incomodo di buttarla giù, ci pensavano da sè i mangioni del Parlamento, rovinando tutti gli interessi, facendo a chi le commette più marchiane. Ma l'accordo fra Pippo e Barbati non andava oltre il presentimento e l'augurio comune di una catastrofe. Il trafficante di ferrarecce era clericale; clericale accanito, colle intransigenze del piccolo bottegaio e del romano attaccato alle vecchie tradizioni di pompe e di spettacoli religiosi e di vita parassitaria della Roma cattolica. Per lui l'entrata degl'Italiani era stata la rovina della città, lo sbandamento dei forestieri che la empivano di quattrini, il colpo mortale agli ozi del popolino ed ai guadagni facili della borghesia. Ne avevano voglia gli altri due, di perdersi nelle loro chiacchiere senza sugo, di nazionalità, di dignità, di libertà: lui andava al sodo: per lui l'importante era aver la pancia piena, e l'animo tranquillo. Considerava il resto, miserabili sciocchezze indegne di un uomo che pensa all'utile proprio, e vuol tenere il capo a partito. Del resto, alle sfuriate dei due amici, egli opponeva la calma mordace e cocciuta dell'uomo sicuro del fatto suo. Il prossimo ristabilimento del potere temporale era per lui un articolo di fede inconcusso. Ascoltava con una suprema compassione ironica gl'interminabili litigi fra Paolo, difensore della monarchia liberale, e Rinaldo patrocinatore ardente del principio repubblicano. Se ne sarebbero accorti allo stringer dei conti. L'Europa, che aveva difeso sempre il Papa, perchè ne aveva bisogno, stava adesso colle mani in tasca, unicamente per vedere di che cosa eran capaci i piemontesi. Ma i Governi esteri ci si erano già seccati, e, sottovoce, si mettevano già d'accordo. La bomba sarebbe scoppiata molto prima di quello che non si prevedesse. Sullo scorcio di agosto, una sera, la battaglia si prolungò oltre l'ordinario. I tre politicanti, intorno al tavolo di mezzo, avevano totalmente dimenticato il gruppo, raccolto più vicino ad una finestra aperta, dove Mario ciaramellava con Flaviana, con Irene e con Teta. Laggiù non pensavano affatto a vuotarsi la testa colla politica. Scherzavano, mettendo la nota allegra di una conversazione leggera e lo schioppettìo vivace di una risata nelle lacune della discussione strepitante. Furlin, fuori dei gangheri, catechizzava i suoi interlocutori. Gliene avevano dette!... Gli avevano fatto perdere il lume degli occhi per certe notizie di malumori in Francia contro il Ministero De Broglie, che ravvivavano disparate speranze nel cuore dell'agente d'affari radicale e del trafficante retrogrado. Il primo intravvedeva la prossima caduta dei traditori della Repubblica francese; l'avvenimento al potere dei partiti avanzati; la loro alleanza coi fratelli d'Italia, ed il patatrac. L'altro aveva appurato da fonte certa che le agitazioni rosse in Francia decidevano i Governi a farla finita coi frammassoni ed i rivoluzionari d'ogni gradazione e d'ogni paese. Anzi, per un momento, il successo della serata s'era dichiarato per lui, di fronte alle notizie particolareggiate ch'egli lasciò cadere colla sicurezza della sua convinzione profonda. Nonostante i loro sorrisi ironici, Barbati e Furlin restavano colpiti da quelle rivelazioni, in uno sgomento sordo di persone che si sentono minacciate nei propri interessi. Ma Barbati, alla fine, rassicurò anche Furlin. Proruppe in una violenta apostrofe: Che! tutte stupidaggini! La reazione era morta per sempre, e la libertà aveva per sè l'avvenire. La libertà vera, quella del popolo emancipato da tutte le camorre e da tutti i pregiudizi che si alimentano all'ombra dell'altare e del trono. Forse, dopo l'89, dopo i trionfi della scienza e del pensiero moderno, dopo la propaganda civile che risveglia il popolo al sentimento della propria dignità e della propria forza, erano ancora possibili le istituzioni medievali? Erano possibili i privilegi che rappresentano storie secolari di delitti, di sangue e di lagrime? Chi lo credeva era un imbecille ed un cieco. Al doppio fuoco degli avversari, Furlin infuriò. Dimenticava ad un tratto le perifrasi parlamentari, colle quali temperava abitualmente le asprezze dei suoi discorsi politici: — Non siete onesti! No, nel campo dei principi, non sapete essere onesti, perchè ascoltate soltanto i suggerimenti della passione e dell'odio. Io rispetto le vostre opinioni, non è vero, Barbati? Ebbene, non riesco a capire neppure che cosa vogliano i vostri amici. Siete un mucchio di esaltati, e non ce n'è uno in buona fede. Non avete tutte le libertà? Nella stampa, nei comizi, dovunque, sorvegliate il Governo, godete l'esercizio di ogni diritto fino alla licenza. Se comandaste voi altri, non ci permettereste una decima parte di quello che noi vi permettiamo. Sentite: la monarchia costituzionale è la repubblica di fatto, senza averne i difetti. Quando non presentasse altri vantaggi, evita la sollevazione degli elementi torbidi nella successione dell'autorità suprema. Vi sembra poco? D'altra parte, siete persuaso meglio di me, che la vostra repubblica non avrebbe fatto l'Italia. Per ciò appunto i vostri versarono il sangue sui campi di battaglia, sotto la bandiera monarchica. E noi, quando ci avete offerto le vostre braccia e le vostre intelligenze, non vi abbiamo nè respinti, nè disprezzati: vi abbiamo accolti come fratelli, che potevano dissentire con noi negli ideali lontani; ma che avevano in cuore la stessa nostra fiamma di patriottismo. Suvvia dunque: lasciate i luoghi comuni! state alla quistione! che cosa potete rispondere? Aspettò. Barbati, un po' sconcertato, cercava le parole. Un gran ridere a due, i timbri di voce incrociati di Flaviana e di Mario, riempì il salotto. Teta, un po' scandalizzata, rimproverò il fratello: — Via, Mario: basta! ti spingi troppo. Mario narrava un'avventura scabrosa. Lo aveva istigato Flaviana, coll'istinto sensuale della borghese allegra, che cerca di parlar grasso e si eccita nei racconti pepati. Non ne poteva più. Si abbandonava disarmata all'ilarità, cogli occhi sfavillanti e colle gote in fuoco. Ma proibiva a Mario di continuare, dandogli del birbante e del bugiardo. Che orrore! come si cucina una povera donna, e come si esagerano le sue debolezze! — Ma non capisci ch'è stato per forza delle cose e dei tempi; perchè doveva esser necessariamente così? — tonò Furlin. Adesso indirizzavasi a Pippo. Affannavasi a dimostrargli, che il peggior nemico del Papato era il Papato stesso. La breccia di Porta Pia avrebbe riportato la religione alla semplicità delle sue origini, e ne avrebbe quindi iniziato un nuovo splendore. Tutto garantiva un simile risultato: nessuno aveva mai rivolto le armi contro la fede dei propri padri. E Furlin affermava solennemente, che l'Italia liberale è anche profondamente cattolica. Quale spettacolo augusto e quale insegnamento, vedere il popolo affollarsi nelle chiese e ricorrere a Dio coll'osservanza sincera del culto, dopo avere voluta e conquistata la sua libertà! Di chi la colpa, se il Papa voleva rimaner prigioniero? Gli intransigenti che consigliavano un tale atteggiamento al vecchio augusto, assumevano una responsabilità tremenda in faccia alla storia! Tacque, trionfò dinnanzi al silenzio degli altri due. Nella penombra dell'angolo vicino alla finestra, la voce di Flaviana aveva un tono di scongiuro affettuoso. — Pròvati ancora a negarlo! T'assicuro: stasera hai qualche cosa pel capo! Perchè non ti scuoti e non ti confidi con noi? Parlava ad Irene. Questa restava un po' smemorata; non aveva, testè, risposto ad una domanda di Teta. — Davvero, t'inganni, — sorrise: — sono quelli là, che mi stordiscono. — Vuoi sostenerlo a me? — fece l'altra. — Ci credi, Teta? ci credi, Mario? — Ma sì, cognatina — disse Mario: — hai proprio i nervi. Ti fa male il caldo? Bisogna che tu ti scuota. Vogliamo andate a prendere il gelato? Flaviana accettò la proposta con un grido di gioia. Che idea felice! si sarebbero lasciati i tre chiacchieroni alla loro politica! si sarebbe andati a fare un giro pel Corso! Era stabilito. — Che serve? — obbiettò Irene. — Se fossi di cattivo umore, il gelato non mi guarirebbe, m'imagino. Non mi sento proprio di muovermi. — Allora confessi di non star bene? — domandò Teta, con un lungo sguardo scrutatore. Irene parve risolversi a non resister più. — Dio mio! è per tuo padre. Ho avuto notizie spiacevolissime. Mario e Teta trasalirono, avvicinandosi vivamente. Aspettarono una più ampia spiegazione, senza domandarla. — Non ho voluto crederci per un mese. Adesso non posso più dubitarne: papà vuol riprender moglie. Teta soffocò un grido. Ebbe una contrazione dura, feroce, del viso fattosi pallido. Mario invece si limitò ad aggrottare le sopracciglia, mettendosi in guardia. Fratello e sorella comprendevano il pericolo che la cognata loro accennava. Ma, come s'ella stimasse inutile discendere a' particolari del fatto, li abbandonò. Un antico rammarico rivelavasi nelle sue parole. Bisognava bene aspettarsi qualche cosa di simile. Era il castigo che la famiglia si meritava per l'abbandono in cui aveva lasciato il suo capo. Ed ora il male non aveva forse più rimedio possibile. Padron Gregorio aveva troppo lungamente covato i suoi giusti rancori, ed era in grado di vendicarsi fieramente. Non gli sarebbe mancata la donna che cercava, per aiutarlo a spogliare i propri figli, per impadronirsi di una fortuna ch'egli liquidava grado a grado, sottraendola agli attacchi possibili di successioni naturali e legittime. — Il vecchio infame! — ghignò Teta furibonda e sgomenta — lui vuole esser lo stesso, sempre!... — Per carità, — supplicò Irene; — ti dico che il torto è nostro. Vuoi dare anche lo spettacolo di una cieca collera, perchè il mondo ci disprezzi? Fissò la cognata con occhi freddi e dominatori; poi li volse in giro indolente, con una espressione di disinteresse. Per conto suo, non dava un pensiero alla fortuna del suocero. Ciò che le stringeva il cuore era l'odio del padre di suo marito, i pericoli ai quali il povero vecchio esponevasi, provocando le avidità d'una estranea per diseredare i figli. La sua dolce voce passava con una cantilena pigra e fievole, calmando i fremiti coi quali il cognato e la sorella si ribellavano all'idea della spogliazione. Il suo disinteresse sorrideva trionfante, riconducendo l'idillio di sentimenti generosi e miti in quell'angolo di salotto dove le passioni del danaro vibravano coi loro stridori d'odio. Teta e Mario non sapevano risponderle, dominati da lei. L'ascoltavano colle labbra frementi e scolorite, coi visi pallidi, cogli sguardi scuri ed incerti. Frattanto, Rinaldo Barbati tempestava col fiotto potente della sua voce, agitando animatissima la sua gran testa di Padre Eterno. Attaccava direttamente la monarchia non accorgendosi di mescolare alla sua catilinaria tribunizia un rancore di borghese deluso. No! il partito radicale non poteva più e non doveva più aspettare. Era colpa di un Governo che sconfessava le sue tradizioni. Perdio! non s'era mantenuta una sola delle promesse che avevano reso possibile l'epopea italiana. Gl'illusi che vi avevano portato la maggior somma di forze e di sangue, erano dimenticati, respinti, perseguitati, resi impotenti a raccogliere il più lieve vantaggio, mentre i beniamini gavazzavano pasciuti, insultando alla miseria del popolo... — Lasciate un po' queste sciocchezze — interruppe Mario, comparendo nell'orbita luminosa della lampada sospesa sopra al tavolo. Barbati, avvezzo a simili interruzioni, crollò le spalle, volse un'occhiata al giovanotto, e tentò di proseguire. — Ti ripeto di smetterla! — insistette Mario. — Tanto è lo stesso: sappiamo a memoria quel che vuoi dire. C'è da occuparci di cose più serie. S'era rivolto a Pippo ed a Furlin. Teta sopraggiunse, mettendosegli accanto. — Che significa? — domandò Pippo. Mario andò per le lunghe: s'erano riscaldati tanto, nei loro discorsi oziosi, che non avevano sentito neppure una parola di quello che si diceva da mezz'ora, accanto alla finestra. Ebbene, se desideravano delle notizie interessanti, Irene poteva servirli. — Ma, insomma? — fece Furlin. — Una cosa semplicissima: papà si riammoglia. Chi? Come? Perchè? Il salotto andò sossopra. Si rivolsero tutti ad Irene; la trassero dall'ombra, dov'era rimasta. Chi le aveva detto che padron Gregorio voleva riammogliarsi? Dove lo aveva saputo? quando? — Ne sono afflittissima, — bisbigliò lei, confermando le parole di Mario in genere; — non vedo un riparo. — Ma, tu lo troverai! — esclamò Flaviana Barbati, convinta. E quella frase squillante nel muto sgomento della brigata, li scosse tutti. Intravvedevano ad un tratto uno spiraglio di luce nelle tenebre. — M'occupo dei vostri affari. Scusatemi! — soggiunse Flaviana sorridendo. — Ma è che ne sono persuasa davvero: Irene potrà impedire al signor Gregorio un passo così arrischiato. Irene protestò. Che cosa si metteva in testa Flaviana? Com'era possibile... — Tira via! — ribattè la Barbati. — Bisogna che tu ti decida a far quello che avresti desiderato da tanto tempo, e che non hai avuto mai il coraggio di proporre alla tua famiglia... Ma mi dimentico che non se ne deve parlare... me lo hai proibito ripetutamente... No, no! Non l'intendevano in tal modo. Volevano assolutamente conoscere i segreti desideri d'Irene; i progetti ch'ella non aveva avuto il coraggio di manifestare. Nel salotto le curiosità si esasperavano in un'ansia di naufraghi che cercano intorno un mezzo di salvezza. Alla fine, Irene svelò un suo caro ed antico disegno di riconciliazione col vecchio Ferramonti. Essi l'ascoltavano con un palpito di speranza, senza una obbiezione, dimenticando che pochi minuti prima si sarebbero violentemente ribellati ad un'idea simile. Raccapricciavano al pensiero che fosse ormai troppo tardi. Certo nessuno tra i figli di padron Gregorio poteva pensare a tentar l'impresa; non si facevano illusioni. Ma in quel preciso concetto della loro posizione rispetto al padre, le parole di Flaviana acquistavano un'importanza eccezionale: Irene era realmente la loro sola speranza. Pippo ed i Furlin non comprendevano perchè Mario, ad un tratto, si fosse chiuso in un riserbo d'uomo quasi indifferente. Non era però il momento di cercarne le cause. Tutti gli sforzi della loro attenzione e della loro eloquenza convergevano sopra Irene. Insistevano a deciderla: lei sola poteva ripromettersi di strappare il loro padre dalla dissennata risoluzione; lei, che non aveva pronunciato contro il vecchio una sola parola cattiva. Non ammettevano che si lasciasse arrestare dallo scoraggiamento, lei! Del resto, non erano tutti pronti ad aiutarla? Parve deciderla l'intervento di Rinaldo Barbati con una oratoria perorazione. Non aveva speranze; ma non voleva neppure resistere al desiderio dei suoi. E si rimaneva intesi: trattavasi di persuadere il signor Gregorio che i suoi figli volevano riconquistarne l'affetto, puramente e semplicemente. Eh?!... Pippo, i Furlin, gli stessi Barbati, guardarono Irene senza comprenderla. Ma lei non li lasciò gran fatto in dubbio. Spiegava che il suo sogno, in primo luogo, era appunto di riconciliare il padre coi figli, e poi salvare padron Gregorio dai pericoli di un passo falso, indipendentemente da qualunque altra considerazione. Dovevasi dargli una prova di sincerità e di disinteresse. Si voleva evitare ch'egli abbandonasse la propria sostanza a gente indegna e cupida, che, per arrivarci più presto, avrebbe fors'anche potuto attentare alla sicurezza di lui. Ma sarebbe stato odioso mirare a questa sostanza per conto proprio. Irene dichiarò che se il suocero le avesse per esempio manifestato l'intenzione di consacrare una parte cospicua dei propri capitali in beneficenze pubbliche, ella lo avrebbe incoraggiato ad allargare la mano. Ebbene, tali enormità non furono riprovate. Le cupidigie urtate ripiegavano sotto lo sguardo angelico d'Irene. D'altra parte si rifletteva che era assurdo e grottesco attribuire al vecchio Ferramonti idee da filantropo. E rimase soltanto la fiducia nell'abilità della giovine donna. La famiglia si traeva da parte. Avrebbero aspettato quanto occorreva; fatto, ciascuno, quello che Irene avrebbe consigliato di fare. Parevano guadagnati dal suo stesso disinteresse. VIII. Il dì appresso, Mario chiese alla cognata delle spiegazioni. Non era contento di lei. Da parte sua, egli aveva agito lealmente, mantenendo fino allo scrupolo gl'impegni presi. Perchè dunque ella gli aveva taciuto che da qualche tempo mirava a papà? Voleva, per caso, agir sola? — Sei tanto ingrato, che perdi assolutamente la testa! — rispose lei con un accento intraducibile. Ormai, fra loro, non fingevano più. S'erano confidati reciprocamente i loro disegni; i bisogni implacabili delle loro ambizioni e delle loro cupidigie. Irene aveva passato con Mario ore lunghe di abbandoni e di confessioni, cedendo all'ebbrezza di sognare ad occhi aperti, e di tradurre il sogno in un linguaggio ardente. Ella era infelice. Non rammentava un giorno della propria esistenza, che segnasse una tregua alla rivolta segreta contro il proprio destino, onde aveva il cuore avvelenato. Sentiva nei suoi nervi, nel suo sangue e nel suo cervello qualche cosa, che non sapeva definire: una febbre di tutta se stessa che l'avvertiva d'esser nata per la ricchezza e pel dominio. Invece era nata povera, tra bottegai, fra gente che l'avrebbe creduta pazza da legare se avesse potuto conoscerla per quello che era realmente. Forse ciò appunto la irritava e la incitava di più. Voleva lottare e vincere contro le derisioni della propria sorte. Lottare abilmente e cautamente, senza mostrare all'esterno di perdere il suo sangue freddo; senza farsi conoscere; valendosi delle armi che avrebbe avuto a portata di mano. Non aveva disegni prestabiliti. Stava in agguato delle occasioni, pronta ad acciuffarle, ed a condursi a seconda di esse. Escludeva un mezzo soltanto: il mercimonio della propria bellezza, e la compromissione della propria onestà. Forse non comprendeva le logiche onnipotenti della passione. Disprezzava in ogni modo le debolezze della carne, con certi orrori di borghese intollerante, che restringe a questa sola forma di corruttela l'idea della colpa. E quando osava esprimere ancora tali massime, associandovi il pensiero delle proprie condizioni, sentivasi anche da questa parte ben disgraziata! Avrebbe voluto morire, tanto la vergogna schiacciava il suo orgoglio, per non aver saputo in realtà sottrarsi alle viltà del suo sesso, e per esser caduta, lei pure. Insomma, non sapea darsi pace di aver ceduto al cognato, come una creatura senza fierezza, senza sentimento di dovere, ubbriaca di vizio. Era scesa con lui nella colpa, con acredini di voluttà che la facevano impazzire, crescendo in proporzione ai rimorsi che le straziavano il cuore. Mario poteva ben ridere quando gli spiegava queste cose: non cessavano, per ciò, dall'esser tali. Egli avrebbe veduto: il lor peccato sarebbe stato la causa della loro perdita. Ma facevano di tutto, perchè la disgrazia avvenisse il più tardi possibile. La loro dissimulazione e le loro precauzioni erano un miracolo inaudito di abilità. Del resto, i loro nervi, eccitati nel pensiero costante di altri interessi materiali, e nel vagheggiamento di lontani orizzonti, parevano talvolta logori alle energie dell'amore. Mario voleva trovar comiche le esaltazioni della cognata, i suoi rimorsi, le sue sortite romantiche. La verità era che, in cinque mesi, il loro amore era andato appena sei o sette volte più in là dei trastulli innocui e delle chiacchiere senza sugo. Sarebbe stato fresco, Mario, se Irene avesse dovuto bastargli! Con tutto ciò, quella donna lo possedeva, destandogli sensazioni mai provate presso nessun'altra. Era specialmente la coscienza netta di un giogo diventato infrangibile. In effetti, Mario non sapea figurarsi nell'avvenire un giorno in cui la loro relazione sarebbe cessata. Irene gli empiva la testa di fantasie, parlandogli della vittoria a cui sarebbero giunti insieme, presto o tardi, e della gioia che ne avrebbero insieme goduto. Proprio, come se la giovine donna fosse stata sua moglie, come se avessero avuto comune il destino per legge sociale e per legge soprannaturale. Una sciocchezza enorme! Poi lo irritava il desiderio insaziato del possesso di lei; il modo incompleto ond'ella gli si era data, dopo le prime volte. Pareva che tutto quel fuoco si fosse spento ad un tratto, ed era una cosa da perderci la ragione com'ella continuava a condursi. Cadeva nelle braccia come un uccelletto cadrebbe nella bocca del serpente che lo ha affascinato, pallida, insensibile alla calda sensualità degli amplessi dell'amante. Egli vedeva sulle sue labbra il sorriso triste della vittima, ne' suoi occhi smorti l'angoscia che secca le lagrime. Perdio! alla fine, lui, non aveva voluto niente per forza, e non c'era da mettere in dubbio che Irene non stimasse quelle cose come una conseguenza necessaria delle loro relazioni. Lo diceva lei stessa; anzi, andava più in là: aspettava con fremiti di donna bramosa il giorno in cui avrebbero potuto, essa e lui, amarsi liberamente, imponendo al mondo lo spettacolo del loro amore. Ma aveva fisso il chiodo d'essere una donna onesta, e di non saper mancare senza raccapriccio ai doveri inerenti a tale mestiere! Così Mario, a poco a poco, per un sordo ribrezzo di quelle scene impossibili, aveva cessato dal provocarne la ripetizione. I due cognati si acconciavano ad una esistenza di compari che lavorano insieme per un comune interesse. Mario faceva fruttar bene le mille lire affidategli da Irene, attendendo ch'ella pure entrasse in azione. Continuava ad ignorare completamente la strada ch'ella avrebbe battuto; ma non se ne preoccupava, e non lo chiedeva neppure, pago, in fondo, ch'ella non avesse ancora fatto una scelta. Nondimeno, negli ultimi tempi, aveva presentito vagamente ch'ella si sarebbe rivolta dalla parte del suocero. Quindi la scena da lei provocata per ottenere dalla famiglia l'incarico di agire, non lo aveva totalmente sorpreso. Egli era disposto a vedervi anche un lampo di genio femminile. Ma non gli conveniva affatto l'aver scoperto dal contegno d'Irene ch'ella doveva aver preparato di lunga mano il terreno a totale insaputa sua. Gli piacque anche meno la risposta pronta ed evasiva della giovine donna. — Ti prego — diss'egli sardonicamente, — lasciamo le frasi inutili. Rispondi attentamente alle mie domande. — Persisti! — esclamò Irene, schermendosi. — Vuoi farmi dunque pentire di avere avuto fiducia in te? — Sii buonina. Parliamo d'affari, non è vero? Ebbene, sai che gli affari esigono chiarezza. Perchè mi hai taciuto, per lo meno, che spiavi papà? Perchè mi hai nascosto i tuoi preparativi? — Sogni. Non ho preparato nulla. — Bada, ti metti sopra una strada falsissima. Le piantò addosso uno di quegli sguardi terribili, la cui eloquenza supplisce ogni frase. Ella impallidì; ma parve dichiararsi vinta ad un tratto. Ebbene, sia pure: ella aveva fatto sorvegliare il suocero, senza avvertirne Mario. Ma, e per questo? Meritava forse di esserne rimproverata? Aveva forse alzato un dito prima di mettere a parte della cosa il cognato? Ella aveva voluto risparmiargli le noie e le imprudenze appunto della preparazione. Diffidava qualche volta delle sue impazienze d'uomo audace. Col suo sistema, ella aveva già ottenuta la certezza di abbordare il suocero. Così, mentre Mario la rimproverava, ella si vendicava coll'annunciargli di aver predisposto mezzi eccellenti anche pel successo finale. Del resto, aveva presentito i sospetti suoi: per ciò solo, la sera antecedente, aveva fatto succedere quello ch'era successo. In caso diverso avrebbe taciuto, avrebbe cercato un mezzo qualunque per agire nel mistero. Mario non poteva comprendere quanto le costasse rinunciare ad un suo disegno. Dirgli: sai, ho vinto e la vittoria è tua. Dimmi come dobbiamo goderne insieme. — Ahimè! Bisogna rinunciare appunto a quello che si desidera più vivamente! — lamentò la giovine donna, in un abbandono di malinconia. — È il nostro destino, non è vero? Non ne parliamo più. D'ora in poi non mi accuserai di mistero, te lo assicuro. Ne vuoi una prova? Domani mattina, alle dieci, parlerò a tuo padre. — Come? — esclamò sbalordito Mario. — Non sono già molto innanzi? — fece lei, godendosi con un sorriso modesto la sorpresa del cognato. — Ma come hai fatto? — soggiunse Mario, preso da un gran rispetto per lei. — Sei davvero una donna forte. Essa gli spiegò ogni cosa. In realtà aveva saputo soltanto prevalersi delle circostanze. Si era rammentata di una mezza parente, Lalla Frati, una donna che abitava appunto al Pellegrino, e che aveva la specialità di voler rimetter pace fra le famiglie in discordia. Una specie d'intrigante con le migliori intenzioni del mondo. Era bastato parlarle una sola volta, per interessarla a procurare un incontro fra padron Gregorio ed Irene. Per maggior fortuna, il marito della signora Lalla, un curiale molto stimato dalla minuta clientela del quartiere, trovavasi in ottimi rapporti col vecchio Ferramonti. L'abboccamento doveva succedere in casa Frati. — Ritorno alla mia idea — esclamò Mario: — non c'è in Roma una donna che ti valga! Nessun malumore turbava più la loro buona armonia. Presero a dirsi delle cose graziose e tenere. La loro complicità, nel momento di farsi attiva, risparmiavasi le noie dei lunghi dibattiti sul modo come estrinsecare l'azione. Irene otteneva da Mario, come lo aveva ottenuto dagli altri, un mandato di fiducia, senza esporre neppure il suo piano. Non si comprometteva. Qualunque cosa potesse egli presentire od imaginarsi, lei si teneva in equilibrio in modo da lasciar anche ritenere che aspirasse soltanto ad un'equa distribuzione della fortuna di padron Gregorio ai suoi figli. Però le speranze e le ambizioni della giovine donna avevano delle vibrazioni potenti ch'ella non frenava. Al contrario, cogli occhi scintillanti e con un sorriso pieno di fremiti, diceva a Mario la propria esaltazione. Gli faceva delle promesse liriche. — Vedrai! Se resteremo d'accordo, si arriverà. A malgrado della tua audacia, hai delle idee ristrette, mio caro. Tu ti limiti a voler accumulare il danaro ed a goderne, per gettarlo dalla finestra. Ebbene! a me, questo non basta. Voglio per te una posizione sicura; la stima e la riverenza del mondo, e la potenza. Voglio che ti abbiano a parere nani, quelli che ti sembrano giganti. Lascia fare a me. Erano frasi da cerretana; ma bisognava udirne l'accento, vedere com'ella le sottolineava con lo sguardo, col sorriso e col gesto. Dinanzi a lei, Mario provava sensazioni di vertigine, un vago sgomento d'uomo affascinato. Se avesse potuto rendersi conto esattamente del fenomeno psicologico che aveva fatto di suo fratello lo schiavo d'Irene, non lo avrebbe trovato gran fatto dissimile a quello che si andava svolgendo in lui stesso. In ogni modo, l'amore strano che gl'ispirava sua cognata, ardevagli anche in quel momento il sangue. Lei comprese senza dubbio; volle affermare il proprio potere dinnanzi alla passione che avvampava; domarla. Sviò il discorso, sollevandolo attraverso plaghe azzurre. Essi sarebbero giunti al loro scopo per la via retta, senza dare al mondo un pretesto qualunque di accusarli. Dovevano farlo per se stessi, onde procedere più sicuri e più liberi. Dio buono! le forze raddoppiano quando la coscienza non ha nulla da rimproverarsi. Oltre a ciò, il premio che si ottiene è più completo... S'interruppe da sè, nello scorgere il livido pallore sparso sul viso di Mario. Ma non se ne spaventò. Si avvicinò al cognato con atto intraducibile di sorella affettuosa. — Sii ragionevole. Capisco quel che vorresti dirmi: sono impastata di pregiudizi, non è vero? Sia pure! Ma che colpa ne ho io, se sono fatta così? D'altra parte, non esigo da te degli eroismi, per quanto ti ami: non ti proibisco di soddisfare con altre questa laida passione, che per voi altri uomini è la donna: lo farò soltanto quando potrò essere davvero tutta per te. Ti lascio Flaviana, per esempio. Ma appunto nel nostro interesse, è necessario ch'ella rimanga tua amante e mia amica. Che cosa avverrebbe quando si sospettasse che la moglie di tuo fratello ha delle relazioni colpevoli col cognato? Aveva fatto sforzi eroici, in quella simulazione di semplicità, per non tradire l'ebbrezza del trionfo che le gonfiava il petto e metteva nelle sue carni strani fremiti. Ma, finito il colloquio, allorchè Mario partì, domato e mistificato da lei, un sorriso intraducibile increspò le sue labbra, mentre un vivo baleno passava sul suo sguardo. — Chi sa! — pensò dietro al cognato; — sarai forse tu quello che mi darà meno da fare... IX. Padron Gregorio Ferramonti, la sera, fino alle dieci, pigliava il fresco ai tavolini esterni del caffè delle Alpi in via Banco Santo Spirito. Aveva la sua piccola corte di ricco bottegaio in ritiro: tre o quattro vecchioni, che occupavano con lui le ore d'ozio a rimpiangere il passato, ed a rivedere le bucce al prossimo. Erano i padroni del tavolino scelto pei loro conciliaboli: non vi soffrivano invasioni. Certe sere, sul principio dell'estate, al trovare il posto già occupato da avventori più solleciti, avevano afflitto per ore intiere il padrone del negozio ed il tavoleggiante coi loro brontolamenti di uomini furibondi, coi loro sarcasmi feroci di clienti che ne hanno piene le tasche e che meditano una diserzione in massa. Il Caffè delle Alpi aveva finito col tener nascosto il loro tavolino, per collocarlo al posto soltanto quando il primo della brigata compariva a prenderne possesso. I quattro o cinque amici sdegnavano il resto della clientela sparsa intorno agli altri tavolini: dei gruppi allegri e chiassosi di bassi ufficiali, e poche coppie di borghesi capitate a prendere il gelato od il caffè, per caso. La vita fervida del quartiere passava senza interessarli, nei bagliori delle cento fiammelle della strada, immerse nel fumo denso e diffuso delle friggitorìe. Non la curavano, sordi allo strepito di quella promiscuità di folla plebea, alle grida, ai canti, agli scrosci di risa ed alle bestemmie; insensibili al formicolìo della corrente umana irrompente dal lato di Campo di Fiori e perdentesi nel buio della piazza di Ponte, d'onde il Tevere esalava ad intervalli un'aria umidiccia e fangosa. Succedeva appena qualche volta, che uno della brigata lasciasse cadere sul turbinìo un'occhiata inerte, o che l'apparizione di una coppia equivoca, od il passare rasente i muri di una femmina in cerca di avventure, strappasse loro un'osservazione mordace. Avvezzi allo spettacolo, non se ne scandalizzavano. Ne accettavano la continua riproduzione col loro stoicismo e colle loro facezie di filosofi pratici. Gregorio Ferramonti era il capo riconosciuto ed accettato della brigata. Godeva la superiorità che gli derivava dai suoi quattrini, la più legittima e la più incontestata fra tutte. Lo corteggiavano vigliaccamente, ed egli poteva cullarsi nell'idea lusinghiera d'esser qualche cosa di particolare, solleticato vagamente dalle adulazioni grossolane ond'era circondato. Queste erano anche sincere: un omaggio istintivo di cervelli limitati e di animi cupidi, sedotti dalle ricchezze dell'antico fornaio. Ferramonti, come tutti i miserabili arricchiti navigando in acque poco limpide, conosceva gli uomini, non li stimava, e soprattutto ne diffidava: tre motivi per indurlo a negare l'onore ed il piacere della sua relazione a chi avesse potuto valersene per dargli delle seccature. Aveva delle massime sordide di egoista. È una bricconata prevalersi della buaggine di un amico per frecciargli la borsa col domandargli dei prestiti di favore. Quando s'è al verde, si trova danaro, come si trova una libbra di pane, rivolgendosi a chi lo commercia e pagando la dovuta provvigione. Questo se si ha credito. Se non si ha credito, segno che non si vale un baiocco, ed allora il miglior consiglio è gettarsi a fiume con una pietra al collo. Per conto suo, egli non avrebbe prestato dieci lire all'amichevole ad un morente di fame. Prestava bensì ad interesse, per un istinto d'uomo sempre vissuto negli affari. Ma quelle operazioni di poche centinaia di lire, le rendeva complicatissime ed interminabili. Ne ritardava la conclusione, cercando pretesti assurdi, mentre ingolfavasi in tutte le indagini possibili sulla solvibilità e sulla puntualità del suo futuro debitore. Voleva firme di garanti superiori ad ogni eccezione; promesse solenni che non si sarebbe parlato mai, per nessun motivo, di prorogare le scadenze. Senza accorgersi di cadere in contradizione, ripeteva fino alla sazietà, che non era un usuraio, e che voleva mettersi completamente al coperto, appunto perchè acconsentiva a metter fuori il suo danaro per solo tratto di condiscendenza e di buon cuore. In realtà, esigeva l'interesse onesto e modesto del cinque per cento all'anno, libero e netto da spese: meno di quello che esigono le Banche. Ma i suoi intimi erano esclusi da tali generosità. Diceva che non ci possono essere relazioni quotidiane e cordiali fra creditore e debitore. Egli non amava le posizioni equivoche: i suoi amici dovevano essere i suoi amici, e null'altro. Insomma, egli si era formata la più tranquilla esistenza di vecchio sornione. A poco a poco, i rancori contro i figli che lo avevano abbandonato ed offeso, eransi calmati, trasformandosi in una specie di disprezzo sardonico che covava una vendetta indeterminata. Egli rideva delle arie da signori prese da Mario, da Teta ed anche da quel bestione triviale di Pippo, sfoderando una litania di epigrammi atroci. Quei bravi ragazzi! Volevano mostrare che avevano sangue nobile nelle vene; prepararsi a far saltare decorosamente i quattrini raggruzzolati da papà! Ma che burletta preparava loro, il vecchio Gregorio! Per averne un'idea, bastava riflettere ch'egli ci meditava sopra da anni, impiegandoci tutte le sue ore d'ozio. Ma non concretava realmente mai nulla. I curiosi restavano nel campo delle ipotesi campate in aria. Non si poteva assolutamente prevedere che cosa Ferramonti avrebbe fatto del danaro che continuava ad accumulare con una ingordigia di avaro. Esclusa come assurda la idea che egli potesse farne qualche donazione a privati bisognosi, a chiese, ad ospedali, o che potesse arricchirne parenti lontani, affatto sconosciuti, la più logica conclusione era che il vecchio fornaio, malgrado le sue minacce, avrebbe finito col lasciare ai figli di che rimpannucciarsi famosamente, col marsupio che gli avrebbero trovato in casa. In ogni modo, la brigata raccolta intorno al tavolino del Caffè delle Alpi sapeva di far piacere a Ferramonti, col tagliare i panni addosso alla sua discendenza. C'erano certe irruzioni di fredde malignità, nelle quali ognuno faceva a chi le dicesse più grosse. In genere, Teta e Pippo si dipingevano come due idioti, lasciatisi abbindolare da due intriganti. Furlin doveva aver meditato senza dubbio di sfamarsi e di pagare i suoi debiti colla dote della moglie. Forse non esisteva già più un centesimo dei tremila scudi strappati a padron Gregorio in un modo indegno. E Pippo, lui sì, doveva essere stato conciato per le feste, dalla moglie! Era impossibile, ch'ella non gli ricamasse la testa. I quattrini per far la principessa dovevano uscire da qualche parte, non è vero? S'aveva forse da credere che nascessero sotto i cassettini delle punte di Parigi? Davvero, dovevano succedere delle commedie graziose in via di Torre Argentina! Padron Gregorio torceva il naso tutte le volte che gli nominavano il genero e la nuora. L'idea di poterli un giorno o l'altro incontrare, lo rendeva furioso. Prima di sporcarsi a guardare soltanto quei due scalzacani birbaccioni, lui si sarebbe gettato a fiume. Ma non c'era da pensarci: lo scritturale e la ferrivecchi si badavano bene dall'arrivargli a tiro. Senza dubbio, dovevano essere stati avvertiti che una tale combinazione avrebbe fatto passar loro un quarto d'ora da ricordarsene per tutta la vita. In ogni modo, restavano al largo, e tanto meglio così! Una sera, la buona armonia della brigata si annuvolò. Ferramonti, arrivato l'ultimo, rispose con dei grugniti ai saluti degli amici. Restò in un mutismo selvatico, sorbendo il suo caffè, come se avesse ingoiato del veleno. Evidentemente, aveva ragione di dolersi con qualcuno dei suoi cortigiani. Lo lasciava capire, lanciando delle frasi misteriose e terribili sulla sorte birbona che espone un galantuomo a non esser sicuro di nessuno. Gli altri si guardavano allibiti, per scoprire chi fra loro poteva essere il colpevole, e quale