LA BIONDINA ROMANZO DI MARCO PRAGA MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1910 I Il sole entrava dall'ampio finestrone a inondare di luce lo studio vastissimo, dove Giacomo Burton lavorava, dall'alba al tramonto. Due delle bianche pareti erano coperte da grandi tavole di disegni, modelli di macchine; sulla terza, di contro al finestrone, era una sfilata di mensole chiare di larice, con tutte le fiale ed i vasi bianchi ed azzurri, pieni di minerali e di acidi, nella gamma allegra di colori che la chimica possiede. Qua e là, e negli angoli, sul pavimento, erano pezzi di macchine, e pile, e fornelli. Un terzo della stanza era occupato da due lunghe tavole da disegno poggianti sui cavalletti altissimi: sulle tavole, cosparse di compassi e di regoli, spioveva una gran luce dall'ampia vetrata. Tutto, là dentro, era semplice, rigido, severo, ordinato; tutto, fuorchè il breve spazio racchiuso dall'angolo a destra del finestrone, dove era un divano; e due poltroncine di tela russa con un'alta bordatura di azzurro fissata da borchiette d'oro: e, steso dinanzi ad essi, un rosso tappeto a fiorami oscuri; e, sulla parete, a coprire il bianco della muraglia, una stoffa drappeggiata con arte, che inquadrava una grande fotografia di donna racchiusa in una semplice cornice d'abete. Quell'angolo, come un salottino non ricco ma civettuolo, introdottosi quasi furtivo in quel tempio severo del lavoro, era Adelina che l'aveva voluto, che l'aveva imposto a suo marito. Aveva comperato essa il divano e le poltroncine, e il tappeto, e un giorno era capitata là con tutta quella roba recata da un operaio della fabbrica: e, tutta sola, mentre Giacomo, sorridendo, disegnava, avea creato quel cantuccio, trasfondendovi un po' della grazia, della allegra civetteria ch'era nella sua persona. Avea messo il piccolo divano di sbieco, nell'angolo: poi, salita in piedi su di esso, appiccicò con quattro chiodi il drappeggio; poi stese il tappeto; e mise le poltroncine ai due lati del divano. — Adesso esci un momento. — Perchè? — Te ne prego. Esci in corte, due minuti, poi ti chiamo. Giacomo uscì; ed essa, di furia, appese la fotografia fino allora tenuta gelosamente nascosta. Poi, affacciandosi alla porticina dello studio, ch'era all'angolo opposto a quello da lei trasformato, lo chiamò: — James! James! corri, adesso, vieni, vieni presto. — Oh! il tuo ritratto! — disse lui, con stupore, ma senza scomporsi molto, senza alzare troppo la voce. — Il tuo ritratto. Un'improvvisata. Bellissimo. Chi te lo ha fatto? — Un fotografo! — ribattè lei, ridendo, fissando gli occhi allegri negli occhi di suo marito. — Già, un fotografo. Ma, così grande! costerà molto. Non spendi troppo, Adelina, in cose superflue? — Nulla, nulla, nulla. È il regalo di un'amica mia che à sposato un fotografo. — Chi? — Un'amica mia di collegio; non la conosci, tu. Già, non ne conosci nessuna, — aggiunse, ridendo sempre. Poi fattasi seria, a un tratto: — Sei cattivo, però. Il mio ritratto lo chiami una cosa superflua. Vivi qua dentro dalla mattina alla sera: appena mi vedi una mezz'ora durante il giorno se vengo a farti una visitina. Almeno avrai il mio ritratto dinanzi agli occhi. Credevo ti dovesse far piacere! Invece!... — Sì, tanto piacere. Temevo soltanto tu avessi fatta una spesa troppo forte per noi. Tu sai che non possiamo ancora spendere molto. Lo sai. — E l'aveva baciata sulla bocca, e s'era rimesso al lavoro. Allora, Adelina, quel giorno, s'era accoccolata sul divano, ed era rimasta più a lungo. Ah! così! Adesso, quando verrò a trovarti qui, avrò un cantuccio simpatico dove mettermi, avrò un sedile decente sul quale non arrischierò di rovinarmi le vesti come sulle tue sedie di paglia inzuppate di acidi. Sei contento? Ma anche a questo ò dovuto pensar io. Sei un orso, tu! E poi, via, quando vien qui qualche persona per bene, potrai riceverla a modo. Un orrore, proprio un orrore: tu eri capace di far sedere sul trespolo un commendatore, o di tenere in piedi un deputato, per mancanza di sedili. Ma la tua mogliettina pensa a tutto. Nevvero? Anzi, sai che cosa ò pensato, adesso che 4 c'è il salottino, qui? Io verrò ogni giorno, porterò con me il mio lavoro ed un libro, e rimarrò a lungo, a tenerti compagnia. Eh? — Ti annoierai, piccina. — E quando mi annoierò anderò via! Ecco!... Soltanto, ti prego: quando ti fabbrichi qualcuna di quelle tue combinazioni chimiche.... di quelle.... Dio! che odori, ah! allora sì, avvertimene prima, che non ci venga. Mi fai star male una settimana intera. Poi, ancora, gli aveva raccontato una quantità di frottole graziose, e di storielle piccanti, raccolte qua e là, nei salotti della zia o della sua amica, la Bianca, dove essa passava le ore del pomeriggio. Lui, impassibile, serio, ascoltava silenzioso, disegnando, durante le visite che sua moglie gli faceva all'officina, quasi ogni giorno, da un anno in qua. Poichè s'erano sposati da quattro anni, ma questa intimità tra di loro, questa affettuosità di Adelina per lui, erano nate da poco. Giacomo, innamorato di sua moglie lo era stato sempre: ma non era nel suo carattere di dirlo e di dimostrarlo troppo: poi, gli mancava anche il tempo di dirlo e di dimostrarlo. Dalle sette di sera sino all'alba del giorno appresso, ecco le ore che poteva dedicarle. Dall'alba alle sette, lavorava. E Adelina, nei primi tre anni di matrimonio, s'era acconciata facilmente a questa vita. Tutto il giorno era libera: l'officina lontana, fuori dazio; e poiché aveva sposato l'inglese (glie ne avevano parlato chiamandolo così, la prima volta) senza amore, per convenienza, perchè disperava, a 24 anni, di trovare di meglio, non si crucciava di questa gran libertà che suo marito era obbligato a concederle: anzi, forse, ne gioiva e se ne valeva. Ma da un anno, un gran cambiamento s'era fatto in lei. Quasi ogni giorno, essa veniva a trovarlo in istudio. Saliva in tram in piazza del Duomo, e scendeva al dazio. Poi aveva ancora buon tratto di strada a percorrere, sino alla gran porta di un lungo fabbricato di mattoni rossicci, sulla quale ad alte lettere nere, era scritto: «Società internazionale dei tramway a vapore». Era una società inglese che aveva costrutto ed esercitava molte linee di tram nell'Alta Italia, e aveva la sua sede principale a Milano, e quivi il suo direttore tecnico, James Burton. Un valore, quest'uomo. C'era in lui la stoffa di un inventore. Da quattro anni studiava l'applicazione dell'elettricità alla trazione dei tram, secondo un sistema nuovo, pratico, economico, che, perfezionato al punto ch'egli aveva fissato di raggiungere, avrebbe portata una rivoluzione in questo genere d'industria, avrebbe debellato in modo assoluto il sistema della trazione a vapore e a cavalli, e avrebbe fatta la fortuna di lui. Così, egli rubava al sonno, agli svaghi, alla famiglia, molte ore, e le dedicava ai suoi studi. Gli sarebbe bastato di lavorare dalle dieci del mattino alle quattro di sera per sbrigare le faccende del suo ufficio. Invece, egli rimaneva all'officina dodici ore al giorno, occupato sempre in nuovi tentativi ed in esperimenti nuovi. Era questa la fissazione di quell'uomo tenace e di genio: farsi una fama e una fortuna. Giacomo era il minore di sette fratelli. Era nato a Glasgow. Papà Burton, commerciante, aveva allevato i suoi cinque maschi con idee pratiche e sane seguendone le attitudini ed avviandoli alla carriera a ciascuno più adatta. «Soltanto. — aveva detto loro — badate che non sono ricco, che non ò nessuna probabilità di diventarlo; la vita costa assai; e se potrò mettere da parte qualcosa sarà per le vostre sorelle, ed è giusto che abbia ad essere per loro. Voialtri potete e dovete lavorare, e pensare a voi stessi. Quindi, se è possibile, sceglietevi una professione nella quale si guadagni presto, senza un troppo lungo tirocinio». Chi s'era dato al commercio, chi all'ingegneria: il maggiore, innamorato del mare, aveva percorsi gli studi navali, ed era ufficiale, adesso, nella marina inglese. James, laureato ingegnere, s'occupò alla costruzione di una ferrovia. Poi gli avevano offerta questa carica in Italia: e l'aveva accettata, pensando che anche qui avrebbe potuto lavorare e studiare. Quando avrebbe risolto il problema del quale si era invaghito, sarebbe tornato in Inghilterra per trarne profitto. Questo impiego che gli si offriva in Italia era la modesta, sicura, tranquilla agiatezza che gli permetterebbe di compiere i suoi studi. Ed era venuto. Bel giovane di ventotto anni, alto, biondo, forte; colto; affabile e cortese nella riservatezza della sua razza; aveva subito ispirato delle vivissime simpatie. Gli era capitata la fortuna, sin dai primordi del suo soggiorno a Milano, di trovar l'amicizia franca e leale di un buon tipo di 5 vecchio ambrosiano, il cavaliere Cristoforo Galli, fabbricante di candele e di saponi, uno dei consiglieri di amministrazione della «Società dei tram dell'Alta Italia». Il buon vecchio lavoratore, che, nato poverissimo, s'era fatto una fortuna colle sue candele e coi suoi saponi, aveva subito simpatizzato col giovinotto, il quale, sin dai primi discorsi, aveva espresse delle idee così sane, così giuste, così pratiche. Avevano subito simpatizzato le due onestà di questi uomini di razza diversa: l'onestà rigida severa del giovanotto; l'onestà bonaria, indulgente del vecchio. E questi aveva invitato quello in sua casa, una gran casa ospitale che raccoglieva una numerosa famiglia patriarcale: la moglie, una vecchietta miserina di persona e d'intelletto, intontita nell'agiatezza che le era nata d'attorno a poco a poco, durante vent'anni di lavoro e di risparmio; e cinque figliuoli, due maschi e tre femmine; e le mogli dei figlioli; e il marito di una delle femmine: e i bimbi loro. I maschi erano a capo degli affari e dirigevano la fabbrica: il marito della figlia maggiore, anche lui, già commesso nell'azienda, era adesso il viaggiatore principale della ditta. E così vivevano tutti assieme, in un gran palazzo fuori porta Magenta, attiguo alla officina dei saponi, fabbricato apposta dal vecchio allo scopo e coll'intento di vedervi alloggiare tutti i suoi, anche le future famiglie delle due figliole ancor nubili; perchè una sola imposizione usava fare ai suoi generi: di abitar lì, e di pranzar alla tavola comune. Gli alloggi erano tutti indipendenti l'uno dall'altro, avevano tutti una scala e un ingresso speciale. — Non bisogna vedersi troppo, non bisogna vivere troppo assieme — diceva il vecchio — per conservare la buona armonia tra parenti. Ma l'ora del pranzo, quella sì. È l'ora allegra, durante la quale non si parla di affari e di malinconie: ci si può riunir tutti; e, in molti, si mangia meglio e di più: e quando si mangia molto e bene