colpa avesse potuto rimproverarsi. Poi, incoraggiandosi l'un l'altro, tirarono l'antico fornaio a dare delle spiegazioni. Ma perchè restava così strano? Che cosa poteva essergli accaduto? Aveva forse ricevuto qualche cattiva notizia? — Ma che notizie! — scoppiò padron Gregorio. — Io me ne infischio, io! Ma ho piene le tasche di chi s'occupa dei miei affari particolari. Potrebbe darsi che gli armeggioni se ne avessero a pentire! Non rispose direttamente. Ritornava a divagare colle frasi. Curiosa! un galantuomo non può vivere come gli pare! Ce ne sono dei cervelli balzani e dei rompiscatole, al mondo! Però, a poco a poco, attraverso un viluppo di parole oziose, il suo pensiero veniva chiarendosi. Almeno si fosse trattato di qualcuno che non lo conosceva! Ma trovare una persona amica, al corrente di ogni cosa, e matta al punto di toccare certi tasti, questo era l'incredibile. Ebbene: lui aveva una risposta sola! chi ci teneva alla sua amicizia, non doveva mai più nominargli la nuora. — Si tratta di lei? — domandò il curiale Frati, interpretando la comune curiosità. — Già! si tratta della principessa. Che bella idea, eh? volermela gettare sulle braccia! È troppo bella. Ci deve esser sotto qualche secondo fine. Ne convennero tutti, quantunque non sapessero bene di che potesse trattarsi. Il curiale Frati prese la mano sui compagni, ammonendo Ferramonti di tenersi in guardia. C'era da aspettarsi tutto dalla combriccola di Torre Argentina... — Allora dite a vostra moglie che non ci si mescoli! — esclamò padron Gregorio, interrompendo vivamente il curiale. — Capite? è lei, che vien fuori a parlarmi di mia nuora come di un angelo sceso dal cielo, nientemeno! E bastasse! pare ch'io faccia la figura dell'orco, a trattare come tratto quell'anima santa. Un monte di minchionerie! — Mia moglie mi sentirà! — mugolò Frati, schiacciato dalla rivelazione. — Ditele, del resto, che non me ne importa un accidente. Ma pretendo di non esser più seccato. Avete capito? Va bene? Mutiamo discorso. Parlarono di grani, che accennavano a sensibili ribassi sul mercato. Ma il curiale Frati non si trattenne, preso da uno zelo impaziente di andare a redarguire la moglie. Padron Gregorio poteva viver tranquillo: quella scema avrebbe messo giudizio, una volta per sempre. Il curiale era in buona fede; ma la moglie gli rise in faccia, invitandolo lui stesso ad impicciarsi nei propri affari. Ella sapeva quello che faceva, lei! Aveva spuntato il dente del giudizio, e non le servivano più le lezioni. Però, durante quasi due settimane, la signora Lalla, pure incontrando quasi ogni giorno Ferramonti, non gli parlò più della nuora. Pareva invece occupata di tutt'altro, curiosa di conoscere un segreto che gli attribuiva. E finì col mostrarsi piena d'ansietà, incapace di tener la lingua a casa. Era proprio vero? Padron Gregorio aveva risoluto sul serio un passo così grave? Chi era la donna scelta da lui? Se ne citavano almeno dieci. Insomma, spargevasi la voce che l'antico fornaio era sul punto di riammogliarsi. Un pettegolezzo infame che lo fece andar sulle furie, e che si era accreditato in un modo incredibile. Trattavasi, per Cristo, di far passare da vecchio rimbambito un uomo che aveva sempre il cervello a posto, e che soprattutto teneva a mostrare di avercelo. Ebbene, la sortita di Lalla Frati fu come la rottura di una diga. Ferramonti non era più padrone di mettere il naso fuori di casa, senza vedersi circondato da imbecilli, che si congratulavano con lui, che gli domandavano l'epoca delle nozze, e che gli tessevano le lodi delle future attribuitegli. Ce n'erano per tutti i gusti: attempate, ragazze nubili, vedove, ricche, povere, belle e brutte. E nessuno metteva in dubbio l'avvenimento in genere. Qualche infame burlone doveva essersi messo in giro apposta per ordire quella specie di commedia scandalosa. La tranquillità del vecchio Ferramonti vi annegò. Non sapeva darsi pace. Viveva meditando propositi feroci, nel sospetto che tutto il rione si divertisse alle sue spalle. Non sapeva più come regolarsi: non lo credevano, sia che negasse mandando la cosa in burletta, sia che ci si arrabbiasse fino a far delle scene. Era tentato di ridursi in casa come un orso selvaggio nella sua tana. Non si fece più vedere al caffè. Si persuase che non ne avrebbe evitata una malattia di rabbia e di bile. Ma allora trovò nella signora Lalla Frati il conforto di un'amicizia discreta e consigliatrice. Era costretto a riconoscere in quella donna delle qualità ottime. Lei trovava modo di calmargli il dispiacere; pigliava sopra di sè l'impegno di far cessare gradatamente le ciarle che avvelenavano il suo povero amico. Peraltro essa voleva farlo convenire di avercene un pochino di colpa: non s'era mai visto un uomo della sua qualità e coi suoi mezzi, viver così, solo come un cane. Si capiva: il mondo, persuaso che le cose non potevano durar sempre in tal modo, doveva credere facilmente a tutte le fole inventate per annunciare un cambiamento. A poco a poco, tali discorsi presero una piega particolare. Ferramonti riconosceva di dover mutare sistema di vita; cercava il mezzo; ci si affannava in buona fede. Talvolta trovava molto assennate certe osservazioni incidentali della signora Lalla. Sicuro, il rimedio sarebbe stato là, pronto: mostrare al mondo, che si vuol bene a qualcuno. Il vecchione non godeva più del suo isolamento; non si cullava più, soddisfatto, nei suoi odi contro la parentela. Ora invece ne subiva la necessità, sentendone il duro peso. Frattanto, i pettegolezzi della strada duravano, facendosi più incalzanti e più precisi, nonostante gli sforzi della Frati per spazzarli via. Buon Dio! ci voleva ben altro! n'era piena mezza Roma! Non si aveva più neppure la magra soddisfazione di sperare, che i nomi diversi citati a principio servissero essi stessi, colla loro molteplicità, a screditare le dicerie. N'era rimasto uno solo, quello di una ragazza venticinquenne: Mimma Scozzi. Era la figlia di un erborista a Borgo Pio. Il ridicolo cresceva. Mimma Scozzi, bellissima, non s'era maritata ancora, per certe storie compromettenti. Non aveva un soldo, e suo padre, il semplicista, era gobbo. Si diceva fissato il matrimonio a settembre, aggiungendosi che padron Gregorio faceva una dote di diecimila scudi alla propria fidanzata. Poi Ferramonti ci ebbe il colpo di grazia. Una mattina, il gobbo Scozzi semplicista gli andò in casa per invitarlo a far cessare i pettegolezzi. Dipendevano da lui. Aveva certo desiderato Mimma, ne aveva parlato e si era poi pentito. Ma per cristallina, questi capricci di vecchio caprone non sono ammissibili, quando s'ha che fare con della gente per bene. Come intendeva padron Gregorio di riparare ad una tale indegnità? Oh, il gobbo poteva raccontare di averla passata bella! Ferramonti, imbestialito, se lo era cavato d'attorno, minacciandolo di pigliarlo a pedate e di fargli fare le scale a ruzzoloni. Ma l'antico fornaio non ne poteva più: sarebbe schiattato; ci si mise a letto. Sentiva che il ricordo di quell'incidente grottesco non gli avrebbe lasciato più pace. Si rifugiò più che mai nell'amicizia della signora Lalla. Provava il bisogno che quella donna lo ascoltasse, lo consigliasse. Ma lei pure non sapeva offrirgli che parole inconcludenti; era proprio abbandonato da tutti! E lei non si difendeva. Chiusa in un riserbo misterioso, lasciava comprendere di non trovare il coraggio per una proposta. Nondimeno, egli vedeva bene che qualche cosa in corpo doveva avercela; anzi che gli faceva pure dei misteri. Un giorno ella non si fece trovare; poi un altro; poi un altro ancora. Ebbene! quelle assenze erano un pretesto; non erano vere. Una quarta volta, Ferramonti, andando a casa della Frati, raggiunse sul portone la donna di servizio, che saliva lei pure. Seppe da lei, che la signora Lalla stava su. Ma entrato, capì che senza l'incontro colla domestica lo avrebbero mandato a spasso di nuovo. Lo fecero aspettare come un salame, nello stanzino d'ingresso, quasi tre minuti. Poi, comparendo, ed introducendolo, la Frati si mostrò turbatissima. Di là, mentre egli sedeva, un rumore d'usci aperti e richiusi, di passi rapidi e leggieri e di parole concitate, femminee, percorse il quartiere. — Che c'è dunque? Ho fatto scappar qualcuno? — domandò lui, cercando di abbozzare un sorriso... — Che idea! — balbettò la Frati turbata. Infilzò un mucchio di parole incoerenti; ma dinnanzi alla collera concentrata di quell'uomo, che non voleva esser preso in giro, confessò. Che serve? Irene, la moglie di Pippo, era presente, quando padron Gregorio entrava. Era fuggita appunto per non incontrarsi con lui. E fu il principio di una confessione completa: Irene veniva quasi ogni giorno, all'unico scopo di chieder notizie del suocero, e di parlarne liberamente. Era un angelo di donna; un cuore pieno di sentimenti onesti; quello che si dice una buona creatura. Non sapeva darsi pace d'essere entrata nella famiglia Ferramonti, senza una parola amica del padre di suo marito. Diceva di non meritarlo. Aveva sperato di rimetter la pace nella casa che l'aveva accolta, aveva fatto di questa speranza lo scopo della sua vita. Era riuscita con Pippo, Teta e Mario; ma non stimava di aver raggiunto lo scopo principale e migliore dei propri desideri. Ella sarebbe stata felice il giorno soltanto che padron Gregorio, anche lui, avesse consentito a placarsi. Qualunque altra al suo posto avrebbe creduto di poter fare a meno delle delicatezze e degli scrupoli che l'arrestavano: l'idea, cioè, che si potesse trovare un secondo fine al suo sogno di presentarsi al suocero per supplicarlo a volerle un po' di bene. Ma quello che già aveva fatto, le dava il diritto di tenere alta la testa in ogni contingenza. Per esempio, non c'era lingua maledica capace di dire una sola parola che non le facesse onore nella storia del suo matrimonio con Pippo. Ella non lo aveva cercato nè procurato. Non le sarebbero mancati certamente a dozzine i partiti cento volte migliori. Aveva consentito a Pippo per condiscendenza d'animo ben fatto; soprattutto, per risparmiargli di andare a picco nel traffico delle ferrarecce, in cui quella testa quadra si era gettato ad occhi chiusi. L'aveva fatta, la bella presa! Un disgraziato senza un baiocco, scacciato dal padre! In piazza s'era creduto matto Pippo, matta lei; s'era aspettato di vederli ambedue andare colle gambe all'aria insieme alla bottega, dopo sei mesi. Non la conoscevano ancora. Invece, lei aveva preso a dirigere il negozio e ad istradare il marito, facendone a un tratto un commerciante avveduto. Padron Gregorio poteva prendere delle informazioni: adesso, per lei, la firma di Filippo Ferramonti valeva quattrini sonanti, e la bottega a Sant'Eustacchio era un capitale da levarcisi tanto di cappello. Ecco che cosa Irene era stata capace di fare! Questa volta padron Gregorio non impedì alla signora Lalla di parlargli della nuora. Ascoltò sbalordito. L'apprendere la visita clandestina d'Irene in casa Frati, lo aveva scosso, lo lasciava in un turbamento profondo. Una tenerezza di vecchione sedotto penetravagli insidiosa nel cuore, facendo svaporare i suoi antichi rancori. Egli arrischiava appena qualche obbiezione di cui sentiva la fiacchezza; qualche lieve ghigno sardonico, che gli tornava amaro, con un sapore d'ingiustizia. I pettegolezzi calunniosi della strada lo avevano colpito troppo duramente, perchè, in quella disposizione d'animo, non potesse attribuirne una parte al male che aveva sentito dire d'Irene. Del resto, ripensandoci, non vi trovava che delle stupide malignità; dei chiacchiericci da oziosi, campati in aria. Le parole della Frati diventavano verità sacrosante, appoggiate a fatti irrefragabili. Poi, era proprio un inferno, viver solo come un cane. Questa idea si figgeva ostinata nel fantasticare vagabondo del suo pensiero sulla nuora. S'aveva dunque da creder davvero, che quella donna fosse una perla? Quasi quasi, gli veniva voglia di farne la prova. Lasciò la signora Lalla col fare distratto e preoccupato di un uomo che ha piena la testa di cose confuse. Allora la Frati non se lo lasciò più scappare. Lo cercava lei stessa; spingeva innanzi il marito ad aiutarla, dandogli l'imbeccata. La seduzione incalzava. Si servirono anche della bellezza d'Irene. Un angelo, che avrebbe consolato il suocero soltanto con una delle sue occhiate soavi, con uno dei suoi sorrisi pieni d'incanto, colla sua voce che andava al cuore! Quando Ferramonti parlava della nuora, ridotto a riconoscerne i meriti, vibrava nella sua voce la tentazione di un vecchio che pensa a giovani carezze. Fino allora egli aveva trattato le donne col disprezzo di un cacciatore arrabbiato della fortuna; le voluttà molli intravvedute, erano l'ignoto, il mistero; un fascino al quale non aveva armi per resistere. — Ma insomma, questa ottava maraviglia non si fa più vedere? — disse improvvisamente, una volta. La signora Lalla lo indovinò a volo. — Sicuro, che si fa vedere! Vien qui, almeno due volte per settimana, di nascosto. — Ebbene, la prima volta che capita, fatemelo sapere. Voglio parlarle. Già! voglio parlarle. X. Poi Ferramonti parve pentito. Lasciò passare tre o quattro giorni, senza trovare il verso di concretare l'ora ed il modo dell'abboccamento. Ritornava alle sue resistenze dispettose contro la Frati, che gli parlava della nuora. Non lo vedeva, lei, che lo seccava? Ella aveva delle frette ridicole. Forse che ad aspettare, qualcuno ci perdeva qualche cosa? L'occasione, certamente, sarebbe venuta da sè, a tempo sempre. Egli però non cessava dall'andare ogni giorno in casa del curiale. Finì, che si trovò dinnanzi Irene, quando meno se lo aspettava. Quel mattino addensavasi sulla città un uragano estivo: nuvole fitte, nere, da fare accendere i lumi a mezzodì; sbavate di vento caldo, da togliere il respiro; un balenìo sinistro, un ruggire profondo di tuoni. La tempesta saliva dai punti bassi dell'orizzonte; le bufere s'indovinavano scatenate in giro, incalzanti a stringere un cerchio, attratte a confondersi, a diventare tutt'insieme un solo terribilio. Sotto le raffiche ardenti che spazzavano la strada e sbattevano porte e finestre, la gente s'affrettava a ripararsi, fiutando la pioggia in un odore di terriccio, greve e diffuso. Ferramonti entrò nel portone di casa Frati ai primi goccioloni. Era più presto del solito; ma egli non voleva arrivar fradicio. Mentre saliva le scale, un gran lampo lo abbarbagliò, e subito un tuono scrosciante come una scarica di cannoni ripercossa cento volte dall'eco scosse la casa tutta quanta. Padron Gregorio s'affrettò a salire; tirò violentemente il campanello. Aveva paura della tempesta. Ma altri lampi ed altri tuoni seguivansi; pareva che si rincorressero. La pioggia s'era sentita avvicinare con un crescente fremito; adesso veniva giù a torrenti impetuosi. All'aprirsi dell'uscio, l'antico fornaio si precipitò dentro, pallidissimo. Andò innanzi, nella confusione, fino al salotto della signora Lalla. Aveva bisogno di trovarsi con persone amiche. Nondimeno, tentava di abbozzare un sorriso: entrando volle scherzare: — Che razza di risciacquata! Roma fa il primo ba... Non finì. Nel bagliore di un altro lampo, scorse ritta dinnanzi a sè, sorridente e pallida, Irene. Una vera apparizione. La giovine donna lo guardava rispettosa ed amorevole come tentata a gettarsegli fra le braccia. Lui restò mezzo ebete. Certo, in un altro momento, avrebbe fatto sentire alla Frati ed alla nuora che non si sorprende così un pari suo. Adesso, n'era incapace; si sentiva tutto sconvolto. Ad un tratto Irene gli si avvicinò; s'impadronì delle sue mani. Lo aveva chiamato papà; si diceva felice di potergli alla fine parlare. Buon Dio, egli sarebbe stato compiacente con lei, non era forse vero? Parlava con una di quelle voci commosse di donna, che vanno dritte al cuore. Era soavemente bella; e fra lo strepito furibondo dell'uragano pareva un angelo sceso dal cielo apposta, per calmare i nervi in rivoluzione di un povero uomo. Cose dell'altro mondo: una tenerezza inesprimibile! Poi padron Gregorio si accorse, che la nuora lo aveva tratto dolcemente verso un canapè, lo aveva fatto sedere, e gli si era collocata vicino, guardandolo rapita. La tempesta avrebbe potuto portarsi via la cupola di San Pietro, senza che la giovine donna mostrasse di accorgersene. Allora Ferramonti lasciò da parte ogni selvatichezza. Parlò alla nuora, dandole del tu: — Ho piacere di vederti. So che sei una brava donnina. E sei più bella di quello che la gente non dica. No, no! non fare la modesta. È proprio così. Ho una nuoruccia numero uno, io. Diventava quasi inconsciamente galante, ricercando per istinto gli atti leziosi coi quali, nella sua gioventù, aveva allettato la clientela delle servotte. Irene ascoltava quelle volgarità, schermendosi un pochino; ma come annegata in una beatitudine muta, piena di venerazione. — Dio mio! — bisbigliò ella finalmente; — non avrei ardito sperar tanto, mai, mai... La sua gratitudine le mozzava la parola. S'impadronì ancora delle mani del suocero, e le tenne fra le sue, bianche, morbide e gentili. — Potevamo ben risolverci prima! — disse padron Gregorio. — Vedi: i miei figli m'hanno ridotto a viver solo come un lebbroso. Avevo bisogno... Scoppiò una saetta. Irene, con uno strido, si avvinghiò al collo del suocero. E per un lungo istante l'uno e l'altra rimasero così, sbalorditi e tremanti, udendo il diluviare del di fuori, i gemiti fischianti del vento furioso. La giovine donna fu la prima a riaversi. Tornò al suo posto sorridendo: — Sono una sciocca. — Eh, no! — ghignò Ferramonti, nascondendo con una smorfia la sua paura. — Sei nervosa. Del resto, queste porcherie fanno sempre un certo effetto. La miglior cosa è non pensarci. In realtà si sentiva più coraggioso del solito. La vicinanza di quella bella creatura lo rianimava e lo ringalluzziva tutto. Provava egli pure il fascino esercitato da Irene su tutti coloro ch'ella aveva voluto attrarre a sè. Forse qualche cosa di più complesso: un viluppo strano di sentimenti paterni, e di sorde sensualità di vecchio. Egli non si era trovato certamente a trattare con delle duchesse! Epperò, non rammentava di essersi trovato tuffato così, come adesso gli accadeva, in un delicato profumo di verbena esalante dalle vesti d'Irene. Nell'abbracciarlo, essa gli aveva lasciato quell'odore sugli abiti, intorno al collo, nelle carni. Egli se ne sentiva come saturare il cervello. — Avevo bisogno di voler bene a qualcuno, e che qualcuno mi volesse bene — diss'egli, ritornando sulla frase troncata dalla folgore. La pronunciò con una lentezza voluttuosa. La signora Lalla, da qualche tempo, era uscita dal salotto, senza che gli altri due avessero fatto mostra di accorgersene. Padron Gregorio parve improvvisamente affaticarsi a darsi animo. Sorrideva. — Se si potesse... Certo, allora andrebbe bene! Vuoi pigliarti tu l'incarico di consolare un vecchiaccio brontolone? — Perchè non posso mostrarvi a nudo il mio cuore? — diss'ella ineffabilmente commossa. Ma, con uno di quei cambiamenti subitanei che la rendevano anche più irresistibile, aggiunse subito, scherzando: — Mi ci proverò... accetto! E se sarete brontolone, peggio per voi! Allora, volete darmi un bacio, papà mio? Gli offrì la fronte. Baciò lui, dopo essere stata baciata. Cercava di divertire il suocero, e di farlo ridere, come per proposito deliberato a non ricascare nel sentimentale. Doveva senza dubbio costarle uno sforzo; ma il vecchione, dal canto suo, cercava di secondarla, solleticato da quelle gaie carezze di giovine donna, che egli non aveva gustato ancora. Dentro di sè, era ben altro!... Oh, se avesse potuto dire quel che provava dentro di sè! Irene doveva possedere certamente qualche filtro magico. Egli durava fatica a trattenere lagrime di tenerezza. — Sapete che c'è? — diss'ella, guardandolo con due occhi sfavillanti: — voglio fare di voi un altro uomo. Ci riuscirò, vedrete. Non ci sono forse riuscita con Pippo e con Mario? Fu come una sferzata. Padron Gregorio, ricacciato dal cielo in terra, la interruppe ruvidamente: — Basta così! Mi guasti tutto il bello del nostro incontro. Ma forse giova. Bisogna intenderci subito. — Che ho fatto? — balbettò Irene atterrita. — Nulla. Senti: tu hai voluto sposar Pippo, e va bene. Io ci ho gusto, solo perchè siamo diventati parenti e ci siamo incontrati. Ma se pensi di riavvicinarmi ai miei figli, perdi il tempo, capisci? Sono un mucchio di canaglie; non dimenticherò mai i dispiaceri che mi hanno dato. E voglio che tu mi giuri di non rinominarmeli mai più. Irene, tremante, chinò la testa. Un singhiozzo le gonfiava il petto. Ferramonti la guardò lungamente, afflitto; rimase alcuni minuti sopra pensiero. Poi si scosse. — Dammi retta: pensiamo a cose allegre. Guarda: il tempo s'è fatto migliore. Ma tu, come sei venuta? Eri qui da molto, quando sono entrato io? L'imbarazzo incatenava ambedue. Ella rispondeva, cercando di dissimulare un'angoscia che doveva lacerarle il cuore. Aveva fatto una passeggiata a piedi. Nell'uscir di casa, non aveva previsto la pioggia. Ed era là, col suo ombrellino da sole. Ma si faceva tardi; lei doveva pensare a tornarsene via. Avrebbe preso una carrozzella, a Piazza Farnese. Aspettava che spiovesse. Infatti, lo si poteva preveder prossimo. Il tuono non rombava più che da lontano. La bufera, ridottasi ad una pioggia senza vento, fitta e minuta, lasciava una frescura vivificante. Irene aprì la finestra. Di fuori, a ponente, uno strappo di nubi mostrava un lembo di cielo intensamente azzurro. Le strade lavate si ripopolavano con strepiti nuovi. Vibrava un'allegria di movimento e di voci nell'ebbrezza di quel preludio autunnale. L'aria circolava libera, purificata dai fetori di sporchizie che fermentano al sole. Si pensava alle gazzarre dei bambini dopo il bagno. Le carrozzelle correvano in ogni direzione. Suocero e nuora non seppero uscir più dal tema del tempo. Tuttavia il loro imbarazzo svaniva, a poco a poco; ricominciavano a sorridersi. La signora Lalla ricomparve; Irene si alzò per accommiatarsi. Allora Ferramonti la trattenne: — Non correre; non brucia la casa! C'è sempre da fissare quando ci vedremo. Una lieve nube passò sulla fronte della giovine donna. Ella pensava, forse, che suo marito doveva restare escluso dagli abboccamenti che si combinavano. — Cercherò di venire quasi ogni giorno. Farò di tutto per riuscirvi. — Cioè! bisogna riuscire ad ogni costo. E... la prima volta, quando ci rivedremo? — Non so... Doman l'altro? — Sta bene. Doman l'altro... — Qui, — soggiunse subito Irene, prima che il suocero potesse indicarle un altro appuntamento. Padron Gregorio parve colpito. Infine si risolse. — Sia pure: qui! A rivederci, nuoruccia. — A rivederci, papà! Ebbene, il vedersi in casa d'estranei acquistava un sapore piccante; un'idea come di appuntamento amoroso e clandestino. Il vecchio Ferramonti se ne sentiva turbato ed ingolosito. Bisognava dire che Irene ne avesse, dei curiosi capricci! il condursi così, come gente che ha paura di compromettersi, non aveva senso comune. No, non era cosa degna d'un uomo serio. L'intero settembre passò senza cambiamenti. Irene andava tre o quattro volte per settimana da Lalla Frati; restava col suocero un'ora od un'ora e mezzo, irrequieta, nervosa, come combattuta fra la delizia d'essergli vicina, e la preoccupazione di dover scappar via al più presto possibile. Qualche volta facevasi attendere lungamente, o restava appena pochi minuti. A due o tre appuntamenti mancò del tutto. E queste furono per padron Gregorio giornate terribili. Insomma, la giovine donna era diventata subito un bisogno della sua esistenza. Nella vecchiezza, egli subiva ciò che la gioventù, rosa dagli appetiti del danaro, gli aveva risparmiato: una malia di sirena, completa, drammatica in certe brusche malinconie, in certe indefinibili velleità di rivolta impotente. Appunto: presentiva nei suoi lucidi intervalli lo scopo della giovine donna, di cui portavasi addosso il profumo nel suo vagabondeggiare di vecchio ozioso; di cui rammentava la voce, gli atti, gli sguardi ed i sorrisi, nelle ore lunghe e vuote, occupate ad impantanarsi fra i pettegolezzi del rione. Intravvedeva l'assedio paziente, sagace e formidabile alla sua fortuna; e, più ancora, capiva che avrebbe capitolato. Ma la tentazione ed il fascino non gli permettevano di raffermarsi in tali pensieri. Altri, opposti, li scacciavano. Non già Irene mirava ai suoi quattrini! Lui pensava di farne la padrona. Lo meditava, tenendo nascosto il disegno con una cura gelosa, perchè nulla ne trasparisse al di fuori. Anzi, avrebbe messo alla prova il disinteresse della nuora; ed al più leggero dubbio sulla sincerità dei suoi procedimenti, le avrebbe luminosamente provato che non era nè un imbecille nè un rimbambito. Ma lei conducevasi ammirabilmente, senza offrire il menomo appiglio alla diffidenza. Non aveva le caute allusioni ed i giri insidiosi di frase, che preparano un attacco, nè i silenzi ostentati ed ostinati della dissimulazione. Il tema degl'interessi materiali ricorreva spesso nei loro abboccamenti. Essa lo affrontava con naturalezza, sia che fossero in quistione gli affari del suocero, sia che vi fossero i propri. Mostrava di amare il danaro, come deve amarlo una donna nata e vissuta nell'ambiente del traffico. Con egual candore, confessava inoltre di amare i godimenti onesti che il danaro permette. Avrebbe voluto guadagnar molto per potere accumulare e spendere in pari tempo: due piaceri che gli stupidi soltanto possono sconfessare. Così, ella non ostentava un'indifferenza assurda all'idea che Ferramonti potesse dare esecuzione al progetto di diseredare i figli. Al contrario, il suo rincrescimento si manifestava con certi rabbuiamenti di espressione, con certe tristezze, con certe frasi piene di amari significati. Ma ciò si connetteva a tutto uno stato di cose ch'ella doveva subire, ed al quale erasi in realtà rassegnata. In sostanza, bisognava bene che lo riconoscesse lei pure: suo suocero non aveva torto. Forse l'odio di lui poteva ritenersi eccessivo. Questo era il pensiero che traspariva dalle risposte vaghe ed imbarazzate della giovine donna, dalle sue affannose reticenze, quando i vecchi rancori di casa Ferramonti avvelenavano i colloqui fra suocero e nuora. Padron Gregorio dimenticava di aver chiesto ad Irene che non gli nominasse più que' furfanti di figli; cascava lui stesso parlarne, quasi portatovi da un confronto spontaneo fra la scelleratezza del sangue suo e la bontà di quell'angel di donna. Lei supplicava il suocero di tacere, di non ucciderla di dolore; si ricusava ad ascoltarlo. S'era sua nuora, non cessava per questo d'esser moglie di Pippo e cognata di Teta e di Mario. Dio santo! non si poteva inventare un martirio più crudele! Poi, riuscendo inefficaci gli appelli alla pietà, essa mutò registro: diventava aggressiva; imponeva il silenzio, fiera dei suoi doveri di moglie e di cognata. Padron Gregorio poteva arrivare fino al punto di considerare i suoi figli come morti e perduti per lui; ma che cosa era quel continuo attossicarsi per progetto la vita, con violenze le quali non avrebbero cavato un ragno da un buco? Davvero, non c'era scusa possibile. Il passato è passato: quando non ci si può rimediare, è vano pensarci su. Del resto, dipendeva dal sistema di vita che padron Gregorio aveva adottato, non c'era da dubitarne. Il suo rintanarsi in una poltronaggine selvaggia dopo aver sempre lavorato in mezzo agli uomini, avrebbe guasto il sangue più sano e pervertito il carattere migliore. Perchè dunque non si creava qualche pensiero, qualche occupazione? Se non voleva saperne d'imitare quelli che non avendo interessi propri, s'occupano di quelli degli altri, perchè non si formava una nuova famiglia? Erano vere esplosioni, che sbalordivano Ferramonti. Egli non riusciva a ribatterle, sentendo che Irene aveva ragione. Recalcitrava soltanto all'idea ultima. Famiglia? Che cosa voleva dire formarsene un'altra? Ce n'era forse fabbrica privilegiata e depositi assortiti? E continuava a rispondere umoristicamente, aspettando da un giorno all'altro che Irene pure mettesse fuori, senza perifrasi, l'idea di un matrimonio. Sicuro: era già più che sott'intesa in tutti quei giri di frase, che lasciavano il vecchio in prolungati turbamenti nervosi. Ci arrivarono infatti. Irene provò al suocero ch'egli non poteva fare a meno di una moglie, affettuosa ed intelligente. D'altra parte, egli non era decrepito. Si ammogliavano uomini in condizioni assai peggiori delle sue, e non se ne pentivano. Egli avrebbe potuto imbattersi bene, riavere qualche altro figlio. Se voleva che Irene cercasse per lui, essa non ci faceva difficoltà. Anzi, credevasi anticipatamente sicura di trovare quello che occorreva. Ferramonti ebbe un'idea luminosa. Lasciò che la giovine donna versasse un fiume di parole per dimostrare sott'ogni punto di vista la convenienza di un secondo matrimonio, e che si montasse a dovere la testa nel credersi lei capace di pescare la donna per la quale. Quando gli parve che la cosa fosse matura appuntino, disse lui pure la sua prendendo un'aria indescrivibile di vecchio sornione. — Insomma, pare che abbiate piantato tutti questo chiodo! Non trovo uno che non desideri di vedermi ammogliato. Sai che c'è, Irene? Sono stufo di sentirmi dir dietro tante sciocchezze. Finirò col levarne l'occasione. Sul serio: sono quasi tentato di pigliarti in parola. — Provatemi, papà! — incoraggiò vivamente Irene. — V'assicuro che ve ne troverete contento. Volete davvero che mi metta in campagna, fin da domani? — Perchè no? Tenta. Io resto da parte; non piglio impegni. Voglio vedere quello che sarai capace di trovare. Per una settimana non si parlò d'altro. Irene pareva orgogliosa ed entusiasta dell'incarico ricevuto. Non ammetteva l'ipotesi di un insuccesso, respingendo vivacemente i dubbi del suocero. Ma che! egli non la conosceva ancora! Vedrebbe di che cosa era capace, lei! Ed ella annunciò d'essere sulla pista. Castigava padron Gregorio delle sue ostentazioni d'incredulità, rifiutandosi a dirgli di più. Un giorno comparve coll'aria trionfante di una donna che ha trovato. — Siete sempre risoluto, papà? — Si capisce, — rispose lui, un po' sconcertato fin dal principio, tentando vanamente di far la burletta come al solito. — Allora mi permettete di stringere i conti e d'impegnarmi a nome vostro? — Come? come? Tu corri un po' troppo, carina! Se mi cucini, fammi sapere almeno in che salsa. — Salsa matrimoniale, credo! — Non è questo. Butta fuori. Pretendi dunque di averci qualche cosa di positivo? — Si sa. Resta solo che diciate di sì voi. — Per Cristo! — esclamò Ferramonti, colpito dalla frase e dal modo ond'era stata pronunciata. Guardò a lungo, stranamente, la nuora. Era violentemente commosso, e potè a fatica frenarsi. — Allora — disse infine, con un tremito della voce, — sono disposto a secondarti. Hai fatto le cose a dovere? Suvvia, dimmi una volta chi è la sposina. Irene non si fece pregare. Nominò la donna trovata: Celeste Remedi, una vedova di quarant'anni. Realmente, non si poteva desiderare di meglio: la Remedi non aveva parenti prossimi; viveva di una modesta rendita portata in dote al primo marito e salvata miracolosamente dal naufragio commerciale di lui. Era tuttavia piacente; assennata, religiosa, di fondo docilissimo. Insomma, quella che occorreva appunto a padron Gregorio. Le avevano dunque parlato di lui, in termini molto generali, chiedendole se, al caso, avrebbe avuto contrarietà a rimaritarsi con un uomo così rispettabile. Ella non diceva di no. Sarebbe stato un matrimonio di convenienza, naturalmente; ma c'era posto, più tardi, anche per sentimenti d'altra natura. Irene conosceva la Remedi personalmente, da molti anni; garantiva per lei come per se stessa. — E poi? — fece padron Gregorio. — E poi? — replicò la giovine donna, maravigliata. — Non vi pare che basti? Sareste, per caso, incontentabile? — Ma no! Per provartelo, ti dirò che ce n'è d'avanzo. — Manco male! Allora si combina? — E via a correre! Mi sembri il barbero vincitore! — Non vi capisco... — Mi capirai. La tua vedova Remedi, la conosco, presso a poco. Suo marito faceva il cartolaio a via Frattina, non è vero? Bene! ebbero la fortuna attraverso; ma nessuno disse mai nulla sulla loro onestà. Dunque, riammogliandomi, non potrei trovar meglio di quella donna. — Bravo, bravo! Fareste... — Aspetta. C'è una difficoltà. Io ho voluto soltanto metterti in prova. Nè più, nè meno, capisci? Penso tanto a riammogliarmi, come a farmi vescovo, io! Sai che c'è? È ora di smettere questo modo di vederci. Quella che deve tenermi compagnia, sei tu. Ti voglio tutti i giorni, più che potrai. Non mi fare delle difficoltà; trova il modo; avvisa tuo marito; digli che la intendiamo così noi due; e basta! Vedrai: troverà i suoi buoni motivi per acconsentire, e purchè non gli salti in testa di venirmi fra i piedi, ci guadagnerà realmente un tanto. Ma guarda come sei rimasta! Non vedi, scioccona, quanto ti voglio bene? I suoi occhi imbambolati luccicavano umidi. Non fu più buono di resistere: si strinse fra le braccia la nuora palpitante e pallida. Poi rivoltosi alla Frati, presente e discreta, nel suo muto riserbo di donna che presta la casa ai convegni, l'avvertì: — Sapete, signora Lalla? vi ringraziamo. Adesso si cambiano le parti. Ci farete sempre un piacere, venendo qualche volta a trovarci. XI. A Torre Argentina si seguivano le mosse d'Irene con attenzione ansiosa, pari ai grandi interessi in giuoco. Dominava una grande incertezza. La giovine donna aveva adottato un sistema audace di equivoci, che poteva comprometterla colla più futile circostanza, ma che teneva egregiamente sospesi gli animi. Tirava innanzi a prolungare la leggenda del matrimonio del vecchio Ferramonti, appoggiandosi ai pettegolezzi degli oziosi, fatti nascere e diffusi abilmente da lei e da Lalla Frati. Ella mostravasi costantemente inquieta: certo il suocero diffidava di lei. L'accoglieva e la trattava assai bene; ma qualche cosa in lui lasciava capire che aveva progetti segreti. Voleva ch'ella lo aiutasse nella scelta della moglie. Essa era soltanto riuscita ad impedirgli risoluzioni precipitate; ma non sperava di durarla più a lungo. No: la fatica superava le sue povere forze. D'altra parte, bisognava esser giusti: padron Gregorio trascinava un'esistenza impossibile; aveva realmente bisogno d'una compagnia. E poichè tali erano le circostanze, lei s'infiammava di un nuovo progetto: avrebbe secondato il desiderio del suocero, gli avrebbe trovato lei stessa una moglie. Provocò una di quelle esplosioni in cui le sordide passioni umane si mostrano senza veli. Mario solo si contenne, fidandosi di lei ed intuendo la commedia. Gli altri no: perdevano la testa. Pippo stesso scoteva il suo giogo di marito domato, ritrovando l'occasione di mostrarsi furioso. Nessuno di loro avrebbe sopportato in pace un ladrocinio simile. Parlavasi di andare a cavar fuori il cuore di quel vecchio birbaccione che trattava così il sangue suo. Furlin, sempre ripugnante da propositi che potessero compromettere, dimostrava che il vecchio Ferramonti doveva ritenersi impazzito. E suggeriva mezzi tortuosi per farlo interdire e chiudere in una casa di salute. Bastava far agire influenze valide, allargando a tempo e generosamente i cordoni della borsa. Poi Irene si sentì circondata da sordi sospetti, e comprese che quel soffio ostile partiva da Teta. Per tre o quattro giorni le escandescenze scoppianti nel salotto ebbero un carattere artificioso: la banda indagava se la giovine donna si fosse per avventura permesso di darle a bere qualche fandonia. Irene aspettò che questo momento critico passasse, con lo stoicismo di una donna forte; poi, ad un più fiero scatenarsi della tempesta, capì di aver vinto la partita. Allora schiacciò i riottosi colle sue occhiate compassionevoli, coi suoi freddi sorrisi, dove un disprezzo appariva. Non la capivano d'esser fuori di strada? I loro propositi folli di violenze e di perfidie li avrebbero posti al bando della gente onesta. Lei non rinunciava a contraporre i proprî scopi disinteressati alle loro cupidigie; ma parlava considerando anche le cose dal loro stesso punto di vista. Non si trattava più d'impedire a padron Gregorio il matrimonio; si trattava di mettergli a fianco un'amica della famiglia. I Furlin ebbero un'ultima velleità di resistenza, tentando dimostrare che tal progetto era un sogno. Ma rimasero soli. Pippo, loro alleato degli ultimi giorni, disertava ad un tratto, messo al bivio risolutamente dalla moglie di scegliere fra l'ubbidirla ciecamente ed il dichiararsele apertamente contro. Egli aveva scelto il primo partito; la sua individualità era sparita, soppressa dalla volontà della giovine donna. Mario, dal canto suo, aveva altri motivi per secondare la cognata. Ella era stata con lui più sincera: in un momento di espansione, lo aveva assicurato che il matrimonio del vecchio Ferramonti non sarebbe in realtà accaduto, mai. Infine, anche i Barbati si dichiararono per Irene. Paolo e Teta dovettero pensar seriamente al pericolo di separare i propri interessi da quelli della famiglia. E si rassegnarono ad abbassare le armi. Allora la banda si sguinzagliò a cercare la donna che occorreva. I nomi si susseguivano, si vagliavano e si scartavano nelle discussioni ardenti che l'impresa originò. La vedova Remedi venne fuori ultima, proposta timidamente da Flaviana Barbati. A principio non la presero neppure sul serio; ma la difesa d'Irene, che raccomandò la vedova come una antica conoscenza di cui poteva garantire, ne decise la scelta. Furono fatti dei passi; la vedova rispose come Irene riferì al suocero; il disegno si concretava rapidamente. Ad aver conosciuto i fini segreti ond'era mossa la moglie di Pippo, si sarebbe detto ch'ella perdeva la testa, per una smania singolare di scherzare coi carboni ardenti. Infatti, quando i Furlin specialmente ebbero ben ripensato alla cosa, anatomizzando l'indole della Remedi e persuadendosi che quella donna, santa fino all'imbecillità, avrebbe necessariamente considerato come suo dovere riconciliare il vecchio Ferramonti coi figli, Irene dovette moderarne gli entusiasmi e le impazienze. Non capivano, che non conveniva affrettarsi? Dovevasi lasciare padron Gregorio libero nelle proprie risoluzioni. Un passo falso avrebbe potuto comprometter tutto. Frattanto la giovane donna impiegava le giornate intere in via del Pellegrino, sottraendosi alla banda, che si rodeva di non poterla seguire. Irene godeva senza dubbio delle impazienze che spasimavano e si esasperavano, la sera, intorno a lei. Dubitava ancora della riuscita! Il suocero continuava a non volerla vedere che dalla Frati, in casa di estranei! Forse la burlava, o forse agiva così, per poterla più facilmente sfuggire, non appena si fosse seccato di lei. Ed ella non sapeva come entrare sul discorso della vedova Remedi. Ma perchè i suoi non la consigliavano e non l'aiutavano? Una sera, questa raffinata tortura cessò d'incanto. Nel salotto di via Torre Argentina fremette il sospiro della vittoria. Irene annunziò che il suocero l'aveva autorizzata a cercare. Oh, egli era l'uomo migliore della terra! Che serve? Ella lo amava! lo amava! Non permise più che si arrischiasse una parola ostile al padre loro. Ricadeva in pieno idillio; pigliava un'espressione da far languire di tenerezza Pippo, mentre Mario sorrideva finalmente, ed i Furlin ed i Barbati si guardavano stupiti fra loro, quasi dubbiosi che le desse di volta il cervello. Ma non si veniva a capo di nulla. Era la settimana in cui padron Gregorio credeva Irene occupata a cercargli la sposa. Si cominciava a veder buio nell'indugio; a ritentare delle osservazioni, che tradivano rinascenti sospetti. Tutto ciò svanì nella sorpresa suscitata dall'avvenimento che mandava a monte il matrimonio, e che faceva entrare Irene in casa del suocero. Tornando dal Pellegrino, lei non volle aspettar la sera per spargere la gran novità. Passò dal marito, a bottega, fece correre lui dai Furlin. E la sera accolse gli entusiastici applausi della famiglia, colla sua celestiale modestia. Fu una vera apoteosi. Ripensandoci bene, essi vedevano adesso soltanto da quale pericolo erano sfuggiti. Su quei visi accesi dall'ebbrezza del trionfo passavano dei brividi di raccapriccio. Se la Remedi avesse pensato a se stessa? se avesse dato a padron Gregorio un'altra nidiata di figli? Erano tanti i casi! Infine, Irene era stata davvero la provvidenza della famiglia. Ma passata la prima foga di ammirazione, l'orizzonte si annuvolò di nuovo. L'abilità somma d'Irene, rivelandosi così brillantemente, lasciava dei sordi sospetti in quel pugno di gente scettica per i sentimentalismi della filantropia e del disinteresse. Il domani Mario si procurò un abboccamento colla cognata. Dalle prime parole, lasciò intendere che non voleva essere mistificato. — Mi congratulo con te. Papà è tuo e noi tutti siamo a tua discrezione. Ho idea che, adesso, tu pensi a farne veder delle belle a qualcuno... — Sei un ingrato ed un infame! — esclamò lei, rivoltandoglisi contro come una vipera. — Mah! sarà un difetto organico — fece Mario, con una spietata ironia. — In ogni caso, desidero rammentarti le tue promesse! Via! non c'è davvero motivo di fare un viso da spiritata. Lo sai bene, che nessuno al mondo potrebbe augurarti di riuscire, come te lo auguro io. Non è vero, forse? Rispondi: non è vero? Ella fremeva, nel sentimento angoscioso dell'insulto ricevuto, coll'aria di una vittima che vorrebbe ribellarsi. — Oh, lo vedo, quali sono i tuoi sentimenti per me — balbettò con una voce strozzata; — non me ne dai forse una prova anche adesso? — Io ti amo ed ho paura di te... — Quale motivo te ne ho dato? — Nessuno. È un istinto. Se tu sapessi di che sarei capace perdendoti! I nostri interessi saranno sempre comuni, non è vero? — Siamo due complici! — diss'ella cupamente. — Due complici, sia! Tanto meglio. Guarda: io ti ringrazio della parola, e ti chiedo perdono. Dammi un bacio. Ella non voleva. Poi lo baciò: rifecero la pace. Poi venne la volta dei Furlin. Ad un tratto essi mostraronsi impazienti di realizzare gl'ideali della cognata nelle sue aspirazioni di concordia. Parlarono del vecchio Ferramonti come si parla di un padre il cui pensiero rinverdisce antiche affezioni e mette nel cuore una folla di pentimenti. Avevano avuto torto: erano pronti a riconoscerlo e ad umiliarsi in qualunque modo per ottenere il perdono. Irene doveva prometter loro d'informare il suocero sui loro attuali sentimenti. La pregavano di difenderli, di raccomandarli, di affrettare la generale riconciliazione. Insistevano sul concetto che già si era aspettato anche troppo. Ella si limitava ad assicurare che non avrebbe dimenticato nessuno. Anche il suo contegno cambiava. Stimava forse giunto il momento di risparmiarsi in parte la fatica delle proprie dissimulazioni, e cominciava ad affermare una superiorità, a prendere un'aria di alterigia e di protezione. Aveva talvolta certi lievi sorrisi, certe lunghe e pallide occhiate, che mettevano i brividi nelle ossa di Teta. Insomma, un senso di disagio piombava sui conciliaboli di via Torre Argentina: il sordo presentimento di una lotta preparatasi insidiosamente, dove alcuni sentivansi sopra un terreno falso ed infido. In quello stato di cose una circostanza venne ad aumentare le difficoltà, lasciando la famiglia a se stessa: i Barbati sparirono. Rinaldo doveva attendere a troppi affari, e si tuffava in un mare di segrete macchinazioni politiche. Dal canto suo, Flaviana si vedeva rubare tutte le sue serate dagli spettacoli, dalle visite di riguardo, da mille impegni uno più indeclinabile dell'altro. Erano pretesti: moglie e marito fiutavano nell'aria imbrogli nei quali non volevano trovarsi mescolati, e viravano prudentemente di bordo. Fu l'idea dei Furlin, al vedere l'assiduità dei Barbati cessar bruscamente, dopo aver attraversato un breve periodo di rallentamento. Ebbene, s'ingannavano. Una sera mancò pure Mario, e il domani Irene stimò necessario scrivergli un bigliettino per invitarlo a passare un momento da lei. Quando egli arrivò, trovò la cognata già vestita per recarsi dal suocero. Fece l'indiano: — Ci sono delle novità? — Lo sai tu, se ce ne sono. Siedi. Dobbiamo parlar seriamente, e non ho tempo da perdere. Perchè non sei venuto ieri sera? — Sono stato a teatro. — E prima? — Ho veduto degli amici... — No! sei stato da Flaviana. — Diventeresti per caso gelosa? — fece Mario con uno scoppio di risa. Ma, dinnanzi allo sguardo inesprimibile della giovane donna, si stizzì: — Ebbene! sono stato da lei. E poi? — Che cosa ti ha detto? Intendo ieri sera, nei giorni scorsi, dacchè, insomma, non la vedo più. — Non te lo imagini? Sei curiosa di avere dei particolari scabrosi sulle nostre intimità? — Sta bene! — disse Irene con una fredda ironia. — Tu credi necessario fingere di non capirmi. Mi hai già capita perfettamente, però! La catena della nostra complicità si rallenta, non è vero? Mario, sorpreso, guardò lungamente la cognata. In realtà la comprendeva. Alla fine si risolse a risponderle. — Allora, se vedi così da lontano, devi sapere che io sono estraneo al cambiamento di Flaviana a tuo riguardo. Non mi puoi rimproverare nè una indiscrezione, nè un'imprudenza. Mi pare anche di condurmi con quella povera donna nel modo che tu, spesse volte, mi hai consigliato. — Credi? Può darsi — bisbigliò Irene conservando il suo fare mordace. — Continua pure. Vorrei conoscere il tuo pensiero. Mario trasalì, come un cavallo di razza che morda il freno. Si sentiva lanciato sopra un terreno pericoloso; perdeva la calma. — Vuoi? — riprese vivamente: — ebbene, hai sbagliato tu. Non capisco perchè tu abbia voluto Flaviana testimone dei nostri affari di famiglia, e tanto meno come tu non abbia pensato che una donna indovina sempre la rivale... — Povero Mario! — interruppe Irene: — divaghi tanto, che non sai neppur più dove volevi riuscire. Via, sbrighiamoci! Ti ho detto che non ho tempo da perdere. Desideravo metterti in guardia. Se tu ti commuovi ai corrucci ed alle gelosie di Flaviana, e se congiurate insieme, io non vi temo. Anzi vi sfido. Ecco! Avviluppò il cognato con una occhiata lunghissima e profonda. Le sue parole presero una lentezza appassionata. — Solamente, tu mi procuri una ben dura esperienza. Il tuo amore non resiste alla prova di un maligno sospetto che un'altra donna ti soffia nell'anima. Del resto, lo so come tu mi hai sempre stimata!... Parve sopraffarla un'amarezza infinita. Tacque, aspettando che Mario parlasse a sua volta. Egli era agitatissimo. Pronunciava delle frasi incoerenti, ridicole per lui stesso. Alla fine, vedendo Irene abbandonarsi più che mai ad uno sconforto angoscioso, ebbe la risorsa dei deboli: diventò brutale. — Vuoi costringermi a dirti ciò che avrei voluto risparmiarti? Lo sai, che la pazienza non è la mia virtù predominante. Irene rialzò vivamente il capo, guardando Mario pallida, risoluta e sfidatrice. — Orsù! parla! — Come ti pare. Allora ti dirò che mio padre e Pippo insegnano come tu sai domare gli uomini. Ed io rifletto se davvero tu abbia un interesse vero, positivo, a serbarmi una sorte diversa. Sono un Ferramonti, della famiglia la cui fortuna dovrà appartenerti. A mio favore ci sarebbe soltanto il tuo capriccio, la tua debolezza, la tua passione per me. Ma non c'è dubbio, che invece di esistere realmente, tutte queste cose siano un mezzo nelle tue mani? — Flaviana dice ch'è un mezzo, non è così? — domandò Irene sordamente. — Flaviana non ne sospetta l'esistenza. Sospetta invece il disegno di far nascere in me la passione, come un mezzo. La giovine donna si alzò. La sua figura si era ricomposta ad una calma strana e terribile. Si allontanò due o tre passi, assorta nel suo pensiero intenso. Quando ritornò verso Mario, parve aver preso il suo partito: — Vuoi dimenticare tutto quello che ci univa? Io ti sciolgo; ti ridò intera la tua libertà. — Credi dunque di poter sfidarmi impunemente? Fu come la goccia che fa traboccare la tazza troppo piena. Irene ricadde sopra una sedia, con un singhiozzo da cui parve spezzato il suo cuore. Si nascose il viso fra le mani, e pianse lagrime di angoscia e di furore, mentre il cognato la guardava interdetto. — Sembriamo veri bambini! — diss'egli, per mettere una frase qualunque in quel silenzio opprimente. — Non ti pare che basti ancora? — gridò la giovine donna furibonda, col viso sfigurato dal dolore e dalla collera, bagnato di pianto. — Io ho sofferto tutto quello che potevo soffrire, intendi? Perchè resti? Che c'è più fra noi? Non vedi che mi metti tant'odio nel cuore da farmi impazzire? Va! sì, ti sfido! T'ho detto un'altra volta, che sei un ingrato ed un infame! Ma va, dunque, dalla tua Flaviana! — Vuoi che ti sentano? vuoi comprometterti? — balbettò Mario, spaventato di vedersela dinnanzi così, fremente e sconvolta. — Che m'importa? Va dunque a dire a Pippo che mi hai avuta! È il solo mezzo di scuoterlo: è il solo mezzo di colpirmi a morte, togliendomi la mia fama di donna onesta. Tu ci guadagneresti un tanto: faresti la figura di un uomo caduto nelle reti di una sirena. Ti perdonerebbero tutti i tuoi torti pel merito di averla smascherata... — Ascoltami... — fece Mario. Cercava di farle comprendere il gran cambiamento che avveniva in lui. Ma la giovine donna lo respinse con un atto selvaggio, con uno scoppio di risa rauco, somigliante ad un ruggito. — Ho da credere che tu sia un imbecille al pari di tutti gli altri? — proseguì nello splendore affascinante della sua collera di creatura straordinaria, nell'ebbrezza ineffabile di un'impudenza suprema. — Senti: sono proprio venuta nella vostra famiglia per impadronirmi delle vostre sostanze. Vi ho raccolti intorno a me per sorvegliarvi e per raggirarvi meglio. Avrei voluto incontrare qualche difficoltà, che lusingasse il mio amor proprio. Invece, non sapete neppure odiare. Se io avessi sospettato di te la decima parte di quello che tu sospetti di me, ti avrei stritolato. Non lo credi? non mi stimi da tanto? Guardami! Egli trasalì guardandola; sentì un freddo brivido penetrargli nelle ossa. Allora tutta la sua energia s'infranse: balbettò una frase vile: — Tu sai che io non farò mai nulla contro te. Io ti amo. In realtà la sua passione ridestavasi dispotica, selvaggia, dinnanzi al furore della donna. Lei non aveva mostrato di udirlo. Ricadde, incapace di proseguire, col petto gonfio dall'affanno, colle membra in sussulto. La crisi della sua collera durava ineffabile nella contrazione della bocca semiaperta e fremente, nel livido pallore del viso, nell'infiammata intensità dello sguardo. Allora Mario, spinto a sua volta da una specie di delirio, le si avvicinò; volle afferrarle le mani. Fu una scena muta, dopo un grido d'angoscia di lei. Ella erasi scossa, balzando in piedi. Fuggì. Mario non la trattenne; la vide ridursi all'angolo più lontano, senza levargli d'addosso gli occhi spaventati ed ammaliati. Poi vide quel viso cereo sformarsi, esprimere qualche cosa, che non era più l'odio di poc'anzi. Quelle braccia contorcevansi con un atto di angoscia infinita. Passò un lungo istante così. Mario ebbe un pallido barlume di volontà; sentiva che tale scena doveva cessare a qualunque costo; egli non poteva restare un minuto di più. — Rassicurati — diss'egli, con un filo di voce, — non hai più nulla da temere da me. Addio. S'incamminò verso la porta, risoluto. Lo trattenne un grido angoscioso. Irene barcollava presso a cadere. Egli si slanciò a sorreggerla; la raccolse nelle braccia. Lei gli si abbandonò. La fralezza femminea, che aveva superato e vinto fino allora, si vendicava di lei. Era una crisi di pianto, una convulsione di singhiozzi, che fiaccava le sue membra gentili di giovine donna. Mario, commosso dalla pietà e dallo spavento, avrebbe dato la sua propria vita per toglierla da quello stato. Ed egli non poteva soccorrerla; non poteva domandare aiuto ad estranei che avrebbero sorpreso una parte almeno del loro segreto. Egli l'adagiò, disperato, sopra un sofà. Le bisbigliava parole affettuose d'incoraggiamento, chiamandola coi più dolci nomi. Le domandava perdono, riconoscendo di avere agito contro di lei come uno sciocco e come un malvagio. Ma era però perchè l'amava, fino al punto di perderci la ragione. Davvero. Egli aveva riso, giuocato coll'amore; non lo aveva mai preso sul serio. Era toccato ad Irene ridurlo al punto a cui si trovava. — Oh, parole! — balbettò la giovine donna singhiozzando, coll'amarezza ineffabile del suo disperato scetticismo. — Ma che debbo fare per provartelo? — replicò lui. — Perchè non me lo indichi? Perchè ti ostini? Si palleggiarono lungamente frasi spezzate, con un fervido bisbigliare d'innamorati che si accapigliano nel cercare la via per intendersi. Mario insisteva perchè Irene lo sottoponesse ad una prova, felice di vederla rianimarsi a poco a poco. — Non mi tentare, — diss'ella improvvisamente, raddrizzandosi sotto l'impressione di un'idea subitanea. — No! È meglio restare così. Amici, se vuoi. Noi ci scaviamo un abisso sotto i piedi. — A che pensi, adesso? — domandò Mario. — Lo vedo bene: non è possibile seguitare come pel passato. Scuso le tue diffidenze; le capisco; rinascererebbero necessariamente alla prima occasione. Sono stata assurda... Non si può! non si può!... Spasimava. Si ribellò contro il proprio destino, balbettando frasi scucite. Mario guatava quella nuova complicazione, sopraffatto. Scongiurava la giovine donna di spiegarsi meglio. D'improvviso, ella si decise. — Io non resisto più; non so più mentire. Che m'importa ormai la mia fama? che m'importa il resto? Io ti amo; basto io sola per te, e sono gelosa, io! Allora, bisogna che tu scelga tra Flaviana e me. Mario gettò un grido di gioia. — No, no! — aggiunse la giovine donna, arrestandolo; — Non già in questo modo. Bisogna che tu rifletta seriamente. Si tratta d'impegni tremendi, che non consentirebbero nè prudenze, nè finzioni. Il meno che ci potrà accadere, sarà comprometterci nella stima del mondo. E noi siamo quelli della famiglia che si allontanano di più dalla fortuna di tuo padre. — Ebbene? Che ce ne importa? — Ti pare adesso. No, no! Non voglio! Aspetta quarant'otto ore. È l'ultima prova di pazienza che ti domando. D'altra parte non posso più trattenermi con te. Addio. Gli stese la mano per salutarlo. Ed egli non seppe più resistere alla muta preghiera di quello sguardo amoroso e sorridente. Si allontanò, coll'ubbidienza passiva della quale, in un caso simile, avrebbe dato spettacolo suo fratello. XII. A casa Barbati finivano di desinare. S'erano messi a tavola assai tardi, pei soliti impicci che non permettevano più a Rinaldo d'esser padrone del suo tempo. Era un dicembre eccezionale, agitatissimo. Tre giorni innanzi, una domenica, Rinaldo aveva parlato ad un meeting al Politeama, ed era stato in procinto di farsi arrestare per intemperanza di linguaggio. Nei ritrovi più scapigliati dei suoi correligionari politici, egli mostravasi esasperato di non trovare intorno a sè uomini abbastanza risoluti per spingere le cose agli estremi. Perchè aspettavano ancora? Non vedevano che al popolo prudevan le mani? Erano dunque traditori anche loro, oppure volevano saltare in aria cogli altri, quando la mina sarebbe scoppiata da sè? Ebbene, egli tirava in ballo i suoi furori politici per sfogare guastasangui di tutt'altro genere. Aveva commesso un paio di quegli spropositi, che un uomo della sua qualità non può perdonarsi. Era fallita la Banca dell'Agro romano all'impensata, un mese prima delle sue previsioni, sul più bello del giuoco al rialzo sulle azioni di quell'Istituto. Barbati, per ingordigia, aveva troppo indugiato a disfarsi di una partita di tali titoli, che gli era rimasta per incartarci il salame. In compenso, le “Banca Italica” andavano alle stelle, ed egli era stato così bestia da non conservarne, nel suo cassetto, neppur l'odore. Si sarebbe dato volentieri dei pugni nel capo. L'aveva a morte con quei furfanti degli amministratori della Italica. Dire che lo ricompensavano con una famosa ingratitudine della propaganda da lui fatta all'Istituto la decorsa primavera, e non gli lasciavano neppur le briciole di quella pappolata solenne! Che mondo birbone! Nondimeno, aveva delle consolazioni: un contratto di fornitura d'oggetti di vestiario ad un collegio comunale, e l'arredamento completo di un monastero in formazione. I maligni potevano sogghignare a piacere: non era agente d'affari in genere, lui? Del resto, il suo nuovo socio aveva sempre lavorato appunto in articoli di vestiario e di mobilio. Bisognava, perdio! essere idioti ed invidiosi, per maravigliarsi che un galantuomo cerchi di guadagnar quattro soldi in un modo, piuttosto che in un altro. Quella sera i Barbati si affrettavano a finire di desinare, in causa appunto del nuovo socio. Flaviana, già vestita, doveva andare al Metastasio con lui. Al vederla inghiottire con una rapidità di passera vorace, Rinaldo si mise in allegria; trovò delle facezie. Ebbene; le cosce delle figuranti ingolosivano, per caso, lei pure? Nell'intimità egli dimenticava volentieri le sue rigidezze di tribuno. Quando ne aveva il tempo, evocava gioconde imagini di sensualità, con una mordace brutalità di linguaggio da vecchio vizioso. Gli piaceva veder Flaviana combattuta fra l'orrore dei suoi spropositi e la voglia di riderne. Tali piccole scene lo eccitavano, lasciandogli come l'appagamento di un piacere prelibato. Ma quella sera Flaviana non gli dava retta, alzando le spalle alle provocazioni di lui, continuando a preoccuparsi unicamente di mangiar molto e presto. Egli ne fu quasi indispettito; lanciò un altro epigramma: — Perchè non ti metti in saccoccia l'arrosto, il formaggio e le frutta? Te lo ruberanno il tuo Metastasio! Flaviana, seccata, si giustificò: — Sono le otto passate; non voglio fare aspettare Federico. — Povero Federico! — compassionò Rinaldo con uno scroscio di risa. E dette addosso al socio che gli conduceva a teatro la moglie. Sicuro: Federico ci avrebbe troppo patito a non trovarsi all'alzar del sipario. Era già incredibile che si conducesse una donna. Che tipi, la gioventù benvista in Vaticano! Un mucchio d'animali, degni, per Cristo, d'essere fatti vedere a pagamento! — Però, qualche volta, con loro, ci si trova dell'utile non è vero? — disse Flaviana, urtata dall'aggressione. Rinaldo diventò serio. — Che c'entra? Si sa: sono uomini, al pari degli altri. Anzi, salvo le loro stupide idee, valgono spesso più degli altri. Ho forse avuto delle difficoltà a prendermi Federico per socio? Vuol dire ch'ero sicuro anticipatamente del fatto mio. Il pensiero è libero, ed il valore d'un uomo non si misura niente affatto sulle sue convinzioni politiche. Questa è la mia massima! L'espressione del suo viso diceva assai più che le parole. Era riconoscente alla moglie d'essergli andata a pescar Federico per nuovo socio, dopo l'allontanamento di Mario Ferramonti. Usavano così, loro. Al Banco di Rinaldo, sotto la ditta commerciale “Barbati e Compagno”, il compagno si cambiava a periodi più o meno lunghi, secondo gli umori e l'influenza di Flaviana. Un giorno la società scioglievasi naturalmente, senza che si stimasse, da nessuna parte, guastarsi il sangue con delle spiegazioni. Un mese dopo, il socio disertato aveva un successore. Non lo cercava Rinaldo. Ci pensava sempre Flaviana, presentandogli talvolta persone che egli non aveva mai conosciuto, e che ottenevano l'entratura in casa Barbati col pretesto di una visita di convenienza alla giovine donna. L'idea dell'associazione aveva l'apparenza di nascere a caso, fra un complimento ed una frase frivola. Poi si maturava rapidamente; l'affare concludevasi. Flaviana, continuando a mostrarsi insieme al marito colle sue assiduità ed i suoi strofinamenti di gattina amorosa, diventava la migliore amica del socio. Questa volta Flaviana aveva messo le mani addosso ad un giovanotto in ottimi rapporti col Vaticano, e coi caporioni dei partito nero. Ella era libera nelle sue scelte, come era libera nell'esercizio delle sue pratiche religiose. Rinaldo non le aveva domandato nulla, superiore a tali miserie; ma lei doveva aver rivolto le sue ricerche entro qualche chiesa, o nel parlatorio di qualche monastero. Federico Vettoni era un acquisto prezioso; attivissimo, sapeva metter le mani in ogni genere d'affari, come un ebreo. Non badava, per ciò, a tenersi in relazione cogli usurpatori. D'altra parte, sicuri di lui, glie lo permettevano. Nondimeno l'affermazione pubblica della società Barbati-Vettoni, avrebbe forse passato un po' i limiti della convenienza. Allora, perchè non salisse la senapa al naso a nessuno, e perchè le apparenze fossero salve, si era stabilito di non mettere in piazza il contratto. Federico non si sarebbe fatto vedere, nè al banco, nè in compagnia di Rinaldo. Ognuno avrebbe avuto l'aria di fare gli affari per proprio conto, indipendentemente dall'altro. C'era bene degli espedienti per restare uniti dietro le scene. Ma Federico Vettoni sapeva di non compromettersi affatto, col mostrarsi apertamente in buoni rapporti con Flaviana. Ella non era suo marito, e, in questioni di donne, i protettori del giovanotto non guardavano eccessivamente pel sottile. Federico era noto per le sue buone fortune galanti; lo sapevano capace di mescolare ai mistici rapimenti di una donnetta bella e pia, qualche più profana distrazione, e lo compativano. Erano debolezze della carne, dalle quali nessuna creatura umana può dirsi esente, e che si riparano coll'esercizio delle pratiche religiose e coll'edificante esemplarità della vita cristiana. Però Barbati ne sapeva di belle, e quella sera appunto, sentendosi in vena, sfilzò una litania di storielle piccanti, sul conto del socio, per edificarne la moglie. Non avvertiva di farci, lui marito, una figura discretamente barbina. L'incipiente lavorìo della digestione lo riscaldava, colorandogli vivamente le gote, e facendogli luccicare gli occhi. Perchè dunque Flaviana non si divertiva a far chiacchierare ed a far disperare il suo galante e cattolico cavaliere? C'era un'avventura recentissima: un vero romanzetto allegro, che aveva lasciato forse degli strascichi: insomma, una monachina francese che si era lasciata distrarre dai suoi doveri di sposa del Signore pel birbante, e gli aveva permesso, non solamente di toglierle il soggolo, ma di farle anche volare la sacra camicia di sopra la testa. Finalmente Federico comparve. Là, dinnanzi al marito, Flaviana rivolse al socio una di quelle frasi motteggiatrici, che riassumono tutti i rimproveri, e rifiutano anticipatamente tutte le scuse: — Si sa quanti selci ci sono da Piazza Colonna a qui? — Contarli, non ci avrebbe fatto arrivare a teatro più tardi, — rispose Federico sorridendo. Portava dinnanzi alla bianchezza della mensa un po' in disordine, la sua figura di giovinotto trentenne, grassotto; un faccione sereno e scialbo, una testa ricciuta e castana; due occhi grigi, sorridenti e scaltri. Aveva raccattato nelle sacristie un'untuosità pretina nei modi, un fraseggiar molle, che temperava le asprezze di certe consonanti. La sua risposta, lasciata cadere con una noncuranza fatua, sprigionò due lampi terribili dagli occhi di Flaviana. Barbati s'intromise. Se stavano ancora a tavola, era colpa sua. La povera Flaviana aveva inghebbiato il cibo come un pollastro da ingrasso. Del resto, anche Federico era arrivato con tutti i suoi comodi, come un vero canonico. Allora Vettoni scese a maggiori particolari. Sorseggiò, con un raccoglimento di ghiottone religioso, un bicchiere di vino mesciutogli dal padrone di casa. Gli era passata l'ora senza che se ne avvedesse. S'era perduto ad ascoltare, al caffè, i discorsi sulla convulsione finanziaria che la città attraversava. Correva una voce: a Como avevano scoperto il Gerente della Banca dell'Agro romano sul punto di guadagnare il confine, e lo avevano tratto in arresto. — E tu hai tanto aspettato a dirmelo! — esclamò Barbati. Egli aveva quella notizia più cara di un guadagno di mille lire! Ma che mille lire! Non gl'importava più delle diecimila perdute, a condizione di vedere in galera i furfanti che glie le avevano fatte perdere. Non la finiva più; il suo risentimento esplodeva con un fraseggiare iroso di galantuomo indegnamente ingannato. Ad un tratto si calmò; si rivolse alla moglie sorpreso: — Perchè non fai portare il caffè? Lei dette gli ordini indolentemente. Aveva mangiato le frutta ed il formaggio con una lentezza ostentata e dispettosa. Pareva che avesse rinunciato al teatro; la sua espressione non prometteva nulla di buono a Federico. Ma questi capì alla fine che doveva abbonirla. Allora le si pose attorno con una maniera insinuante di faceto monsignore che addomestica e sollecita una penitente gustosa. Vinse. Flaviana cominciò a sorridergli, mentre la domestica recava il caffè. E riebbero tutti fretta. Si scottavano le labbra e la lingua, arrischiando troppo grosse sorsate del caffè fumigante. Anche Rinaldo, diventato a sua volta impaziente di uscire, incitava la giovine donna a sbrigarsi. Ella li lasciò per andare a finire di abbigliarsi. Allora i discorsi interrotti fra i due uomini si riallacciarono. Per una rapida associazione d'idee, presero a parlare della Banca Italica. Calcolavano che il cancan del rialzo si sarebbe prolungato ancora tre mesi. Oh, il pubblico! che gabbia di merli! Ma frattanto i furbi del momento lavoravano al sicuro, e dei bagliori lividi tradivano la rabbia di Barbati. Federico ebbe un ricordo subitaneo: — A proposito! Sai quanto ha guadagnato Ferramonti? — Quanto? — Trentacinquemila... — Fole! — gridò Barbati, interrompendo. Soffocava. — Ma che fole! Lo so di sicuro. Federico specificò, togliendo alla notizia qualunque ombra di dubbio. Del resto Rinaldo non ne aveva bisogno. Erasi anzi aspettato una cifra più elevata. La marmaglia del ceto affarista, da vari giorni, parlava dei guadagni sorprendenti di Mario in quel rialzo della “Banca Italica”. Non si capiva d'onde il fortunato briccone avesse cavato fuori dei titoli, dei quali s'era totalmente disfatto all'epoca dell'emissione. Barbati non si tenne. Aveva troppo alla gola l'abbandono di Mario alla vigilia di una così brillante operazione. Inveì contro l'antico socio, contro i Ferramonti in genere. Una razza stomachevole di farabutti. Oh, egli ne poteva raccontare, sul conto di quella canaglia! L'aveva fiutata da vicino, lui! — Non s'era detto di non parlarne mai più? — interruppe Flaviana, ritornata senza che gli altri due se ne fossero accorti. Non volle sentire le scuse del marito; non ce n'erano! La gente onesta non deve sporcarsi a parlare di simili birbaccioni! Poi, furiosa, invitò Federico a portarla via, senza perdere un minuto di più. Quell'incidente da nulla l'aveva assolutamente sconvolta. In sostanza, la rottura coi Ferramonti non aveva somigliato alle solite. I Barbati digerivano ancora il fiele di una disfatta completa, sotto tutti gli aspetti. Essi pure avevano intuito l'abilità ed i segreti disegni d'Irene, e Flaviana, volontariamente, le si era profferta a coadiuvatrice ed alleata, per trarne, col marito, dei vantaggi futuri, quando la fortuna di padron Gregorio fosse passata in mano della scaltra cacciatrice. Trattavasi, insomma, di servire abilmente la Ferramonti per sfruttarla più tardi. A questo patto Flaviana aveva potuto fingere filosoficamente di non accorgersi quali relazioni Irene e Mario cercassero di nascondere. Invece i Barbati avevano dovuto alla fine persuadersi, che la moglie di Pippo mistificava loro come tutti gli altri. Nel salotto di via Torre Argentina, studiando le apparenti contradizioni che davano all'opera della giovine donna uno sviluppo tortuoso ed ondeggiante, essi si erano assopiti, sfibrati in una fiducia pericolosa. Non avevano sospettato d'esser là perchè la Ferramonti li aveva voluti, servendosene per uno scopo affatto diverso da quello da loro imaginato. Il risveglio fu crudele. Flaviana conobbe interamente Irene alla notizia che il matrimonio di padron Gregorio andava a monte, e ch'ella restava incaricata di tener compagnia al suocero, senza che per questo apparisse la probabilità di una riconciliazione fra il padre ed i figli. Poi il nuovo contegno d'Irene compì l'esperimento. I Barbati si accorsero appunto ch'erano stati ciechi stromenti nelle mani di un'intrigante emerita, perdendo, per proprio conto, il loro tempo. Allora deposero le armi. Rinaldo avanzò bensì qualche timida obbiezione su quella vergognosa ritirata; ma Flaviana non lo ascoltò. Ella era, in fondo, una pigra natura, rifuggente dal crearsi dei crucci nella esistenza. Non era neppure orgogliosa al punto di mentire a se stessa. Che serve? Ella aveva paura della Ferramonti. Bisogna ben rassegnarsi, quando non c'è a far meglio. Bastava rammentare ed aspettare. Poteva offrirsi l'occasione di qualche piccola vendetta, al sicuro. Ma l'istinto femminile non si placò interamente in lei. Cercò di contendere Mario ad Irene, impiegandovi tutta la sagacia, tutta l'abilità, tutta la perfidia di cui si sentiva capace. Spogliò la figura della rivale di ogni maschera ipocrita; ne scoprì la putredine e la scelleratezza con una logica stringente, basata sulla osservazione dei fatti, quasi con una ispirazione profetica, le cui fosche conclusioni avrebbero scosso un'indole di granito. Infatti ella vide che Mario pure era scosso, e, per un istante, il cuore di lei palpitò nell'illusione della vittoria. Ma n'ebbe appena per qualche giorno; poi anche quel miraggio ultimo si dileguò. Ella stessa scoprì, senza farsi illusioni, i primi sintomi della rivincita d'Irene. Ed ella stessa sventò gli equivoci, provocando di propria iniziativa una spiegazione franca, che risparmiò la commedia meschina di una separazione strascicata per gradi. Non voleva più udir parlare dei Ferramonti; ma nudrì da quel momento l'idea ferma di una vendetta. Frattanto, si accordava delle distrazioni. XIII. Passarono, uno dopo l'altro, rapidamente, vari mesi. Irene occupava le intere giornate in casa del suocero. Non furono più possibili i ritrovi nel salottino di via Torre Argentina, quantunque i Furlin avessero cercato ogni mezzo per prolungarne l'abitudine. Appunto come due seccatori ostinati, il funzionario e sua moglie continuarono a presentarsi seralmente dalla cognata, fino ai primi giorni di dicembre. Non volevano accorgersi di esserci di più, importuni, non desiderati; spiegavano un coraggio perseverante, degno davvero di causa migliore. Talvolta sorprendevano Irene nell'affaccendamento di una massaia meticolosa, che trova in rivoluzione la casa, e che ha un diavolo per capello. Li salutava appena, invitandoli a sedere, giacchè erano venuti, con quel fare brusco e sgarbato che accompagna le cortesie forzate. Poi si eclissava, lasciandoli delle ore a guardarsi reciprocamente, comparendo e scomparendo ad intervalli rapidi, riuscendo a stancare la loro pazienza, prima di aver barattato venti parole. Altre volte si mostrava oppressa, colle membra rotte da una giornata di fatica, sul punto di andarsene a letto all'ora dei polli, incapace di tener dietro a qualunque discorso. Alla fine, ella ritardò la sua rientrata in casa; non si fece più trovare. Fu il licenziamento completo. Mario e Pippo, dal canto loro, si erano resi irreperibili. Si sarebbe detto che l'accensione dei fanali pubblici producesse l'effetto di bandirli da via Torre Argentina. I Furlin ci subodorarono l'occulta influenza della cognata; glie ne chiesero spiegazione, con delle domande a doppio senso. Ma come seppe risponder, lei! di Mario non sapeva nulla: forse egli aveva qualche intriguccio segreto. In quanto a Pippo, si divertiva. Andava al caffè; aveva preso il gusto del teatro. Povero Pippo! era ben giusto che si divertisse un pochino!... Se i Furlin avessero potuto parlare!... Spasimavano, ruggivano nella loro rabbia di schiavi incatenati; sentivano tutta la rude pesantezza del giogo, che la cognata teneva loro sul collo. Dire ch'essi dovevano vedere, tacere, soffrire, ingozzar tutto, senza avere un mezzo di schiacciar la testa alla vipera! E tuttavia, una parola sola sarebbe bastata per perderla, se il loro interesse non avesse imposto un silenzio assoluto e guardingo; un contegno di cani bastonati che leccano la mano a chi li percuote. Ne sapevano di belle! La decadenza ed il disonore piombavano sulla casa Ferramonti. Le relazioni adultere di Mario e d'Irene rendevansi manifeste, sfidando la pubblica opinione. Quello che rivoltava di più, era l'acconciarsi di Pippo allo sfregio. I Furlin spiavano la cognata per mezzo delle sue donne di servizio; raccolsero così un monte d'infamie; impararono ch'ella non aveva più voluto dormire col marito e che lo aveva mandato a letto, solo, in una stanzuccia la più lontana nell'appartamento dalla camera coniugale. Non si dava davvero pena alcuna di trattare con dei riguardi quel miserabile imbecille; e d'altra parte, non ne aveva bisogno. Egli diventava schifoso