si campa vecchi! Il buon Galli, incaricato, lui, dal Consiglio d'amministrazione, di ricevere all'arrivo il nuovo direttore, lo aveva subito, lo stesso giorno, invitato a pranzo. E come il giovanotto, calmo, ma un po' stupito, un po' impacciato nella novità del paese e delle persone, si schermiva: — Ecco: siamo in diciotto a tavola, ogni giorno — gli aveva detto per convincerlo — voi capite bene che dove si mangia in diciotto si mangia in diciannove: non farò certamente un piatto di più per voi. — E glielo aveva detto un po' in francese, un po' in italiano, un po' in milanese, ma con così evidente cordialità che James aveva dovuto accettare. Era stato curioso l'ingresso in quell'ampia sala da pranzo nella quale tutta la famiglia, avvertita, era già raccolta. La vecchietta non sapeva dire una parola di francese e quell'italiano spropositato che conosceva non avrebbe servito a nulla: non aveva fatto, quindi, che una sequela d'inchini; ma il suo faccino grinzoso, circondato da una cuffietta viola, era tutto un sorriso impacciato ma gioviale e bonario che aveva incoraggiato il forastiero. I giovanotti sapevano di francese quel pochetto che avevano imparato alla scuola. Un po' più ne sapeva il genero, che aveva viaggiato. E con certa disinvoltura lo parlavano invece le figliole, che avevano studiato e imparato di più, e si tenevano in esercizio colla lettura del Bourget e del Maupassant. Tutti avevano avuta una parola gentile, una espressione forse un poco volgare ma piena di cordialità. A tavola, il vecchio se l'era fatto sedere vicino, e dall'altro lato gli aveva posto Clara, la minore delle figliole, la più vivace e la più istrutta, che, allegra, gli parlava, gli spiegava, lo interrogava, gli faceva da interprete. Il vecchio rideva, e mentre rimpinzava di vivande il piatto dell'ospite e gli riempiva il bicchiere, esclamava ogni tanto: — Ah! ah! finalmente m'accorgo che non ò spesi inutilmente i miei denari per far studiare queste figliole! E così, nella giovialità dell'ambiente; nell'allegra festosità di quella gran sala, e di quella gran tavola dove tutti mangiavano con molto appetito dei cibi saporiti ed abbondanti; James, senza comprendere gran che di quel che gli dicevano; senza saper bene quello che dicesse, aveva capito, s'era convinto di essere capitato tra gente buona ed onesta. Dinanzi a lui stavano sedute le mamme, la figlia maggiore di Galli e le due nuore: e ognuna aveva daccanto i propri figlioli, otto o nove in tutto, bambocci tra i due anni ed i cinque, seduti sulle sedie alte di giunco; perchè il nonno li voleva tutti a tavola, anch'essi, non appena dal latte della balia passavano alla pappa. I bambini avevano 6 avuto un momento di vergogna, di stupore attento e scrutatore negli occhi fissi sul nuovo commensale. Poi s'erano fatti coraggio, a poco a poco, incoraggiandosi l'un l'altro, trovando ardire l'un l'altro dal rinfrancarsi reciproco; e, dopo mezz'ora, quel pranzo aveva assunto l'aspetto, ai loro occhi, di un pranzo comune, come quello d'ogni giorno, nell'intimità delle persone note: ed erano cominciate le grida e gli strilli, e le risate e le birichinate che il nonno permetteva, e delle quali anzi gioiva e si gloriava. James l'aveva di contro a sè quella fila allegra di puppattoli rosei e biondi: li guardava, sorridendo; e anch'essi, i bimbi, avevano cooperato a infondergli coraggio, a metterlo a suo agio, a renderlo contento, a dargli mille speranze liete per la nuova vita che s'inaugurava quel giorno per lui. Gli parevano, tutta quella festività, tutta quella cordialità, un buon augurio. In fin di pranzo, aveva già scordato le ansie e le paure che, malgrado la gagliardia del carattere, lo avevano accompagnato, giovane e solo, durante il lungo viaggio dalla patria ad un paese nuovo e sconosciuto. Ricordava soltanto le ultime raccomandazioni di sua madre, e le lagrime che aveva asciugate coi suoi baci sulle ciglia di lei. E, lasciando quella sera la casa di Galli, prima di rientrare alla locanda aveva sentito il bisogno irresistibile di telegrafare a casa sua. E aveva telegrafato: «Sto bene. Gli italiani sono brava gente». L'Adelina l'aveva conosciuta nella casa dei Galli, dov'era tornato sovente, ospite gradito dei loro pranzi e delle festicciole che, durante il carnovale, il vecchio ambrosiano offriva al sabato di ogni settimana. Lo scopo di quelle festicciole era di trovar marito alle due figliuole ancor nubili, Clara e Virginia. Non ne faceva un mistero. — Potrei condurle in società — diceva sovente a Giacomo che aveva preso a suo confidente e al quale questo discorso lo faceva volontieri. — Potrei condurle a teatro, al Corso; sono belline: ànno fama di possedere quattro soldi; un marito glie lo troverei facilmente. Ma mi ripugna l'idea di un marito trovato per istrada; e non mi piacciono i matrimoni di progetto, combinati fuori di casa, anzi in casa altrui. Oh! c'è della gente, delle donne, delle donne vecchie per lo più, e che capitarono male nel marito loro, che ànno la smania di combinar matrimoni. Forse è così anche da voi, al vostro paese. Sensali da matrimonio che lavorano senza provvigione, per amore dell'arte. Oh! caro Burton, Clara e Virginia potrebbero essere sposate dieci volte, a quest'ora. Ogni tanto mia moglie à un gran discorso da farmi: «Sai? la tale mi à proposto il tale. Sai? la tale mi à parlato di un bravo giovane che potrebbe essere un ottimo marito per Virginia». Niente! niente! non voglio saperne di codesta roba; non mi fido. Ci à da essere la simpatia per sposarsi. Così, io ricevo qui gli amici: e dico loro: portate i figlioli e i nipoti, e gli amici dei figlioli e dei nipoti. Si fanno quattro salti, si mangia una fetta di panettone. Penseranno che cerco marito alle figlie. E che lo pensino! Che c'è di male? Ma quando vedranno che non le butto via, che non le dò al primo capitato; che anzi ne faccio venir molti, quanti ce ne stanno, per procedere ad una selezione, per scegliere bene.... E non crediate, caro Burton, che cerchi mari e monti: nè milioni nè contee. Cerco un bravo giovanotto, anzi due bravi giovanotti, perchè sono due le ragazze, che abbiano voglia di lavorare. E se anche non ànno sostanza e un lavoro avviato, niente paura. Qui a fabbricar saponi e candele, c'è lavoro per tutti. Così, invece di due maschi, me ne avesse fatti sei mia moglie. Si risparmierebbe nello stipendio agli impiegati. E poi, naturalmente, non combinerò nulla se non vedrò che c'è la simpatia.... Vedete, caro Burton, il mio gran lavoro, tutta la mia preoccupazione, durante queste festine, è di studiare, senza farmi scorgere, il contegno delle due ragazze. Io, seguo i loro sguardi: cerco d'indovinare dove si posano; osservo con chi ballano di preferenza, spio le confidenze che si fanno tra loro. Se, una volta o l'altra arrivo a coglierle in fallo, vale a dire che si tradiscano, io esamino il soggetto: se mi va, se à le qualità che voglio, piglio la ragazza e le dico: «È quello lì che ti piace?» Se diventa rossa, so il fatto mio. Allora osservo lui: capisco subito se lui corrisponde. Se sì, lo piglio e gli dico: «Sei un bravo ragazzo. Ti piace? La vuoi?» E li sposo. Ò fatto così per la maggiore, la Carolina: le ò dato un bravo ragazzo che conoscevo, che avevo qui da dieci anni in istudio. Non aveva un soldo e guadagnava dugento lire il mese: poche, per metter su famiglia. Cosa ò fatto? Gli ò raddoppiato lo stipendio, e l'ò messo in grado, così, di sposare mia figlia. Ed è un matrimonio che va benone. Ànno già fatti due figlioli, e, se non capitano disgrazie, che Dio ci guardi, arrivano alla dozzina. E sì che mio 7 genero è quasi sempre in viaggio. Ma quando è qui, sa fare il suo dovere! — E giù una grossa risata, mentre vuotava un buon bicchiere di barolo. Questo discorso, con poche varianti, il vecchio Galli l'aveva fatto per tutto il carnevale, a Giacomo, regolarmente, ogni sabato. E mentre tracannava il barolo, lo guardava colla coda dell'occhio; avesse potuto sperare di non fare un buco nell'acqua, la conclusione del discorso l'avrebbe ripetuta a lui, a Giacomo: — La vuoi? Ti piace? Sei un bravo ragazzo. Pigliala! — Soltanto, gli avrebbe chiesto quale delle due volesse: l'una o l'altra, per lui sarebbe indifferente: a scelta; e centomila lire di dote. Ma Giacomo Burton non guardava nessuna delle due figliole. Forse, non lo ascoltava neppur più, incantonato nel vano di una finestra, immobile, gli occhi fissi su una biondina piccina, tutta fuoco, tutta brio, bellissima nella vesticciuola semplice aggraziata di mussolina bianca. E Clara, furba, avea già detto più di una volta all'amica: — L'inglese ti guarda. — Sì, ma non si decide! — aveva replicata Adelina, ridendo. Perchè Giacomo non si era indotto a ballare, neppure con lei, e le aveva detto appena poche parole, una sera, dopo essersi fatto presentare da Clara, perchè le si era trovato vicino, al buffet. — Fallo decidere tu! — aveva detto Clara, l'ultimo sabato del carnovale. — Perchè no! Vuoi che provi? Tu sta a vedere, e ci divertiremo. E aveva attesa la «poule des dames», un ballo fatto apposta per le dichiarazioni della femmina al maschio, dichiarazioni a rovescia, negative, ma forse più espressive, se non più sincere, di quelle del maschio alla femmina. Le ballerine scelgono ed invitano esse il cavaliere. E invitano tutti gli indifferenti, e ballano con tutti, fuorchè con quello che amano, o che prediligono, o che vogliono conquistare. La fanciulla — se è ingenua davvero — à paura di far quell'invito. La signora non lo fa a bella posta, per dirgli tacitamente, o per fargli credere: — ò paura d'invitarti. Arrossirei, mi tradirei. Al vecchio Galli questa innovazione della «poule des dames», a tutta prima, era dispiaciuta: non l'avrebbe voluta in casa sua: a' suoi tempi non si usava; e gli pareva immorale. Poi, ripensandoci, aveva trovato che potrebbe servire a meraviglia al suo scopo quello di rivelargli le simpatie delle figliole. E aveva finito per essere lui, ogni sera, l'organizzatore del ballo. A una cert'ora, se ancora non si era fatto, girava di crocchio in crocchio, o si metteva in mezzo alla sala, battendo le mani, e gridava: — La «poule des dames»? La «poule des dames»? Appena il ballo cominciava si poneva in vedetta, e stava ad osservare, a notare accuratamente chi erano i ballerini scelti da Clara e Virginia. Ma, l'ingenuo, non aveva mai scoperto nulla: anzi se veniva a delle conclusioni, erano sbagliate certamente. Adelina, quella sera, aveva attesa la «poule des dames». E, subito, era corsa dinanzi a Giacomo porgendogli le due mani, con un inchino. — Monsieur? Giacomo, stupito, un poco confuso, aveva risposto, in italiano, perchè in quattro mesi aveva imparato, a forza di studio e di pratica coi suoi impiegati e cogli operai, a parlare abbastanza spedito, e non l'italiano soltanto ma anche un po' di dialetto: — Signorina, la ringrazio: ma non so ballare. — Possibile? Non «vuole» ballare. — Se «lo saprei», lo vorrei. Allora essa, ridendo, l'aveva corretto. E, ingenuamente civettuola, gli aveva proposto di insegnargli per bene il ballo e la lingua. Così, senza farsi scorgere, s'era indugiata vicino a Giacomo, a lungo, nel vano della finestra, dov'egli, ritto, cogli occhi fissi su di lei, rispondendo poche parole, a tono basso, come era suo costume, si era lasciato trascinare, suo malgrado, a dirle delle cose gentili, con voce un poco commossa, — Ma io la trattengo qui e «non permetto che balla», signorina. — Oh! non importa: ò già ballato tanto! 