d'abbiezione; tremava dinnanzi alla moglie come un ragazzino scemo dinnanzi all'orco, ed avrebbe tenuto il candeliere a quella tal cosa, senza batter ciglio, solo che a lei fosse saltato il capriccio di comandarglielo. All'infuori di tali sfrenate maldicenze, Pippo subiva in realtà una strana trasformazione. Ridiventava l'uomo volgare che Irene aveva saputo dirozzare, e la ricaduta si aggravava con una manifestazione improvvisa di vizi e di corruttele che quell'uomo non aveva avuto mai dianzi. Trascurava la bottega; scialacquava il suo danaro; sfrenavasi in lui il crapulone ed il libertino da trivio. Forse cercava delle consolazioni e degli stordimenti. Nel gennaio i Furlin seppero che aveva preso assolutamente per abitudine il tornare a casa, ogni sera, briaco come un vero maiale. Frattanto Irene mostravasi interamente assorbita nelle cure del suocero. Dapprima gli era entrata in casa coll'aria di una parente alla buona, in visita di confidenza, affrettandosi ostentatamente a tornarsene via, come timorosa di rendersi indiscreta. Poi, a poco a poco, le visite si erano prolungate. Non era più necessario che il vecchio Ferramonti fosse ad aspettarla, e che ambedue dovessero trattenersi insieme, nel salotto dalla vecchia mobilia, che rammentava i tempi passati della famiglia del fornaio. Suocero e nuora si mettevano in libertà. Ella entrava, si liberava del cappellino, dei guanti, di tutti gli amminicoli della teletta per fuori; e se padron Gregorio non c'era, lo aspettava, facendo il proprio comodo. Egli a sua volta usciva, rientrava, la lasciava, la ritrovava, come se fosse di casa, assolutamente. Una stanza dopo l'altra, ella penetrava in tutti i cantucci; cominciava a mettere le mani sugli oggetti per pulirli, o per cambiarli di posto. Arrischiava delle osservazioni, sempre più precise, alla serva di casa, che si abituava a trovarsela ogni momento fra i piedi. Era una lenta presa di possesso, di cui tutte le mosse, calcolate e prudenti, diventavano una concatenazione di conseguenze logiche ed inevitabili. Una domenica, suocero e nuora pranzarono insieme. Padron Gregorio, abituato da lungo tempo a mangiar solo come un cane, non rammentava una simile festa intima. Una volta assaporato tale piacere, egli sentiva di non potervi più rinunciare. Se Irene gli voleva bene, doveva pensarci sul serio. D'altra parte, che era quel continuo sgambettare tutta la giornata da Torre Argentina al Pellegrino, e dal Pellegrino a Torre Argentina? Non c'era senso comune. Egli aveva ragione: Irene andava da lui la mattina, fra le nove e le dieci; restava fino al tocco, e tornava verso le tre, per tutto il resto della giornata. Allora parve persuadersi lei pure; non trovò in ogni modo obbiezioni valide da contrapporre; ed anche quelle momentanee assenze cessarono definitivamente, a cominciare dalla domenica successiva. Irene fu la regina della casa; prese a governarla a suo talento, istigata, pressata, spinta dal suocero. Cambiò, rinnovò, trasformò quel semenzaio di tarli, quello stringicore di vecchiume e di abbandono. Ella ebbe una stanza esclusivamente sua; un letto di ferro vuoto, pel caso che se ne dovesse servire; belle cortine a ricami, un tappeto, un comò di palissandro, un grande specchio, dei fiori artificiali, un amorino colle poltroncine e le sedie di accompagno, un pouff, una teletta grandissima ed uno scrittoio. Un lusso da camera mobiliata, che Ferramonti non sarebbe arrivato mai a mettere insieme da sè. Erasi affidato al tappezziere, ordinando che non si badasse a spese. Era il presente a sorpresa che il suocero volle fare alla nuora; e quella galanteria di camera, tappezzata pure a nuovo da una carta di Francia, dove strillava un luccichio di fiori d'oro sopra un fondo celeste pallido, divenne il sacrario di Irene, l'angolo che nessuno, neppure padron Gregorio, poteva profanare, senza il permesso della giovine donna. Il vecchio palpitò di gioia, quando seppe che Irene aveva fatto portare in camera sua delle robe sue: abiti di ricambio, sciarpette, biancheria, oggetti minuti che una donna desidera trovarsi sempre sotto mano. Dunque lei ci si trovava bene, là dentro, eh? Ci si acquartierava, ci accomodava le cosucce sue! Manco male! egli era riescito una volta a contentarla! Del resto egli era commosso dell'abnegazione della nuora. Bisogna proprio dire, che qualche volta ne scendono ancora degli angeli sulla terra! E spesso il vecchione, rammollito dalla tenerezza, fantasticava degli affanni segreti, dei rimpianti misteriosi, delle malinconie mute e dissimulate, in quella giovine bellezza, che si sacrificava per lui. Ella aveva abbandonato per lui tutto: lusinghe di vanità, svaghi, piaceri. Per amore di un vecchio brontolone, si era completamente esiliata dal mondo che pur confessava tuttavia di amar tanto!... Che destino imbecille, quello degli uomini! S'invecchia nella fatica e nei dispiaceri per incontrare la creatura che vi dà tutte le delizie del paradiso, quando il corpo è logoro e non resta che aspettare la visita del becchino! Era una sciocchezza inesplicabile: il pensiero di padron Gregorio volgeva spesso ad idee funebri, con raccapricci nuovi ed acuti. Più di sovente erano brusche sorprese della sua sensibilità alterata, alle quali era estranea qualunque causa esterna, qualunque associazione d'idee. C'era il caso di vederlo impallidire e fremere all'improvviso, nel mentre una barzelletta gli usciva dalle labbra; cambiare un sorriso d'uomo soddisfatto ed allegro, in una espressione strana di spavento e di angoscia. Allora certe frasi, certe parole, rivelavano quali fantasmi agitassero la sua imaginazione; cose davvero dell'altro mondo! Per fortuna, Irene era pronta a redarguirlo ed a scuoterlo. Non ne voleva sentir parlare, lei, di simili sciocchezze! ... Per tal modo i vaneggiamenti di padron Gregorio restavano come parentesi brevi e passeggere nel sereno trascorrere di una esistenza accarezzata dal soddisfacimento d'ogni desiderio. Il vecchio diventava un vero sibarita. Irene lo avvezzava ad amare le cose linde, l'abitazione ben governata, la persona rinvigorita dal bagno. Padron Gregorio trovava la mensa candida e smagliante, ornata spesso da un mazzo di fiori freschi, e non aveva mai mangiato così bene. I brodi consumati e fragranti e le leccornìe delicate che la nuora gli faceva trovare ogni giorno, mettendosi tante volte lei stessa a cucinare, gli rammentavano i beveroni ripugnanti e le pietanze inqualificabili di cui s'era avvelenato per tutta la vita; e gli pareva di sentirsi male quando non riusciva a cacciar via subito tali ricordi. Che differenza! ... E la squisitezza dei cibi era il meno. Il pranzo dissipava gli ultimi riserbi esistenti tra suocero e nuora; eccitava una piena e gioconda effusione, una libera confidenza. Padron Gregorio arrischiava dei madrigali all'indirizzo della giovine donna. La trovava così bella da far dannare Sant'Antonio. Ridevano molto. Si lasciavano scivolare sulla china di scherzi provocanti, ed Irene non comprendeva le occhiate, i sorrisi ed i sospiri concupiscenti del suocero. Lei pure, del resto, aveva dei subitanei rossori, degl'imbarazzi inesplicabili, delle fiamme vive negli occhi profondi. Veramente, scherzavano col fuoco, ambedue. Certi giorni la loro tenerezza non si appagava di semplici parole. La nuora, con la cieca ingenuità di una bambina, spingevasi fino a sedere sulle ginocchia del suocero, per accarezzarlo colle mani gentili, per tenere il suo viso acceso di vecchio, vicinissimo al proprio, splendido di gioventù e di bellezza. E sempre, ella odorava di quell'odore inebbriante di verbena! Rideva a sentire il suocero fremere tutto sotto di lei. Soffriva egli dunque molto il solletico? Ma non mancava qualche nube, in quella felicità, chiusa nel segreto di quattro muri, e profondamente egoista. L'imagine degli altri Ferramonti veniva a turbarla, di tanto in tanto. Erano delle circostanze lievi, delle insidiose associazioni d'idee; specialmente il pensiero fisso che Irene aveva un'altra casa dalla quale veniva ogni mattina, e dove era obbligata a ritornare ogni sera. Allora suocero e nuora si sorprendevano a parlare di Pippo, di Mario, dei Furlin. Per un pezzo ella sostenne ammirabilmente la sua parte d'angelo della pace, moderando i trasporti appassionati del suocero, ingegnandosi a trovare pel marito e pei cognati delle attenuanti; mostrando di cullarsi in una vaga speranza di pentimenti e di perdoni. Ma, a poco a poco, padron Gregorio sospettò che tale contegno mascherasse in lei profondi sconforti. La difesa, una volta spontanea ed energica, diventava sempre più incerta, non dissimulava certe amare inflessioni di voce; era interrotta da certi sospiri improvvisi. Infine, il segreto affanno che stringeva il cuore d'Irene, scoppiò. Buon Dio! il destino non era giusto con lei! E quella esclamazione sfuggitale, fu il preludio di nuove confessioni. Ella doveva riconoscere che padron Gregorio trattava i suoi figli assolutamente come si meritavano. Tutti i sogni di lei svanivano. Aveva voluto fare di suo marito un uomo ricco e stimato; per un istante aveva creduto d'esserci riuscita; ed ora doveva crudelmente disingannarsi. Pippo non l'ascoltava più; trascurava il negozio fiorente; s'impantanava nei vizi; s'imbestialiva, come per ricattarsi di aver qualche tempo vissuto da uomo per bene in mezzo a gente per bene. Era una disperazione! E i Furlin!... Essi la odiavano. Ostentavano di sprezzarla pel suo ritiro completo dal mondo. La dipingevano nello stesso tempo come un'idiota e come una scellerata. Credevano ch'ella volesse derubarli e proclamavano che glie lo avrebbero impedito, a qualunque costo. In tali espansioni Irene trasaliva, presa da angosciosi smarrimenti; qualunque cosa sapesse dirle il suocero, ella non riusciva a frenare i propri raccapricci, e li dissimulava soltanto per fargli piacere. Lei sapeva quello che sapeva. Aspettava; era preparata a tutto; non si sarebbe maravigliata di nulla. Gli amici di Ferramonti si guardavano bene dal riferirgli i pettegolezzi poco edificanti che cominciavano a circolare pel quartiere sul conto della sua diletta nuoruccia. Ma un giorno egli rimase colpito di certe parole dettegli appunto come per caso, e con perfetta bonomia, da un conoscente. Costui, la sera antecedente, aveva incontrato Irene in compagnia di Mario. Parve alludere ad altri simili incontri, come se quel passeggiare della giovine coppia per le strade della città fosse un'abitudine nota. E mentre l'amico ciarlava, padron Gregorio rifletteva ad una circostanza dianzi sfuggitagli: Irene non aveva mai pronunciato una parola ostile contro Mario; non aveva detto mai nulla, che potesse fargli torto. Ma perchè aveva ella taciuto sempre, che Mario l'accompagnava? Egli volle delle spiegazioni. Le ottenne, complete. In realtà, spessissimo, Irene si faceva accompagnare a casa dal cognato. Accadeva specialmente quand'ella indugiavasi troppo dal suocero. Aveva pregato Mario di darsi la pena di passare, verso le ventiquattro, da Torre Argentina, e di venirle incontro fino a Campo di Fiori, se non era ancora rientrata in casa. Non aveva altro mezzo per evitare di trovarsi sola, di notte, nelle strade più turbolente di Roma. E non ne aveva mai avvertito il suocero, per motivi ch'egli poteva bene imaginare. Poi l'incidente le valse per riprendere coraggiosamente la difesa del cognato. Bisognava almeno rendere a Mario questa giustizia: che egli era pieno di gentilezza e di riguardo. Nessun altro si sarebbe preso un incarico uguale, una vera seccatura, che lo esponeva, quando i loro incontri mancavano, a restare delle ore in sentinella su e giù per Campo dei Fiori, a sorvegliare lo scarico dei broccoli e delle rape. D'altra parte, Mario la metteva di buon umore. Ella voleva che questa facile vena di gaiezza fosse comunicativa anche per padron Gregorio. Il primogenito di casa Ferramonti cominciò ad entrare quasi ogni giorno nei discorsi fra suocero e nuora, sempre colla grata provocazione di qualche scherzo. Pareva che Irene ignorasse la leggenda che attribuiva al giovinotto una paternità equivoca; ma certo non lo credeva impastato alla foggia degli altri Ferramonti. Insomma, gli trovava mille buone qualità; lo proclamava simpaticissimo. Egli aveva pure dei difetti, senza dubbio: la storditaggine, la disposizione marcata alla vita dei piaceri: potevasi anche concedere che fosse stato guasto dalle eccessive indulgenze materne; forse dalle cattive compagnie. Ma, e poi? Vi è sulla terra una sola creatura, uomo o donna, che possa dirsi perfetta? Così un tacito consenso l'autorizzò a valersi apertamente della cortesia del cognato. Gli oziosi potevano sbizzarrirsi a piacere: Irene riabbandonavasi alle sue audacie di donna che sfida il mondo, dopo averlo voluto ingannare coll'ipocrisia. Mario spingevasi fino in via del Pellegrino; compariva ormai tutte le sere. Quell'incontro notturno che faceva passare dinnanzi agli sfaccendati un uomo giovane ed una donna giovane, stretti insieme a braccetto, come due sposi nella luna di miele, diventava un'ostentazione. Potevano seguirli dal Pellegrino a Torre Argentina; vederli perdersi dentro un portone donde non uscivano più, nessuno dei due. C'era da farci dei giudizi temerari anche a non averlo voluto. E le storie più stravaganti si diffondevano, accreditandosi nella folla che aveva visto nascere e crescere la famiglia Ferramonti. Poi bisognava esser laggiù, fra l'angolo di via Larga e lo sbocco di Campo di Fiori, per assistere allo spettacolo. L'apparizione di Mario era un avvenimento. I chiacchiericci tacevano, affogati nella curiosità universale che si concentrava sul giovanotto; dei gruppi formavansi negli angoli scuri dei vicoli e sulle soglie dei portoni; dei bottegai dimenticavano la clientela per correre sull'uscio a spiare. Il momento solenne era il ripassare di Mario colla cognata. La coppia rifaceva la strada contorta ed angusta, nella luce rossastra dell'illuminazione, che arroventava il polverìo sottile sollevatosi dal selciato e sbatteva sulle muraglie bige e gobbe delle vecchie case. La seguiva un'onda di pensieri osceni; come un dilagamento di sogghigni equivoci e di occhiate impudenti. E quel grande strepito, quel fremente formicolìo di vita plebea, eruttato dal lerciume degli anditi, trovava un'ebbrezza acre ed inconsueta a sfrenarsi colle intemperanze ciniche dell'epigramma da postribolo, su quelle due figure recanti nel pandemonio il turbamento e l'incongruenza di un'apparizione elegante. XIV. Sul finire di febbraio, all'avvicinarsi dei dieci giorni che riassumono le grandi follie dei carnevale popolare, Ferramonti prese ad insistere perchè Irene si pigliasse qualche svago. Ella aveva torto: mostravasi troppo non curante di quello che le sue conoscenze avrebbero potuto dire o pensare di lei. Bastava già l'essersi rintanata, volgendo le spalle alla società distinta che l'aveva festeggiata, e sulla quale avrebbe potuto utilmente contare, all'occasione. Non aveva ella stessa pensato, una volta, che la sporca condotta di Pippo l'obbligava a mostrare in qualche modo di non averci colpa col far vedere che non era mutata, lei? Dunque, doveva risolversi. Non la cercavano forse ancora? Non la invitavano tuttavia? Perchè risponder sempre con delle sgarberie? Mario l'avrebbe accompagnata senza farsi molto pregare. Ebbene, non c'era bisogno d'altro. Padron Gregorio non lasciava scorgere tutto il suo pensiero: egli avrebbe ben preferito che Irene restasse con lui; ma capiva che, in fondo, gli sarebbe stata gratissima di trovarsi costretta a fare il contrario. Era giovine, bella, portata per istinto ad amare certi piaceri e certi splendori della vita. Diceva di no per pura abnegazione, e l'antico fornaio aveva un occhio abbastanza esercitato, per sorprendere le improvvise astrazioni ed i lievi sospiri ch'ella non sapeva dissimulare, quando certi discorsi venivano in campo. Egli non doveva pensare solamente a se stesso, per riuscir poi a far languire di noia e di tristezza quel vago fiore. Allora prese un contegno risoluto: comandò, non fu pago se non quando la giovine donna gli ebbe dichiarato di assoggettarsi alla sua volontà, per fargli piacere. Proprio così: non volle ammettere che il suocero aveva pure secondato qualche di lei piccola tentazione; mostrò ostinatamente di averlo ubbidito a controgenio. Egli avrebbe potuto rivelarle il perchè vero delle proprie insistenze, e soggiungere che s'era in tempo ancora di non farne nulla; ma non ne ebbe il coraggio. Parlò di un vestito che voleva regalarle per la prima festa alla quale sarebbe intervenuta. Ella accettò, con una delle sue effusioni di riconoscente tenerezza. Mario non fu punto sorpreso della riuscita felice di quell'abile stratagemma: non ne aveva mai dubitato. Era saltato in testa a lui stesso il capriccio di veder Irene riapparire nel mondo, in mezzo alle feste carnevalesche, ed egli stesso aveva imposto alla giovine donna di trovarne il modo. Fu una fantasia subitanea ed imperiosa di amante, che Irene non riuscì a sventare, punta forse a sua volta da una sorda tentazione delle ebbrezze e degli stordimenti che il disegno prometteva. In realtà Mario, come tutti gl'innamorati, facevasi sempre più esigente coll'andare innanzi. Forse ai suoi dubbi di scettico, ed alle sue paure d'uomo sedotto, occorrevano prove rinnovate e continue ch'egli dominava quell'indole forte di donna, alla quale nessun altro resisteva. Insomma, un sospetto confuso che Irene potesse sfuggirgli, restava ad avvelenare il suo amore, determinando certe esigenze, che rendevano dispotica la sua relazione con lei. Egli dimenticava i motivi di cupidigia che lo avevano in origine avvicinato alla cognata: voleva lei soprattutto, anzi solamente. E fantasticava di giuocare la posta più grossa nella partita, inducendo Irene a lasciare in pace il suocero ed il suo danaro, per prendere il largo con lui. Non sarebbe mancato il mezzo di utilizzare altrove due intelligenze e due energie risolute e pratiche, che la comunanza dell'opera avrebbe reso onnipotenti. E però egli affrontava a cuor leggero lo scandalo, che spesso tornava ai suoi calcoli provocare. Bisognava ch'egli diventasse assolutamente il solo rifugio e la sola speranza di Irene. Dovevano in lei diventare una sola l'idea di perderlo e quella di trovarsi perduta senza mezzo alcuno di salvezza. Indipendentemente da ciò, egli amava la cognata con trasporti d'imaginazione e di sensualità crescenti. Era ben lontano il tempo in cui la giovine donna lo aveva esasperato, dandoglisi colle angosciose rassegnazioni di una vittima. Nei trasporti corrisposti d'adesso, egli trovava altre acredini da farlo impazzire. Mai, neppure per un minuto, la sazietà! sempre la febbre, sempre il delirio, sempre un fascino strano, indicibile! Era l'eterna passione dell'amore mantenuta al suo grado massimo, attraverso una vicenda continua, una ridda di malinconie, di giocondità, di violenze, di slanci e di abbandoni: una cosa che non si traduce nell'umano linguaggio. Mario divanzava senza paragone Irene. Le pazze idee venivano sempre da lui: la voglia di veder l'amante in acconciatura di visita, inguantata, col cappellino, quando non avevano da fare altro che starsene insieme; di condurla a cena quando avevano lo stomaco pieno; di correre a notte alta, col freddo e colla pioggia, le strade della città, nel fondo protettore e discreto di un legno chiuso. Spesso, come cedendo ad un'attrattiva di romanticismo ignoto ad ambedue, portavano le loro febbri nelle solitudini del Colosseo, ai bagliori di una notte illuminata dalla luna, o nelle alture del Gianicolo, dinnanzi alla gran città, radiosa e fremente di confusi strepiti e di arcani sospiri. Irene cedeva all'amante con una docilità assoluta, trovando sempre il modo d'essere quello che i capricci ed i pervertimenti della passione di lui desideravano che fosse. Ella sapeva prendere tutte le fisonomie della donna che ama e che si abbandona al piacere. Mario non aveva mai visto e nè pure imaginato mai nulla di simile. Egli manteneva lealmente gl'impegni presi al principio della sua relazione: era rimasto l'agente d'affari particolare d'Irene, conducendo innanzi una serie di speculazioni ardite per conto esclusivo di lei. Agiva in piena libertà; ma sui primi di ciascun mese, quando portava alla giovine donna i profitti realizzati colle liquidazioni, i loro ardori svanivano nel linguaggio calmo e preciso degli affari, nella preoccupazione e nella ingordigia del danaro. Per mesi e mesi, Mario, come se avesse posseduto qualche miracoloso talismano, non aveva commesso il più piccolo errore; aveva visto la fortuna sorridergli, amica costante. Con un po' più di ardire e di fiducia da parte d'Irene, egli avrebbe potuto farle guadagnare dieci volte di più che non gli fosse riuscito; ma, a questo proposito, ella era inflessibile nelle idee. Ella destinava una parte meschinissima dei suoi profitti ad aumentare le prime mille lire affidate a Mario. Accumulava il resto, senza impieghi, nascondendolo alla vista di tutti, evitando di parlarne anche incidentalmente. Il solo Mario sapeva ch'ella era in possesso di somme rilevanti ed infruttifere, e non rifiniva dal ridere al sentirla negarglielo a lui stesso, a faccia tosta, quando ne capitava l'occasione. Ma egli intuiva nella giovine donna un'altra passione, così bene dissimulata, che lo spirito più acuto le avrebbe invece attribuito il difetto contrario: la passione del danaro che si ha sotto mano, che si può accarezzare, palpeggiare in segreto, inebbriandosi del suo luccichìo, quando è d'oro e d'argento, e dei suoi rabeschi multicolori, quando è rappresentato da un pezzo di carta. Era, per Mario, la suprema caratteristica di valore e di forza nel temperamento femminile: egli aveva decisamente trovato una donna completa. Ebbene, Irene accumulava in realtà molto meno di quanto egli pensava. Ella sosteneva ormai tutte le spese della casa, nella quale, volendolo, avrebbe potuto risparmiarsi di metter mai più il piede. I guadagni della bottega di ferrarecce squagliavansi prodigiosamente. Anzitutto il traffico, abbandonato in mano di commessi, che si perfezionavano nell'arte dei prestigiatori colle scorte di magazzino e coi fondi dei cassetti, volgeva al disastro; poi Pippo era diventato un pozzo di San Patrizio, coll'eterno bisogno di rifornirsi la saccoccia. Mario non sapeva, che una gran parte delle somme da lui consegnate alla giovine donna sfumava misteriosamente a rattoppare le falle della barca a Sant'Eustacchio. Però sapeva che Irene occupavasi di nuovo, ad intermittenze, della bottega. Alcune sere, uscendo da casa del suocero, ella andava a sorprendere i commessi, trattenendosi delle mezz'ore ad interrogare, ad informarsi, a verificare lo stock, a consultare i libri ed a disporre. Altre volte i commessi andavano a casa da lei, invitati a farlo. Succedevano lunghi colloqui, ai quali Mario non era mai chiamato ad assistere. In sostanza, poteva convenire ad Irene che fosse nota la condotta indegna di suo marito; ma non doveva convenirle del pari, che le difficoltà commerciali della loro casa, dipendenti appunto da tale condotta, arrivassero fino agli estremi di una catastrofe. Da parte sua, Pippo, nonostante un abbrutimento che aveva delle spaventose progressioni, doveva conservar netto l'intuito dell'utile che ritraeva dalla moglie. Era il marito più compiacente e più liberale. Alla sola condizione che lo lasciassero vivere a modo suo, risparmiandogli prediche inutili, non si opponeva affatto che Irene si sbizzarrisse la notte col cognato, dopo essersi sbizzarrita il giorno col suocero. Egli, poi, era orgoglioso di una tal donna. Andava celebrandone la bellezza e lo spirito, alludendo nebulosamente ad una grande fortuna che gli sarebbe venuta da lei. Anche verso Mario ostentava l'ammirazione di un fratello verso il fratello da cui la famiglia riceve lustro ed onore. Lo diceva un uomo destinato a far vedere di che cosa fossero capaci i Ferramonti. Con un pallido sorriso d'ubriacone, concludeva che i Romani, pel momento, non se lo potevano neppur figurare. Qualche volta però diventava fastidioso: Irene e Mario se lo vedevano comparire impensatamente davanti, ad inframmettersi nei loro colloqui intimi con certe verbose tenerezze d'otre pieno di vino. Pretendeva ch'essi fossero le sole creature rimastegli da amar sulla terra. Gli altri, tutti, anche i Furlin, lo avevano abbandonato, mentre sentiva tanto il bisogno di vedersi intorno facce amiche e cuori affezionati pronti a soccorrerlo. Che serve? Sapeva ben lui, quello che voleva dire. Se si pigliava qualche distrazione, era per mandar via i cattivi pensieri. Non avrebbe dimenticato mai quel che doveva a sua moglie ed a suo fratello. Aveva delle cupe inflessioni e delle occhiate livide, che mettevano addosso sordi brividi. Ma la sicurezza dominatrice d'Irene verso quello schiavo abbrutito incoraggiava anche Mario. Per tal modo i due amanti non si davano un pensiero dello sciagurato; non ne avevano riguardo alcuno; arrischiavano vicini a lui, quasi in sua presenza, audacie incredibili. E risolvendo di prender parte ai divertimenti degli ultimi giorni di carnevale, non si curarono affatto di renderlo avvertito. A quale scopo? La riapparizione d'Irene nel mondo, fu una sorpresa, un trionfo; l'eccitamento supremo di mille indiscrete curiosità accerchiarono quella giovine donna così misteriosa, di cui s'era parlato già tanto. Ella irritava intorno a sè le invidie profonde delle donne oneste, che non potevano imitarla nell'audacia insultante della colpa di cui dava spettacolo e che sarebbero state incapaci di meditare i progetti attribuitile. Degli uomini a dozzine avrebbero commesso pazzie per soppiantar Mario, fosse stato anche solo per una notte, per un'ora, per un istante rubato alla vigilanza di un geloso. Essi, i due amanti, ne trassero come una specie di ubriachezza. Le cose lecite, permesse dal vecchio Ferramonti che ne ascoltava da Irene i minuti ragguagli sbalordito, non bastarono loro più. Li ghermiva il fascino di qualche cosa di nuovo, d'ignoto, di stravagante, di misterioso. Mario specialmente si montava la testa: ai veglioni pubblici lo eccitavano i successi plastici delle mascherine più elegantemente e più arditamente scoperte; voleva che Irene, per lui, sapesse diventare più provocante, più audace, più seducente, in un fascino di etèra, che non fossero tutte quelle altre ragazze dalla vita allegra, prese insieme. Allora un folle progetto si maturò rapidamente nel suo spirito. Prima non ebbe il coraggio di esporlo; ma questa riluttanza momentanea lo esasperò; quand'egli parlò ad Irene di condurla al veglione mascherata con un costume procace, fu quasi per imporglielo. Si maravigliò di trovar resistenza; non voleva sentire obbiezioni. Di che cosa aveva ella paura? Certamente lo starsene con lui, vestita in maglia di seta piuttosto che in gonnella, non mutava affatto i loro rapporti. Bastava non confidare ad anima viva quella pazzia. Egli l'avrebbe fatta passare per una conquista di veglione. Corsero rischio di disgustarsi sul serio. Irene resisteva coll'energia dei suoi pregiudizi allarmati. Com'era possibile scendere a tali indecenze degne di una meretrice? Bisognava proprio credere che Mario non l'amasse e non la stimasse menomamente. Egli la trattò da sciocca. Lo sapeva ben lei se l'amava e quanto l'amava! Pel caso che lo avesse dimenticato, era sufficiente che lo guardasse. Ed in realtà le metteva dinnanzi una figura sconvolta, in cui la passione aveva espressioni sovrumane, uno scoppio di febbri contagiose, che turbavano potentemente la donna. Allora Irene fu vinta, ed una volta ceduto, i due amanti dimenticarono il dissidio, per regalarsi un'anticipazione di piacere turbolento nel figurarsi il piacere che li aspettava. Vissero ventiquattr'ore nelle smanie dell'impazienza. Era la mattina del lunedì grasso. La sera dopo, avrebbero fatto un'apparizione alla festa di un Circolo dov'erano invitati, fino alle undici; poi sarebbero tornati a casa perchè Irene potesse indossare il suo costume da maschera, e sarebbero andati al Politeama. Naturalmente, non c'era un minuto da perdere. Quella mattina, padron Gregorio vide la nuora soltanto verso il mezzodì. Ma le ore da lei occupate altrove, erano state messe molto bene a profitto. Veramente, Mario sapeva a perfezione il modo di far fare dei miracoli alla gente. Prodigava il danaro colla generosità di un principe; offriva il doppio di quello che gli domandavano, purchè non gli parlassero di difficoltà. Scelsero un costume del Direttorio, di raso perla: le braccia nude, le spalle nude, il seno scoperto fino quasi ai capezzoli, la cintura sotto le mammelle, la veste stretta, tagliata sulla coscia sinistra. Sotto, la maglia carnicina, la calza bianca, gli scarpini scollati di raso; tutt'insieme un amore, una meraviglia costosissima. Il martedì sera, nel rientrare in casa, Irene trovò pronto ogni cosa. Ebbe sensazioni ineffabili, come di una vergine che sta per vestire il suo abito da sposa. Era insieme la paura ed il fascino: un domandarsi confuso se avrebbe avuto mai il coraggio di vestirsi a quel modo, ed una intollerante impazienza di farne la prova. Che male ci sarebbe stato a lasciar la festa del Circolo? Per padron Gregorio si poteva agevolmente mettere insieme un racconto di fantasia. Infine, non andarono. Aspettarono invece in casa le undici. E carnevale, attraverso le chiuse finestre, filtrava gli strepiti della strada popolata, il roteare continuo dei legni, i gridi delle maschere, le mandolinate delle numerose comitive. La follìa grande della città confondeva in un solo fremito le sue varie espressioni, attenuandosi come un sospiro e ringagliardendosi come un ruggito a brevi intervalli. Mario servì lui stesso da cameriera alla giovine donna, con un amore orgoglioso d'artista. Fu un lavoro lungo e strano, interrotto sovente da chiassose ammirazioni e da pazzi trasporti. Poi, quando Irene, completamente abbigliata, prese a camminare dinnanzi all'amante con certi atti birichini, con un molleggiar canagliesco dei fianchi, che lasciava apparire istantaneamente dall'apertura della gonna la gamba sinistra, come nuda sotto la maglia carnicina, la giarrettiera scarlatta sulla calza bianca ed i piedini arcuati nelle scarpette di raso, allora fu un'esplosione: era un prodigio! non s'era visto mai nulla di simile! E dire ch'ella a principio aveva voluto rifiutarsi!... — Mi pare che possiamo andare, — diss'ella. — Perchè non scendi a ordinare il legno? Mario si alzò da sedere. La vide presso il letto, occupata intorno alla maschera che doveva mettere ed al mantello col quale si sarebbe coperta strada facendo. Le sorrise e ad un tratto mutò pensiero. Si lasciò ricadere sulla poltroncina dianzi occupata ed invitò la giovine donna colla voce e col gesto: — Senti... — Come? non vai? — esclamò lei sorpresa: — perchè? — Adesso andrò, — diss'egli astratto; e dopo un istante di silenzio, replicò l'invito: — Senti... Irene lo guardò, lo comprese. Rise, alzando le spalle con un moto vivace. Prese il mantello: aveva freddo. — Lascia stare un minuto soltanto! — pregò Mario con un'inflessione profonda della voce. — Perchè resti laggiù? Non ti ho vista ancor bene... vieni qua. Ella scosse il capo, superiore a quella nuova ragazzata; ma non seppe negare il favore che l'amante le domandava. Gli si avvicinò com'egli aveva voluto; gli restò dinnanzi, aspettando ch'egli l'attirasse maggiormente a sè. Ebbe un sorriso provocante. — Ebbene?... Mario alzò le braccia verso di lei. — Sei tanto bella... Soffocarono ambedue, nello stesso tempo, un grido. Irene indietreggiò con uno slancio; Mario balzò in piedi: Pippo, entrato senza che essi ne avessero neppur sospettato l'avvicinarsi, stava fra loro guardandoli. Egli rideva, con un ghigno indefinibile nel volto fattosi di un terreo pallore. Balbettava con la voce grossa di un uomo ubriaco. Li aveva colti sul più bello, eh? Che! forse non lo avevano creduto capace di sorprendere i loro segretucci? Non si moveva dal posto, dove pareva aver messo radice. I suoi occhi vagabondi andavano dal fratello, a destra, alla moglie, a sinistra, e da questa a quello, di continuo, pieni d'ironia. Alzava le mani agitate da una vaga convulsione, accennanti ad un pensiero intimo e cupo, che non trovava il modo di esprimersi. Essi, atterriti, aspettavano di udirlo rimproverare l'adulterio. S'ingannavano. A poco a poco Irene assorbì l'attenzione di lui, invadendolo di una meraviglia sguaiata. Per Cristo! che invenzioni eran quelle? Ecco che cosa voleva dire aver un po' di talento, un po' di spirito, un poco di gusto ed un corpo da dea Venere, che faceva venir voglia di morderla a baci. C'era forse in tutta Roma un'altra donnina così appetitosa? Avvertì senza dubbio una muta collera sulla fronte di Mario; un disprezzo freddo nella contrazione del labbro d'Irene. Rise ancora bestialmente. Cambiò discorso: — Ma si può sapere perchè avete avuto questa bella pensata! Uno scopo ci ha da essere stato, mi pare! Perchè? Suvvia! siete niente rimbecilliti? — Un capriccio, — spiegò Mario, sorprendendo un'espressione feroce nell'impazienza del fratello, e durandogli come un sordo presentimento di qualche soluzione tragica. — Sono stato io. Ho voluto che Irene si mascheri, una volta tanto, per prova, come fanno tutti. — Bene! — approvò Pippo energicamente. — S'è scelto un costume molto di moda... — Bene! — Faremo una corsa al Politeama... la cosa di un momento, per dire di esserci stati. — Perchè? Non ci sarebbe sugo, — osservò l'ubriaco. — Bisogna restarci fino alla fine. Vi ci divertirete, ragazzacci! Vedete: se potessi, vorrei anch'io venire a darvi un'occhiata... Si volse di nuovo alla moglie. Ma vedendo ch'ella s'era gettata sulle spalle il mantello, gettò quasi un grido. — Che idea è questa? Lèvati gl'impicci di dosso: fàtti vedere! Mosse alcuni passi verso la giovine donna. Ella balzò indietro muta, invocando con uno sguardo inesprimibile il soccorso di Mario. Questi fermò per un braccio il fratello. E per un lungo istante i tre si guardarono, pallidi e frementi. Infine, Pippo indietreggiò svincolandosi. Il ghigno sarcastico dell'ubriacone ricomparve. Egli si giustificava: — Hai creduto volessi mangiartela, la tua mascherina? Scioccone che sei! volevo soltanto vederla. — Lasciala in pace, — disse Mario: — ha freddo. — È un'altra quistione. Bisognava dirlo subito. Ma io vi secco, non è vero? Via, siate franchi; confessatelo. Ebbene! io sono un buon diavolaccio, io! me ne vado: divertitevi. Si ritirava infatti; raggiunse la porta; sparì. Mario ed Irene, nel silenzio in cui dormiva la casa, sentirono il suo passo pesante allontanarsi. — Non perder tempo! — bisbigliò Irene con voce concitata: — va' subito ad ordinare il legno. Ma che cosa aspetti? Va' dunque! Lo spinse fuori per le spalle; poi, rimasta sola, cadde sopra una sedia. Ella aveva paura; e per la prima volta comprendeva d'essersi impigliata volontariamente in un laberinto di pericoli assurdi. L'adulterio l'aveva fatta schiava del marito e dell'amante, inutilmente. Ella vi si era abbandonata per viltà, volendo sopprimere con tal mezzo un ostacolo dalla parte del cognato, senza pensare alle conseguenze peggiori cui era andata incontro. Avrebbe potuto farne a meno: era stata una sciocca; l'opera sua mancava. Aveva, infatti, voluto impadronirsi delle sostanze del suocero, per essere un giorno ricca, felice, e soprattutto ammirata, stimata e rispettata dal mondo. Ebbene, dopo quel che avveniva, come poteva dirsi ancora possibile l'effettuazione di tale sogno? Trasse un gemito soffocato. Si ribellava. Cercava angosciosamente un mezzo d'uscire dalla orribile posizione creatasi. Sentiva che in quel momento avrebbe rinunciato anche alla fortuna del suocero, pur di cancellare il passato. Ma se ciò era impossibile, perchè lo sarebbe stato del pari... Udì un rumore di passi cauti, ed ebbe appena il tempo di rialzar la testa. Aveva Pippo nuovamente dinnanzi. Lo interrogò balbettando. — Perchè sei tornato? Egli non rispose. Guardava intorno, frugando gli angoli, deluso. Alla fine, a propria volta, interrogò: — Dov'è? — Chi? — Mario. — Che t'importa? Pippo non rispose. Marito e moglie guardaronsi lungamente. Un fremito agitava le narici e le labbra livide dell'uomo. Irene lo comprese; dissimulò il freddo raccapriccio ond'era invasa. — Impazzisci davvero? — diss'ella: — ti seduce, per caso, l'idea di un po' di galera? Ebbene! Mario torna a momenti. Coraggio! fagli