8 Egli credette di vedere, nella ingenuità di quella risposta, in quell'indugiarsi presso di lui, l'espressione inconscia e schietta di una simpatia che, forse, era il rispecchio della sua simpatia vivissima per la fanciulla bionda. Allora, quella sera, aveva deciso di parlarne al suo vecchio amico. Il matrimonio s'era concluso contro il consiglio del Galli. Il buon vecchio s'era mostrato contrariato in volto dalle parole di Giacomo. Però questi, a tutta prima, non ci aveva fatto caso. In quella contrarietà aveva supposto si celasse il dispetto di veder posposte le sue figlie ad un'altra. Tuttavia la franchezza del vecchio lo colpì. Le sue prime parole di risposta erano state appunto: — Peccato! Vi avrei data tanto volentieri una delle mie figliole, mio caro Burton. — E, dopo un momento di pausa: Però non crediate che, per dispetto, cercherò di dissuadervi da queste nozze. No, vi sono amico vero, come spero che voi lo siate per me; e decidendo come vorrete, mi conserverete sempre ed ugualmente la vostra amicizia. — Certamente. Ditemi franco quello che ne pensate. — Ecco. Adelina è orfana: e questo non è un male: anzi può essere un bene: evitereste i suoceri.... Non tutti i suoceri sono brava e buona gente come me e mia moglie. E poi, anche la buona gente può essere gente noiosa e chissà che non lo sia anch'io senza volerlo. — Qui si era fermato in attesa di un complimento, di una parola gentile di protesta. Ma Giacomo taceva. — Il grave si è che non à e non avrà mai un soldo di dote. Allora Burton aveva preso la parola, decisamente, quasi ad evitare le inevitabili variazioni su questo tema. — Signor Galli, questa non è una difficoltà, e non avrei mai supposto che ella potesse crederla una difficoltà. — Giovanotto,... — aveva cominciato il Galli quasi in tono predicatorio; poi, correggendosi: — Mio caro signor Burton, in questa momento non mi sembrate un uomo pratico, come ànno fama di essere gli inglesi. Che io non mi preoccupi di trovar per marito alle mie figliole un uomo ricco, è giusto. Un uomo è sempre ricco se à voglia di lavorare. La ricchezza è nella sua testa e nelle sue braccia. Ma una moglie! Voi non sapete, forse, quante pretese, quanti bisogni ànno le donne! E voi, senza farvi i conti addosso, Dio me ne guardi, non guadagnate che quattromila lire. Non è molto: non bastano per sposare una ragazza che non à il becco d'un quattrino.... Che non possiede neppur la camicia, — aveva aggiunto per timore che la prima espressione non potesse essere capita dall'inglese. — La quistione è di sapersi accontentare e di misurare i bisogni ai propri mezzi, — aveva risposto Giacomo. — E questo sarà affar mio. — Eh! ma le donne al dì d'oggi,... — aveva obbiettato ancora il vecchio. — Le mogli sono come i mariti le vogliono. — Lo credete? In Inghilterra, forse. In Italia no. Del resto, questo è affar vostro, caro il mio Burton. Ma c'è dell'altro; ed è ciò che mi trovo in obbligo di dirvi, perchè mi fate l'onore di consigliarvi con me. — Dell'altro! — Ecco qua. Vi ò detto che la signorina Adelina Olivieri è orfana. E lo è dall'infanzia. La madre morì mettendola al mondo. Il padre poco appresso. Essa fu raccolta ed allevata da una zia materna, la signora Cavalli, che vi ò presentata, e che è vedova essa pure da dieci anni. Una bella donna ancora, malgrado i suoi 40 anni, come avete veduto. Una donna,.... Questo che vi dico, naturalmente, resti tra noi, una donna che non à fama di essere stata una casta Susanna. Come à allevato Adelina? Che esempi le à dato? Non so. Non credo però sieno stati i migliori. Ancora adesso mena una vita che non si addirrebbe nè ai suoi mezzi nè alla sua età. Si dice cha un vecchio banchiere sia il suo.... amico intimo e.... che provveda.... Il Galli avrebbe continuato per un pezzo. Ma James, fattosi serio, lo aveva interrotto: — E voi, signor Galli, la ricevete in casa vostra? 9 La domanda, a bruciapelo, aveva sconcertato un poco il buon vecchio. Infatti, perchè la riceveva a casa sua? Perchè, se aveva così poca fiducia nei sentimenti, nei principî di Adelina, aveva permesso che diventasse l'amica intima delle sue figliole? — Ecco, caro il mio Burton — aveva ripreso a dire il vecchio, dopo un momento di esitazione — a questo mondo bisogna essere molto rigidi verso sè stessi, e molto indulgenti verso gli altri. Se si volesse guardar bene in fondo alla vita di tutti quelli che si conoscono, ne resterebbe forse uno su cento al quale si potrebbe stringere la mano senza ripugnanza. Che volete? Adelina fu compagna di scuola della Clara. Mia moglie e la signora Cavalli si conobbero presso un'amica comune. Quando io cominciai a dare queste festicciole, mia figlia espresse il desiderio di avervi la sua amica. Come rifiutare questo invito? Con che scusa? Potevo dirle...? Voi capite che no. D'altronde, sin che si riceve in casa una persona, e le si offre un sorbetto e un dolce, via, non ci si compromette.... e non la si sposa, sopratutto. Siete voi, ora, che vorreste sposare questa ragazza. Ed io stimo mio dovere di mettervi in guardia. — Vi ringrazio. Non c'è altro? — aveva chiesto Giacomo dopo un momento di riflessione. — Altro?... No, che io sappia. Vi ò detto tutto: che la ragazza mi pare un poco leggiera, allevata senza giusti principî, abituata a menar vita da ricchi, senza indagare, — o sapendolo, che sarebbe peggio, — da che parte vengano i mezzi per menar codesta vita. Ecco tutto. Fate voi. — Sta bene. Allora, signor Galli, vorreste essere tanto buono da chiedere confidenzialmente, da parte mia, alla signora Cavalli se.... — Se ve la darebbe in moglie? — aveva interrotto il vecchio, con un po' di dispetto che invano aveva cercato di nascondere: — se ve la darebbe in moglie? Ma posso rispondervi addirittura di sì. Figurarsi! Adelina à 24 anni, e non à un soldo di dote. Voi siete un eccellente partito. La zia mi à ripetuto tante volte: — Ah! che pensiero quello di allogar quella ragazza. Sarà difficile! sarà difficile! — Non le parrà vero. — Vorrei saperlo di positivo. — Entro domani, caro il mio Burton. — Poi, dopo un momento di silenzio, con grande affettuosità e bonomia, dimenticando ormai il dispiacere di vedersi sfumare un caro disegno e il dispetto provato per la nessuna impressione che le sue obbiezioni avevano fatte sull'inglese, aveva aggiunto: — E credete, signor Burton, che la vostra famiglia sarà contenta? — Ne sono certo — aveva risposto Giacomo con calma e con convinzione. — Mio padre e mia madre ànno una grande fiducia in me, e sanno che non farei cosa contraria al mio onore e al mio interesse. Non ò mai rifuggito dall'idea del matrimonio. La mia posizione è discreta e mi permette di farmi una famiglia della quale sento tanto più il bisogno qui, dove vivo solo e senza parenti. La signorina Olivieri mi piace e spero di non dispiacere a lei. Quello che mi avete detto del suo passato non mi spaventa. Le ò parlato: mi è parsa buona, ingenua, mite, modesta. Credo che, se mi vorrà, e diventerà mia moglie, saremo felici. — Ed io ve lo auguro con tutto il cuore, mio caro Burton. Due mesi dopo, Adelina era la moglie di Giacomo. I suoi capelli biondi, i suoi occhi neri, la sua grazia infantile, la sua ingenua civetteria, l'avevano innamorato. Egli aveva trovato, anche, una grande, affettuosa cordialità nella zia; e un sicuro, fiducioso, sereno abbandono nella sua sposa. Forse perchè abituato alla rigida freddezza dei suoi compaesani, lo avevano conquistato questo alito caldo di vita, che spira dalla donna italiana, questa festività, questa confidente affettuosità che venivano a circondarlo nella sua nuova vita. E dopo la prima notte di matrimonio, una notte calda d'amore, cui Adelina col solo entusiasmo dei sensi si era abbandonata, James Burton, senza telegrafarlo, pensava per la seconda volta che — gli italiani sono brava gente. — Ed erano passati quattro anni da allora, quattro anni di grande, di serena felicità per Giacomo. Sua moglie, i suoi studi: trovava uguali soddisfazioni nell'una e negli altri: quelle soddisfazioni che egli aveva previste, in quella misura e con quella continuità che bastavano a dargli il benessere dello spirito e del cuore. Nella sua officina, nel suo grande laboratorio, egli passava l'intera giornata, dimenticandovisi. Rincasando, alle sette, trovava sua moglie a riceverlo e la tavola apparecchiata. 10 La moglie era allegra, chiacchierina, affettuosa: la tavola linda, ben curata, bene ordinata. Ecco la sua felicità, quella che aveva sognata, che aveva preveduta anzi, il giorno delle sue nozze. Aveva affittato un quartierino in via Principe Umberto, tenuto per bene, con molta eleganza da Adelina, che aveva un gran merito per Giacomo, insieme a tutti gli altri: di essere un'eccellente massaia. Con un nonnulla essa rendeva elegante e, talvolta, nei particolari, persino ricca la casa, e sè stessa. Quattromila lire era quanto Giacomo poteva darle per provvedere a tutto. Eppure, essa vestiva con buon gusto: nella casa c'era, ad ogni tratto, un mobile, un oggettino, un ninnolo nuovo e grazioso; la tavola era sempre fornita di cibi freschi, ed anzi ogni giorno, di una primizia, di una ghiottoneria. Tutto ciò con quattromila lire; e la pigione soltanto ne portava via quasi mille. Adelina, interrogata su questa sua sorprendente bravura, rispondeva ridendo: — e faccio anche dei risparmi! — Gli è che essa sapeva comperar bene: e poi, era maestra nell'arte di rinnovare un abito vecchio in modo che si sarebbe giurato fosse un abito nuovo. Nella sua guardaroba c'era sempre una diecina di cappellini. Ebbene, tutti assieme, non valevano cento lire. Lo diceva lei: bisognava pur crederlo poichè non cercava mai un quattrino, e non c'era mai un conto da pagare. La sera, raramente Giacomo usciva di casa. Si alzava troppo presto il mattino: non poteva concedersi il lusso di star fuori tardi la notte. Però non voleva sagrificare Adelina. L'accompagnava dalla zia, o ve la faceva accompagnare dalla