trovare tua moglie sgozzata. Con un gesto teatrale, gettò lontano il mantello che la copriva. Rimase col petto nudo, aspettando che il marito la colpisse. Egli invece piegò sotto un fascino doloroso; agitò le labbra convulse, e per un istante parve attratto da una forza misteriosa verso la giovine donna. Poi la stessa forza lo respinse. Camminava inconsciamente all'indietro, verso la porta di uscita. Due grosse lagrime scesero lente da' suoi occhi smarriti, rigandogli silenziosamente le gote. E sparì. Irene raccolse il mantello, se ne avvolse, si pose il cappellino del costume in testa, affrettandosi convulsa, raffazzonando ogni cosa in pochi minuti secondi. Non si contentò di non veder più il marito e di non sentirlo. Lo cercò, attraverso il buio appartamento, ponendosi ad orecchiare cauta alla porta dello stanzino che gli serviva da camera da letto. Ed ella respirò più libera, nell'udire i singhiozzi dell'uomo domato e le scosse del lettuccio dov'egli si avvoltolava nella crisi del suo dolore. Non ebbe alcun senso di pietà; si allontanò in punta di piedi, sollevata, quasi ebbra. Mario riapriva la porta delle scale. Lei gli corse incontro senza dargli tempo di entrare; discese, dimenticando due candele rimaste accese in camera. XV. Il sabato successivo, di prima mattina, Pippo, all'uscire dal suo bugigattolo, trovò la moglie che lo aspettava. Non si erano più visti dopo la scena dell'ultima notte di carnevale. — Non so se potrò tornare a casa stasera, — annunciò lei: — papà è ammalato. E mi preme parlarti. Egli l'aveva indovinata di già. Si strinse nelle spalle, mostrando il dispiacere di un uomo che vorrebbe sfuggire da una posizione scabrosa. — Vuoi dunque che ci guastiamo un'altra volta il sangue? — Non c'è pericolo. Non abbiamo da dirci che poche parole, chiare. Voglio soltanto domandarti se ti sei reso ben conto dello stato al quale hai ridotta la tua bottega. Pippo rialzò vivamente la testa. Lo stupore lo fece restare a bocca aperta davanti alla moglie. — Te ne sei reso dunque ben conto? — replicò lei, inesorabile. — Sicuro... non è certamente dei più floridi, adesso. Bisognerebbe ... — Non ne sai nulla! Te lo dirò io. Ella dipinse quelle condizioni: una vergognosa rovina. Se non se ne fosse occupata lei, il fallimento sarebbe stato dichiarato da un paio di mesi. Egli non si curava neppure di rammentare le scadenze dei suoi impegni. In tre mesi, lei gli aveva pagato per cinque mila lire di tratte, che non sarebbero state più rinnovate. Vide lo stupore del marito spinto fin quasi alla incredulità da tali rivelazioni. Finì di persuaderlo col mettergli sott'occhio i titoli saldati e strappati nel mezzo, che aveva tratti da un cassetto. Poi parlò d'altro. Erano anche in corrente gli affitti della bottega e della casa e le spese della famiglia. Da questo lato non dovevano un centesimo a nessuno. — Ma come hai potuto fare di questi miracoli? — esclamò ad un tratto Pippo, in uno scoppio di ammirazione sincera. — Io? — diss'ella. — Sarebbe appunto un miracolo, e non so far dei miracoli, io. Puoi risparmiarti dunque la gratitudine verso di me. — Chi è stato allora? — Tuo fratello. Adesso, continua, se vuoi, a far l'imbecille ed il geloso! Proibiscigli dunque di metter più i piedi in casa tua! — Glie lo dirai tu? — Perchè no, se lo desideri? Si guardarono lungamente, in silenzio. — Però, non gli dirai nulla, non è vero? — sorrise Pippo, parlando lentamente. Si passò una mano sulla fronte. Accettava l'ignominia che aveva voluto lavare col sangue, preso dal lato delle sue cupidigie. Una cinica filosofia spazzava le sue ribellioni. Che cosa avrebbe guadagnato a guastarsi colla moglie e col fratello? E d'altra parte, non subiva forse la legge comune ai mariti? Un'improvvisa risoluzione d'uomo che ha preso il suo partito gl'illuminò la fronte. — Invece, dirai a Mario che mi scusi se ho commesso delle bricconate, in uno stato da non poterlo sapere. Non succederà più. Siamo intesi, non è vero? Dicevi dunque che papà sta male? — Un momento! — fece Irene: — parleremo poi di papà. — Non è finito ancora? — No. Anzi rimane il più interessante. Bisogna che tu ti persuada, che le cose non possono andare innanzi così. Mario non ha i capitali del Banco Torlonia, ed anche se lo volesse, non potrebbe mettere a tua disposizione le migliaia di lire ogni mese. Bisogna scegliere: vuoi correggerti? E allora troverai intorno a te chi ti darà una mano; non vuoi? E allora, affògati! — Dici sul serio? — balbettò Pippo sordamente. — Altro, se dico sul serio! Ma credi proprio che ci sia del gusto a soccorrere un uomo che si conduce a tuo modo? Siamo già arrivati al punto, che i tuoi parenti, tutti, debbono evitare di nominarti colle loro conoscenze. Tanto vale che tu precipiti in fondo, e che ciascuno pensi ai casi suoi. S'interruppe un istante, Cambiò tono proseguendo: — Io, per me, sono stanca. Non so perchè rimango sempre appresso a tuo padre. Non posso arrischiar più una parola a tuo favore, senza vederlo imbestialire, senza correre il pericolo di disgustarmi per sempre con lui. Vuoi proprio saper tutto? Ebbene! non mi riuscirà più per lungo tempo evitare una scelta: essere o tutta per tuo padre, o tutta per te. Pippo era schiacciato. Aveva compreso che sua moglie non diceva una parola che non fosse rigorosamente vera e rigorosamente logica. L'ultima frase aggiunse l'angoscia della paura all'angoscia del suo avvilimento. Egli bisbigliò una domanda colla voce soffocata: — E tu che farai? — Che faresti tu? — disse Irene, guardandolo. Egli chinò la testa disperato. Ma la rialzò quasi subito, sorpreso, udendo la giovine donna parlargli con voce affatto mutata, e con parole che a lui sembravano un sogno. Adesso lei lo pregava con una tenerezza strana e penetrante di espressione. Egli vedeva l'abisso in cui era caduto, non era vero? Ebbene, bisognava, una buona volta, aprir gli occhi ed essere uomo. Con un po' di buona volontà, il male fatto potevasi ancora riparare. Perchè dunque non lo avrebbero riparato insieme? Lei, la giovine donna, non lo domandava per sè, finalmente! lo domandava nell'interesse esclusivo dell'uomo ch'era pur sempre suo marito. Si faceva affettuosa, trattando Pippo da vero bamboccione: chi avrebbe mai detto che un Ferramonti poteva perdere il giudizio al pari di lui? Ma senza dubbio era stato l'accesso di una pazzia momentanea, che non si sarebbe rinnovata. Ella n'era persuasa; ma ne voleva la conferma. Domandò che il marito glie lo giurasse, non fu paga, fin che non ebbe udito dalla sua bocca il giuramento, pronunciato in modo solenne. Terminarono così il colloquio, senza mettervi più una frase dura. Irene era sicura del fatto suo: la scossa data al marito sarebbe stata efficace. Se mai, ella era pronta a rincarare la dose, quando il bisogno lo avesse voluto. Il suo fascino durava intero; aveva mezzi diversi per esercitarlo; e lei era più che mai disposta ad usarli tutti. Insomma, ella iniziava l'opera di riparazione della quale aveva riconosciuta la necessità la notte del martedì grasso. Nei tre giorni trascorsi non aveva pensato seriamente ad altro. Talvolta si era sentita sgomenta delle difficoltà formidabili da cui si vedeva circondata; ma la soccorreva una fiducia di persona che ha imparato dagli errori e dall'esperienza; una volontà forte e calma. Aveva già cominciato da Mario, la notte stessa del martedì grasso, obbligandolo a ricondurla a casa pochi momenti dopo la loro comparsa al veglione, ed ottenendo che la lasciasse sul pianerottolo delle scale. Poi Mario, per secondar sempre le preghiere di lei, non era più ricomparso in casa. Ella intendeva di rallentare a poco a poco quella compromettente assiduità. Aveva ancora delle idee molto confuse in proposito: si proponeva di allontanare da sè l'amante, di evitare ch'egli se ne risentisse e potesse nuocerle, per vendetta, presso il vecchio Ferramonti. Lasciava pel momento da parte i Furlin. Egli è che non sapeva bene quale azione svolgere a loro riguardo, mentre un istinto di donna scaltra l'avvertiva che le maggiori difficoltà le sarebbero appunto venute da Teta e da Paolo. Si erano eclissati troppo completamente: ella avrebbe voluto degli avversari più attivi. In fatti, i Furlin vivevano nell'assoluto oblio dei Ferramonti, senza ostentazioni di risentimenti e di disprezzi; ma procurando di evitarne qualunque allusione. Non parlavano più neppure di diritti verso padron Gregorio, rinchiudendosi nel loro decoro di famiglia di pubblico funzionario predestinato ad una brillante carriera. Paolo aveva lasciato da parte le velleità di opposizione ed i pettegolezzi epigrammatici contro l'alta burocrazia. Anzi cercava deliberatamente di guadagnare il suo posto di satellite in quell'Olimpo, facendovi accettare anche la sposa. La educava con cura, perchè non gli commettesse qualche sproposito da figlia di fornaio. Avrebbe voluto ch'ella smettesse l'accento del dialetto romanesco; non glie ne permetteva le frasi, nemmeno nell'intimità. Lei lo intendeva e lo secondava, mantenendosi più osservatrice che ciarliera, col suo viso scialbo, co' suoi occhi attenti, col suo corpo magro e rigido. Si aiutavano, nell'intento comune di farsi una strada. Erano due adulatori abili, due creature servizievoli che si formavano una grossa partita di crediti verso i potenti dai quali potevano aspettare qualche utile, un giorno o l'altro. In gennaio Paolo, finalmente, aveva avuto la promozione e la croce. Tuttavia, nell'intimità di quella coppia esemplare, non era mancata qualche nube. Teta erasi acconciata riluttante alla parte di personaggio passivo nella commedia che impegnava la famiglia Ferramonti. Com'era possibile ch'ella fingesse di non vedere e di non sentire, per lasciar modo ad una infame di spogliarla a man salva? Furlin avea dovuto durare fatiche eroiche per frenare quella furia scatenata, sitibonda di vendetta, resa folle dalle crisi del suo odio velenoso. Aveva dovuto persuaderla, col ripeterle migliaia di volte le deduzioni del suo criterio sottile, offrendosi a spettacolo di una calma suprema, e di una sicurezza che nulla, ormai, poteva più scuotere. Egli era stato inquieto soltanto nel principio, ed i fatti successivi non erano stati che un continuo alimento alla fiducia che aveva nel risultato necessario di essi. In dicembre, l'ostinarsi della coppia nel salotto d'Irene era dipeso da un'ultima concessione del marito alle paure della moglie: una perdita di tempo assolutamente inutile. Essi, i Furlin, potevano senza timore alcuno darsi il lusso di trarsi da parte e di pensare a cose più divertenti. Pippo, Mario ed Irene erano ormai fatalmente condannati a sbranarsi fra loro. Bisognava lasciarli fare e tenersi pronti a raccogliere i frutti della catastrofe finale, probabilmente vicina. Teta piegava con la passiva docilità di una intelligenza incompleta, dinnanzi ad una superiorità di spirito riconosciuta; ma non restava mai del tutto persuasa. Viveva nello spasimo segreto di non saper esprimere le proprie obbiezioni; ed il suo odio per la cognata, condannato al silenzio ed all'immobilità, avvelenava tutto il suo sangue. Un mercoledì, tornando dal suo uffizio, Furlin la trovò stravolta e livida, con una fissazione da mettere i brividi, negli occhi inferociti. Ella, del resto, ne spiegò subito il motivo. — Sai? ho incontrato la Barbati. Pare ch'ella si tenga informata un po' meglio di noi. Me ne ha dette delle belle. Il funzionario ci si arrabbiò sul serio. — Non hai dunque capito ancora, che non voglio saperne di questi miserabili pettegolezzi? Se hai sentito qualche cosa, fanne tesoro. Ti proibisco di parlarmene, e di tornare a ciarlare come una pescivendola. — La intendi così? — balbettò lei, colla voce rotta da un tremito convulso. — Sta bene! Te ne pentirai quando non ne sarai più in tempo. Il marito la guardò; n'ebbe pietà. Sorrise. — Mi credi davvero un imbecille? — Ma che! L'imbecille sono io! Si vede a darci soltanto un'occhiata! — Tira via! — disse Paolo, parlandole con voce amica; — che cosa avverrebbe, se anche noi cominciassimo a pigliarci pei capelli? E ricominciò la solita storia; ma questa volta fu riveduta ed ampliata. Forse che Irene smascherava alla fine le sue batterie e mostrava risolutamente l'idea di tirare a tutto? Ma se era quello che si desiderava! Supposta in lei la discrezione, ci sarebbe stato il caso di vedere Mario e Pippo contentarsi di una discreta porzione di legittima e farsi docili. No, no! Bisognava proprio che il furto fosse completo, e che riuscisse. Sopratutto che riuscisse. Allora se ne sarebbero viste di belle! Prima, lo scatenamento delle piccole collere fra Mario, Pippo ed Irene; il cozzo nel quale i due fratelli, secondo ogni possibile previsione umana, erano destinati a soccombere; poi l'entrata in iscena di loro, marito e moglie Furlin! Sicuro, di loro, vindici dell'onore e degli interessi della famiglia Ferramonti! Ed essi sarebbero scesi in lizza armati della loro onorabilità, della stima che si guadagnavano colla condotta attuale, dei diritti intangibili di coloro i quali invocano correttamente e solamente la legge. Forsechè le centinaia di migliaia di lire si nascondono come si nasconderebbe uno scudo e forsechè i tribunali non siedono più per rendere la dovuta giustizia? XVI. Nel marzo, Irene aveva dovuto passare alcune notti in casa del suocero. A cominciare dal mese successivo, questo bisogno divenne anche più frequente. L'antico fornaio, pasciuto, felice, scoppiante salute da tutti i pori, cominciava a provare gl'incomodi dei vecchi eccessivamente robusti ed eccessivamente nutriti. Aveva in rivoluzione il sangue che gl'imporporava le gote da gaudente; soffriva di vertigini e di soffocazioni, che rendevano irrequiete le sue notti. Ma, secondo l'umore, o s'infuriava, o rideva sul viso alla gente, che lo consigliava ad aversi riguardo ed a sentir qualche medico. Lui commettere di simili spropositi? Che! Voleva accompagnare a Campo Verano mezza Roma, lui! E sapeva benissimo da sè, quel che doveva fare. Non affliggeva più la nuora con delle malinconie, ed ella, incantata di vederlo sempre, inalterabilmente felice, non si spaventava troppo de' suoi incomodi, che non gl'impedivano di mostrarsi ringiovanito, crapulone, con uno stomaco di struzzo. Oltre a ciò, ella aveva scoperto che la volpe vecchia si serviva appunto dei suoi fumi al cervello, per indurla con quel mezzo ad accordargli un favore sempre negatogli in circostanze diverse. Sissignore: poichè lei non gli dormiva in casa se non quando era o si diceva ammalato, bastava una leggera vertigine perchè egli ne facesse un caso d'accidente mortale, e si trascinasse dietro le gambe per tre o quattro giorni, con un viso d'agonia. Ma chi non avrebbe recitato la stessa commedia, al posto suo? C'erano troppi guadagni: la nuoruccia non si limitava a stargli appresso soltanto il giorno, con le sue mille carezze da gattina amorosa: anche la sera ell'era presente, più bella, più affettuosa che mai, nelle ore lunghe e raccolte in cui cessano i rumori esterni, e le intimità solleticano più dilettosamente la pelle ed il cuore. Lei non aveva mai voluto assisterlo nel mettersi in letto; ma non appena lo sapeva sotto le coltri, ricompariva per susurrargli la ninna, con gentili chiacchierate, che lo crogiolavano in una ineffabile beatitudine. Ed aveva delle vere debolezze per lui: non sapeva impedirgli di bere un bicchiere di vino di più; negargli nessuna di quelle leccornìe di cui egli s'era abituato a inghebbiarsi; resistergli in certe tenerezze di vecchio riscaldato, forse un po' troppo eccessive. Perdevano il tempo in ragazzate, dimenticando l'universo mondo. Dovevano certo finire, un qualche giorno, col non spiccicarsi più un minuto l'uno dall'altro. Però, Irene lasciava indovinare un sottinteso nella propria docilità. Come rideva dentro di sè padron Gregorio, quando leggeva nella pura fronte della giovane donna il segreto delle sue mire! Trattavasi ancora di quelle gioie dei figli, i maschi; dell'idea di riconciliarli col padre. A sentirla, la nuoruccia, il ravvedimento di Pippo era qualche cosa di prodigioso, uno spettacolo veramente edificante. Ed ella ne attribuiva tutto il merito a Mario, si mostrava più che mai affezionata al cognato, portando nella casa del suocero il fremito ineffabile della sua grande consolazione. Ma dunque padron Gregorio non si sarebbe deciso mai a prender lui pure la risoluzione che le circostanze gl'indicavano quasi come un dovere di padre? Non voleva proprio mai lasciarsi intenerire il cuore? Egli aveva cessato completamente di opporsi a tali discorsi, ripugnando all'idea che una aperta resistenza potesse alterare l'incanto della loro felicità. Cercava di cavarsela con delle frasi vaghe di promessa, con una cedevolezza bonaria da uomo che ha le migliori intenzioni; ed era orgoglioso come di una brillante vittoria, allo scorgere che riusciva in realtà a guadagnar tempo. Ma, dagli ultimi giorni di marzo, Irene aveva piantato il chiodo ch'egli cominciasse a buon conto col permettere a Mario di presentarsi a lui. Una ricaduta nei soliti incomodi che il vecchio soffriva, dette pretesto alla giovine donna di condurgli appunto in casa il figlio, all'impensata. Ferramonti n'ebbe il sangue in subbuglio; ma dopo la prima impressione, riflettendo che l'incontro s'era già reso inevitabile da qualche tempo, prese il partito di assoggettarvisi con disinvoltura. D'altra parte, Mario si condusse benissimo. Mostrò d'interessarsi molto alla salute del padre, e si protestò lieto di poter vedere coi propri occhi, che certe inquietudini nutrite negli ultimi tempi, non avevano ragione di esistere. Poi rammentò lui stesso il passato, riconobbe i propri torti, alluse ad errori giovanili crudelmente scontati. Sicuro; le circostanze mutano gli uomini, ed egli, dal giorno della sua uscita dalla casa paterna, era diventato un altro uomo. Padron Gregorio non fu molto espansivo. Un lieve riflesso d'ironia brillava nei suoi sguardi, e caratterizzava il suo sorriso bonario. Esaminava Mario con insistente attenzione, come per rendersi conto dei cambiamenti avvenuti in lui dacchè non si vedevano più, e come per ricercarvi somiglianze di figura e di espressione, che dovevano rammentargli pettegolezzi antichi. Nondimeno era affabile. Sviò a tempo il discorso, facendolo cadere sopra argomenti neutri ed innocui. Non pronunciò una parola che potesse comprometterlo od impegnarlo, dimenticò fino di dire al figlio che poteva tornare a suo piacere. Ma l'arrivederci cordiale sottintendeva l'acquiescenza di future visite, tenute entro certi limiti di discrezione. — Sei contenta di me? — chiese il vecchio alla nuora, non appena partito Mario. Bisognava. Ferramonti reclamava il premio della propria condiscendenza, tutta una giornata di carezze, di feste e di ragazzate. Anzi, quantunque fosse già stabilito che quella sera la giovine sarebbe tornata a casa sua, dovette rimaner là, per forza. Di Mario non si parlò più; ma cinque o sei giorni appresso, improvvisamente, fu lo stesso padron Gregorio a domandarne. Che ne era diventato di lui? Perchè non si faceva più vedere? Irene trasalì: gli sguardi e l'accento del vecchio avevano tradito un segreto sospetto, una gelosia sorda. Ella intuì che qualche frase o qualche atto di Mario doveva avere impressionato Ferramonti, che il suocero la sorvegliava, e che cercava del figlio perchè una indagine fosse più efficace e potesse estendersi anche a quest'ultimo. Ebbe bisogno di tutta la sua presenza di spirito per non compromettersi. Sentivasi minacciata da una nuova complicazione. Mario restava il suo peso più grave. Era per lei una lotta continua il moderare ed il deludere le esigenze della passione di lui. La catena di quella schiavitù si stringeva tanto da lacerarle le carni. Adesso Mario sogghignava quand'essa lo ammoniva del pericolo di vedersi sfuggire colle imprudenze la fortuna di padron Gregorio. Che glie ne importava a lui, ora, del danaro? Per frenarlo, essa doveva caricare fino al cinismo le tinte della propria cupidigia; metter l'amante al bivio, o di lasciarla compier l'opera iniziata presso il suocero, o di rinunciare a lei. In tal modo soltanto aveva potuto renderlo docile al punto di fare a meno, pel momento, del possesso di lei, serbando un compenso ad usura del sacrificio, per un avvenire, non lontano, in cui sarebbero stati ambedue liberi. E Mario si era presentato al padre perchè la giovine donna lo aveva voluto. Non le bastava di avergli fatto accettare un contegno che non offriva più esca alla maldicenza ed allo spionaggio; ella voleva dissipare anche i ricordi d'altri tempi, coprendo l'amante sotto le apparenze del fratello che ha rapporti intimi col fratello, e del figlio che si riconcilia col padre. Non si accorgeva di arrivare troppo tardi. Così le impazienze spasimavano, esasperavansi intorno all'antico fornaio. Per Pippo era l'ingordigia del danaro paterno; per Mario il desiderio del possesso pieno, pubblico, liberamente goduto, della giovine donna. Costei comprendeva di non poter andare innanzi così. Un bisogno pazzo di rivolta contro l'amante la spingeva a fantasie tragiche. Infatti, la sua schiavitù rispetto a Mario dipendeva dall'esistenza del suocero, presso il quale l'altro avrebbe potuto vendicarsi dell'abbandono di lei, coll'usare le sole armi ch'ella temesse. Sparito invece Ferramonti, si sarebbe veduto. Ella voleva la propria tranquillità; ma appunto perchè la voleva ad ogni costo, non era donna da ripugnare a qualunque mezzo necessario per ottenerla. Per disgrazia, il tempo che passava senza costrutto le facea smarrir la ragione. Ella trovavasi ancora enormemente indietro. Gregorio Ferramonti era di quegli uomini che si possono raggirare per ogni verso, tranne per quello del danaro. Dopo un interminabile aspettare, l'Irene era giunta appena a rendersi conto preciso della fortuna del suocero. Egli possedeva ancora una vigna in Val d'Inferno, e la casa che abitava: sessantacinquemila lire in tutto: di più, un debitore, nel gennaio, gli aveva ceduto una casetta in Trastevere, valutata altre quindicimila lire; e si dovevano aggiungere a questi possessi ventiduemilacinquecento lire di crediti ipotecari. Era l'osso che i suoi figli potevano ancora rodere con certezza, s'egli moriva prima di risolversi a fare con tale rimasuglio di sostanza il giuoco fatto col resto. Un resto molto rispettabile! Cinquecentonovantatremila lire di capitale nominale in titoli al portatore dei prestiti pontifici e della rendita italiana, depositati alla Banca Romana, e che si accrescevano ad ogni distacco semestrale del vaglia. Padron Gregorio aveva un risolino feroce, nel dimostrare alla nuora come, in termine di mezz'ora, egli avrebbe potuto levarsi il gusto di regalare quei pezzi di carta al primo straccione incontrato per via, od anche di farne una bella fiammata per riscaldarcisi le polpe. Ma non sarebbe stato così bestia. Eh! eh! l'impiego utile non sarebbe mancato davvero, al momento opportuno. La promessa implicita non soddisfaceva Irene. Soprattutto, ella capiva di non potersi ritenere certa del fatto suo, fin che il capitale restava alla Banca. Dibattevasi nella penosa ricerca di un mezzo per indurre il suocero a ritirarlo ed a conservarlo in casa. Non le riusciva. Di certo il vecchio credevasi immortale, ed avrebbe avuto tempo di farsi sotterrare dieci volte prima di risolversi a qualche cosa di positivo. L'idea di tenersi in casa più di mezzo milione parevagli enorme. All'udirla accennare una volta, cautamente, dalla nuora, aveva cacciato un grido da sbalordirla. Parlava proprio sul serio? Le dava niente di volta il cervello? Poi Irene tremò, udendo delle frasi che parevano rispondere all'intimo pensiero di lei: credeva forse che se il gruzzolo restava alla Banca, non avrebbe trovato la strada di cascarle in mano? Ella, pallidissima, fissò il suocero. Lo vide ridere bonariamente, lontano dal dare alle proprie parole il significato da lei temuto. Però il vecchio non parlava a caso; voleva avvertirla che il capitale sarebbe stato suo. E nel vederla smarrita, egli si abbandonò ad un'ilarità rumorosa d'uomo commosso. Povera Irene! non se lo era aspettato davvero? Ebbene, era proprio così: quando il suo vecchio brontolone avesse tirato le gambe, ella poteva presentarsi alla Banca per ritirare quei quattro soldi che vi stavano a sua disposizione. Abbracciò la nuora, con una tenerezza nuova e solenne. Ella non potè saper altro. Comprendeva di non dover chiedere maggiori spiegazioni. Frattanto era ammirabile di devozione riconoscente e di tenerezza angelica. Mario s'era fatto rivedere. Compariva di tanto in tanto, non troppo spesso. La riconciliazione fra padre e figlio non avanzava di un passo. Erano visite oziose, che si diradavano e che si accorciavano col ripetersi. Il vecchio Ferramonti, poco avezzo ai mezzi termini ed alle perifrasi del vivere civile, lasciava chiaramente intendere al figlio, che gli avrebbe fatto un gran piacere a restarsene altrove. In realtà padron Gregorio credeva di aver sufficientemente esaminato Mario; erasi ricreduto dei propri sospetti, e non desiderava più vederselo tra i piedi. Irene poteva dire quel che voleva; ma il vecchione imbambolato trovava che se ne stavano troppo bene soli, lontani dalle seccature e dai seccatori. Ma di seccature, ne capitò una sesquipedale, improvvisamente. Una mattina, Irene trovò il suocero fuori di sè. Non ebbe il tempo di domandarne il perchè. Al vederla, il vecchio, con atto tragico, le pose in mano una lettera col timbro postale della città, e la invitò a leggerla ad alta voce. Era una denuncia anonima; una rivelazione precisa ed abilissima di tutto ciò che la giovine donna aveva fatto, e di tutto ciò che voleva fare. Il colpo partiva senza dubbio da qualcuno che aveva studiato attentamente Irene da vicino. Lei stessa non s'era reso conto ancora dei propri sentimenti, come li vedeva smascherati brutalmente. Un sarcasmo atroce dominava nelle quattro pagine fitte del foglio. Ferramonti vi era sbeffeggiato come un vecchio imbecille messo nel sacco da una meretrice ipocrita, che non concede alla sua vittima neppure la punta di un dito. Del resto, l'autore della lettera non si aspettava punto ch'egli avesse aperto gli occhi. Tutt'altro! Ma ammoniva Irene di badare ai passi falsi che avrebbero potuto condurla in Corte d'assise. Ella aveva cominciato a leggere con un fremito di leonessa inferocita; poi uno sgomento strano la invase, la sformò. Ripeteva le parole del foglio automaticamente, senza pause e senza inflessioni; arrivò fino in fondo. Il passo grottesco che le profetava la galera, fu il suo colpo di grazia. Gittò un grido rauco, lasciandosi cadere di mano la lettera. — Dio mio! Dio mio! — balbettò. Volgeva intorno gli occhi spaventati, nel raccapriccio, come a cercare un aiuto in quell'istante terribile. Poi, con un singhiozzo, si coprì il viso. — Dimmi che non è vero! Ma dimmi che non è vero! — esclamò padron Gregorio. Le si era fatto vicino; le aveva strappato le mani dalla faccia, tenendole intanagliate fra le sue, guardandola con due occhi da forsennato, non curandosi della contrazione angosciosa delle labbra di lei. No, lei non poteva rispondere! Non sapeva più quello che si facesse. Sentivasi perduta. E con un atto improvviso ed energico, strappò i polsi dalla stretta del vecchio. Un grosso singulto si spezzò nel suo seno. Piangeva mute lagrime, scendenti dagli occhi vitrei. — Io impazzirò, — balbettava Ferramonti; — vedrai! impazzirò! Non sapeva più dire altro. Aveva egli pure dei moti d'automa nei quali non entrava la sua volontà. Ed un disinganno immenso accasciava il disgraziato, colpendolo negli affetti ultimi che gli rimanevano. Lo sguardo ebete d'Irene cadde sulla lettera rimasta in terra. Fu come un repentino ritorno alla vita; uno scoppio violento d'ira. Ella balzò sopra il foglio, se ne impadronì, sfolgorante di sinistra energia, ed ebbe una frase dall'accento terribile: — Saprò chi sei!... Sorrideva, sicura di se stessa. Dimenticava il suocero, tutta occupata nel pensiero ardente della propria vendetta. Non l'avevano conosciuta ancora! Non se lo figuravano quello che lei si sentiva capace di fare!... — Ma rispondi almeno una parola! — gemè padron Gregorio. — Voi? — diss'ella. — Che ci entrate voi? S'era fermata, squadrando il vecchio. Ella commetteva un altro dei suoi errori: rinunciava a mentire con lui e lo abbandonava. Ma fu invece l'atto che la salvò. Ferramonti intuì appunto che la giovine donna stava per voltargli le spalle. Allora, ella fu bene costretta ad ascoltarlo. Le era dinnanzi, dovunque lei si volgesse; la supplicava, le domandava perdono. Quella lettera infame doveva averla scritta il demonio in persona. Quale colpa ce ne aveva lui, povero vecchio? Poteva negare, Irene, di aver riconosciuto ella stessa, che lo scritto aveva tutte le apparenze perfide di una verità sacrosanta? Invece, lui non ci credeva. Non c'era stato altro, nel suo cervello, che il vaneggiamento di un istante, dopo una notte intiera di martirio. Adesso padron Gregorio si rendeva conto delle gelosie, delle invidie e delle inimicizie che la povera Irene, per causa sua, aveva dovuto vedersi crescere intorno. Che mondo maledetto! A poco a poco, Irene riacquistava la calma, e la forza della dissimulazione. Preluse al perdono chiestole dal suocero, regalandogli una crisi di affanno femmineo, che le rompeva sulle labbra i rimproveri. E parlarono della loro vendetta. — Ci riusciremo! — esclamò il vecchio; — dovessi spenderci fin l'ultimo dei miei scudi e metter sossopra mezzo Roma... — Non occorrerà tanto, — interruppe Irene pensosa; — non ci sarà da cercare molto lontano, e basteremo noi soli, forse. Credo di esser già sulla strada. — Hai dei sospetti positivi? — domandò vivamente Ferramonti. — Per scrivere così, bisogna conoscer bene i nostri affari e noi. È una serpe che ci siamo di certo allevata nel seno. — Aspetta! Io ci sono! È lui! — Lui? Chi? — Non ci azzecchi ancora? Ma è tuo cognato, il forestiero... — Furlin? — Furlin. Irene trasalì. Rammentava le sorde paure che le incutevano Paolo e Teta. Ferramonti la vide di nuovo impallidire. — Guarda un po' — riprese: — non riesco a capire perchè non ci ho pensato mai, nè iersera, nè stanotte, nè stamani. Eppure è semplice! a rifletterci, bisogna maravigliarsi che quella gioia abbia tanto aspettato. Ebbene, gli daremo una lezione, noi! Gli faremo vedere come si trattano, a Roma, i birbaccioni. Tirava innanzi eccitandosi, sorpreso che la nuora non interrompesse. Ella era ricaduta nei suoi cupi pensieri. Ad un tratto rialzò il capo. Interruppe: — No, no! non ci lasciamo sviare dalle supposizioni. Non è Paolo. Ne sono sicura. — Ma come puoi dirlo? — balbettò Ferramonti disorientato. — È un'idea; lo so io. In ogni modo bisogna rifletterci bene, non è vero? Se ne riparlerà. Non volle spiegarsi meglio. Lei non poteva dire al suocero perchè non credesse autori della lettera i Furlin. Certo l'idea poteva esser saltata in testa a Teta; ma per mandarla ad effetto ella ne avrebbe chiesto il permesso al marito, ed ottenerlo, questa era la cosa impossibile. Irene temeva il cognato perchè lo sapeva scaltro, e dotato di tutte le qualità che ci vogliono per render capace un uomo di aspettare il momento giusto e l'occasione favorevole, per agire a colpo sicuro. Ora, la lettera anonima, col provocare una soluzione violenta, minacciava bensì gl'interessi d'Irene; ma esponeva anche quelli degli altri al pericolo che il vecchio Ferramonti, disgustato e disilluso, si risolvesse a disperdere la propria fortuna per sottrarla definitivamente ai suoi eredi diretti ed indiretti. Furlin non sarebbe stato uomo da risparmiarsi tali riflessioni. L'attacco invece partiva da altri nemici, forse meno astuti; ma certamente più al riparo da certe conseguenze. Irene pensò un momento anche a Flaviana Barbati; ma non volle dare un soverchio peso neppure a questa nuova impressione. Non c'era da escludere l'ipotesi che si trattasse pure di un semplice atto di vigliacca malvagità. Sono tanti i casi! E per pagare a dovere chi avanzava, il precipitare le cose non era il sistema più conveniente. XVII. Ferramonti non istette più bene. L'incidente avvenuto lasciava tracce profonde nei rapporti tra suocero e nuora. La confidenza assoluta e tranquilla dell'uno verso l'altra era scossa. Vi era succeduta una crudele altalena di dubbi e di abbandoni, un oscillare continuo fra la voluttà voluta, acre, violenta del fascino esercitato tuttavia dalla giovine donna, e la paura istintiva di lei. Questo dramma psicologico costringeva padron Gregorio ad uno sforzo di dissimulazione, che finiva di mettere in tensione i suoi nervi, e di alterare la sua salute, sordamente minacciata. Egli diventava volubile, stizzoso, intrattabile. Dimenticava tutte le sue abitudini, e pareva che volesse cimentare la pazienza d'Irene, variando a capriccio le ore dei pasti, rintanandosi in casa delle settimane quasi intere, e poi prendendo a scorrazzare per altre settimane dall'alba a notte inoltrata senza che si sapesse dove andasse a posare le ossa. Non voleva nè osservazioni, nè consigli; faceva peggio se qualcuno, Irene compresa, ci si provava. E quando reclamava dalla nuora i lieti piaceri della sua compagnia, era come se lo movesse soltanto una febbre dei sensi, una specie di spasimo che lo faceva delirare. Rivolgeva alla giovine donna parole infiammate di un amore furibondo; e voleva ch'ella lo empisse di cibo, preparato da lei, lo ubriacasse di vino, offertogli dalle sue mani; gli desse tutti i godimenti possibili colle sue parole, co' suoi sguardi, col suo ridere squillante, colle sue moine di bella creatura. Poteva porgergli, s'ella lo avesse voluto, una tazza di veleno: avrebbe visto con quanta delizia egli era capace d'inghiottirlo. Ella non frenava tali irruenze. L'agitazione forsennata del vecchio restava come la sua garanzia ultima. Sapeva perfettamente che il suocero tornava a lei eccitato in tal modo, perchè vinceva violentemente le ripulsioni e gli orrori ch'essa gli destava. Ella assisteva imperterrita ad un martirio, che avrebbe fuso il cuore di qualunque altra donna al posto suo. Nonostante le dissensioni della nuora, Ferramonti aveva voluto occuparsi a cercare l'autore della lettera anonima. N'era stato buono il profitto!... Nient'altro che veder compiuta l'opera della denuncia. Il vecchio non ignorava più la sozza leggenda di cui la famiglia Ferramonti faceva le spese. Senza dubbio non era che un'infame calunnia l'attribuire un carattere osceno ai rapporti fra suocero e nuora; ma la stessa enormità di questa credenza non provava forse la verità delle altre brutture, senza le quali non sarebbe stata possibile? Padron Gregorio rammentava di avere, per tutta una lunga vita, tenuto le donne in conto di animali immondi e di sirene incantatrici, da cui bisogna tenersi lontani. Perchè sua nuora sarebbe stata diversa dalle altre? Non gli aveva fatto rinnegare tutti i principii di lui con arte forse infernale? Non aveva addormentato le sue diffidenze? Qual filtro magico gli aveva dunque somministrato? E fin dove sarebbe ella giunta? Lui, Ferramonti, sentiva che ci sarebbe schiattato. Poi, nell'angoscia mortale dei suoi dubbi, volle sottoporre la nuora ad una prova decisiva. Badò a coglierla di sorpresa, in uno di quei momenti di espansione che si riducevano ormai a faticose menzogne. — Vogliamo dar proprio una mentita solenne alle calunnie dei nostri nemici? — propose egli, sul finire di un desinare, mentre pigliavano il caffè insieme. Un pomeriggio caldo di maggio mandava dalla finestra aperta uno sprazzo di sole. La figura d'Irene era vivamente illuminata. Padron Gregorio la vide trasalire leggermente. — Perchè adesso dobbiamo angustiarci? — diss'ella con un triste sorriso. — Non è per angustiarci. Al contrario! Ho trovato un mezzo certo per seccare le lingue più velenose. Ma se non vuoi... — È per farvi piacere? Allora accetto qualunque cosa. Che debbo dunque fare, io? Nei riflessi dorati del sole, ella pareva circondata da un'aureola. Padron Gregorio non poteva perdere un solo de' suoi atti. Parve assorbirsi un istante nella sua contemplazione; poi la interrogò: — È deciso? — Ma sì! È deciso. — Non ti figuri di che si tratta? — No. Che importa? — Anzi, importa. Chiudi la finestra. Il fracasso della strada m'urta i nervi. Quand'ella ebbe chiuso, le accennò di andare a sedere accanto a lui, e prese a spiegarsi. — Ci mordono perchè ho messo da parte un po' di danaro. Ebbene! togliamo di mezzo