fantesca. La zia abitava a due passi, e aveva sempre qualcuno la sera. Oppure essa portava la nipote a teatro, al Manzoni o al Filodrammatico. A mezzanotte Adelina ritornava. Se Giacomo dormiva, aveva cura di far piano, di spogliarsi adagino, senza far rumore. All'alba suonava la sveglia. Giacomo baciava sua moglie che voleva essere svegliata — guai se se ne andasse senza salutarla! — e usciva. Ritornava pel pranzo. Erano passati quattro anni così, felici. Una volta soltanto accadde qualcosa che colpì Giacomo. Alcuni mesi dopo il matrimonio seppe che Adelina aveva cessato di andare in casa Galli. Allora glie ne chiese il perchè: — È semplicissimo. Il Galli, tu lo sai, l'avevi capito certamente, ti aveva messi gli occhi addosso per far di te il marito di Virginia o di Clara. Non puoi immaginare il dispetto che à provato quando tu, invece, ài scelto me. E se tu avessi veduto come mi ricevevano adesso: con che sussiego! E un'ira mal celata nelle loro parole! Quelle due pettegole di ragazze, invidiose, accidiose, pareva mi facessero un gran favore a ricevermi. Non ci sono andata più, e non ci andrò più. Scusa, ò ragione? — concluse, buttandogli le braccia al collo. Certamente aveva mille ragioni. E Giacomo pensò che anche la buona gente, anche la gente onesta, à delle piccinerie di sentimento che non vale la pena di contrariare e che è meglio compatire. Pensò del pari che, forse senza accorgersene, il Galli aveva esagerato parlando della zia. Quando la conobbe gli parve una buona e brava donna. Non trovò nella sua casa e sulla sua persona dei lussi esagerati. Parlando, dimostrava molto buon senso ed esprimeva idee giuste e rette. Però, quando vide che, per forza di circostanze, doveva permetterle che il più grande ed assiduo appoggio morale l'Adelina lo avesse nella zia, colla quale passava quasi tutte le sere e varie ore della giornata, interrogò sua moglie. Non per diffidenza: essa, col suo modo di comportarsi, di agire, di parlare, gli aveva infusa la più grande, la più assoluta sicurezza: dopo pochi mesi di matrimonio, anzi, egli si era convinto una volta di più, che le apparenze ingannano: tante e tante volte, riescono delle ottime e saggie mogli, le fanciulle che ispirano poca fiducia alla gente che à una mente piccina e seconda i pregiudizi volgari del mondo: mentre certe ragazze che paiono monachelle ed escono da famiglie illibate, si sbrigliano non appena ànno marito e diventano donne corrotte e senza senso morale. Egli era andato contro un pregiudizio della folla ed aveva ragione di dirsene contento: gli pareva persino di aver compiuta un'opera buona oltrechè un atto di coraggio. Ma la interrogò perchè non ci dovevano essere misteri tra lui e sua moglie, non ci dovevano essere punti oscuri nella loro vita. A patto di una completa confidenza tra loro, si conserverebbe la felicità di cui ora godevano. — Quali sono le rendite di tua zia Ermelinda? 11 — Oh bella! la pensione, eh? Lo zio era tenente colonnello. Avrà.... non so se sette od otto- mila lire all'anno. Perchè mi fai questa domanda? — Non è una domanda indiscreta. — Eh! no no, ci deve essere sotto qualcosa. Oh! giurerei che c'entrano i Galli anche qui. Giacomo non sapeva nè avrebbe potuto mentire. Con sua moglie poi meno che con chiunque. Le confessò, attenuandolo e togliendogli ogni sapore di malevolenza, il discorso del vecchio amico. — Ah! ah! vedi se indovinavo! Che gente! che gente! Come ò fatto bene di lasciarli nel loro brodo. Già, chi non à una fabbrica di candele, puzzolente come loro, non vive onestamente. Egli l'aveva calmata con buone parole e con molte carezze, ma aveva dovuto giurarle che, d'ora innanzi, col Galli tratterebbe appena quel poco che era necessario a causa della carica che occupava, e non più. — Senti — aveva concluso lei — mi convinco ogni giorno più che al mondo ci sono più birbanti che brave persone, sai! Adesso che vado un poco nella gente, di qua e di là, pei salotti delle amiche, ne sento e ne vedo d'ogni colore. Mi convinco ogni giorno più che la vera felicità, il vero benessere, non lo si trova che nella propria casetta. Qui, noi due.... Oh! a proposito! Giurerei che il Galli à avuto il coraggio, anche, di elevare dei dubbi sull'amicizia della zia pel banchiere.... Non dir di no! Eh! una lingua, quel bottegaio arricchito! Già: la zia è ancora una bella donna, l'Orlandi viene in casa quasi ogni giorno.... Oh! capaci di tutto, quelli là. — E qui una allegra risata. — Figúrati: un vecchio.... avrà sessant'anni! Ed era amico intimo dello zio.... Che c'è di più naturale che la zia, donna sola, se lo tenga caro, come un amico veramente fidato.... Giacomo, fattosi serio, l'aveva interrotta: — No, Adelina, non devi pensarle certe cose. La tua mente onesta ed ingenua non deve formare simili pensieri. Queste brutture del mondo non devi neppur immaginare che siano possibili. — Eh! eh! mio caro, se ne vedono e se ne imparano tante! Ed anzi, credo che sia bene: servono a metterci in guardia e ad evitare il male, anche solo le apparenze del male. Vedi? io credo che sia più giusta e pratica l'educazione che date voialtri inglesi alle ragazze, che non quella stupida e tutta finzione che si dà in Italia. Se avremo una bambina la educheremo all'inglese. Vuoi? Dopo quel discorso, Giacomo aveva concluso in cuor suo che sua moglie sarebbe anche una ottima madre. Però, quattr'anni di matrimonio erano passati e Burton non aveva ancora un erede. Non se ne preoccupavano, e non se ne addoloravano, nè lui, nè Adelina. Certamente, essi non potevano, a questo proposito, nutrir dei rimorsi. Era, anzi questa una delle circostanze che avevano valso a infondere in Giacomo una illimitata fiducia per sua moglie: lo slancio, l'entusiasmo con cui essa si dava. E, senza che gli avesse dette parole calde d'amore, nè che avesse mai trovate per lui espressioni tenere o appassionate (che egli, del resto, non conosceva nè avrebbe immaginato si potessero dire da donna a uomo o da uomo a donna), pure il sovrano e completo e non mai stanco abbandono dei sensi ch'egli, dal primo giorno, senza interruzione aveva trovato in lei, gli avevano data la lusinga e, a poco a poco, la convinzione d'essere amato da Adelina, o, meglio, di piacerle, il che era più pratico e più rassicurante per un marito della sua natura. I loro amplessi erano lunghi e d'ogni notte: e Giacomo, togliendosi ogni mattino dalla sua casa per recarsi all'officina, fiero, soddisfatto, percorreva la via respirando a pieni polmoni, e si sprofondava poi ne' suoi studi coll'intimo convincimento che una uguale fierezza, una uguale soddisfazione erano rimaste nella sua sposa: e che, come lui per tante ore si astraeva dal mondo, e al mondo e alle sue attrazioni e alle sue seduzioni non pensava, e non le desiderava, così essa, sino al suo ritorno, non dovesse provare nè sentire alcun desiderio, nè che le tentazioni della folla l'avrebbero toccata, come l'avrebbero lasciato insensibile lui le tentazioni della più bella tra le donne, se le fosse capitata dinanzi per sedurlo. La tranquillità dei sensi soddisfatti, gli dava la tranquillità dello spirito; e, in fondo, forse più essa, che non tutta le doti e le virtù che aveva riconosciute a sua moglie. Da un anno in qua, poi, un maggiore attaccamento, una maggiore tenerezza essa gli prodigava. Ora Adelina aveva preso l'abitudine di venir quasi ogni giorno a trovarlo in officina. E s'era creata 12 quel cantuccio grazioso, con un divano e due poltroncine, per rimanere una mezz'ora tranquilla, mollemente sdraiata, a tenergli compagnia, a vederlo lavorare. — Mi sono stancata di girar tanto pei salotti delle amiche — gli aveva detto. — In fondo in fondo, non ci si diverte e non c'è gran che da imparare: se nessuna o quasi nessuna è degna veramente dell'affetto che le si dedica. Chi dà dei cattivi consigli, chi dei cattivi esempi: dappertutto si sparla della gente.... Mi sono seccata. Verrò qui. È una bella passeggiata: vi ci impiego un paio d'ore; se è bel tempo, se non fa troppo caldo o troppo freddo, vengo a piedi.... Ti vedo, ti dò un bacio, e me ne vado contenta di averti veduto a lavorare.... Così, s'era conservata una sola amica buona, sincera, affezionata: la Bianca. Era una sua compagna di scuola; aveva qualche anno più di lei; era stata molto disgraziata nel suo matrimonio; aveva dovuto dividersi presto dal marito, un poco di buono. L'aveva presentata a Giacomo dicendogli: — Devi considerarla come una mia sorella; ci vogliamo tanto bene. — Adelina, ogni giorno passava delle ore con lei, e James era lieto di questa amicizia, perchè di Bianca aveva udito dire un gran bene, come di una signora buona e disgraziata che non aveva cercato nelle sue disgrazie una scusa al mal fare. Quando Adelina arrivava in istudio, diceva sempre: — Vengo dalla Bianca Caradelli; — oppure, quando se ne andava: — Vado da Bianca. — Spesso l'invitava a pranzo — era sola, essa — e la sera l'accompagnava a casa e rimaneva qualche ora con lei. Oramai, da un anno, non trattava quasi più altre donne che Bianca e la zia, e non andava in altre case che nelle loro. Ed era nata una così affettuosa intimità tra Bianca ed Adelina che, vari mesi addietro, questa non avea potuto rifiutarsi di accompagnare l'amica a Napoli dove era stata obbligata a recarsi per assistere una sua sorella colà dimorante, gravemente ammalata, quasi in fine di vita. Bianca aveva implorata questa prova d'amicizia, di prestarle il suo aiuto morale in quella circostanza dolorosa: non avrebbe avuto il coraggio di mettersi in viaggio sola, coll'angoscia nel cuore, col dubbio crudele di trovare, arrivando laggiù, una morta. Adelina aveva chiesto a Giacomo il permesso di partire: e questi l'aveva accordato, non senza rammarico. Ed era rimasta assente due mesi, poichè tanto si era prolungata la grave malattia della sorella di Bianca. Tuttavia James, non ebbe a rammaricarsi di tale assenza. Da allora s'era operato il mutamento nelle abitudini di Adelina; da allora essa aveva lasciate quasi tutte le sue conoscenze, e aveva cominciate le visite quotidiane all'officina. E quantunque anche prima d'allora la vita di sua moglie fosse sempre stata regolarissima, questo accrescersi della loro intimità, questo semplificarsi delle abitudini di lei, gli avevano causato una intensa soddisfazione. E ne aveva dato merito a Bianca la quale, certamente, co' suoi saggi consigli d'amica, aveva fatto di Adelina, ch'era una buona moglie, una moglie perfetta. Quel mattino, un mattino tepido d'aprile, Giacomo uscì anche più presto che di consueto. Doveva terminare certi disegni prima che venisse da lui Oscar Dumenville, l'arcimilionario banchiere, del quale suo fratello, da Londra, gli aveva annunciata la visita. Suo fratello