questo motivo di maldicenze e di perfidie. Si tratta di far toccar con mano che non hai fatto mai calcolo sulla mia fortuna. La regalerò agli ospedali, per esempio. Pagherò la mia parte di paradiso, da vero sovrano. Ti piace il mio progetto? — Mi dispiace per i vostri figli, — disse la giovine donna, naturalmente. — I miei figli? Che c'entrano? Loro non ci guadagnano e non ci perdono un centesimo. Non parliamo affatto di loro. — In tal caso, mi pare che la vostra idea sia buonissima. Tanto più, se si tratta solamente dei capitali deposti alla Banca. Voi non farete in realtà nessun sacrificio, non è vero? — Verissimo. Va bene. Fra pochi giorni mi sarò liberato anche da questo pensiero, e non mi parrà di aver pagato troppo caro il vederti render giustizia, amor mio! Cambiò discorso. Irene prese il primo pretesto per allontanarsi da lui e per andare altrove a respirare liberamente. Aveva potuto conservarsi impassibile, per una subitanea intuizione dell'esperimento che il suocero tentava su lei. Sentiva che il suo contegno, nel giro di pochi giorni, decideva del suo avvenire. Ed era certa di tenere la fortuna pei capelli. Ella fu immensa di finezza. Respirava sollevata: rideva lieta, come alleggerita da un gran peso. Il suo disinteresse splendeva di semplicità ineffabile. Ella certo ignorava il proprio sacrificio; nessun'altra donna al suo posto avrebbe saputo imitarla. E padron Gregorio, sotto l'influenza di queste impressioni, riacquistava la propria calma e la propria fiducia rispetto alla giovine donna, che aveva portato in casa sua gioie ed ebbrezze di paradiso. Ma i risentimenti di lui s'invelenirono. Cadde nei furori di una cupa misantropia. Gli uomini! Un mucchio di furfanti che si sbranano a vicenda e che si ravvoltano nella sozzura di tutte le infamie possibili! Perchè non veniva un altro diluvio universale? Che ci stava più a fare Quello lassù, che aveva una volta distrutto colla pioggia di fuoco Sodoma e Gomorra? Poi gli parve stupido e crudele sostenere più lungamente la finzione colla quale aveva voluto assicurarsi dei sentimenti della nuora. Scherzò con lei: l'idea di possedere più di mezzo milione, non le aveva proprio fatto venire l'acquolina in bocca? Che ne avrebbe fatto, se si fosse trovata a disporre di quel po' di quattrini? Ella sorrise. Buon Dio! aveva forse perduto mai il tempo, lei, nel figurarsi delle cose alle quali non poteva arrivare? Ferramonti dette in uno scroscio di risa. Quanto era amena! Che peccato non potesse vedersi quanto era amena! Perchè, in sostanza, ella aveva invece bisogno di pensare appunto al modo di impiegare il mezzo milione, secondo i suoi gusti. Non occorreva sgranar tanto gli occhi! era proprio così! Il vecchio ridiventò serio improvvisamente, e prese a spiattellare ogni cosa. — Devi perdonarmi. Ho voluto assicurarmi di te; mettermi in grado di chiudere la bocca con uno sgrugnone sul muso a quanti birbaccioni osassero ancora dubitare dei tuoi sentimenti. Vorrei poterti dire quanto ho sofferto! La prova era necessaria! Se falliva, sarei crepato di certo; ma tu non avresti più rimesso i piedi in casa mia... Adesso è passata! Vieni! Non tremar così, sciocca! Si va in camera mia. Ella ritenne che il suocero volesse condurla di là per consegnarle una carta che l'autorizzasse a ritirare i titoli deposti alla Banca; forse per darle i titoli stessi. E la vertigine la guadagnava, risolvendosi in una fralezza vile. Per non cadere, fu costretta ad appoggiarsi al vecchio. Invece Ferramonti si fermò sull'ingresso della camera. Additò, in un angolo accanto al letto, una specie di piccolo forziere murato all'altezza di un tavolo: la custodia antica, onde erano passati lentamente i guadagni ed i capitali dell'antico fornaio. — Guarda: là dentro c'è una carta che ti riguarda. Non si può sbagliare, perchè non ce n'è altre. Quando starò per andarmene, te la darò, o te la piglierai da te, se non potrò dartela. La chiave è nel primo cassetto del comò. T'insegnerò come si fa per aprire. Hai capito? Irene chinò la testa senza rispondere. Il colpo era troppo forte. Ella non aveva più neppure la facoltà di risentirsi, di odiare l'uomo da cui riceveva quel disinganno atroce. Si abbandonava al proprio destino colle codarde rassegnazioni di una vittima domata. Ferramonti interpretò a suo modo la cosa. Ricondusse la giovine donna sostenendola, esaltato dalla tenerezza e dall'ammirazione. Perchè quella commozione eccessiva? Irene diventava niente una bambina, quando proprio non ce n'era bisogno alcuno? Ma insomma! era tempo di farla finita, altrimenti lui ci avrebbe preso cappello sul serio! Il vecchio rimase nell'ebbrezza dilettosa di tale scena tutto il resto della giornata, ed i giorni successivi. Non usciva più, insofferente di perdere un'ora lontano dalla giovine donna, accecato di lei fino al punto di non iscorgerne le cupe astrazioni male dissimulate. Peraltro, s'egli le avesse avvertite, Irene si era preparata una giustificazione: non dovevano cercare ancora il nemico misterioso che li aveva fatti soffrire tanto con la lettera anonima? Non era naturale che questo pensiero tornasse ad agitarla, adesso che le circostanze le permettevano di consacrarvisi interamente? In realtà, senza averne informato il suocero, anzi premendole che non ne sapesse nulla, ella aveva già trovato. Ci si era messo di mezzo il caso: un incontro fortuito con Flaviana Barbati. Le due donne s'erano scambiate appena uno sguardo; ma era stato sufficiente per avvertire Irene che i propri istinti non l'avevano ingannata fino dal primo momento. Le bastava. La partita si sarebbe saldata più tardi. Adesso bolliva al fuoco tropp'altra carne! La tensione aveva raggiunto il suo limite estremo. Pippo, riconciliato colla moglie, e tornato alle cure del guadagno con una febbre smaniosa d'uomo ingordo, rivolgeva spesso alla giovine donna delle domande ciniche. Ebbene? come andavano le cose al Pellegrino? Crepava sempre di salute il genitore? C'era sempre d'aspettare un pezzo? Ed eguali impazienze, per motivi diversi, facevano spasimare Mario. Egli non parlava; ma i suoi sguardi ed i suoi sorrisi mettevano i brividi addosso. Il vecchio Ferramonti si vendicava di tali scelleratezze collo spettacolo insultante della sua prosperità. Avrebbe ucciso un toro con un pugno; destava invidia agli uomini di quarant'anni. Nondimeno Irene giudicava assai diversamente quella floridezza d'apparenza. In realtà padron Gregorio cominciava a temere lui stesso sul serio della propria salute. Accusava una pesantezza di testa, una confusione d'idee; le vertigini, che lo avevano infastidito dal principio della primavera, si facevano più frequenti. Il peggio era ch'egli si ostinava sempre a non voler sentir parlare di rimedi e di cure. Al contrario, una pazza frenesia lo spingeva ai disordini verso i quali aveva pencolato dopo l'apparizione della nuora. Diventava un ghiottone ed un beone incorreggibile. S'attaccava ad ogni pretesto per soddisfare le brame di questo vizio. Non si sarebbe trovato un cattolico fervente ed epicureo, più scrupoloso di lui nell'osservare a tavola le infinite solennità religiose. Tali ricorrenze portavano nella vecchia casa in via del Pellegrino un andirivieni di garzoni spediti dalle botteghe più accreditate di Roma con ogni sorta di ghiottonerie. Si disprezzavano i prodotti di stagione ed a buon prezzo, unicamente perchè non erano rarità e non costavano cari; non bastavano le semplicità della cucina e della tavola casalinga: si volevano i piatti composti, i pasticci di Spillmann, i dolci di Singer, i vini imbottigliati di Francia. Si assicurava la gazzarra per mezza settimana alla cuoca, alla sua parentela ed agli aiuti ch'essa pigliava in tali occasioni. Irene arrischiava talvolta qualche osservazione; ma erano parole gettate al vento. Padron Gregorio le chiudeva la bocca, scherzando e punzecchiandola. Aveva forse paura che ci si dovessero rimettere dei quattrini fra quelli custoditi alla Banca? Poi, egli consentì a transigere: si sarebbe fatto punto a San Pietro, consacrando l'estate ad un regime di dieta e di riposo. Ma, per compensarsi in anticipazione, volle che gli ultimi banchetti restassero memorabili. Bisognerebbe aver visto quello che seppe mettere insieme il giorno del Corpus Domini. Alle tre — l'ora di andare a tavola — la stanza da pranzo, nella luce perlacea delle tende abbassate, e nel suo raccoglimento lindo e profumato, pareva trasformata in un tempio sacro alla ghiottoneria. La mensa preparata pei due convitati rideva nel candore della tovaglia e nel vivo luccicare dei cristalli e del vasellame. L'adornava un bel mazzo di fiori in mezzo ed una ricchezza di sopratavola. Da un lato, alla parete, ma a portata di mano, una credenza carica di bottiglie, di pietanze fredde e di pile di piatti, aspettava la festa che avrebbe fatto piazza pulita sui suoi ripiani. Ferramonti era andato a fare una lunga camminata ed a bere il vermutte per prepararsi lo stomaco. Rientrò un poco stanco, sudato, sfibrato da un primo alito di estate precoce. Apparve in cucina, dove le casseruole e i tegami brontolavano, confondevano insieme i loro vapori ed i loro odori. Si aspettava appunto lui per metter giù la minestra e per cuocere il fritto; ma Irene, al vederlo scalmanato, lo mandò in camera a cambiarsi ed a riposarsi, disponendo che s'indugiasse qualche altro minuto. Finalmente passarono insieme nella stanza da pranzo. All'entrare, padron Gregorio gettò un grido di soddisfazione. Per la madonna! non ci mancava nulla davvero! C'era da far risuscitare un morto! Per conto suo, il vecchio goloso sentiva un solletico allo stomaco e l'acquolina in bocca. Una molle passione gonfiava i suoi occhi ridenti, passava con un lieve fremito sulle sue narici dilatate a fiutare intorno. Nondimeno il pranzo non cominciò con trasporto eccessivo. La zuppa di cappelletti al brodo di pollo e di manzo non fu terminata da nessuno dei due, quantunque la trovassero squisita. Del resto succedeva sempre così: quel tu per tu ad una tavola che faceva pensare ai simposii di una grossa brigata di buontemponi, metteva nella stanza troppo vasta come un freddo di solitudine. I ferri si riscaldavano successivamente, a poco a poco, per la virtù elettrizzante del mangiare e del bere. Infatti, appena arrivati all'umido, certe scaloppine di vitella col marsala, Ferramonti era già diventato un altro uomo. Parlava alto, rideva molto, beveva moltissimo, cogli occhi già impiccoliti e luccicanti, colle gote scarlatte. Rimproverava Irene di non fare onore al pranzo: era una vera viltà! Poi, coi fumi delle vivande, e col gorgoglio del sangue fattosi ardente nei corpi pasciuti, i due commensali avvertirono il caldo. Lo sprazzo di sole che occupava nei pomeriggi un lembo della stanza, battè sulla tenda, filtrò attraverso il tessuto, con un barbaglio diffuso, nell'afa dell'ambiente che faceva appassire i fiori. — Chiudi le persiane! alza la tenda! spalanca le porte! — disse padron Gregorio alla domestica che cambiava i piatti: — qui si soffoca, per Dio! Respirava a fatica. Trovò che c'entrava a meraviglia un piccolissimo riposo. Ma poichè veniva la volta di attaccare un pasticcio, egli, preparandosi a tagliarlo da sè, volle che la domestica lo levasse subito di sopra la credenziera e glie lo collocasse davanti, bene, col garbo che ci vuole per far figurare le cose. — Volete farci sopra un meditazione? — scherzò Irene al vedere il suocero come immerso in effetti a contemplare la crosta del pasticcio. Egli rise. Pensava che l'esterno prometteva bene, e che un po' d'appetito ci sarebbe stato anche per quell'intruglio da tavole signorili. Corpo del diavolo! Non ci era voluto che Irene per mettergli la voglia di assaggiarne, nei suoi vecchi giorni! L'osservazione lo condusse a rivolgere dei complimenti alla giovine donna. Vi si diffuse, sotto una inconscia ripugnanza di tornare al pasto. Poi si rammentò che non avevano ancora stabilito come passare il resto della giornata. Egli non avrebbe sgradito di pigliare un po' d'aria. Che ne diceva Irene, di una scarrozzata a San Pietro in Montorio? — Non c'è nulla che lo impedisca, — disse ella assentendo. Benissimo! Allora restava così stabilito. E adesso non c'era da far niente di meglio che vedere se il signor pasticcio manteneva le sue promesse. Ferramonti prese il coltello; per abitudine antica, sbirciò l'affilatura della lama, e parve contento. Ma d'improvviso, invece di tagliare, si alzò; guardò di qua e di là, colla testa alta, con una vivacità di movimenti incomprensibile. La sua mano destra andò violentemente al colletto della camicia come per islacciarlo. Non potè. Ferramonti, senza un grido, con un solo sospiro rantoloso, cadde disteso; rimase rigido al suolo. Irene gettò un grido. S'alzò, urtando il tavolo e rovesciando una bottiglia piena, che andò a spezzarsi accanto alla testa del vecchio, sul pavimento. Chiamò aiuto nello slanciarsi a soccorrere il caduto. Ma non perdeva la testa; doveva aver già compreso di che si trattasse. All'apparire delle due donne e di un garzone che stavano in cucina, sedò con un gesto i loro gridi e le loro domande. Ebbe dei comandi rapidi e netti, mentre, china, cercava di sollevare il suocero: — Rosa, corri a cercare il medico. Voi altri allontanate la tavola, avvicinate il sofà. Subito! Ferramonti era caduto bocconi; poi, coll'ultimo suo movimento, si era rigirato sopra un fianco. Si sarebbe detto già morto, senza un rantolo soffocato che gli sollevava il petto a lunghi intervalli. Irene gli aveva rialzata la testa; gli asciugava le gote ed i capelli fradici del vino sprizzato dalla bottiglia rotta. Una striscia di sangue scendeva lenta e densa da una ferita della fronte, a destra. — Ci vuol coraggio, — bisbigliò la giovine donna agli orecchi del suocero. — Non sarà nulla: uno dei disturbi soliti; un po' più forte. Avevano disposto il sofà secondo i desiderii di lei. Allora, sempre con cenni brevi e precisi, si fece aiutare ad adagiarvi quel gran corpo inerte, sollevandolo di peso. Ferramonti girò intorno gli occhi senza sguardo ed iniettati di sangue; trasse un pesante sospiro. — Coraggio! — replicò la giovine donna; — mi pare che vada già meglio. Non è forse vero, che va già meglio? Ella mostravasi piena di confidenza, come se avesse voluto dissimulare a se stessa la gravità somma del caso. S'era trasformata in una infermiera dal colpo d'occhio sicuro, pronta a tutte le cure, presente a tutti i bisogni. Aveva slacciato l'infermo; gli collocava sul capo dei panni bagnati; gli aveva tolto gli stivaletti ed avvolti nella lana i piedi. Soltanto il suo pallore estremo ed un lieve tremito delle sue mani accusavano la sua agitazione. La donna ed il garzone rimasti, obbendendola ed imitandola, rendevano dei servigi molto efficaci. — Occorrerà certo del ghiaccio, — osservò, indirizzandosi al garzone. — Bisogna che tu vada subito a comprarne. Il medico la udì nell'entrare. Fece un cenno vivace di assentimento. Egli aveva già dato una rapida occhiata alla stanza, ai resti del banchetto, che si offrivano allora in uno strano disordine. Andò direttamente all'ammalato; lo esaminò, scosse il capo, aggrottò per un momento le sopracciglia. — Prima di tutto, — disse, — bisogna levarlo di qui, e porlo sul letto. Vogliamo provarci? Si accinsero all'opera in quattro. Poi, in camera, spogliarono Ferramonti. La vera cura cominciò soltanto più tardi, con un'applicazione di sanguisughe e di ghiaccio alla testa. All'ora di accendere i lumi, il medico non si era ancora allontanato. Non aveva fatto alcuna domanda sul modo come l'attacco apoplettico si era manifestato. Contentavasi di ascoltare i ragguagli spontanei ed interrotti d'Irene, quasi per semplice condiscendenza. Chiese distrattamente se padron Gregorio avesse un medico proprio; al sentirsi risponder di no, non aggiunse altro. Irene non lo conosceva affatto. Era capitato, per caso, alla cuoca, nella farmacia vicina. Era un uomo di appena quarant'anni, piccolo, calvo, miope, concentrato e taciturno. Doveva prender molto sul serio la propria professione. Seguiva attentissimo gli effetti della cura, occupandosi da sè delle cose più minute. Sull'imbrunire, un baleno di amor proprio soddisfatto gli spianò la fronte. E, per la prima volta, andò a sedere lontano dal letto, aspettando. — Come va? — domandò Irene, raggiungendolo. Egli la guardò un istante negli occhi, producendole come un senso di confusione e di malessere. Si strinse nelle spalle. Non era precisamente perplesso; ma cercava forse una frase. Infine dovette averla trovata: — Bisogna avvertire i figli, senza perder tempo. Irene capì ch'egli conosceva la famiglia, e si sentì maggiormente a disagio. Arrischiò nondimeno un'obbiezione. — Ma non c'è grande accordo fra il padre ed i figli. Non so se il vederli... S'interruppe dinnanzi all'insistenza di quei due occhi scrutatori, penetranti come una punta di stile, colla loro vivida immobilità. Le parole di lei si mutarono improvvisamente in una domanda: — Allora, non c'è più speranza? — È un caso gravissimo. Credo che non ci sia più speranza. — Fra mezz'ora, mio marito ed i miei cognati saranno avvertiti. Ella si allontanò subito per andare a dare delle disposizioni. Quando rientrò, il medico, dal capezzale dell'ammalato, la invitò vivamente ad avvicinarsi. Ferramonti aveva riaperto gli occhi, e li girava intorno come chi cerca. Nel chinarsi sopra di lui, la giovine donna si accorse che la chiamava, con un balbettare indistinto prodotto dalla paralisi. — Son qui, papà! — diss'ella; — mi riconoscete? Egli ammiccò, con una grande soddisfazione; ma ricadde subito in una insensibilità assoluta, non mostrando affatto di udire o di comprendere le sue parole affettuose di conforto. — Lo lasci pure tranquillo, — consigliò il medico. — Non c'è niente di meglio a fare, per ora. Anche la mia presenza è inutile. Tornerò verso mezzanotte. Irene rimase un quarto d'ora a guardare l'infermo. Lo vide assopirsi, a poco a poco, profondamente. Allora ordinò alle due donne rimaste in casa di andare a sparecchiare ed a rimettere ogni cosa in ordine nella stanza da pranzo. Certa di non essere pel momento disturbata, aprì il primo cassetto del comò, prese la chiave del forziere e si avvicinò da quella parte coi movimenti cauti e sospettosi di una ladra presa dalla commozione. Il suocero non le aveva date ancora le lezioni promessele; ma aveva aperto per due volte in sua presenza il forziere dove si custodiva ancora il danaro occorrente per le spese giornaliere. Ella non sapeva se sarebbe riuscita. Cercava di costringere se stessa alla calma, per esser maggiormente sicura dei proprii tentativi. Fu un'ardua impresa. Durante quasi un quarto d'ora, la giovine donna non seppe venirne a capo. Poi, quando meno se lo aspettava, lo sportello del forziere cedette, si aprì. Era stata l'impulsione di un movimento di collera, ch'ella non aveva saputo frenare, sul punto di dichiararsi vinta. I suoi occhi restavano fisi sul forziere aperto, con una immobilità magnetica, mentre la sua fronte, di una bianchezza d'avorio, bagnavasi di sudore. Ma d'improvviso ebbe un moto felino: frugò il forziere; s'impadronì del foglio che cercava, piegato e deposto nel fondo; lo cacciò in tasca, senza esaminarlo. Poi richiuse, sbattendo lo sportello, e girando convulsamente la chiave. Una furia nervosa caratterizzava tutti i suoi movimenti, come una esasperazione di donna che ha paura d'esser sorpresa, e che vuol finirla. Quando potè ritrarre la chiave dalla serratura ed allontanarsi, le forze che l'avevano sostenuta le mancarono ad un tratto. Si gettò sopra la sedia più vicina, respirò forte, comprimendosi colla mano il cuore. Nella stanza, appena rischiarata da una candela sul comò, regnava un raccoglimento funebre, rotto da un alitar lieve e rantoloso dell'infermo, che conservava un'immobilità di cadavere. Uno sciapìto odore di sangue diffondevasi a poco a poco, saturava l'ambiente. Il dramma accaduto metteva la sua nota desolata sopra ogni oggetto, in ogni angolo, in quel silenzio dove un uomo moriva, ed una donna taceva, assorbita dai propri pensieri. Ma lei dimenticava tutto, tutto: anche il suocero. Quando vinse la propria commozione e fu in grado di rialzarsi, una gioia strana scintillava nei suoi occhi. Ripose la chiave del forziere nel cassetto del comò; si guardò intorno vittoriosa. — Di là tutto è all'ordine, — annunciò la donna di servizio, affacciandosi sulla porta. — C'è bisogno di nulla, qui? Irene sussultò. Rammentavasi di non aver più neppure pensato, da quasi mezz'ora, a ricambiare le borse da ghiaccio sulla testa dell'infermo, ed i panni applicati a raccogliere lo spurgo delle sanguisughe che lo svenavano. XVIII. La famiglia Ferramonti seppe condursi convenientemente nei cinque giorni durante i quali si prolungò l'agonia di padron Gregorio. Avevano delle arie perfette di gente colpita da una sventura orribile. La casa paterna li riattirava; Pippo ed i Furlin vi piantarono le tende. Si divisero le stanze da buoni parenti; assunsero di comune accordo ciascuno la propria parte di autorità e di comando in quella casa, che stava per cadere in loro proprietà legittima. L'idea di accomodarsi appunto così, era partita da Furlin. Pippo l'aveva seguita dopo qualche debole obbiezione, mentre rodevasi di non poter dire apertamente che avrebbe preferito sapere il cognato cento miglia lontano. Il solo Mario aveva lasciato che gli altri prendessero posizione per sorvegliarsi reciprocamente da vicino. Egli si limitava a comparire in certe ore fisse di giorno e di notte per informarsi; poi se ne tornava via. Non restava mai più di quanto era strettamente necessario e voluto dalla convenienza. Irene e Teta curavano il moribondo. Peraltro, Teta mostravasi evidentemente la più assidua fra le due. C'era da credere che Irene si lasciasse spesso dominare dallo sconforto di saper vano ogni tentativo. Infatti, non restava più che aspettare la morte inevitabile del vecchio Ferramonti, e che augurargli fors'anche di farla presto finita, per pietà delle sue sofferenze. Un consulto di celebrità mediche, voluto anche questo da Furlin, il secondo giorno di malattia, aveva servito soltanto a confermare le notizie disperate già date dal medico curante. Insomma, le qualità d'infermiera d'Irene non si potevano mettere a confronto con quelle di Teta. Quest'ultima era continuamente al letto del padre, di giorno e di notte; non pensava più a se stessa; dormiva sonni brevi, vestita; mangiava a caso, quando un momento di tranquillità assoluta lo permetteva. E, gradatamente, spiegava un'intenzione soverchiatrice di fronte alla cognata; una sorda gelosia dell'opera sua; un bisogno di sostituirsi alle attenzioni di lei verso l'infermo ed anche all'autorità sua verso le persone di servizio. Forse anche spingevasi tanto innanzi, perchè trovava una imprevista debolezza. Irene cedeva terreno palmo a palmo, disarmata anche per propria colpa da una tendenza crescente verso la solitudine. Spesso mancava anche quando era desiderata. Restava nella propria camera per ore intiere; abdicava non solo a Teta, ma agli altri pure. Doveva cercare apposta d'esser sempre occupata del suocero od altrimenti, quando la famiglia raccoglievasi nella stanza da pranzo a mangiare un boccone in comune, forse per non mescolarsi ai discorsi, che, appunto in tali occasioni, venivano fuori naturalmente. Certe allusioni rivelavano lo stato degli animi, sotto forma di proteste amichevoli. Le provocava sempre Pippo, quell'ingordo bottegaio, che non adorava proprio più che il dio Quattrino. Del resto, egli si dava le arie di un buon diavolaccio: bisognava rammentarsi di essere tra parenti, che non vogliono far ciarlare il mondo. Gli altri approvavano con dei cenni lievi del capo, con ammiccamenti degli occhi pensosi e freddi. La mattina del martedì cessarono totalmente nell'infermo i lucidi intervalli, che nei giorni antecedenti aveva potuto attraversare. Ormai egli era nelle mani del parroco, al quale la famiglia lo aveva abbandonato. Alle dieci gli amministrarono l'olio santo; poi la voce del prete dominò alta e triste colle preghiere e cogli ammonimenti che il cattolicismo destina agli agonizzanti. La camera era già trasformata in una cappella mortuaria. Avevano fatto del comò una specie di altare, stendendovi sopra una tovaglia e collocandovi un crocifisso fra due ceri, il vasetto dell'olio santo, una stola. Il parroco, in cotta, sedeva leggendo le preghiere nel suo libro, con una solennità di convenzione affatto meccanica. Il suo viso scialbo ed astuto conservava l'indifferenza di un uomo per cui nulla di quello che accade riesce nuovo, e che resta al suo posto per obbligo di mestiere. Egli seguiva con sguardi lunghi, muti ed oziosi, le figure che andavano e venivano in punta di piedi, nella fitta penombra della camera: parenti e conoscenti che s'inginocchiavano ai piedi del letto, pregavano un momento e sparivano. L'andirivieni nelle altre stanze rivelavasi con un mormoreggiare profondo, soffocato dalle pareti: un'eco prolungata di discorsi e di passi, che aveva dei fiotti strepitanti e dei fremiti poderosi all'aprirsi di qualche uscio che la lasciava irrompere. Giù per le scale, su, in ogni angolo della casa, l'invasione dei pietosi e dei curiosi trovava un fermento vivo; raggruppava di qua e di là le persone in piccoli assembramenti eccitati. In generale si credeva che la famiglia Ferramonti avrebbe fatto le cose alla grande. Buon Dio! erano tanto ambiziosi! Poi, non c'era fra loro anche un impiegato cavaliere? E nel momento di mettere le mani sul gruzzolo del vecchio, poteva loro venire l'idea di lesinare? Però restava sempre a vedersi, se la parte migliore dell'eredità sarebbe loro toccata. In mezzo alle mestizie ed alle tristezze ostentate, il legale Frati strappava l'anima col suo dolore chiassoso. Era comparso improvvisamente, alle undici. Aggiravasi per le stanze cogli occhi melensi, senza avvicinarsi a nessuno, e tenendosi lontano dalla camera dell'agonizzante. Un incontro fortuito con Irene lo aveva fatto scoppiare in singhiozzi, e gli aveva sciolto lo scilinguagnolo. Non la finì più: chi avrebbe mai potuto prevedere una disgrazia simile! un uomo così robusto, così morigerato! una di quelle figure fatte apposta per campare dei secoli! E bisognava sapere, che uomo spariva! Lui, Frati, avrebbe potuto raccontar cose da intenerirne i selci. Oh, lui non sapeva rassegnarsi! conosceva da troppi anni il povero Ferramonti; era stato il suo ultimo, il suo più intimo amico! Fra un gemito e l'altro, costringendosi a calme subitanee, dopo essersi asciugato violentemente gli occhi, il legale abbordava, uno dopo l'altro, i membri della famiglia. Profferiva i suoi servigi per qualunque bisogno. In quella sciagurata circostanza, sarebbe stata per lui una consolazione il potersi render utile. Alle tre del pomeriggio il parroco, colla sicurezza dell'uomo pratico, annunciò che padron Gregorio sarebbe spirato al tramonto. Allora i Furlin, Mario, Irene e Pippo, si trovarono per un momento riuniti da un istinto comune, che nessuno di loro avrebbe saputo definire. Si ricambiavano occhiate cupe, piene del raccapriccio di trovarsi dinnanzi allo spettacolo tremendo della morte. Balbettavano frasi indefinite. Teta e Pippo singhiozzavano senza menzogna in quella manifestazione esterna del dolore. Dimenticavano tutti di aver desiderato la morte del vecchio, e sorgeva nel loro cuore un desiderio sincero che potesse essere ritardata, fosse pure da un miracolo. — Animo! è necessario sostenere la prova coraggiosamente, — disse Furlin. — Non possiamo fare altro, e la disperazione non diminuirebbe certo la nostra sventura. — Sì, — balbettò Teta; — ma tu non perdi il padre, tu! — D'altra parte, — proseguì egli, — dobbiamo anche pensare ai gravi interessi che richiameranno la nostra attenzione... Lo guardarono tutti vivamente. Furlin si era interrotto, e si accorgeva forse di avere oltrepassato, in quel momento, i limiti della convenienza. Ma, dinnanzi alle mute interrogazioni della famiglia, compiè il suo pensiero: — Non pare che papà abbia lasciato alcun testamento. Allora, se agiremo d'accordo, con prontezza e con sagacia, c'è da risparmiare la tassa di successione sui capitali deposti alla Banca Romana. Si tratta di cinquecentonovantatremila lire nominali. Gli occhi di Teta e di Pippo lampeggiarono; ma Irene, sbalordita di sentire il cavaliere Furlin così esattamente informato, non seppe nascondersi il colpo che la faceva impallidire. Dopo un minuto secondo appena, però, un sorriso inesprimibile di sarcasmo passò sulle sue labbra. Mario dovette comprenderla, senza dubbio: sorrise impercettibilmente a lei; forse finì di tradirla. — Bisogna pensar subito a questo affare, — disse Pippo. Guardava la moglie, fiutando la spogliazione. I Furlin si fecero un cenno d'intelligenza, ed il cavaliere Paolo riprese il suo aspetto desolato: — Ma è possibile occuparsi ora di simili cose? No, no! la testa non regge! Si allontanò, seguito dalla moglie. Irene parve aver l'intenzione d'imitarli. Pippo la fermò esasperato: — Ne sai qualche cosa di più, tu! — E se lo sapessi? — diss'ella, squadrando il marito con un'occhiata terribile. — Ti pare il momento di mettere a campo certi discorsi? — osservò Mario, mentre Irene si allontanava. — Allora sei d'accordo con lei? — ghignò Pippo. — Non so che cosa tu voglia dire. In ogni modo, tu non hai verun motivo d'inquietarti, tu solo fra tutti. — Credi? Ebbene, se ci sono per aria dei giuochi di bussolotto, ne vedremo delle belle! Anch'egli si allontanò. Diffidava di se stesso, e non voleva fare una scena in presenza degli estranei che riempivano la casa. Il legale Frati gli si avvicinò: lo cercava. Aveva visto Irene entrare nella propria camera e rinchiudersi. Non sarebbe stato forse bene impedire alla povera donna di abbandonarsi così sola al suo dolore? Ma, in fondo, non era tranquillo neppur Mario. Negli ultimi giorni Irene aveva molto cambiato con lui. Lo sfuggiva, lo teneva in distanza, rifiutava le sue attenzioni di parente affezionato nella sventura. Soprattutto sottraevasi ad una spiegazione, non accordando all'amante un minuto secondo di colloquio particolare. Al contrario, vi si ricusava in qualunque modo, anche con una risoluzione altera, fredda, già ostile. Egli cercava d'illudere se stesso, argomentando che certo Irene non poteva avere la testa a segno, dinnanzi ad un fatto ond'erano in giuoco interessi formidabili. Fors'anche ella aveva ragioni potenti per non dare al mondo, in quella circostanza, la più piccola occasione di malignare. Le idee che gli passavano pel capo, erano certamente la ricaduta in una malattia di folli diffidenze. Doveva in ogni modo essere così! Che cosa sarebbe accaduto, altrimenti? Ma i suoi timori ingrossavano di continuo. Anche nell'incidente provocato da Furlin, Irene non si era degnata di rivolgergli nè una parola, nè uno sguardo. Lo aveva ringraziato delle sue difese, col fingere di non accorgersi neppure ch'egli fosse presente. Per Dio! forse la morte del vecchio Gregorio non era destinata a rimanere l'avvenimento più tragico nella storia della famiglia Ferramonti in quel giro di tempo! Egli camminò a caso. I parenti che se lo videro comparire dinnanzi, ne restarono colpiti e n'ebbero pietà. Si trovò circondato di confortatori, intesi ad impedire che il suo affanno avesse uno scoppio di disperazione. Udì tutto il frasario della filosofia che si sfodera nelle occasioni funebri. Il suo dolore era certamente legittimo; era anzi un dovere, e dimostrava quanto egli fosse un buon figlio. Ma un uomo deve farsi una ragione. Che cosa avrebbe ottenuto, se si fosse lasciato spingere all'eccesso? Suo padre, infine, pagava alla natura il tributo comune. Col non rassegnarsi, sarebbe stato crescergli un dolore al di là della tomba. Ma gli stessi confortatori, di nascosto, trovavano curiosissimo che proprio Mario si mostrasse il più addolorato tra i Ferramonti. Quando si dice la voce del sangue! O povero monsignore, che dormiva da dodici anni il sonno eterno sotto una lastra di Santa Maria della Pace e ch'era morto senza aver forse saputo ottenere da Mario una mezza parola di rimpianto!... Basta! bisogna proprio confessare che l'uomo è un bizzarro animale, qualche volta! Padron Gregorio morì sull'imbrunire, esattamente come il parroco aveva previsto. Pippo, Teta ed il cavaliere Furlin erano presenti. Fu uno spegnersi di esistenza privo di scosse, inavvertito ai più. Il parroco annunciò che tutto era finito; Paolo chiuse gli occhi al cadavere, e s'inginocchiarono tutti pregando, mentre il prete aspergeva. Irene e Mario non entrarono in camera, sconsigliativi da quegli stessi che si presero l'incarico di recar loro la funesta notizia. Fino alle nove la famiglia rimase sparpagliata un po' dappertutto nell'appartamento, alla mercè degli amici e dei conoscenti. Alle nove ci fu una seconda riunione, in una stanza appartata, coll'intervento del legale Frati. Era per fissare il trasporto funebre ed il seppellimento. La funebre tristezza che impallidiva i loro visi metteva pure nei loro temperamenti una docilità nuova, nei loro cuori un desiderio di restare pienamente d'accordo. Per tal modo non andarono molto per le lunghe, e conclusero col rimettersi interamente a quello che avrebbero disposto il legale Frati ed il cavaliere Furlin. Ogni discussione d'interessi fu rimandata all'indomani della cerimonia funebre. — Abbiamo pensato anche a questo, pur troppo! — concluse Frati. Poi, nel cupo silenzio della famiglia intiera, si rivolse alle due donne: — Volete un consiglio da me? Cercate di riposarvi. Dovete essere affrante. Bisogna proprio riposarsi. Pippo e Furlin appoggiarono vivamente il legale. Essi pure si proponevano di gettarsi sul letto, verso mezzanotte. Il giorno appresso ciascuno avrebbe avuto bisogno di trovarsi in forze. — Allora, — disse Irene, — io andrò a casa. — Meglio! meglio! — esclamò Frati, senza accorgersi dello stupore degli altri. — Ed è inutile tornar domani, signora Irene. Vi manderò mia moglie a tenervi compagnia. — Vuoi che t'accompagni io? — si offrì Mario. — No, no! — rispose subito la giovine donna senza guardarlo; — è inutile. — Ma...? — No! Fu un rifiuto imperioso, che non ammetteva repliche. Irene pregò Frati di condurla fino a Piazza Farnese, a trovare una carrozzella. E salutò subito i parenti, trovando superfluo ritornare a farlo, dopo essersi preparata per uscire. — Ma perchè se n'è andata? — balbettò Pippo, quando ella non fu più presente. — Ha fatto benissimo! — dichiarò Furlin. — Era inutile restare in mezzo a questa desolazione... Si rivolse a Mario, che non aveva aperto bocca: — E tu, non pensi di andate a riposarti tu pure? — Non so, — rispose Mario coll'aria di chi si sveglia da un sogno. — Se fossi in te, andrei. Si vede che non ti senti bene. — Sì, sì! Vedrò... — Fa' a modo mio! S'intende che domani, a buon'ora, tornerai. — Ma lasciami stare! — interruppe Mario impazientito. Si staccò dai parenti, rifiutando di ascoltarli più lungamente. Lo videro ridursi nell'angolo più oscuro della camera, sedere, immergersi in pensieri profondi, che sformavano il suo viso chinato sul petto. XIX. La sera dopo, quando anche Pippo rientrò in casa sua, cercò immediatamente della moglie. Aveva il pretesto di parlarle del trasporto funebre. Si erano fatte le cose decorosamente. Si era chiamata la compagnia delle Stimate, trenta frati e dieci preti. Intorno alla bara dodici torce; sopra la coltre, a nome della famiglia, una corona di fiori freschi: un'idea di Furlin. Insomma, nessuno poteva dire che i figli di padron Gregorio avessero dimenticato i propri doveri. — Non si è trovato alcun testamento, — soggiunse Pippo dopo una pausa. — Domani terremo una prima riunione, per occuparci amichevolmente dei nostri affari. Abbiamo tutto l'interesse ad allontanare qualunque motivo di dissidio, e ci riusciremo. — Dove sarà la riunione? — chiese Irene. — In casa di Paolo, alle dieci... — Perchè non avete fissato qui? — Per un riguardo a Teta. Capisci bene: lei deve per forza pigliarci parte. Non si voleva... — Capisco! Allora andremo insieme? — Vieni anche tu? — Non mi ci avete forse contata? — domandò Irene con uno strano sorriso sulle labbra. — Non si poteva supporre, che tu volessi pigliarti questa seccatura. Perchè, infine, a non esserci direttamente interessati, queste cose sono delle vere seccature... — Bene, bene! Ne parleremo domani. Ma adesso, fammi il favore: lascia questi discorsi. Vuoi mangiar qualche cosa? E per levarsi di torno il marito, ella accusò un male di testa orribile. Non ne poteva più, davvero; le pareva d'impazzire. Si coricava... Il domani Pippo, appena alzato, trovò un'altra sorpresa: Irene era già uscita per andare dai suoi parenti a Sant'Eustacchio, due poveri vecchi che ormai non potevano più uscir di casa, per nessun motivo. Aveva lasciato detto, che non era sicura di rientrare in tempo, per andare insieme col marito alla riunione. Non importava ch'egli l'aspettasse: si sarebbero visti a casa di Paolo. Pippo, senza sapersene rendere esatto conto, si sentì turbato da quella sparizione. Non ebbe però affatto l'idea di andare a raggiunger la moglie a Sant'Eustacchio. Al contrario, gli parve utile intendersi coi Furlin, innanzi ch'ella comparisse, e si presentò dal cognato mezz'ora prima dell'appuntamento stabilito. Narrò gl'incidenti occorsi con una minuzia di particolari, con una verbosità affannosa di donnicciuola che mette in piazza i suoi crucci segreti. Lui non intendeva, per Cristo! che Irene riuscisse a derubare la famiglia. Che gliene importava s'era sua moglie, e se questa circostanza poteva far credere agl'imbecilli ch'egli avrebbe goduto i frutti del ladrocinio? Prima di tutto era un uomo onesto e voleva, secondo giustizia, l'interesse del sangue suo; poi aveva tanto in mano da poter prevedere che cosa gli sarebbe toccato. Quella donna sciagurata aveva chi sa quali idee per la testa. Non voleva i quattrini soltanto per esser lei la padrona e disporne a proprio talento; ma era certo che una volta intascatili, non avrebbe voluto avere più nulla che fare colla famiglia Ferramonti, ed avrebbe trovato ben lei il mezzo di levarsi di fra i piedi l'imbecille marito che si era lasciato accalappiare da una vipera di quella natura! Furlin, correttissimo, cercò di calmarlo: non era proprio ragionevole montarsi la testa con fantasie che nessun fatto positivo confermava. Alla Banca Romana nessuno aveva toccato il capitale della famiglia, e nessuno ormai poteva toccarlo più, fino a ragion veduta; tutte le misure erano già state prese. Ma nessuno della famiglia doveva, a priori, neppur lontanamente dubitare una lesione di diritti evidenti e sacrosanti. E sopratutto, a certe infamie che disonorano la natura umana, non si può e non si deve credere, se non quando sono accadute. No no! Più tardi si sarebbe parlato dei comuni interessi, mettendo assolutamente da parte le pazzie colle quali Pippo se ne usciva. Mario giunse colla puntualità di un orologio. Aveva riacquistato la sua presenza di spirito: una disinvoltura di uomo di mondo, fredda e beffarda. Nondimeno il suo sguardo era cupo. Non aveva più riveduto Irene; non aveva cercato nemmeno di rivederla. Forse fu sorpreso di non trovarla alla riunione; ma non chiese di lei. Il cavalier Furlin, giovandosi della sua posizione di padrone di casa e di erede indiretto, assunse in qualche modo la presidenza della riunione: — Mi pare che ci siamo tutti. Vogliamo occuparci dei nostri interessi? Aveva preparato proposte piene di buon senso e di equità. Parlarono prima dei beni stabili. Possedevano già gli elementi necessari per fare tre parti uguali, lasciando alla sorte il deciderne l'assegnazione rispettiva. Libero ciascun erede di alienare la propria parte; ma vincolato a preferire, a parità di offerta, il coerede che avesse desiderato l'acquisto. E poichè l'adesione in massima fu unanime, quel diavolo di Furlin trasse fuori un mucchio di appunti, dove la divisione era già minutamente tracciata. Si aveva la vigna: trentamila lire; la casa al Pellegrino: trentacinquemila; e la casa in Trastevere: quindicimila. Quota parte di ciascuno: ventisettemila lire circa, non calcolate le frazioni di migliaia. Ma non c'era convenienza a spezzare le proprietà, e fra le ventimilacinquecento lire di crediti lasciati da padron Gregorio, quindicimila erano di sicura riscossione. Era il mezzo di rotondare le partite, valutando questa parte dell'asse ereditario, novantacinquemila lire in totale. Bastava stabilire che il possessore della casa al Pellegrino avrebbe pagato in contanti agli altri eredi tremila lire, da cumularsi coi crediti, perchè fossero assegnate sedicimilacinquecento lire al possessore della casa in Trastevere, e millecinquecento lire a quello della vigna. Restavano crediti per settemilacinquecento lire di lontana o dubbia riscossione. La sorte avrebbe deciso anche a questo riguardo dell'assegnazione delle tre parti uguali che se ne sarebbero fatte. — Non si potrebbe imaginare nulla di meglio, — approvò Mario. — Ciascuno pagherà la tassa di successione sulla parte che gli toccherà, — disse Furlin, invanito di non trovare obbiezione di sorta. — Giusto! — fece Pippo. — Allora non resta che stipulare l'atto relativo. Sarà l'affare d'un paio d'ore. Propongo la vendita del mobilio di papà. Servirà pel notaio. — Pensi a tutto, — sorrise Mario. — Ed occupiamoci dei capitali deposti alla Banca, — proseguì il cavaliere. — Ce ne sbrigheremo anche più sollecitamente, se potremo ritirare i titoli senza che l'ufficio di registro se ne immischi. Penso io a risolvere la quistione, domani. — Ma siamo certi che quel danaro ci appartenga veramente? — domandò Mario. Gli altri sussultarono, guardandolo con occhi sospettosi ed accesi. Pippo fu il primo a rompere il silenzio. — Che cosa ti bestemmii? — domandò: — che ne sai tu, per dire di queste sciocchezze? — Ne so meno di te, — fece Mario sardonicamente. — È un'idea mia. Del resto, se dobbiamo dire che nessuno ci litigherà i capitali, diciamolo pure. Io non mi ci oppongo. Si consultarono cogli occhi; parvero tutti risoluti a fare gl'indiani, e Furlin, riprendendo a parlare, interpretò il pensiero comune: — Non facciamo un'ingiuria al povero papà; tanto più che non avrebbe senso comune, perchè non esistono disposizioni testamentarie. Per carità! stiamo all'argomento. Si cerca di sfuggire al fisco. E nell'ipotesi che riesca, vorrei proporvi d'incaricare uno fra voi del ritiro. Basterà un semplice mandato di procura. — Mi pare che sarà anche di troppo, — osservò Mario colla sua ostinata ironia. — In ogni modo, vada pel mandato di procura! — Allora, mettetevi d'accordo. — Che serve? — fece Pippo. — Non ci sei tu? Hai già mostrato di prenderti tanto a cuore i nostri interessi, e di agire con tanta onestà, che sarebbe un'ingratitudine impedirti di fare quello che tu saprai, per condurre a termine le cose meglio di ogni altro. Non ho forse ragione? Non ebbero tempo di pronunciarsi. Irene comparve fra loro, assolutamente inaspettata in quel momento. Ella era già in lutto rigoroso: il suo viso mostravasi di un pallore marmoreo. Non andò a baciare la cognata; ma, con un saluto lieve e generale, prese posto al tavolo intorno al quale sedeva la famiglia. Non voleva recitar commedie. — Parlavate già d'affari? — diss'ella, gettando un'occhiata sugli appunti sparsi davanti a Furlin. — Scusatemi d'essere arrivata in ritardo. — Dovevi intervenire tu pure? — domandò Mario, mentre le offriva con un sorriso amico la propria alleanza. — Pippo sapeva che sarei venuta, — spiegò lei freddamente. Quindi si volse al marito: — Non l'hai detto? Perchè? — A quale scopo? — diss'egli balbettando. — Nessuno te lo impediva; ma non era necessario... — Era necessario, invece. Ella indovinava i sordi fremiti ond'erano agitati Pippo ed i Furlin. A sua volta lei pure tremava; ma non era scossa per ciò la risoluzione che l'aveva condotta a provocare un incidente di cui tutti sentivano l'importanza suprema. — Vediamo un po', — disse Furlin, frenando con un gesto Pippo e Teta: — ti prego di scusarmi, Irene; ma bisogna che tu ci spieghi questa necessità della tua presenza qui! — È appunto la mia prima intenzione, — affermò la giovine donna. — Nondimeno, non è così facile. Ho da difendere degl'interessi che non sono i vostri. Pippo ruggì. Ratta Irene si alzò, guardandolo fiso e soggiungendo: — Preferisci forse che me ne torni via così? — Bada! — ammonì Furlin, — si direbbe che tu ci porti la guerra. Non capisco a quale scopo e per quale motivo. In ogni modo, siedi e discorriamo da buoni parenti. Ella sorrise beffardamente. Restò in piedi. Riprese a parlare con una sicura lucidezza di idee, nonostante il lieve tremito della voce. — Mio padre voleva ch'io non venissi sola. Non l'ho ubbidito, appunto perchè vorrei che c'intendessimo da buoni parenti. Se non si potrà, pazienza! Vi domando dunque se siete disposti ad approvare quello che ha fatto papà liberamente, e nella pienezza della sua intelligenza. — Vuol dire che tu sei riuscita a spogliarci, non è vero? — domandò Pippo col viso sconvolto. Furlin, pronto, sentì il bisogno di usare mezzi eroici, vedendo anche Mario trasalire e prepararsi ad affrontare il fratello. Impazzivano dunque? dimenticavano di essere in casa sua, e che egli, in casa sua, non permetteva scene sconvenienti? S'irrigidiva nella sua dignità di funzionario titolato; calmava gli animi con un gesto solenne delle mani e della testa. Poi si volse ad Irene, come per invitarla a spiegar meglio il proprio concetto. Lei lo comprese perfettamente: — Lasciamo i discorsi inutili. I capitali che papà aveva deposto alla Banca Romana, sono miei da qualche tempo. È un dono di quel povero vecchio! Dio mio! — soggiunse guardandosi intorno, — m'accorgo sempre più, che accogliete molto male la notizia... — Eccettuato me, — disse Mario. — Tu? — fece la giovine donna. — Ebbene, ti ringrazio della tua buona intenzione; ma non voglio che tu ti dia l'aria di proteggermi in un modo particolare. Davvero, è ora d'intenderci francamente anche su questo punto. La tua eccessiva amicizia non può giovarmi. Mi è già stata dannosa. Sorprendeva la famiglia colla sua audacia e colla sua sicurezza. Nessuno aveva saputo interromperla, e nessuno seppe risponderle al vederla raccogliersi un istante. — In ogni caso, — aggiunse, — il mio difensore naturale dovrebb'essere mio marito. — Parli proprio sul serio? — domandò Mario, esprimendo il nuovo stupore che l'ultima frase suscitava in lui. Ella non mostrò neppure di averlo inteso. Ma la risposta che gli negava, la dava a tutta la famiglia. Gl'interessi di lei non erano forse quelli di suo marito? Lei non si faceva illusione: figuravasi le influenze intese ad alienarle l'animo di Pippo; ma non disperava che quest'ultimo, in seguito, potesse rifletter meglio. Dal canto proprio, ella non poteva spingere l'eroismo fino a rinunciare ad una fortuna, che d'altra parte non aveva cercato. — Ti ringrazio davvero! — fece Pippo con un sarcasmo velenoso; — non so dirti quanto ti ringrazio. Con lo sposarti, non poteva toccarmi assolutamente una più grossa fortuna. — Con lo sposarmi, hai ricevuto da me dei benefizi, che adesso ti fa comodo dimenticare. Non importa. Penserai meglio ai casi tuoi. — E godrò le tue ricchezze, finchè ti farà comodo lasciarmene godere un briciolo. Non sarà per molto tempo, suppongo. — Ti pentirai forse di quello che dici! — minacciò Irene. Furlin s'interpose di nuovo: — Volete permettermi un'osservazione? Coi battibecchi, ci accapiglieremo, senza venire ad una conclusione. Parliamo sul serio, in nome di Dio! E tu, cara Irene, scusami; ma mi pare che tu abbi dimenticata una cosa essenziale. Hai riconosciuto tu stessa, che i tuoi interessi sono in conflitto coi nostri. Ma allora, bisogna bene che tu accetti le conseguenze di questo stato, diremo così, di guerra. Dire ai figli di nostro suocero che i capitali del padre loro ti appartengono, è molto; ma non basta. — Cioè? Dubiti, per caso...? — Ecco l'importante. Credo bene che tu ti appoggi a qualche atto che non conosciamo ancora. A buon conto, un testamento non è. Ebbene, noi abbiamo il diritto d'esser molto scettici sul valore del tuo atto. I tribunali decideranno, e sarà colpa delle circostanze se i nostri mezzi di difesa ti parranno troppo crudeli. Si rivolse subito agli altri soggiungendo: — Avevamo fatto dei castelli in aria: il fisco avrà la sua parte, fino all'ultimo centesimo. E mi pare che non valga proprio la pena di perdere il tempo in altri discorsi. Irene, sempre in piedi, guardò il marito in atto interrogatorio, come aspettando ch'egli decidesse se sarebbero usciti insieme. Egli rispose sgarbatamente. — Ragioneremo a casa. Io resto. La giovine donna non si trattenne un minuto secondo di più; si ritirò muta, disdegnando di rivolgere un cenno di saluto alla famiglia, che lasciava da nemica. Gli altri si guardarono lungamente, confusi. Non erano stati capaci di chiedere ad Irene una spiegazione precisa sui diritti ch'essa vantava contro di loro. Se la giovine donna aveva mirato a sopraffarli con un colpo di scena, il suo scopo era stato completamente raggiunto. Lasciava dietro di sè cresciuto il concetto della propria potenza, avendo già vinta una prima battaglia. Il cavaliere Furlin, l'uomo della fiducia inalterabile nel trionfo finale della propria causa, attraversava un momento critico, sotto lo sguardo muto, insistente e corrucciato della taciturna consorte; e l'accordo vantato da Pippo ad Irene, si screpolava, crollava. Nessuno si sentiva più in vena di parlare della sciagurata eredità. Pippo e Mario si attaccarono al primo pretesto per prendere il largo, evitando fin'anche di pronunciarsi sulle precauzioni che il cognato aveva preparato già, e che si sfiatava a spiegare, perchè i capitali di padron Gregorio non uscissero dalla Banca Romana. Trattavasi di un atto giudiziario da intimarsi prima di sera alla Banca, già prevenuta. Lui, Furlin, agiva per conto esclusivo della moglie. Lasciava liberi i cognati di associarsi a lui, quando lo avessero stimato conveniente. — Ma non ti accorgi che ti lasciano solo? — osservò Teta, non appena marito e moglie si trovarono soli. — E credi che mi stimerei fortunato se fosse altrimenti? — rispose Paolo, stringendosi nelle spalle. — Lascia pur fare a me. Ti garantisco la fortuna di tuo padre fino alle ultime cinque lire di rendita. Ti basta? XX. D'improvviso le parti cambiarono. Pippo doveva aver fatto delle riflessioni da uomo pratico. Egli era in realtà in una posizione delle più bizzarre e delle più delicate. In ogni modo, le sue collere svanivano, ed egli tornò, come per incanto, un marito compiacente e bonario. D'altra parte Mario non si ostinò nelle sue velleità generose e cavalleresche a favore della cognata. Come se avesse meglio pensato lui pure ai casi suoi, abbracciò la causa dei Furlin, e si associò alla loro condotta. S'iniziava uno di quei processi civili che fanno epoca nella cronaca forense. Irene aveva prodotto un atto col quale il defunto Gregorio Ferramonti la dichiarava proprietaria dei capitali deposti alla Banca, in seguito a debiti di varia natura contratti con lei. La dichiarazione, di forma privata ed autografa, aveva avuto la legalizzazione della firma per mezzo di un notaio, ed era stata registrata. I Furlin e Mario attaccarono l'atto come nullo ed illegale nella forma e come carpito artificiosamente in offesa ai diritti di successione legittima che violava, non ostante la data di parecchi mesi anteriore alla morte del dichiarante. I patrocinatori delle due parti garantivano a ciascuna l'esito favorevole, ma la causa prese subito una fisonomia di litigio imbrogliatissimo ed interminabile. L'estate passò negli arzigogoli degli approcci preliminari sino alle ferie, che rimandarono ad epoca ancor più lontana la discussione concreta del merito. Le relazioni della famiglia subirono l'influenza del nuovo stato di cose: Mario ed i Furlin, riappaciati definitivamente, ostentavano il loro accordo perfetto di buoni parenti, senza curarsi affatto di Pippo e d'Irene. Da parte loro, questi ultimi secondavano tale separazione, vivendo in disparte, in un decoroso riserbo di borghesi che affidano alla giustizia legale la tutela dei propri diritti e l'affermazione trionfante della propria onestà. Irene aveva ripreso il sapiente lavorìo di donna che si crea una fama di bontà, e si provava di nuovo a sedurre i cuori. Intorno a lei stringevansi le amicizie vecchie e nuove, occupate ad ammirare il sacrificio ch'ella aveva compiuto nel consacrarsi interamente alle cure filiali pel suocero. Non era naturale che Gregorio Ferramonti si fosse mostrato riconoscente? Come dovevano piuttosto definirsi i tentativi di coloro i quali, dopo essere stati cattivi figli e pessimi parenti, osteggiavano il compimento di un atto nobilissimo di gratitudine? D'altra parte, ammessa l'ipotesi assurda che Irene dovesse soccombere, si poteva con molta facilità prevedere come sarebbero andati a finire almeno una parte dei danari sudati dal padron Gregorio, quelli cioè, che sarebbero toccati a Mario. Oh, gli amici della giovine donna erano veramente scandalizzati! In effetti, Mario, com'era toccato una volta a suo fratello, ricominciava a dare di sè uno spettacolo pochissimo edificante. Riprendeva le abitudini di dissipazione e di scapestrataggine abbandonate nell'accostarsi alla cognata. Riviveva in lui l'uomo dagli appetiti sfrenati che si getta all'azzardo e che fa volare il danaro in un turbine di pazzi piaceri. Aveva delle amanti che gli costavano un occhio del capo; giuocava nelle case clandestine dove una società equivoca di avventurieri e di parassiti spennacchia gl'ingenui. Appunto sulla fine di luglio egli si trovò mescolato in un affare compromettente. La polizia era comparsa d'improvviso ai circoli della contessa Barlei, sorprendendovi una trentina fra uomini ben vestiti e signore oneste, o quasi, intorno ad un tavolo di roulette; e fra gli altri, si susurrò che Mario dovesse render conto della sua qualità di associato appunto alla contessa negli interessi del banco. Lo scandalo si abbuiò per intercessione d'influenze misteriose e potenti, con la sparizione della Barlei. Anche Mario sparì, dopo aver rubato la mantenuta ad un principe parecchie volte milionario, dell'aristocrazia nera intransigente. Aveva lasciato al cavaliere Furlin la tutela dei propri interessi. Non si udì parlar più di lui, sino a settembre inoltrato. A quest'epoca ricomparve improvvisamente solo, invecchiato ed al verde. Ma, per indovinare quest'ultima circostanza, occorreva una grande penetrazione, giacchè, se la fortuna lo aveva realmente abbandonato, egli la sfidava con uno stoicismo eroico. Riprese le abitudini di una vita gaia e spendereccia, rituffandosi nella corrente della speculazione di second'ordine. Lo rivedevano nei crocchi degli affaristi, alla Borsa, in grande famigliarità con gli usurai dell'alta scuola e nella turba dei loro cagnotti, la marmaglia ben vestita che vive delle senserie dello strozzo. Era presente dovunque gli si offriva l'occasione di dare la caccia al danaro e dovunque si poteva spenderlo all'impazzata. Per disgrazia, diventava sempre più inesplicabile come potesse tirare avanti in tal modo. Si accreditava la voce ch'egli avesse trovato il mezzo di mangiarsi in erba l'eredità paterna grazie a qualche anticipatore, o molto accorto, o superlativamente ingenuo. Certo, era quasi impossibile trovare un'altra sorgente ai suoi mezzi: sapevasi che i nuovi affari da lui tentati gli andavano, uno dopo l'altro, alla peggio. Le vecchie volpi del mestiere lo vedevano sopra una china disastrosa. Egli poteva, a piacere, far sfoggio d'una imperturbabilità d'apparenza: ciò non impediva ch'egli avesse perduto la calma dell'uomo sicuro di se stesso, la facoltà delle pronte intuizioni, la forza delle audacie previdenti. Andava innanzi colla testa nel sacco, come se le ubbriachezze delle sue orgie notturne durassero mascherate anche nelle ore ch'egli consacrava agli affari. Egli era puramente e semplicemente rovinato, e provava come una voluttà strana in quella lotta formidabile, destinata a rendere più chiassosa la catastrofe verso la quale camminava velocemente. Ma era un fenomeno che non riusciva a turbargli il pensiero. Un dramma segreto, intimo, occupava tutto il suo essere, sfatando l'importanza di questa rovina fatale, ch'egli prevedeva senza il più lieve fremito. Meritava proprio la pena di preoccuparsene? Sarebbe finita, ed egli voleva proprio finirla, cercando di riuscirvi come un uomo che brucia fino all'ultimo le sue polveri e non concede agli oziosi lo spettacolo di un solo minuto di debolezza. D'altra parte, la sua vanità di mondano non permetteva che si rendessero note le cause del dramma di cui sentiva avvicinarsi la soluzione. Perdio! lasciar sospettare che un suo pari era ucciso da una donna che aveva posseduta, che poteva schiacciare ancora con una parola, e della quale subiva il disprezzo ed il tradimento con una vile rassegnazione da imbecille! Quest'idea sola gli toglieva il lume dagli occhi! No! non avrebbe lasciato dietro di sè tale grottesco ricordo!... Per tal modo, anche Irene era salva. Nel meditare infatti una soluzione tragica, Mario aveva vagheggiato l'idea di una morte violenta in comune, giacchè la giovine donna si ricusava ad una vita in comune. Adesso, non era più possibile pensarci: ella avrebbe vissuto tranquilla, da onesta borghese, al riparo di sospetti e di maldicenze, padronissima di dimenticare completamente che Mario aveva rappresentato una parte qualunque nel mondo. Ma egli era indicibilmente stanco. Aveva invano tentato, come un rimedio, tutte le tempeste dell'esistenza. La piaga del suo cuore e la follia del suo cervello non ne avevano ricavato neppure un refrigerio momentaneo. Rubando l'amica ad un principe romano che gli aveva accordato anche la propria confidenza e la propria amicizia, aveva sperato nelle commozioni di una impresa difficile e di un grosso scandalo; nelle distrazioni di una corsa a Monaco, a Parigi, a Londra, nelle sorprese dell'azzardo, gettandosi nell'avventura colla borsa troppo sfornita; nelle acri ebbrezze di quella donna, per la quale tutta Roma galante perdeva la testa. Illusioni! Era stata una parentesi nella sua vita, di cui conservava uno sbiadito ricordo, come di piaceri incompleti, di noie, di stanchezze e di nausee. A Parigi, la donna che aveva preferito le stravaganze di lui ai milioni del principe romano, aveva dovuto dichiararsi stufa, piantandolo. Egli non ne aveva risentito rincrescimento alcuno; al contrario, aveva respirato più libero. L'idea di un suicidio, confusamente abbozzatasi nel suo spirito durante l'agonia del padre, si era maturata in quei giorni, assumendo il carattere di un progetto definito. Ritornava a Roma perchè subiva l'attrazione misteriosa degli sciagurati che vanno a cadere sulla stessa scena dove si è svolto il dramma che li uccide. Giustificava a se stesso la ricomparsa con mille pretesti assurdi, che lo avrebbero fatto ridere di compassione se fosse stato appena in grado di giustificarsi. Egli secondava unicamente le esigenze imperiose della propria passione. Aveva bisogno di sentirsi vicino ad Irene; di respirare l'aria ch'ella respirava; di avere occasione di rivederla, fosse pure da lontano e di nascosto. Gli stordimenti di una esistenza febbrile non riuscivano a placare certamente il suo dolore; ma gli risparmiavano almeno certe crisi di viltà, in braccio alle quali le sue solitudini lo gettavano, immancabilmente. Allora l'uomo forte e scettico si sorprendeva a piangere come un bambino. Al ricordo d'Irene egli associava imaginazioni strane, che facevano di lei un essere fantastico, bello e terribile. Delirava nella febbre, nello spasimo, nel martirio ineffabile del suo amore disperato. Avrebbe voluto poter credere che sua cognata fosse un genio delle tenebre, una fata, un demonio, uno di quegli esseri, insomma, cui la favola attribuisce di mercanteggiare coi baci le anime. Egli, dei baci, ne aveva già dati tanti ad Irene, e ne aveva ricevuti già tanti; ma che importava? Uniti insieme tutti, non valevano quell'uno che intendeva lui: un bacio da restarne fulminati! Poi, riflettendo, egli si persuadeva di aver sofferto qualche lesione al cervello. Rammentava che una delle forme preferite dalla pazzia, è appunto la fissazione erotica: la passione amorosa. Certo, uno spirito equilibrato non potevasi spingere fino alle sue frenesie. Chi sa! un sistema di cura razionale, in un intervallo di tempo più o meno breve, poteva forse guarirlo. Forse, andando innanzi di quel passo, ed arrivando a non poter più dissimulare, gli amici, i Furlin ci avrebbero pensato loro ad assoggettarlo, per amore o per forza, alla cura che gli occorreva, ed allora... Egli arrivava a questo punto coi capelli ritti sulla fronte, col raccapriccio dello spavento nelle ossa. Batteva i denti figurandosi di vedersi trascinato a viva forza nella cella di un manicomio, dove si sarebbe visto dinnanzi, nel delirio, bello, infernale, inesorabile, eterno, il fantasma d'Irene, per straziargli il cuore, per farlo morire, oncia ad oncia, forsennato! No, non era possibile durarla più a lungo! Indugiava proprio, per dare alla gente il diritto di ridere alle sue spalle? Un mercoledì il cavaliere Paolo Furlin comparve improvvisamente da lui, per dargli una notizia spiacevole: il tribunale aveva pronunciato una sentenza incidentale, che ammetteva Irene a produrre la prova testimoniale sulla circostanza che il debito, od atto di libera donazione fra vivi di Gregorio Ferramonti, risultava, oltre che dalla dichiarazione presentata, anche da precedenti atti verbali del dichiarante. Furlin veniva per sentire se Mario avesse in quella congiuntura qualche suggerimento o qualche disposizione da dare. Mario guardò il cognato, ridendosi di lui. Quali suggerimenti? Che sapeva egli d'imbrogli forensi? Aveva detto una volta per tutte, che si rimetteva a quello che Paolo e gli avvocati avrebbero fatto, e bastava! Gli rendevano un grosso favore se lo lasciavano in pace. — Allora — disse Furlin, — t'informerò. — Rispàrmiati questa fatica, sino alla conclusione finale. Siamo intesi, non è vero? Come sta tua moglie? Vuoi un sigaro? Non parlarono più della causa. Poi Mario, partito Furlin, si abbigliò ed uscì. Da una diecina di giorni egli non aveva più visto alcuno della sua famiglia, e quella comparsa gli lasciò un viso brusco d'uomo preoccupato; ma si rasserenò appena in istrada. Andava da Morteo, al Corso, dove alcuni amici lo aspettavano per combinare una cena da scapoli, una piccola orgia colle relative ragazze di attitudini provate a simili passatempi. Fu un progetto maturato rapidamente e tumultuariamente, fra le facezie, le risate e i motti di spirito dell'allegra brigata. La scelta delle signore dovette rispondere a tutte le esigenze di un pugno di buontemponi conoscitori del genere ed inesorabili contro i pregiudizi di una graziosa donnina. Uscirono dalla birreria prima di essersi messi interamente d'accordo su questo punto delicato, ma, all'angolo di piazza Colonna, fu una quistione esaurita. La brigata si sparpagliò. Mario andava ad invitar Fosca, una ragazza che abitava in via del Teatro Valle. S'incamminò coll'aria beata di un fannullone che gusta il piacere di una passeggiata a piedi, occhieggiando le signore che incontrava e salutando qualche conoscente. Era passato dalla Rotonda. Nell'entrare in piazza Sant'Eustacchio, tenne, senza farci caso, il lato dove si apriva la bottega di Pippo. Ma nel raggiungere la vetrina, si trovò appunto faccia a faccia col fratello. Ebbero ambedue un leggero sussulto, fissandosi come due persone che non si aspettavano l'incontro. Poi Pippo volse altrove il capo, deciso a fare l'astratto, cercando di tornare indietro. — Ebbene, — disse Mario ridendo; — si tratta la gente così? L'altro, disorientato, balbettò qualche monosillabo. Non sapeva evidentemente come contenersi e sporse quasi incosciente la mano, che il fratello gli strinse subito con amichevole disinvoltura. — Tira via! — soggiunse Mario, sempre allegramente: — è un pezzo che non ci vediamo. Ma non c'è neppure da chiederti se stai bene. Crepi di salute, sornione che sei! Gli batteva sulla spalla con la confidenza di una grande intimità. Peraltro Pippo, ancora incerto e diffidente, continuava a balbettare, accennando confusamente ch'egli, a sua volta, trovava in buona salute Mario. Allora questi lo assalì di fronte: — Mi credi venuto con qualche secondo fine? — Ti pare possibile ...! — Sta' zitto! Lo credi! È uno sciocchezza. Ma, passando di qui per caso, mi sono fermato proprio apposta. In parola d'onore! facciamo una figura ridicola coi nostri corrucci da ragazzini! Io ne sono stufo, per conto mio, e giacchè l'occasione si offre, ti propongo di rifar pace. Attese un momento invano, che l'altro rispondesse. — Non parleremo d'interessi, — proseguì, — e non trarremo in ballo Irene, nè punto, nè poco. Ti accomoda? Staremo insieme qualche volta, in buona armonia, lasciando che gli avvocati ci cucinino come loro parrà, e che tua moglie mi sfugga come la peste. Si capisce che, a questi lumi di luna, non può scegliermi per suo cavalier servente. Ma tu! Quale motivo hai di farmi il broncio? Pensi sul serio che Furlin ed io non difendiamo anche la tua causa personale? Sorprese nel fratello un aggrottamento di sopracciglia ed uno sguardo sempre più sospettoso. — Hai ragione! — esclamò riprendendosi: — dico delle cose stupide. Che vuoi! mi affatico a persuaderti della mia sincerità. — Ma s'è inutile! — dichiarò Pippo, diventando ad un tratto cordiale. — Ho io qualche cosa contro di te, forse? Non ci siamo visti da un pezzo, perchè il caso non l'ha voluto. Adesso ci vediamo. È semplice. Aveva preso il partito di non resistere alle profferte del fratello, curioso di vedere dove in realtà sarebbero andate a parare. Dentro di sè rifletteva, che se Mario era venuto per uno scopo, aveva dovuto certo prevedere anche il caso di vedersi respinto per agire in conseguenza. Allora il meglio era di non lo lasciar più sfuggire, per tenerlo d'occhio. Frattanto avvertivano la bizzarra singolarità del loro colloquio, che lasciava entrambi in una sorda impressione d'imbarazzo e di disagio. Mario cercò di uscirne: — Hai proprio ragione: è appunto come dici. D'altra parte, a malgrado della nostra buona volontà, non continueremo gran tempo a vederci. — Cioè? — Medito un viaggio. — Come quello della scorsa estate? Ne ho sentito parlare, buonalana! — No, no! Si tratta di una cosa seria. Voglio mutare aria definitivamente. — Càspita! E ti risolverai presto? — Dipende dalle circostanze. — Capisco. — In ogni modo, al più presto possibile. Ne riparleremo. Rimasero insieme quasi mezz'ora, sulla porta della bottega. Alla fine Mario si rammentò di esser cascato là per andare da Fosca. Lo disse al fratello ridendo, e nel salutarlo, attribuì all'allegra ragazza tutto il merito del riavvicinamento accaduto. È proprio vero quello che dicono presso a poco le sacre carte: le vie del Signore sono infinite e misteriose! Però Mario, nonostante il tempo perduto col fratello, invece di fermarsi subito da Fosca, tirò di lungo fino a Ponte Sisto, coll'aria profondamente assorta. Rifletteva. Egli non aveva premeditato l'incontro col fratello, si era fermato sotto l'influenza di una forza misteriosa estranea al suo libero arbitrio, e sentiva che la stessa forza lo avrebbe ormai guidato quasi ogni giorno nella bottega di Pippo. Naturalmente, egli aveva mentito: la sua passione esigeva ch'egli si assicurasse i mezzi di riaccostarsi ad Irene in modo sicuro, ed al riparo dalla maldicenza, prima di morire. XXI. I due cognati s'incontrarono quindici giorni dopo. Fu appunto nella bottega di ferrarecce. Non si poteva, del resto, mettere assolutamente in dubbio la fortuità dell'incontro: era stato Pippo a farsi accompagnare dal fratello, incontrandolo al Corso per caso, e dimenticando che sua moglie doveva stare dai parenti. Ella trovò Mario, nell'entrare per dire qualche cosa al marito, prima di tornare a casa. Tuttavia Mario ed Irene si rividero senza commozione apparente. Si ricambiarono un cenno di saluto, come due persone che non hanno fra loro nulla di comune. Mario si tenne in disparte, mentre la giovine donna parlava col marito, poi seguirono alcune frasi di colloquio generale sopra argomenti futili e di niun conto. Irene si trattenne così, sei o sette minuti, colla sua espressione calma ed un po' grave. Pippo spiava la moglie ed il fratello, con un vago sogghigno d'uomo a cui non potrebbe sfuggire alcun segno compromettente. Ma l'esperimento dovette rassicurarlo: appena uscita la giovine donna, domandò a Mario: — Come la trovi? — Trovo che sei un marito fortunato, — rispose Mario ridendo. — Ti puoi vantare di goderti una delle più belle donne di Roma. È miracoloso! ella, invece di invecchiare, ringiovanisce. — Lo dicono tutti, e pare a me pure. — E ci trovi tornaconto, eh? briccone! Bada però di aver giudizio con lei! Io, per conto mio, non mi lamento d'essermi posto del tutto al riparo dagli effetti del suo cattivo umore. — Le do forse motivo d'esser malcontenta di me? — disse Pippo soprappensiero. Alludevano qualche volta, di sfuggita e velatamente, alla misteriosa potenza della giovine donna, che avevano ambedue esperimentata. Mario parve assalito ad un tratto da una curiosità: — Lo sapeva che adesso vengo spesso da te? — Lo sapeva di certo. Ho avuto occasione di dirglielo un paio di volte. Perchè? ti dispiace forse? — Punto. Come ha preso la cosa? — Non vi ha dato nessuna importanza. — Dev'essere infatti così. — Mi par bene! È certo che non si è mai trattato fra noi di ordire congiure contro di lei, non è vero? Mario guardò vivamente il fratello, colpito anche dal tono singolare delle ultime parole; ma non gli riuscì quel giorno, come non gli era riuscito in altre simili occasioni, di accertarsi se le dettava un pensiero segreto, che non stimava ancor giunto il momento opportuno per esprimersi senz'ambagi. Gli pareva talvolta che Pippo fosse emancipato dalla moglie molto più di quello che volesse parere. Il buon marito aveva dei rapidi sussulti allorchè si parlava di quella donna, dei bagliori di sguardo pieni di malizia volpina e di ferocia ipocrita. Alcuni giorni appresso, lo stesso Pippo se ne uscì con una proposta singolare: — Perchè non vieni qualche volta a trovarmi a casa? Hai forse paura che Irene ti mangi? — Non ne ha l'aria davvero! — disse Mario. — Ma ti viene un'idea matta. Non ti pare che la mia ricomparsa in casa di tua moglie solleverebbe un vespaio di pettegolezzi? — Allora se ne sono già fatti. Non vi siete trovati già insieme, tre o quattro volte qui, davanti al pubblico? — Quattro volte, se credi. — Meglio! E non vi siete presi pei capelli, mi pare. Questo è l'importante! Ai discorsi degli scioperati, chi ci dà retta? — Vuoi esser sincero? — domandò Mario. — A proposito di che? — Di tua moglie. È forse lei che ti ha suggerito di invitarmi? — T'assicuro di no. Ti voglio io proprio. Ho forse delle ragioni a volerti. Ti basta? — Allora sentiamo queste ragioni. Pippo gli rise sul viso. Com'era pronto, Mario, a montarsi la testa! Le ragioni erano che in bottega, e di giorno, perdevano ambedue del tempo prezioso, reclamato invece dai loro affari rispettivi. In casa si ciarla meglio sul più e sul meno, comodamente seduti, magari con un buon bicchiere di vino dinnanzi. Insomma, egli aveva già avvisata Irene dell'invito; un rifiuto sarebbe stato assurdo ed egli lo avrebbe preso per un affronto personale. — Verrò, — concluse Mario. La bonarietà ostentata e chiassosa del fratello non lo aveva tratto in inganno. Pippo agiva senza dubbio per un secondo fine, abbastanza potente per fargli passar sopra alla stravaganza d'invitare in casa un uomo, impegnato in un litigio giudiziario contro sua moglie, così grave come era quello promosso appunto da Mario. Ma quest'ultimo se n'era preoccupato appena per un istinto di momentanea curiosità. Ciò che importava a lui, era che i disegni reconditi di suo fratello agevolassero quelli della sua propria passione. Questa volta non poteva dire davvero d'essere stato poco fortunato! Non aveva tempo da perdere. Alla più lunga poteva durarla un'altra quindicina di giorni, dopo i quali non ci sarebbe stata forza umana capace d'indicargli una sola via di mezzo fra la prigione e la morte. Vedeva degli uomini da lui deliberatamente mistificati, prepararsi a metterlo colle spalle al muro ed a fargli scontare spietatamente la mistificazione. Non gli sfuggivano le occhiate lunghe ed equivoche di coloro che fiutavano in lui il galeotto od il cadavere. Molti si domandavano certamente a quale scopo egli vivesse ancora, e cominciavano ad averlo in conto di vigliacco ributtante. Egli era tranquillo. Si burlava di tutti, col suo sorriso e coi suoi sguardi pieni di gelida ironia. Indovinava di aver pienamente raggiunto il suo scopo, e sentiva come