minore, John, era procuratore della filiale a Londra della Banca Dumenville e C. di Parigi. Nei frequenti viaggi che il principale faceva alla capitale inglese, John gli aveva parlato di suo fratello Giacomo e degli studi che aveva avviati. Oscar Dumenville, una potenza bancaria sempre alla ricerca affannosa di nuove imprese lucrose, si era interessato a quei discorsi. L'esperimentata serietà e bravura in affari di John gli erano di garanzia e lo avevano favorevolmente prevenuto sul conto di suo fratello. Una frase, in ispecie, francamente detta da lui, lo aveva impressionato: «Se gli studi di James avranno il risultato che si spera, James non vorrà forse che l'impresa venga unicamente sfruttata da capitali francesi. Perdonate, signore, anche in affari non dimentichiamo mai l'orgoglio di razza. Ma per il naturale attaccamento che vi debbo, signore, io potrò indurre mio fratello a far sì che voi, insieme con dei capitalisti inglesi, abbiate a concorrere all'affare che, se la scoperta si compie, avrà dei risultamenti meravigliosi». Oscar Dumenville aveva, più che promesso, chiesto il permesso al suo procuratore di Londra, di fermarsi a Milano, in uno dei suoi frequenti viaggi in Italia, e di parlare a James. Quel giorno, dunque, egli attendeva il banchiere. Era arrivato due giorni prima e lo aveva preavvisato, con un biglietto molto cortese, della sua visita. E la visita giungeva in buon punto. Gli 13 studi di Giacomo erano compiuti. Non avrebbe arrischiato ancora di affermare: — Il problema è risolto, — perchè da uomo pratico voleva veder funzionare regolarmente il meccanismo che aveva inventato. Però tutte le esperienze fatte fino allora gli davano la quasi certezza della riuscita. Perciò quel colloquio doveva avere una grande importanza. James avrebbe potuto, senza arrischiare troppo, e senza rivelare il proprio segreto a Dumenville, autorizzarlo a fare le prime pratiche a Londra per la costituzione di una società che fornisse i capitali per le prove definitive e mandasse in Italia degli ingegneri a controllare e a verificarne i risultamenti. Oppure, se ciò fosse conveniente, James avrebbe chiesto un congedo alla Società dei Trams e si sarebbe recato a Londra per il periodo necessario a quelle esperienze. Adelina, vedendolo uscire, quel mattino, più di buon'ora, glie ne chiese il perché. Ma egli lo tacque. Voleva, con una improvvisata, rivelare a sua moglie il grande avvenimento quando fosse una cosa compiuta. E uscì, e camminò lesto, allegro, e si mise a lavorare di lena. Aprì le ampie vetrate. Dalla campagna che circondava l'officina e il suo studio, entravano pel finestrone gli effluvi caldi di primavera. Il cielo era terso. Sotto le grondaie era un cinguettare allegro di rondini ritornate il giorno innanzi come annunziatrici della lieta novella. Tutto sorrideva dinanzi a lui. Ed egli, lavorando di compasso, o prendendo degli appunti, o risolvendo intricati problemi di cifre, pensava. Pensava al passato e all'avvenire. Al passato. Ritornava con la mente alla sua casa di Glasgow, e al giorno che l'aveva lasciata per venire in un paese nuovo, tra gente nuova, ma sorretto da un'idea, ma confortato da una grande speranza. Ricordava il suo primo arrivo a Milano, e la conoscenza fatta col buon Galli, e il suo primo ingresso nella casa di lui. Non s'era ingannato augurandosi fortuna dalla cordialità, dalla affettuosità che aveva trovate nelle prime persone incontrate qui. In quella casa egli aveva conosciuto poco appresso la fanciulla bionda che lo aveva innamorato, che era divenuta la compagna buona e cara della sua vita. Quell'incontro, quelle nozze erano state la prima grande fortuna che il destino gli serbava. La sua esistenza, in quei quattro anni, aveva trovato, impensatamente, un nuovo scopo, oltre quello del lavoro, al quale egli aveva creduto di doverla unicamente dedicare. Uno scopo alto e nobile, ma tenero insieme, e affettuoso. Chissà? avrebbe lavorato forse con minor entusiasmo, con minore fiducia, se non avesse avuto un essere caro, legato a lui indissolubilmente. Non aveva lavorato più, soltanto, per la ricchezza e per la gloria; aveva lavorato per la felicità della sua donna, per dedicare a lei, a lei sola ormai, la ricchezza e la gloria. Per questo, forse, era riuscito; per questo, certo, era riuscito più presto. Le ore erano passate liete e brevi, lavorando, senza provare mai un dubbio o una paura, senza aver avuto mai un momento di noia o di stanchezza, perchè sapeva che dopo le gioie febbrili che le proprie ricerche e i progressivi successi gli davano, altre gioie più calme, più intime lo attendevano nella sua casetta allietata dalla presenza di Adelina. Erano stati quattr'anni felici. Ed ora altri più felici ancora lo attendevano. Ed ecco l'avvenire, che si affacciava alla sua mente, tutto pieno di speranze pressochè mutate in certezze. Si figurava, un momento, di essere solo, scapolo, come era arrivato in Italia. E la conquista era fatta, e l'annuncio festoso da darsi era pronto. A chi darla? Al mondo, alla folla, nella volgarità di un articolo da gazzetta?... Alla mamma con un dispaccio? Sì, alla mamma sì. Ma era lontana.... non avrebbe viste le sue lagrime di gioia, non avrebbe avute le sue carezze. E poi, la mamma?... Sì, la gioia che le si procura è una gran gioia, che soddisfa sè stessi, che dà la fierezza e la calma come di un dovere compiuto; ma quella che si procura alla propria donna, alla donna che si ama, che è nostra, come è più grande, come è più intensa, come è più umanamente compensatrice!... Ed egli, Giacomo, la possedeva, dunque, questa creatura cara. Oggi, ritornando alla sua casetta, le avrebbe data, con un bacio, la lieta novella. E immaginava di già quell'istante sublime di gioia: e pensava, appunto, che in quel momento nulla più l'avrebbe compensato dei baci di Adelina: poichè si trattava di gioire. Il giorno, soltanto, in cui l'avesse colpito la sventura; nel momento, soltanto, in cui si fosse trattato di piangere; allora avrebbe preferita sua madre. Egli era ben certo che, quella sera, non sarebbe uscito a passeggio con Adelina. La loro felicità avrebbe avuto bisogno di lunghe ore di quieta intimità tra loro due, soli soli. Se non Adelina ma la mamma invece fosse ad attenderlo in casa, il loro colloquio sarebbe breve. Avrebbe provato il bisogno 14 irresistibile di uscire all'aperto, di correre la città, di ficcarsi tra la folla per comunicare alla folla il proprio entusiasmo. Poichè è questa la triste sorte delle madri: di aver brevi momenti di gioia, e lunghe ore di dolore. Oh! lo sentiva, colla mamma si sarebbe indugiato se avesse avuto bisogno di conforto. Quella sera, oh! quella sera, come se la figurava gaja e felice, mentre lavorava intento, in attesa del banchiere. L'entusiasmo lo invadeva poco a poco. L'arrivo di Dumenville non significava nulla per lui, non era certamente un passo innanzi verso la certezza assoluta, materiale, che ancor non aveva, e che non lui, ma le sue macchine soltanto, correnti veloci sui binari, potrebbero dargli. Eppure, quel colloquio, che aspettava, lo rendeva giubilante. Gli pareva che gli giungesse l'ultimo aiuto e l'ultimo sprone: sentiva ad ogni modo, come una forza novella, potente, sincera perchè interessata, venirsi ad unire alle proprie forze. Non ragionava più, oramai; quel colloquio era un augurio. Dal suo arrivo in Italia, avea proceduto così, sorretto dagli augurî trovati nelle persone e negli avvenimenti, augurî che non avevano fallato mai. Non fallirebbe neppur questo, lo sentiva. Giacomo era adesso il viaggiatore che à trascorse dodici ore di ferrovia, tranquillamente, senza impazienze, nella convinzione che nessuna impazienza le accorcerebbe; ma che nell'ultimo breve tratto di cammino, diventa nervoso ed inquieto; e rifà le cinghie ai mantelli, e ripone il berretto, e chiude le valigie, e s'affaccia alla portiera, e vorrebbe aprirla e scendere abbasso, parendogli impossibile di non essere ancor giunto dopo tante ore di viaggio. James sentiva di essere prossimo alla sua ultima stazione. Che accidente poteva coglierlo in quest'ultimo tratto di via? Nessuno, certamente. Nessuno, tanto più che un nuovo compagno veniva adesso a tenergli compagnia, a prestargli ajuto se ne abbisognasse. Perchè dubitare ancora? Perchè frenare più oltre la gioia? Perchè non dar la grande notizia, almeno a lei, a lei sola, che ne avrebbe tanto gioito, che l'aspettava da quattro anni, che aveva diritto di riceverla poichè era stata la sua buona fata ispiratrice? Perchè? No, no, quel giorno, rincasando, direbbe tutto a sua moglie. Le ore trascorrevano, lavorando, pensando, così. E come la darebbe, la grande notizia? Ci voleva un mezzo simpatico, originale. Allora, immaginò, che, prima di rientrare, sarebbe passato in uno dei grandi negozi di stoffe per signora, da Vernazzi o da Osnago; oppure in un magazzino di vesti fatte, da Ventura, e avrebbe scelto una bella toletta, ricca, di moda, un poco civettuola, come le amava Adelina. E l'avrebbe recata a casa lui stesso in una grande scatola misteriosa. Oh! la gioia di sua moglie nell'aprire quella scatola! Oh! i salti di contentezza che avrebbe fatti! E i gridi di giubilo, e gli abbracci, ed i baci! — Come? Perchè? Che vuol dire? — avrebbe chiesto lei. — Che miracolo? Che cosa nuova? Tu? Proprio tu, che mi predichi sempre l'economia? — Allora lui le avrebbe rivelato il gran segreto. — Siamo ricchi! Siamo.... quasi ricchi! — Ah! non era questa una della ragioni che gli rendevano tanto più cara la sua vittoria? Poter accontentare Adelina in questo che era forse l'unico suo difettuccio, così naturale, così giusto, così in armonia colla natura sua tutta grazia e tutta brio: l'ambizione. Ma poveretta, che sagrifici doveva aver fatti in quei quattro anni, che miracoli di pazienza, di bravura e di buon gusto, per riuscire ad essere sempre elegante, sempre distinta a malgrado dei pochi mezzi di cui poteva disporre. Sagrifici e miracoli certo a lui sconosciuti. Ora, ora soltanto ci ripensava, ora soltanto apprezzava questa grande qualità di sua moglie! Aveva mai chiesto, lui, come Adelina riuscisse a tanto? Con cento lire sapeva procurarsi una veste che non valeva, certo, ma che figurava per quattrocento. Un abito vecchio ed usato, con poche gale, con una trina che lo ricoprisse, con una nuova foggia ideata e, forse, attuata da lei, sembrava un abito nuovo di zecca. Quando, talvolta, mancava ad una delle sue visitine quotidiane, che faceva? Rimaneva in casa, con una sartina modesta che veniva a lavorare a giornata, e che essa aiutava e dirigeva. E sembrava, poi, abbigliata, da una sarta di Parigi. Che ne sapeva lui, di quei miracoli di pazienza? Nulla. Era all'officina, tutto il santo giorno, lui. — Non sei venuta, oggi, perchè? — Mah! mi sono fatta una veste. Guarda! — E che bellezza era quella veste! E con che semplicità lo diceva, senza, darsi importanza, come fossero le cose più naturali del mondo, quel sagrificio e quella bravura. 