una funebre impressione di trionfo, che lo rendeva orgoglioso. Si burlava pure di Pippo: che scherzo atroce stava per toccargli nel momento in cui si preparava a servirsi del fratello come di uno stromento! Ma, in fondo, Pippo gli dava le nausee ed i raccapricci che gli esseri immondi destano spesso sui temperamenti nervosi. Quel miserabile sapeva senza dubbio Mario sull'orlo di un precipizio; ebbene! per sfuggire il pericolo di porgergli il più piccolo aiuto, egli, fingendo di crederlo sempre all'apice della fortuna e della ricchezza, gli aveva tenuto più volte discorsi brutalmente egoisti: un uomo deve barcamenarsi e farsi strada da sè, non è vero? Sono degni del manicomio, quelli che si lasciano intenerire il cuore da un birbaccione in disdetta, ed arrischiano il proprio perchè non affoghi. Lui, Pippo, non avrebbe dato un centesimo al suo parente più stretto, se lo avesse visto morire di fame. Che serve? Era fatto così, lui! E gli pareva d'essere anche troppo leale e galantuomo a proclamarlo a viso aperto. Nella sua vita di avventuriero, Mario non aveva imparato mai a disistimare gli uomini, come lo imparava al contatto del fratello in quegli ultimi istanti terribili della propria esistenza. Fantasticava di andare a morir lontano, in alto mare, unicamente per evitare che Pippo potesse concorrere alle spese del suo funerale, od infliggere al suo cadavere l'ultimo sfregio di compassionarlo. Invece, egli vedeva ogni giorno il fratello, gli faceva un viso amico, ritornava in casa sua. Non si poteva imaginare una più atroce ironia. E dire che vi sono degli imbecilli i quali credono che valga la pena di sopportare la vita mantenendosi onesti, ed empiendosi la bocca di paroloni vuoti di senso! Il primo appuntamento in casa di Pippo era stato fissato per tre giorni dopo la proposta e l'invito, ad un'ora di notte. Mario anticipò. Saliva le scale lentamente, con un sudor freddo sulla fronte, chiedendosi s'era possibile entrare in tale stato di subitanea agitazione. Doveva frenarla; dissimularla, per lo meno. Sul pianerottolo si dovette fermare, soffocato. Finalmente, con uno sforzo di volontà, riuscì a tirare il cordone del campanello. Ormai non gli era più possibile allontanarsi. — Avvisa Pippo che c'è suo fratello, — disse alla domestica che gli aveva aperto. — Ma il signor Pippo non c'è, — osservò la ragazza. — Avvertirò la signora. S'accomodi. Le labbra di Mario ebbero una contrazione nervosa. Era giunto mezz'ora prima dell'appuntamento, senza rendersene conto; e nondimeno egli aveva anticipato per uno scopo definito: quello di trovar sola Irene e di parlarle prima che Pippo potesse intervenire nel loro abboccamento. Irene apparve d'improvviso, sorridente, calma, cordialissima. — Facciamo proprio delle cerimonie, fra noi? Passa dunque, Mario. Buona sera! Entrarono nel salotto dove erano stati tante altre volte, in altri tempi. Irene sedette sul canapè, accennando al cognato una sedia vicina. Per un breve istante si guardarono negli occhi, scrutandosi. — Non ti annoierai lungamente, — disse la giovine donna. — Pippo sarà qui fra poco. — Per carità! — fece Mario, — mi dispiace piuttosto per te, ed il torto è proprio mio. Ho anticipato. — Aspetteremo. Bisogna pure abituarci a stare di nuovo insieme, giacchè Pippo ti vuole. — Credi dunque che avremo il tempo di abituarci, come tu dici, a star di nuovo insieme? — domandò Mario con una strana e sottile ironia. Ella mantenne la sua calma sicura ed un candore ostentato di donna che non indaga i sottintesi delle parole che ascolta. — Il difficile era nel ricominciare. Abbiamo ricominciato e l'abitudine si rifarà presto. Volevi forse alludere al tuo viaggio? — Forse. — Me ne ha parlato Pippo. Intendi di partir presto? — Prestissimo. Me ne accadrebbero di belle, se non mi risolvessi! Ma non merita il conto parlarne. Ella fece un lieve cenno di assenso. Mario trasalì d'improvviso, sembrandogli di sorprendere nella giovine donna gli stessi egoismi sordidi di Pippo; lo stesso partito preso di non permettere a lui alcuna allusione alle sue condizioni disperate. Erasi seduto ignorando quale contegno avrebbe assunto. Adesso lo sapeva. Sorrise. — Non mi serbi rancore di avere accettato l'invito di Pippo, non è vero? — Perchè dovrei serbartelo? Tosto che le nostre divergenze d'interessi si dibattono in tribunale, non ho più motivo alcuno di chiuderti la mia porta in faccia. Imitiamo un pochino i deputati che si accapigliano alla Camera e pranzano insieme, non ti pare? — Sei sempre una donna di spirito. — Per così poco? D'altra parte, non c'è di mezzo la volontà di Pippo? Egli è ben padrone di fare a suo modo, in casa sua. — Oh! ti scuopro anche dei sentimenti molto lodevoli di moglie sommessa! Me ne congratulo. — Ti prego, cerca d'essere meno mordace, — disse Irene, fissando Mario con un pallido sguardo. — Non voglio supporre che sei qui per... — Per contentare Pippo, puramente e semplicemente... Cioè! sicuro! anche per una mia curiosità particolare. Il tempo vola così veloce, che il passato mi pare un sogno lontanissimo... — Vuoi ascoltare un mio consiglio? — diss'ella, pronta e gelida; — dimentica, allora, che il passato abbia esistito. È il solo mezzo che tu abbia per contentare tuo fratello nelle sue fantasie, e te ne avverto pel caso che il contentarle ti premesse. Vedi bene: sono franca e precisa. — Allora rinuncio anche alla mia curiosità per imitarti appunto nella franchezza. Ho da dirti qualche cosa, poche parole, perchè a momenti Pippo sarà qui, e non è affatto necessario metterlo a parte delle nostre piccole confidenze... — Ti proibisco assolutamente di continuare! — esclamò Irene, interrompendolo col viso alterato da una collera orgogliosa e cogli occhi risplendenti di ardire e di sfida. Ma fu per un istante solo. Aveva fatto un movimento come per alzarsi; ricadde a sedere soggiogata e fremente. — Abbi pazienza, — disse Mario: — non è quistione di non volermi ascoltare. Bisogna invece che tu mi ascolti. — Tu no, non sei cambiato! Sei sempre l'uomo che sa sorprendere una donna ed abusarne. Mario alzò le spalle, disprezzando di rilevare il sarcasmo velenoso. Riprese a parlare colla sua calma spaventevole. — Ti ripeto che non si andrà molto per le lunghe, e, se può farti piacere, ti annuncio pure che ci vediamo per l'ultima volta. Ho sempre diritto di dartene la mia parola d'onore, e te la do. Ho in testa che tu debba considerare la cosa come una fortuna grande e non aspettata. Perchè non me ne ringrazi? — Lascia le parole inutili! Che vuoi? Spìcciati. — Voglio dirti addio. L'olio della mia lucerna si è consumato, e lo stoppino sta per estinguersi... Ah! non lo credi? Aveva sorpreso un lieve sorriso sulle labbra di lei; un atto appena percettibile di scetticismo sprezzante, che lo aveva fatto trasalire. — Ah, non lo credi? — replicò insistendo, colla voce mutata, cogli occhi sinistramente accesi. Lei si ribellò, non volle essere burlata. — Sei rovinato, — diss'ella, — e pensi a mettere i confini fra te ed i tuoi creditori. Ecco tutto. — Sbagli. Sicuro! per causa tua, sono rovinato. Ma non mi darò il disturbo inutile di viaggiare. Io mi uccido, mia cara! — Avrai tempo a riflettere che commetteresti una pazzia. Te lo impediranno tutti quelli a cui confiderai il tuo progetto. Tacquero un'altra volta, ed un'altra volta Mario sorrise, come affatto insensibile alle mortali derisioni della cognata. Nondimeno un intimo senso di angoscia si tradì nella sua espressione. Cercava le parole. — Vedi! — diss'egli alla fine; — io non volevo tenerti questo linguaggio; mi ci hai tirato tu pei capelli. Per quanto io possa saperti perfida, ti amo sempre. E ti volevo usare la delicatezza di lasciar credere a te stessa, che non entravi affatto nelle cause della mia morte. Adesso, basta che lo credano gli oziosi. Può darsi che i rimorsi siano in realtà uno degli affanni dell'esistenza, ed io non domando contro di te altra vendetta, che lasciartene uno. — Hai finito ancora? — domandò la giovine donna, alzandosi fremente ed agli estremi della pazienza. — No! non ho ancora finito. — In questo caso, penso io ad impedirti di continuare! Non ne posso più, capisci? Pagherai salata la scena teatrale che hai avuto il capriccio di farmi. Sei un miserabile! Era livida, convulsa. Perdeva la testa in un parossismo di furore, che la spingeva a slanciarsi sul cognato ed a strozzarlo colle sue proprie mani, se le fosse stato possibile. Ad un tratto anche Mario, imitandola, si alzò. Rimase dinnanzi a lei, immobile, colle braccia incrociate sul petto, sogghignando. Ella dètte un passo indietro. Quella figura livida ed inesorabile le faceva gelare il sangue nelle vene. Era per la giovine donna qualche cosa come l'apparizione di un sogno spaventevole. Lei stava per gettare un grido. — Via! cesserò, — disse Mario, ridendo ancora. — Ti conviene? Non voglio che Pippo ti sorprenda in cotesto stato. Irene respirò forte. Vinceva il terrore di un istante, e sentiva rinascere la propria audacia in faccia a quell'uomo che, in sostanza, non era mai stato capace d'altro che di parole. Allora pensò appunto d'essersi lasciata cogliere più volte dalla paura delle sue chiacchiere, creandosi un cruccio vano, un ostacolo tormentoso, scendendo inutilmente nell'adulterio. E riebbe il sorriso di disprezzo sparito dalle sue labbra poc'anzi. Alla fine, più beffarda che non fosse stata ancora, parlò di nuovo al cognato. — Pippo non arriva mai! Se tu rimettessi ad un'altra sera la tua visita?... — Tu credi che avrò tempo di tornare un'altra sera? — domandò Mario col tono stesso. — Mio Dio, sì! ne sono persuasa. Sei un uomo ragionevole, e gli uomini ragionevoli non commettono mai delle bestialità irreparabili. — Dunque addio. Saluta Pippo da parte mia. Digli che tu stessa mi hai costretto ad anticipare la partenza. Lei trasalì all'ultima frase, colpita da un confuso sospetto. Mario si allontanò dirigendosi in fondo al salotto, verso una sedia dove aveva lasciato il cappello. Ma, immobilizzata dallo spavento, la giovine donna vide il cognato sedere colla mano armata di un revolver. Fu un attimo: mentr'ella cacciava un grido, Mario introdusse la canna del revolver nell'orecchio, ed un colpo smorzato nella cavità cranica del suicida rimbombò. Lei gridò ancora come una pazza. Invece di correre verso il cognato, indietreggiò fino all'angolo più lontano da lui. Lo spavento le fiaccava le gambe, la strozzava. All'apparire della domestica non trovò che un gesto da forsennata, una sillaba rantolosa, indistinta. Nel primo momento la serva non capì. Poi essa pure gettò uno strido di paura e fuggì chiamando aiuto, dimenticando la padrona, spinta solo dall'idea di fare accorrer gente. Mario, sopra una poltroncina, era rimasto riverso sul dossale colla testa un po' inclinata verso la spalla destra, colla mano penzoloni, stringente ancora il revolver. Il sangue gli scorreva a fiotti dal naso, imbrattandogli la camicia sul petto e gli abiti. I suoi occhi aperti restavano fisi sul punto dove egli aveva visto Irene per l'ultima volta. La morte era stata istantanea. Ma dei vicini accorrevano; la casa andava in subbuglio. Delle figure si affacciavano alla porta del salotto e si ritraevano vinte una dopo l'altra dallo stesso raccapriccio. Pippo comparve in quel momento; fu il primo a precipitarsi dentro. Aveva solo inteso, fra l'agitazione della gente che gl'invadeva la casa, come suo fratello si fosse ucciso. Restò un istante in mezzo al salotto, guardandosi intorno, ricostruendo per così dire coll'immaginazione la scena che doveva essere accaduta. Poi, con una esclamazione angosciosa, balzò accanto al cadavere di Mario, gli sollevò la testa, chiamandolo a nome, invitando disperatamente i presenti a soccorrerlo. Frattanto, circondavano Irene. Rigida, livida, fremente, cogli occhi sbarrati e colla bocca riarsa e semiaperta, era in un parossismo convulso. Come costrettavi da un fascino soprannaturale, senza vedere e senza udire altro, ella guardava Mario, sempre Mario, ostinatamente quel cadavere caldo ancora, dagli occhi aperti e dalle narici grondanti sangue. Opponeva una resistenza passiva a coloro che cercavano di trascinarla altrove. Un sorriso sinistro disegnavasi a poco a poco nella contrazione delle sue labbra. Ed intorno a lei era una febbre spasmodica di curiosità, la manìa sfrenata di apprendere i particolari della tragedia. La scongiuravano di calmarsi, di farsi coraggio e di uscire; ma più ancora le chiedevano come fosse accaduto il fatto, s'ella vi era stata presente, perchè non aveva potuto chiamare aiuto ed arrestare la mano del disgraziato. Dio santo! era un fatto incredibile! — Lasciatemi in pace! — gridò lei d'improvviso, svincolandosi rabbiosamente da chi la teneva. — Vi dico che non ho bisogno d'alcuno! Non aveva cessato un momento di guardare il cadavere di Mario. Vi si avvicinò risoluta, nel tempo stesso che Pippo, persuaso della inutilità dei soccorsi, lo abbandonava. Marito e moglie si trovarono di fronte, si guardarono muti, al disopra del cadavere del suicida. Pippo rabbrividì, si ritrasse assalito dalla paura di quella donna. Ma già ella non lo vedeva più. Il cadavere di Mario assorbiva di nuovo il suo spirito. Ed una rabbia forsennata saliva in lei. Prevedeva tutto il danno che le avrebbe recato quel suicidio; comprendeva i motivi di vendetta che avevano indotto Mario a commetterlo là, dinnanzi a lei, come risposta alle sue ingiurie, troncando così un abboccamento senza testimoni. L'assaliva un desiderio selvaggio di gettarsi come una tigre sul corpo esanime che sorrideva nella calma suprema della morte, per sputargli in faccia, per strappargli il cuore. Allora, non seppe più frenarsi. La videro stravolta, nella crisi della sua ira infernale; la udirono balbettare tre volte la stessa parola: — Infame! infame! infame!... XXII. I cercatori ed i gonfiatori di scandali ebbero di che sbizzarrirsi oltre ogni desiderio. Per giunta al resto, si seppe che Irene aveva abbandonato il marito. Si raccontavano i particolari di una scena inaudita accaduta il giorno stesso dei funerali di Mario, un assalirsi furibondo fra marito e moglie dinnanzi alla gente, senza un'ombra di rispetto umano, palleggiandosi ingiurie mortali ed accuse incredibili. Bisognava ritenere che Irene avesse perduto la testa, perchè l'accusava d'essere stata proprio lei la provocatrice. In un accesso d'ira, essa aveva trattato Pippo, Mario ed i Furlin come un branco di miserabili. Allora Pippo si era rivoltato, rinfacciandole storie spaventose, che facevano di lei un mostro in gonnella. No, non si era mai visto nè sentito nulla di simile. Irene annegava in un ambiente ostile. I più indulgenti non sapevano trovare una parola per difenderla, e quegli stessi che negli ultimi tempi s'erano riassembrati a corteggiarla, le si scagliavano contro con maggiore veemenza. Era uno scoppio di reazione: il rancore di averle creduto, di essere stati invischiati dalla sua ipocrisia e dalla sua abilità; di non aver saputo guardarsi dal fascino di quella creatura, così bella, e così falsa e perfida. Un'infernale leggenda salì, gonfiò, rimase. Irene non si era data soltanto al cognato; si era data al suocero, gli aveva carpito la dichiarazione che produceva ai tribunali, in una convulsione di sensualità, come prezzo dell'incesto. Poi, di certo, aveva avvelenato Gregorio, premeditando la strage dell'intera famiglia Ferramonti. Chi lo sapeva, se Mario si era ammazzato da sè? C'era stato forse qualcuno presente al suicidio? L'ultimo colloquio dei due cognati restava un mistero impenetrabile, e non si poteva ormai uscirsene fuori coll'ingenuità di credere che Irene non fosse capace di tutto. N'ebbero la loro parte anche la polizia, i tribunali, il Governo: che ci stavano a fare per Dio? Quando s'era mai visto uno scandalo come quello di starsene in panciolle e di non muovere un dito, mentre accadono fatti di simile natura? La lite civile che i Furlin mantennero per conto proprio, subì forse l'influenza di questa esecrazione universale che schiacciava la giovine donna. La procedura precipitò, i patrocinatori d'Irene si trovarono disarmati dinnanzi agli attacchi terribili degli avversari. Non ottennero neppure dei nuovi rinvii domandati. La sentenza risolutiva fu pronunciata il cinque dicembre. Il tribunale dichiarava illegale e nullo il documento presentato, chiamando gli eredi naturali di Gregorio Ferramonti al godimento dei capitali mobili sui quali era stata sollevata contestazione. Irene interpose immediatamente appello. Fu la sola risposta che dette al suo procuratore, recatosi a riferirle la cattiva notizia. Rifiutò nettamente di conoscere i termini della sentenza. Non era forse inutile? Dovevasi ricominciare da capo; si sarebbe ricominciato, e si sarebbe arrivati fino in fondo, a costo di rimetterci l'ultimo centesimo. Per lei non era più neppur quistione di vincere: era quistione di lottare, di vendicarsi in ogni modo possibile, fin quanto le sarebbe stato possibile. Nel dividersi da Pippo, ella aveva preso un quartiere in via Gregoriana, ed aveva obbligato i genitori a seguirla lassù, lontano dalla bottega di suo marito, che non voleva più incontrare, più vedere per alcun motivo. Erasi chiusa in una solitudine assoluta, come una tigre in gabbia, resa impotente ad azzannare i nemici; ma non domata. Non si faceva illusioni sulla rovina dei suoi vecchi disegni. Non riusciva neppure a tracciarsi una linea di condotta per l'avvenire. Una sorda paura fu in sostanza la preoccupazione che la dominò lungamente. Si parlava con tanto accanimento dei suoi delitti veri e supposti; gli avvocati dei Furlin, davanti ai tribunali, avevano trovato così utile alla loro tesi il denunciarla nell'aula stessa della giustizia come una creatura mostruosa di cui tutto il mondo aveva orrore, ch'ella si aspettava di continuo vedersi colpita da un mandato di arresto. Non capiva perchè nè Pippo nè i Furlin non provocassero essi stessi quest'ultima catastrofe. Al loro posto, lei lo avrebbe fatto. Visse così dei mesi. Invecchiava rapidamente. Si sarebbe detto ch'ella portava seco la morte. Nel cambiamento di domicilio, sua madre, collocata e tolta di peso dalla carrozzella che l'aveva trasportata, soffrì al punto di farne una malattia. Non doveva guarirne più: morì sul finire di gennaio, mentre il marito, logorati i polmoni dall'etisia senile che ne faceva un fantasma, riducevasi in condizioni disperate. L'antico negoziante di ferrarecce raggiunse la moglie ai primi scirocchi primaverili. Irene ereditava una sostanza di quarantamila lire, la sola risorsa sulla quale poteva sicuramente contare. Ma la lite contro gli eredi di Gregorio Ferramonti, costosissima, avrebbe fatto a questo meschino peculio delle sottrazioni spaventevoli. La giovine donna non se ne commosse, inselvatichita dalla solitudine, ostinata a non rinunciare ai mezzi di vendetta volgare e perfida che le rimanevano. Gli uomini di legge che era obbligata a consultare si affaticavano invano a proporle il tentativo di una transazione cogli avversari, dimostrandole la certezza di un insuccesso completo con qualunque altro mezzo. Lei non voleva sentirne parlare. Le bastava sapere che frattanto, per causa sua, i Ferramonti non potevano toccare un centesimo dell'eredità paterna. Ella poteva mantenerli in questa pena di Tantali, per dei mesi, per degli anni forse, e non voleva far loro grazia di un minuto secondo. Che le importava il resto? L'influenza del tempo la rassicurava; le sue folli paure svanivano, a poco a poco, e le inesorabili esigenze della sua vendetta crescevano più che mai imperiose. Lei non viveva più che per questo. Se la sua fortuna doveva esserne inghiottita, non le sarebbe mancato il mezzo, appresso, di rifarne un'altra. In maggio ebbe una gioia nella quale non aveva sperato: uno almeno dei Ferramonti non sarebbe riuscito mai a cantar l'inno della vittoria! E la notizia che riceveva, impresse al suo essere come una scossa elettrica che ne ritemprava la fibra, spazzandone via le prostrazioni, restituendole la facoltà ed il bisogno di agire. Che stupida era stata a fossilizzarsi nella solitudine, ed a temere che per lei non ci fossero più soddisfazioni possibili! L'esistenza è una lotta dell'individuo con la società, piena di varie vicissitudini. Chi perde, è un imbecille se non si prepara a vincere in un assalto successivo. Insomma, suo marito impazziva e moriva, puramente e semplicemente. Trattavasi di uno di quei fenomeni nervosi al cui rapido sviluppo non vi è argine possibile. Pippo aveva accettato l'abbandono della moglie con un senso di soddisfazione chiassosa: l'ebbrezza dello schiavo che si trova libero, e che vorrebbe il mondo intero partecipe alla gioia della sua libertà. Durante un mese intero, la sua loquacità di bottegaio s'era sfrenata a narrare le prodezze della donna infame, che aveva portata la sciagura in casa Ferramonti, allo scopo di svaligiarla. Egli arrischiava dei particolari scabrosi sulle sue allucinazioni e sulle sue confidenze d'uomo vinto dal fascino d'una sirena; parlava delle sue disgrazie di marito altresì. I curiosi che lo ascoltavano avrebbero riso volentieri, se quelle storie di putredine borghese non avessero presentato anche le tinte sinistre di tragici avvenimenti, che facevano raccapricciare. Poi la parte grottesca prevalse. Pippo diventava sempre più sordido nella cura dei suoi interessi commerciali, ma diventava inoltre un tipo d'uomo bizzarro, che si andava a sentire per farne una scorpacciata di risa. Pareva che dimenticasse tutti gli episodi terribili della storia di casa Ferramonti, per rammentarne soltanto i ridicoli. Il cervello gli dava di volta: appariva smemorato; cadeva in certe astrazioni curiosissime a vedersi, cogli occhi spauriti e torbidi, ove la vivacità dell'intelligenza svaniva. Per fortuna, i Furlin, ridiventati suoi intimi, lo sorvegliavano. Lo sviluppo graduale della malattia che gli uccideva l'intelligenza, prima di uccidergli il corpo, lo rendeva inadatto a condurre più oltre il negozio di ferrarecce. Allora i garzoni di bottega poterono levarsi il gusto di vedere anche il cavalier Paolo col naso sopra i libri commerciali, perder la bussola in note ed in affari di cui non capiva il primo principio. Le vendite ricadevano in una fase critica di ristagno. Del resto, Furlin non si dissimulava punto che la propria ingerenza negli interessi del cognato non poteva gran fatto allontanare i pericoli che li minacciavano. Si presentava però un buon espediente: la vendita della bottega avrebbe potuto eseguirsi a condizioni assai favorevoli, fatti valere i larghi profitti dell'ultimo bilancio. Teta e Paolo, d'accordo, la suggerirono al congiunto, cercando di prepararlo alla proposta con ogni riguardo, e con uno scaltro giuoco di approcci mascherati. Lui ricalcitrò, fu violento, accusò la sorella ed il cognato di volere la sua rovina, fece un casa del diavolo. Appunto in quella occasione si affermò nettamente la mania di persecuzione che aveva germogliato sorda ed indefinita nel suo cervello sconvolto. Per qualche tempo divertì il pubblico vaneggiando intorno a Paolo ed a Teta, più ancora che lo avesse divertito vaneggiando intorno ad Irene. Quelli erano due furbi! Tiravano a farlo passare per un imbecille, incapace di negoziare una libbra di chiodi, per farlo interdire, e per spogliarlo, evidentemente! Bravi, per Dio! Ma non si figuravano chi era lui! Egli stava sull'avviso, indovinava a volo i loro pensieri. Non lo avrebbero turlupinato quand'anche si fossero fatti aiutare da una legione di diavoli! La sua ribellione durò un mese e mezzo, ingrossando, infuriandosi. Ad un tratto cessò, quando il cavaliere Furlin prese il partito d'imporgli di prepotenza la vendita, trattandolo come si tratterebbe un bambino riottoso. Voleva fare a modo suo? Padrone! Ma restava inteso, che lo avrebbero lasciato morire sulla paglia, senza dargli un bicchier d'acqua. Non capiva, imbecille! che le sue condizioni di salute gli imponevano di rinunciare momentaneamente agli affari e che l'ostinarvisi lo avrebbe rovinato? Insomma, egli era libero, a condizione che non si facesse più rivedere, neppur da lontano. Egli piegò, obbedì, preso dal terrore dell'abbandono assoluto, piangendo proprio come un bambino. Era ben disgraziato! non c'era al mondo un altro che meritasse pietà al pari di lui! Ed invocò spasimando l'aiuto dei Furlin, dei due soli esseri nei quali potesse ancora confidare. Conclusero un ottimo affare, grazie a Paolo che aveva saputo a tempo pescare l'acquirente ben disposto. In un lucido intervallo d'intelligenza, Pippo riconobbe che il cognato gli aveva reso un servizio da buon parente. Giurò che non lo avrebbe dimenticato mai. Avrebbero visto, Teta e Paolo, come si sarebbe ingegnato a dimostrar loro la sua gratitudine! Bastava che avessero avuto un po' di pazienza, il tempo necessario a lui per rimettersi un po' in salute e per scuotere la stupida poltronaggine che lo arrugginiva. Fu l'ultimo bagliore della sua intelligenza. Si trascinò ancora poche settimane per la città, oziando, logorandosi in un marasmo incalzante, in una malinconia tetra, che aveva dei frequenti ricorsi di vera demenza. Spesso, esaltandosi per un nonnulla, dava degli spettacoli gratuiti agli oziosi ed ai monelli della strada, riducendosi a casa inseguito dai lazzi della folla, o ricondottovi, quando da una guardia municipale, quando da qualche amico pietoso. Una mattina, svoltando l'angolo fra il Corso e via Condotti, s'incontrò faccia a faccia con Irene, bellissima nel suo pallore di donna malinconica e nelle sue vesti di lutto rigoroso. Si guardarono. La giovine donna passò oltre, come se non avesse riconosciuto il marito, senza che un solo tratto del suo viso si alterasse. Svoltò la cantonata, e sparì. Pippo non ne imitò l'indifferenza, lui! Tutta l'anima sua erasi effusa nello sguardo da lui rivolto alla donna fatale, che da mesi non nominava più, quasi dimentico della sua esistenza. Nella magrezza cadaverica, che disegnava l'ossatura della sua costruzione grossolana, egli era diventato di un pallor terreo. Fece quattro o cinque passi da ubbriaco, poi si appoggiò colle spalle al muro, restandovi un lungo istante, immobile, ebete. Lo assaliva un tremolìo di tutte le membra, una vibrazione spasmodica dei nervi sconvolti, uno sbattimento delle mascelle producente un rumore sordo dei denti urtati fra loro. Quella convulsione rimase. Egli riprese a camminare, tardo, rasentando i muri, senza guardare, senza vedere, senza pensare. Dagli occhi fisi e tetri gli colavano sulle gote delle lagrime di cui non si accorgeva. Tre ore più tardi, la domestica dei Furlin lo trovò sul pianerottolo delle scale, in casa dei padroni, giuntovi forse da molto tempo. Era rimasto là, dimenticando che occorreva suonare il campanello per farsi aprire. Entrò guidato, spinto dalla donna di servizio, senza mostrare affatto di riconoscerla, nè di riconoscere la sorella, sopraggiunta. Esse cercavano di scuoterlo e di interrogarlo; ma non le udiva: continuava a tremare con un tremito orribile che faceva ballare i suoi muscoli tesi; a piangere, con un pianto muto senza singhiozzi. Si assise quando lo piegarono a forza sopra un canapè; fissò un punto immaginario dinnanzi a sè, e proseguì a tremare, a piangere ed a sbattere i denti. N'ebbero per tutta la giornata e per tutta la notte seguente. Le crisi ripetevansi lunghe, raccapriccianti, a brevi intervalli di calme ebeti, o di torpori profondi, che non rallentavano però il brivido eterno delle membra dell'ammalato. Il fenomeno nervoso presentava dei caratteri somiglianti a quelli del delirio alcoolico. Due medici chiamati a prestare la loro assistenza avvertirono la famiglia che il disgraziato avrebbe potuto morire in uno degli accessi. Sul fare del giorno la fierezza del male fu vinta. Pippo riposò dieci lunghe ore tranquillo, assopito dalla prostrazione e dalle droghe somministrategli. Ma, al suo risvegliarsi, e nei giorni appresso, quand'egli fu pure in grado di lasciare il letto, apparvero le conseguenze della crisi attraversata. Egli era demente. Aveva perduta la memoria. Viveva del presente, incapace di ricevere impressioni di fatti e di oggetti che non avessero colpito materialmente i suoi sensi della vista e del tatto. Lo guidavano come un automa nelle funzioni di quella sua meccanica animalità, in cui era soppressa anche la resistenza passiva. Ma il curarlo in casa, ridotto così, diventava un problema insolubile. Risolsero di collocarlo nella casa di salute a Sant'Onofrio. Ve lo condussero dieci giorni dopo. Fino alla vigilia, avevano ignorato se l'ultima complicazione dipendesse da una causa esterna qualunque. Alla vigilia poterono almanaccare sul carattere appunto di tal causa. Pippo ricominciò a tremare ed a piangere lungamente, accasciato sopra una sedia. Ma, questa volta, il suo dolore ebbe degli spasimi, dei singhiozzi e delle parole vaghe. Chiamava Irene; l'accusava di farlo morire; e delle frasi interrotte di amore si mescolavano nei suoi balbettamenti ad altre frasi di terrore e di orrore. Se ci fosse stato un solo barlume di speranza, quella crisi avrebbe potuto risolversi in un miglioramento. Invece, iniziò soltanto un'altra fase della malattia. Nella cella che gli avevano assegnato a Sant'Onofrio, attraverso i viali del giardino dove lo conducevano a passeggiare, Pippo continuò a piangere ed a chiamare la moglie, spaventato dal fantasma di lei, od invocandone l'apparizione con lamentosi balbettamenti di tenerezza. Lo svanire della sua intelligenza incalzava, prendendo, a poco a poco, le forme di una insensibilità assoluta. Un giorno non pianse più, non vide, non sentì più nulla; disimparò anche a pronunciare parole, eccetto il nome di sua moglie, che ripeteva giorno e notte, migliaia di volte, senza espressione, come un suono meccanico dei suoi organi vocali. Doveva spirare con quel nome sulle labbra, mentre Irene aspettava appunto la sua morte, e si occupava a ricostruire la propria fortuna. Che importava se il nome di lei era stato trascinato nel fango di tutte le più infami accuse? Quando riapparve in mezzo alla gente, lei non fu meno bella per questo. Un'altra volta la sua figura arieggiò quella di un angelo sceso dal cielo, e la stessa esagerazione delle colpe attribuitele concorse a salvarla. Povera martire! ella aveva provato davvero tutti i dolori! per qualche cosa il suo pallido viso recava le tracce indelebili di un affanno segreto! Insomma, il suo fascino ricominciava lento, guardingo, vittorioso! Si era data alle pratiche religiose, come per dimostrare che nessuna fiducia le restava più, fuori della fiducia in Dio. Mostravasi piena di pio fervore, e a poco a poco, con sottili accorgimenti, metteva dalla sua la turba delle pinzochere, il mondo misterioso e potente delle sacristie. Verso la metà di giugno, la Corte d'appello confermò la prima sentenza giudiziaria favorevole agli eredi naturali di Gregorio Ferramonti. Questi vennero autorizzati ad entrare al possesso materiale dell'eredità, nonostante ricorso in Cassazione. Irene, ispirata dai nuovi disegni, che il suo spirito d'intrigo almanaccava, depose le armi; rinunciò al ricorso. Allora il suo trionfo di donna onesta, la sua apoteosi di vittima s'imposero. Ecco in qual modo ella rispondeva alle accuse di aver portata in casa Ferramonti la vergogna e la morte, per succhiare, come un vampiro, sangue e quattrini di quella famiglia! Restava nel mondo abbandonata e povera. Le avevano rubato anche la bottega di ferrarecce, dove Filippo Ferramonti, colla scusa di prender lei in moglie, era andato a rimpannucciarsi. Ma sì! proprio lei, era stata il demonio in gonnella!... quell'altro, il forestiero scritturale, sceso a Roma colle scarpe che ridevano e coi gomiti al sicuro dalle soffocazioni, quello era il galantuomo! Se ritornava al paese milionario, che cosa voleva dire? Lui i quattrini se li era sudati onestamente, coll'impiego. Non era vera nemmeno la storia del rapimento di quella gioia di Teta; o se era vera, trattavasi di una passione d'amore pura, romantica, da raccogliersi in ottava rima. Che mondo, Dio santo!... Una sera, pochi momenti dopo il tramonto, Irene sedeva vicino al balcone aperto di una stanza che le serviva da gabinetto da lavoro e da salotto da pranzo e da ricevere tutt'insieme, nel quartierino occupato a un terzo piano in via Gregoriana. Oltre i tetti di via Due Macelli, la città si offriva agli occhi della giovine donna, stendendosi a ventaglio, troncato dalle alture di Monte Mario. Dal Quirinale a San Pietro, un grigio mare di vapori ondeggiava sulla metropoli. Nei limiti estremi dell'orizzonte, dietro il Vaticano, l'azzurro del cielo cangiava da una intonazione di vermiglio ad un colore di porpora scintillante, indicando il lembo abbandonato dal sole. Pensieri tetri tenevano assorta la giovine donna. I mille strepiti di cui la città intera fremeva negli abissi inesplorabili delle strade e delle piazze, dovevano salire fino a lei con espressioni strane, che la gettavano in un accasciamento desolato. Un'ironia incosciente era nel suo sguardo fiso, nelle sue labbra agitate da un lieve fremito. Ella non udì affatto che, nella stanza, un passo si avvicinava. — Che fai dunque? sogni forse ad occhi aperti? — domandò infine una voce maravigliata. Ella si volse di repente; soffocò quasi un grido. — Sei tu? — balbettò. — Pare. Mi dispiace che tu ti guasti il sangue, almanaccando così. Per fortuna stasera ho il mezzo di distrarti: ti porto una notizia che desideravi. Il sopraggiunto si assise, senza aspettare l'invito della giovine donna. Era Desiderio Pennucci, un uomo sui quarantacinque anni, una forte figura dagli occhi grigi accesi, dal viso bruno, dalla taglia robusta, un po' pingue, dai modi bruschi. Una passione intensa ardeva nello sguardo col quale egli accarezzava la persona abbrunata, il viso bianco e mesto d'Irene. Era rimasto un istante senza parlare. — Allora, — sorrise lei, — si può sapere qual è questa notizia? — È che Barbati si è scosso, alla fine! Perdio! S'è persuaso che la parte di marito miope e filosofo non gli conveniva più. Ed ha colto ieri sera la moglie sul fatto. Voleva soltanto ammazzarla, mentre l'amico si metteva coraggiosamente in salvo. L'ha ferita. Lo hanno arrestato. Ma sai: mi ci è voluta tutta per portare le cose fino a questo punto. Che stomaco, quel Barbati! — Ti ringrazio, — disse Irene semplicemente, mentre nei suoi occhi balenava una gioia di vendetta soddisfatta. — Io pure ho una notizia da dirti: Pippo è morto stamani. Desiderio gettò un grido. Ella potè misurare fino a qual punto quell'uomo fosse infatuato di lei, dalla commozione ond'egli fu preso al saperla libera. Era diventato orribilmente pallido; restava come istupidito. Ella lo aveva scelto con un nuovo prodigio di scaltrezza, assicurandosi di aver trovato in lui un'altra individualità da soggiogare, una tempra vigorosa ch'ella avrebbe dominato e fatto agire a proprio talento. Aveva potuto giuocare con tutti gli spasimi ed i desideri della passione di lui, senza appagarne, senza calmarne uno solo. Si era corazzata nella propria onestà di borghese, nelle proprie angosce di donna calunniata, nelle proprie diffidenze di disillusa. Aveva promesso a Pennucci di sposarlo tre mesi dopo la morte di Pippo, semprechè egli avesse accettato tutte le sue condizioni. Pennucci, mercante di campagna, faceva buoni affari, ed era già ricco. Era vedovo. — Fra tre mesi, non è vero? — balbettò Desiderio con uno sforzo, riuscendo appena, nella commozione, ad articolare le parole. — Fra tre mesi. Ma rammenta bene quello che ho passato! Ne ho assai di dolori, di delusioni e di sventure. Voglio tutto il tuo amore, tutta la tua fiducia e la tua devozione intera. Tu mi fai mancare al giuramento che avevo fatto a me stessa, di romperla per sempre con un mondo scellerato. Bada a non farmene pentir mai. Sarei capace di tutto! per finirla presto, ti ucciderei! Nello stesso momento, casa Furlin era immersa nel lutto. Moglie e marito parvero inconsolabili dell'ultima sventura, che troncava gl'indugi di una divisione inceppata dalla malattia di Pippo, e li faceva quasi milionari. Vollero intera l'apoteosi di gente onesta e di cuore. Durante tutto un mese portarono in giro lo spettacolo dei loro visi angosciati. Poi il cavalier Paolo rassegnò le sue dimissioni. Si montava la testa con mille progetti grandiosi. Mulinava di entrare nella carriera politica, facendosi eleggere deputato. Nell'intimità, Teta gli prodigava adorazioni idolatre... - FINE -