15 Era dunque finita, adesso! Povera e cara Adelina, avrebbe fatto a meno, d'ora innanzi, di almanaccare su un abito frusto per rimetterlo a nuovo. Avrebbe potuto evitare, d'ora innanzi, di stancare gli occhi e di pungersi le dita. Andasse dalla Ventura, dalla Magugliani, dalla.... come si chiamavano le celebri sarte milanesi? Non lo sapeva, aveva udito dei nomi, pronunciati da Adelina, così di passata, senza invidia, senza desiderio. Sarebbe andata da chi voleva: egli avrebbe pensato soltanto a riempirle il borsellino. E la casa? Lei ricamava per lunghe ore, lei, talvolta, si picchiava le dita, facendo il tappezziere; lei, ricopriva, i mobili con stoffe pseudo-antiche, con pezzi di damasco arabescato che andava a scoprire per pochi soldi chissà come e chissà dove. Ogni tanto egli trovava qualcosa di nuovo, — — Oh? Che? Come ài fatto? — E lei, ridendo; — Io! — Sempre lei, che pensava e provvedeva a tutto, senza chiedere un soldo di più. E la cucina? — Poveretta, non usciva, spesso, il mattino per tempo, per andar con la serva a far le compere? Ed ecco come si spiegavano i lussi, i veri lussi del suo desco. Ma ci aveva mai pensato, Giacomo? Aveva mai considerato che tesoro di massaia aveva in sua moglie? No! Mangiava, quello che trovava apparecchiato, e non chiedeva di più!... Adesso, ripensandoci, vedendo prossima la fine di tutti quei sacrifici, ne provava rimorso. Povera e cara Adelina sua! — È permesso? La voce di Gasparino, il portinaio dell'officina, lo scosse dalle sue meditazioni. — Entrate. Gasparino entrò e gli porse una carta da visita: — Questo signore cerca di lei. Giacomo lesse: «Baron Oscar Dumenville, chevalier, de la Légion d'honneur». Lui! Erano passate molte ore, dunque, senza che egli se ne accorgesse. Mentre si alzava di scatto, guardò l'orologio: le due. Di già! — Passi. E si diresse alla porticina dello studio, incontro al banchiere. — Il signor James Burton? — Il barone Dumenville? — rispose Giacomo in francese, come in francese era stata fatta la domanda. Il banchiere afferrò la mano che Giacomo gli porse, e gli diede una stretta lunga, cordiale quasi affettuosa. Allora, introducendolo, e presentandogli una delle poltroncine ch'erano nell'angolo, al lato opposto alla porta, egli osservò il suo visitatore. Era un giovanotto sui trentacinque anni, elegantissimo, biondo, alto, nerboruto. Vestiva il doppio petto nero, dei calzoni bigi. Portava le scarpe a vernice, e i guanti bianchi colle cuciture ricamate in nero. In una mano aveva il cappello a cilindro caratteristico di tutti i francesi, coll'ampia tesa diritta. Probabilmente aveva lasciato il soprabito nella sua carrozza. Il viso non era nè bello nè brutto, ma aveva alcunchè di distinto e spirava una grande giovialità. Portava la lente all'occhio sinistro, senza cordoncino. Questo primo esame non rese contento Giacomo. Non aveva mai pensato, nei giorni scorsi, non aveva mai tentato di indovinare che figura potesse avere il visitatore aspettato con tanto interesse. Le molte cure del suo lavoro, tutti gli altri pensieri più intimi e affettuosi che lo avevano occupato fin qui, gli avevano evitato quel desiderio che proviamo tutti, di figurarci in anticipazione una persona della quale dobbiamo fare e ci interessa di fare la conoscenza. Pure, oggi, osservando Dumenville, James si diceva in cuor suo che se lo sarebbe figurato tutt'altro che così. C'era nel barone un'aria di squisita distinzione e di purissima eleganza; c'era anche qualcosa, nella sua persona, nel modo di presentarsi, di salutare, di porgere, che ispirava fiducia e predisponeva bene in suo favore. Ma Giacomo non trovava in lui alcunchè di austero, di severo, di serio come avrebbe desiderato in un uomo d'affari. Dumenville sembrava meglio uno sportman che non un gran finanziere. Poi, forse senza rendersene conto, Giacomo aveva subìta una sgradevole impressione dal 16 fatto che il barone gli aveva rivolto la parola in francese, mentre a lui era noto che egli parlava perfettamente l'inglese. La cordialità del saluto, della stretta di mano, dell'intonazione con cui aveva pronunciate le prime parole, non valeva la deferenza alla quale James aveva diritto d'attendersi, e che sarebbe stata dimostrata assai più da un saluto e da una conversazione in inglese, la sua lingua nativa. Da questa impressione non completamente favorevole, Burton ritrasse quasi uno scoraggiamento. Da quando si era posto al lavoro sino al momento che gli avevano annunziato l'arrivo del banchiere, la sua mente non aveva fatto che fantasticare; e in quella così intensa attività di pensiero e di sogni che gli aveva perfino impedito di sentire gli stimoli dell'appetito, egli era giunto alla più alta nota dell'entusiasmo e della fede. Perciò, adesso, la più piccola, la più inconcludente delle delusioni, un'impressione — soltanto — sfavorevole, e che poteva essere errata, bastavano a mettergli in cuore tutto un cumulo di dubbi e di timori. Chissà? stupidaggini, paure da bimbi! Ma perchè Dumenville era biondo piuttosto che bruno, perchè portava dei guanti bianchi anzichè dei guanti neri, perchè.... l'aveva salutato in francese e non in inglese, Giacomo dubitava adesso che quello non sarebbe l'uomo che gli abbisognava.... E pazienza questo: ma cominciava a dubitare che la prima delusione fosse l'indizio di altre ben più gravi che lo attendevano. Oh! le sue macchine non avrebbero corso giammai sui binari lucidi e dritti!... Ebbe un istante di terrore, quell'uomo forte, di razza forte, sempre calmo, sempre impassibile, sempre fiducioso in sè stesso e nel suo destino. Forse che in certi momenti della vita tutti gli uomini si eguagliano, e le impressioni sono identiche per tutti?... E, mentre il banchiere parlava, giovialmente, a voce alta, con parola calda e immaginosa; mentre gli parlava di John suo fratello; della sua patria; del desiderio vivissimo che da tempo nutriva di far la conoscenza sua; della certezza che John aveva infusa anche in lui che si trattasse qui di una seria impresa degna di tutta la considerazione dei dotti e dei potenti di ogni classe; mentre gli parlava così da dieci minuti, Giacomo teneva la testa bassa, e, quasi, non osava guardarlo per timore di riprovare quella impressione sgradevole che la vista del barone gli aveva data; e, quasi, non l'ascoltava, come in preda ad un pensiero fisso, penoso, ingiustificabile forse, ma altrettanto invincibile. Aveva trascinata l'altra poltroncina di contro a quella sulla quale stava il banchiere, e vi si era seduto, volgendo le spalle alla porticina dello studio. Il francese pareva essersi accorto dell'imbarazzo in cui si trovava quel rude lavoratore del nord, e seguitava colla sua facondia parigina, come volesse dargli tempo di entrare in dimestichezza; quasi credesse necessario di metterlo a suo agio. E Giacomo si preoccupava del momento in cui avrebbe dovuto prendere la parola, e rispondergli. Era una fanciullaggine, certo, una stupida preoccupazione che nulla giustificava. Ma sentiva che non riuscirebbe a vincerla: che una mano di ferro gli avrebbe chiusa la bocca, o permesso a mala pena di balbettare. Dumenville parlava ancora, quando si udì socchiudersi la porticina del vasto laboratorio, e poi un piccolo grido represso, e la porticina rinchiudersi violentemente. Giacomo riconobbe la voce di sua moglie, in quella breve esclamazione come di sorpresa e di paura. Bambina! Aveva veduto un estraneo, ed sera fuggita! E, mentre egli levava lo sguardo, vide il barone alzarsi di scatto, cogli occhi pieni di allegro stupore fissi sulla porticina. Un attimo solo, chè, interrotto subito il discorso, attraversò correndo lo studio e riaprì la porta, rimanendo a guardare curioso al di fuori. Giacomo, senza rendersi esatto conto del sentimento — se di curiosità o di vanità — che aveva spinto il barone a quell'atto, si alzò anche lui e, calmo, si diresse all'uscita. Stava per dire: — «Badate, è mia moglie, perdonate se è fuggita, ma è così vergognosa....» — quando Dumenville si rivolse a lui, e, con un grido di allegro sbalordimento, esclamò: — La mia biondina! Giacomo ebbe un tuffo al cuore. Se si fosse trovato in condizioni normali di spirito, sarebbe scoppiato in un'allegra risata. — «La sua biondina!» — Che granchio! — Ma in quel momento, e sotto l'impero di quell'incubo strano che la vista del barone, gli avea dato, rimase allibito, senza parole. 17 Si sentì mancare. Si appoggiò colle due mani ad una delle grandi tavole da disegno, sorreggendosi a stento. Dumenville era uscito sulla soglia, e guardava per ogni lato, con occhio avido, scrutatore. Cercava la donna; se l'avesse scorta l'avrebbe seguita, raggiunta. Ma la donna era sparita. Fece due passi fuori, nella corte, cercò ancora. Inutilmente. Allora rientrò. E porgendo le due mani a Giacomo, e trascinandolo ancora verso il divano: — Ah! ah! mi congratulo, signor Burton, avete delle belle amiche! — esclamo, ridendo. — E ricevete qui delle visite più interessanti della mia! Giacomo, come un sonnambulo, lo fissava stralunato. Però si vinse, e, dominando l'emozione, sorretto da una speranza, da una quasi certezza, che l'antipatia per quell'uomo accresceva, domandò: — Ma.... chi era? — La mia biondina! — ripetè il banchiere. Poi, fatuo, sedendo: — Mia.... pardon.! Una piccola avventura della quale non ò che a gloriarmi; ma infine.... Giacomo allora ebbe un impeto di rabbia feroce. Fu lì lì per afferrare al collo il francese, e strozzarlo. Ma si dominò. Bisognava dissipare l'equivoco. E, con prudenza: — Scusate, barone, non vi siete sbagliato per caso? — egli chiese. — Oh! no, ve lo giuro. La biondina di ieri, non c'è dubbio. Si affacciò appena, mi ravvisò subito, mi riconobbe, diede un piccolo grido e fuggì. Voi avete visto come è fuggita. Per quanto io mi sia precipitato alla porta, era già sparita.... — Poi, dopo una piccola pausa, con un pentimento sincero nella voce: — Oh! perdonatemi, signor Burton.... Forse.... senza volerlo.... Burton capì il pensiero e comprese ch'era bene troncare recisamente ogni supposizione, per andar in fondo alla cosa e vederci ben chiaro. — No, no, vi prego. Non temete di nulla. Vi giuro che non mi aspettavo nessuna visita, e che non conosco nessuna bionda a Milano. — Tanto meglio, allora! — rispose Dumenville. Poi, ancora in tono dimesso: — Vi prego di credere, ad ogni modo, che l'esclamazione e la confessione mi sono sfuggite. Ma fu tale e tanto il mio stupore! La combinazione era così strana e bizzarra, di ritrovare qui, proprio qui, una ragazza che ò.... conosciuta, ieri in ben altre condizioni.... Giacomo si sentiva soffocare — Scusate, signor barone, se vi interrompo; ma ò un ordine da dare al capofabbrica. Due minuti, e.... riprenderemo il discorso sulla strana avventura. — Oh! non ne vale la pena! — rispose ridendo il banchiere. E aggiunse: — Fate pure.... non ò nessuna premura. Burton uscì. Aveva bisogno di un momento di tregua, di respirare un po' d'aria. Poi avrebbe ascoltato il resto. Ah! sì, l'avrebbe obbligato a parlare, a dir tutto. Oh! ma non ci sarebbe bisogno d'insistere. Era un fatuo quel barone, non avrebbe cercato di meglio che di raccontare. Quando fu in corte, si sentì di nuovo venir meno. Si appoggiò alla muraglia, si coprì gli occhi colle mani, stringendosi fortemente le tempie tra le dita irrigidite. Dio! Dio! Che accadeva? Che stava per succedere? Cercava invano di raccogliere le idee, di concretare un pensiero, una supposizione buona o cattiva. Era un turbinìo, nel cervello, che gli dava la febbre. Adelina. La mia biondina. Null'altro. Adelina. Ma era lei, proprio? Sì, ne aveva riconosciuta la voce. Ed era fuggita. Eppure!... Possibile?... non si era ingannato? Che bestia! Presto fatto a saperlo. Si fregò gli occhi colle dita, lungamente, come per abituarli alla luce del sole. Si ricompose, respirò due o tre volte a pieni polmoni come per immagazzinare della calma insieme coll'aria pura di quella tiepida giornata d'aprile, e sì diresse al piccolo fabbricato della portineria. — Gasparino, — chiamò a bassa voce. Gasparino si fece avanti. — È stata qui mia moglie? 18 — Sissignore; passò senza chiedere nulla, come sempre, ed è ripassata subito. Giacomo non battè palpebra. Se Gasparino gli avesse risposto: — non so, — sarebbe stato peggio. Bisognava dunque saper tutto. Si diresse con passo franco allo studio, ed entrò. La calma era tornata. Sentiva che ne avrebbe abbastanza per ascoltare, qualunque cosa udisse, senza tradirsi. Perchè bisognava udire. Bisognava. Era assolutamente necessario, indispensabile. Saper tutto. E lo saprebbe. — Eccomi a voi, barone, colla viva curiosità di udire l'avventura che à rallegrato il vostro arrivo a Milano. — Se vi dico, non ne vale la pena. — No, scusate. Parliamoci franco. Non mi aspettavo nessuna donna qui. E una donna è venuta. Non so chi fosse e cosa volesse da me. Ma poichè voi sapete chi è, e.... cos'è.... E poichè non siamo più un estraneo l'uno per l'altro.... — Al contrario anzi, — interruppe Dumenville, nel quale si risvegliava il banchiere in cerca di grassi guadagni. — Al contrario, noi stiamo per legare oggi — io spero — una relazione che sarà non solo d'affari ma d'amicizia. — Lo spero io pure. Dovete quindi comprendere come io sia curiosissimo di sapere come mai potesse venire da me una donna.... Poichè evidentemente si tratta di una...? — Lo negherei invano, ormai. Una ragazza che ò conosciuta ieri e che potreste conoscere anche voi, oggi o domani, se lo voleste. — Ah! ah! molto facile, dunque? — Non del tutto facile, ma... Via! una quistione di prezzo, insomma. — Ammettete, caro barone, che l'avventura è interessante e divertente, e che adesso avete l'obbligo di illuminarmi sulla mia sconosciuta visitatrice. Se tornerà saprò come comportarmi senza compromettervi, naturalmente. Giacomo parlava allegro, disinvolto, con un leggiero tono di canzonatura perfino. Poichè si trattava di sapere tutta la verità. Per sapere bisognava essere calmo? Lo era. Bisognava ridere? Avrebbe riso. Bisognava insultare, vilipendere sua moglie? La insulterebbe. Cosa bisognava fare? Uccidere, rubare? Avrebbe ucciso e rubato! Ma bisognava sapere! Il tono franco, allegro, sincero, col quale Giacomo pronunciò le ultime parole, finì di rinfrancare il banchiere. Nella comune risata che aveva seguìto quelle parole, si smarrirono gli ultimi scrupoli di lui. — Sì, sì, disse ridendo Dumenville. — Voi avete ragione. Da oggi siete un uomo prezioso per me; io vi debbo preservare da un possibile pericolo. Chissà, voi, uomo di lavoro e di studio, alieno dai piaceri del mondo, state per cadere, forse, nelle mani di una sirena che viene a cercarvi fin qui, nel vostro santuario.... Io debbo mettervi in guardia... — E gli batteva amichevolmente la mano sul ginocchio. La loro intimità si formava rapidamente così, in grazia della strana avventura. Nè l'uno nè l'altro l'avrebbero previsto, una mezz'ora prima, incontrandosi per la prima volta. — A proposito, e fin che mi ricordo riprese il barone — oggi pranzate con me, non è vero? — Con molto piacere. — Allora, alle sette e mezzo, da Cova? — Senza fallo. — E se volete che adesso parliamo d'affari, che è quanto più preme, vi racconterò la storiella a pranzo — No, vi prego — disse Giacomo mettendogli una mano sulla spalla, confidenzialmente. — Levatemi la curiosità, ve ne prego. — Come volete. Fumate? — Grazie. — E Giacomo prese un grosso Avana da un portasigari di pelle fregiato della corona baronale che Dumenville gli porgeva. — Non so se voi sappiate che io alloggio al «Grand Hôtel des Etrangers» in via Manzoni. Non è la prima volta che scendo a questa locanda. César, il cameriere del primo piano, mi à riconosciuto 19 ieri mattina, entrando nella mia stanza; e credo che ciò abbia facilitata l'avventura: un'avventura che capita, del resto io suppongo, a tutti i forestieri di alto bordo.... Ed ò la fortuna o la disgrazia di essere considerato fra quelli. Dio buono: mi sanno milionario, barone! Ecco la scena semplicissima, che avviene quasi sempre nei grandi alberghi delle grandi città. Il primo cameriere vi entra in camera la mattina con un vassoio ricolmo di sigari finissimi di contrabbando. Perchè di contrabbando, dovrebbero costar meno: invece costano di più; e si capisce. Se all'offerta dei sigari rispondete: — Grazie, non fumo, — oppure — Fumo dei sigari miei, speciali, — César non insiste, s'inchina, e se ne va. Se invece fate degli acquisti e avviate la conversazione — naturalmente una conversazione da gentleman a cameriere — va a finire che César vi offre i suoi servigi.... in tutto quello che può. Io, di solito, mentre termino la mia toilette, parlo volentieri coi domestici d'albergo e... — più volentieri ancora colle femmes de chambre.... quando sono belline. Anzi, vi dirò francamente che, fingendo di sbagliarmi, suono sempre due volte il campanello: perchè il cartellino dice: — «Une fois, pour le garçon — deux fous pour la femme de chambre». — Così mi accadde ieri mattina. César, un furbo, inchinandosi, e già colla mano sulla maniglia della porta, mi disse con un sorrisetto pieno di sottintesi: — E se il signor barone non sapesse oggi come far passare un paio d'ore.... Io, pratico della cosa, capii a volo, e risposi: — Sì: ma purchè si tratti di qualcuna che ne valga la pena. César abbandonò la maniglia, posò di nuovo il vassoio degli sigari, e cavò di tasca il suo portafogli, dicendo: — Naturalmente! Conosco e so distinguere le persone. — Poi soggiunse: — Il signor barone si trattiene molti giorni a Milano? La domanda mi parve indiscreta; e, senza capirne bene il perchè, mi riuscì imbarazzante. — Allora — riprese César, — il signor barone avrà tutto ciò che di meglio la città può offrire. Tracciò lestamente qualche parola su una carta da visita, la mise in una busta che rinchiuse e sulla quale scrisse l'indirizzo. Poi me la porse, su un piccolo vassoio, correttamente, dicendo: — Il signor barone scuserà se le consegno una lettera chiusa. Ma è necessario, acciocchè non abbia a lamentarsi dei miei servigi. — Sta bene. E lo congedai. Di prezzo, naturalmente (questo ve lo dico — aggiunse Dumenville ridendo — caso mai, caro Burton, vi capitasse altrettanto nei vostri viaggi e voleste approfittarne), di prezzo non si parla coi.... Césars; e neppure di mediazione. Così pure vi avverto di questo: rispondete sempre che partite prestissimo, che non vi trattenete più che un giorno o due. Ò capito dopo la ragione della domanda di César: «Il signor barone si trattiene molto a Milano?» e mi trovai contento di aver risposto «due giorni al più». Perchè certe donne che si conoscono: con questo mezzo, non si dànno che ai ricchi forestieri che si trattengono un giorno, o due, non oltre; essi arrivano, César li invia, pagano, e partono il dì appresso. Nessun timore, quindi, di incontrarli poi per la strada; nessun timore che parlino dell'avventura a qualcuno della città e dieno i connotati...: nessun timore insomma di essere compromesse. E si.... conoscono, così, delle donnine le quali ànno un amante che non vorrebbero perdere; delle ragazze credute degne di portare i fiori d'arancio e che aspirano ancora ad uno sposo; e, qualche volta, delle mogli oneste di onesti impiegati le quali concorrono al pareggio del bilancio domestico, con questi.... proventi straordinari, poco o punto compromettenti, e che non impediscono loro di farsi stimare e venerare dal mondo quali mogli fedeli e ottime madri di famiglia. — E voi, — chiese Burton, irrigidito nello sforzo supremo di quella calma forzata, — voi, ieri, avete.... conosciuta la biondina...? — Precisamente. Anzi, possiamo chiamarla appunto la Biondina, tout court, perchè mi fu presentata così, sul ritratto, dalla signora Bianchi; e non me ne à parlato, durante le nostre.... trattative, che chiamandola «la Biondina». Perchè il nome, naturalmente, non si viene a sapere.... Ma non è quello che importa di più! — concluse il barone ridendo. 20 — La signora Bianchi? — chiese Giacomo con un leggiero tremito nella voce, che Dumenville, assorto forse nei ricordi della felice avventura, non rilevò. — La signora Bianchi, via Speronari, n. 53, è la degna signora alla quale vi dirige César. Oh! bisognerebbe aver la penna di Zola per descrivervi quella donna e quell'ambiente. — Non è la parte più interessante del racconto — interruppe Giacomo, cui premeva assicurarsi di ben altro, e presto: perchè sentiva che non avrebbe resistito a lungo. — Vi basti questo particolare, — disse il banchiere: — Essa conserva i ritratti delle sue clienti in tre cartelle. La prima, a un visitatore presentato con una busta chiusa di César, non la mostra nemmeno. Sono le clienti che non ànno nulla da perdere e.... poco da guadagnare. Nella seconda siamo già più in su. Al primo venuto, e specialmente a chi non abbia l'aria di possedere un borsellino discretamente fornito, non l'aprirebbe. Però a un forestiero del genere mio comincia da quella. E vi sfilano dinanzi ritratti d'ogni formato, di fotografi d'ogni paese; e figure di donne abbigliate nelle foggie più bizzarre e.... provocanti. In maggioranza, le maglie, e le grandi scollacciature. È la scena, la mimica sopratutto, che fornisce materia alla cartella n. 2. Ma voi, messo in guardia da César che vi à detto: «avrete tutto ciò che di meglio può offrire la città», voi insistete, promettendo di rovinarvi, e lusingando anche l'amor proprio della degna signora: — No, no, voi dovete avere qualcosa di più prelibato! — Perchè madama rappresenta l'aristocrazia, nel proprio mestiere. Allora, dopo molte raccomandazioni, e premesse, e circonlocuzioni, si presenta, con grande mistero, la cartella n. 3. Là dentro ci sono quelle tali che vogliono far conoscenza soltanto coi forestieri dei grandi hótels, che si trattengono poche ore a Milano. Oh! Dio! —aggiunse con aria scettica di uomo vissuto — non è tutto oro quello che luce: ci sarà dell'inganno, certamente; non tutte le abitatrici della cartella n. 3 saranno roba prelibata. Qualche bella figliuola che pratica alla sera i caffè concerto, forse.... di peggio anche, si sarà introdotta di soppiatto in quell'archivio gelosamente custodito, per acquistar valore, e fornir più guadagno alla signora Bianchi, dandola ad intendere ai lords e ai principi russi che formano la sua clientela, Ma, insomma, anche in questo, come in tutte le cose, e in amore sopratutto, non è da cretini e fa piacere talvolta di lasciarsi mistificare un pochino. Ed è certo, ad ogni modo, che a qualche abitatore della città, se potesse ficcar gli occhi in quella cartella, sarebbero riserbate delle strane sorprese. È così in tutto il mondo: e vi posso accertare, caro Burton — ve lo affermo perchè vedo che i vostri occhi si fanno imbambolati per lo stupore (voi uomo di lavoro non le supponevate possibili queste cose) vi posso accertare che a Parigi, come a Londra, come a Berlino, come a Roma, come a Milano, casi di questo genere non bastano le dita delle mani a contarli. — E voi avete scelto la biondina.... — Sì. Mi à colpito il suo musetto civettuolo. E poi, il ritratto, un ritratto casto, severo, mi ispirava fiducia e.... mi lasciava delle curiosità. Mi dispiace che non foste rivolto, testè, verso la porta, quando è entrata: vedendola, avreste approvata la mia scelta! — Poi, cambiando tono: — Sapete che più ci penso, adesso, sempre più mi pare incomprensibile che la biondina, sia entrata qui poc'anzi? Sono persino tentato di credere che, vistomi in istrada, mi abbia seguito fin qui, credendo di trovarmi solo. Perchè dovete sapere che, entusiasmato di lei, jeri (vi confesso che mi à entusiasmato), le avevo proposto un viaggetto e fatte mille promesse lusinghiere. Rifiutò assolutamente, allegando dei vincoli che à qui.... Infatti la Bianchi mi aveva assicurato che è maritata.... Ma chissà? la biondina, Niniche (mi à detto che si chiama Niniche, ma deve essere il suo nome di guerra), potrebbe averci ripensato stanotte, ed essere venuta a più pratico consiglio. Giacomo fece un ultimo sforzo, sovrumano, per resistere. Voleva sapere dell'altro. E chiese: — Ma la Bianchi non ne conosce il nome? — Mi à giurato che no. Quando deve avvertirla che.... c'è un cliente, scrive a un indirizzo convenuto. Mi à detto così. Non mi interessava poi di indagare di più. Cioè: non mi interessava jeri; oggi, ve lo confesso; pagherei qualcosa per ritrovarla. Pagherei per lo meno quanto ò pagato... jeri. — Molto? — susurrò Giacomo con un fil di voce che rimase strozzata in gola; e alla domanda fece seguire un colpo di tosse come per giustificare la tremula remissione della voce. 21 — Cinquecento lire, — rispose Dumenville, — anticipate, naturalmente, nelle mani della Bianchi. — E il convegno avvenne in casa della stessa Bianchi? — chiese ancora James Burton alzandosi da sedere e appoggiandosi, per reggersi in piedi, alla tavola da disegno. — No. In una casetta, in una via giù di mano, dove mi sono recato in carrozza, all'indirizzo datomi da lei e che ò passato al fiaccherajo.... Ci arrivai dopo un lungo tragitto, dopo una sequela di giravolte in viuzze strette e semioscure.... non ne ricordo più nulla.... Il banchiere si alzò, e trasse l'orologio di tasca. — Perbacco! le quattro. Abbiamo fatto tardi e.... senza concludere nulla. Voi mi obbligherete — aggiunse ridendo — a trattenermi un giorno di più a Milano. E si volse per raccogliere il cappello che aveva posato sul divano. Nel curvarsi, egli intravvide il ritratto di Adelina mezzo nascosto tra le pieghe del drappeggio. Si avvicinò ad osservarlo, e si volse di scatto verso Giacomo. — Lei! — E dopo un momento di esitazione, con imbarazzo: — Signor Burton.... la conoscete.... forse è qualcuna che vi appartiene.... e mi avete fatto parlare.... Non so come qualificare.... James lo interruppe: — Sì, la conosco. La biondina è mia moglie! Ma la tensione dei nervi e dello spirito era stata troppo lunga. E cadde a terra, svenuto. Il giorno appresso scendeva dall'omnibus della stazione al «Grand Hôtel des Etrangers», in via Manzoni, un giovanotto alto, biondo, arrivato col treno del Gottardo. Sul registro dai forestieri scrisse il suo nome: Marchese C. A. di Morecambe, Inghilterra. Chiese una camera e un salotto. Gli furono assegnati i n. 17 e 18 al primo piano. Così, James Burton iniziava la sua inchiesta e preparava la sua vendetta. 22 II. Lo svenimento era durato a lungo. Dumenville non aveva osato chiamare al soccorso per timore che James, colle prime parole ritornando in sè, o in una crisi che gli fosse sopravvenuta, rivelasse a qualcun altro, delirando, il terribile segreto che si erano reciprocamente svelato senza volerlo. Lo stupore, doloroso stupore, era stato grande anche pel barone; e, colpito dalla feroce rivelazione, aveva appena avuto il tempo, mentre Giacomo cadeva, di impedire che la sua testa battesse sul nudo terreno. Lo aveva raccolto da terra e adagiato sul divano. Su una tavola, lì presso, aveva scorta una bottiglia d'acqua e glie ne aveva spruzzata qualche goccia sulla faccia. Poi, gli aveva messa sotto le narici una boccettina di sali che egli teneva appesa insieme con una miriade di ninnoli ad una catena d'argento che lo circondava alla vita, sotto il panciotto, e della quale i due capi andavano a cadere nelle tasche dei pantaloni. Tutto ciò aveva fatto senza affrettarsi troppo. Il prolungarsi dello svenimento non poteva avere nessuna conseguenza grave, e serviva, invece, a lui, per rimettersi, per ripensare a quanto era avvenuto di terribile e di strano, per considerare la propria bizzarra situazione in quel momento, e per decidere come avrebbe dovuto comportarsi e cavarsi d'impaccio. Che gli avrebbe detto? Che avrebbe potuto dirgli? Ritirare le proprie parole o elevare un dubbio sulla identità della biondina, capì bene che era impossibile ormai. Pensò un momento se non fosse il caso, perfino, di umiliarsi sino ad affermare recisamente che quanto aveva raccontato era un ammasso di frottole, tutta una farsa inventata da un chiacchierone senza spirito. Ma previde che Burton non avrebbe creduto.... E, francamente, la cosa gli ripugnava troppo.... D'altronde, non era stata, forse, una fortuna, quanto era avvenuto? Non si risolveva alla fin fine in un bene per Burton? Egli era stato sino allora la vittima incosciente di un obbrobrio ignominioso: e il caso gli aveva aperti gli occhi. Provvedesse dunque al proprio onore.... Sì, era un bene, certamente. Ma Dumenville avrebbe voluto che altri, tuttavia, si trovasse al suo posto; che ad altri fosse capitata questa disgrazia o questa fortuna di essere attore nel dramma coniugale di Giacomo Burton. Oh! non avesse accettato i servigi di César! Non avesse conosciuta la biondina! Non avesse.... (risaliva alle causa prime: avrebbe rinunciato anche ad un lucroso affare, lui, il cacciatore di denari!), non avesse mai intrapreso quel viaggio in Italia, nè pensato mai a far la conoscenza di Burton!... Ci fu un momento, persino, nel quale egli pensò se non sarebbe meglio fuggirsene, piantando là lo svenuto: correre all'Hôtel, rifar le valigie e prendere il primo treno di Francia. Perchè in più bizzarra e fastidiosa situazione non si era forse mai trovato un uomo. Egli si vedeva dinanzi un marito, del quale aveva posseduta la moglie senza averla sedotta, senza sapere che fosse la moglie di costui; un marito che, in fin dei conti, non aveva diritto di chiedergli soddisfazioni o riparazioni, o che, molto probabilmente, non glie ne avrebbe chieste. Un uomo poi — d'altra parte — pel quale nutriva della stima, che meritava tutta la sua considerazione e tutta la compassione degli onesti; pel quale sentiva quasi nascere in sè un affetto nuovo e sincero. Un uomo al quale avrebbe, voluto rivolgere parole di conforto e offrire ajuto e consiglio. E se invece Burton, ritornando in sè, non avesse visto in lui dimenticando per un istante e nella semi-irresponsabilità di quel momento fisiologico le circostanze che avevano provocato e accompagnato il fatto — non avesse visto in lui che il rivale, l'uomo che aveva posseduta sua moglie, che aveva contaminato il suo talamo nuziale?... Uno dei tanti, è vero!... Ma se, sitibondo di vendetta, si fosse slanciato sopra di lui, e....? E avrebbe dovuto difendersi?... Dumenville non sapeva bene, esattamente, quanti milioni possedesse, ma ne avrebbe immolato uno, certamente, per trovarsi a mille miglia lontano. Giacomo aveva ripreso i sensi, finalmente. C'era stata una pausa angosciosa; alcuni minuti di doloroso silenzio. Burton rigirava gli occhi attorno, raccapezzando le idee. In fine Dumenville, comprendendo che toccava a lui di parlare, e senza saper bene che avrebbe detto, aveva cominciato: — Signor Burton.... 23 James s'era alzato di scatto, e l'aveva interrotto, porgendogli la mano e dicendogli con voce ferma: — Grazie!... Non ne avete nessun merito, ma vi debbo la mia rigenerazione morale. E mentre Dumenville, stupito, imbarazzato più che mai, stringeva la mano che gli vaniva tesa da Burton, questi, con un riso amaro che agghiacciò il sangue nelle vene al barone, aveva aggiunto: — Vedete i bizzarri casi della vita! Io stringo la mano ad un uomo che à posseduta mia moglie! Poi, abbassando la testa e tenendo gli occhi fissi al pavimento, sempre colla sua mano nella mano di Dumenville, aveva continuato, a voce bassa: — Mia moglie.... una cortigiana!... E, dopo una piccola pausa, amaramente, mentre una lagrima gli spuntava sulle ciglia, e sapendo di pronunciare delle parole superflue, ma come uno sfogo: — Vi prego di credere che non lo sapevo, e che non ne approfittavo. Il banchiere aveva stretta fortemente la mano di lui e susurrato un monosillabo di protesta. Allora Giacomo aveva risollevata la testa, fieramente, come per togliersi a delle meditazioni troppo angosciose, quasi impaziente di effettuare il disegno, di mettere in attuazione il programma, che già — in un attimo — si era prefisso. Ma bisognava togliere di mezzo il barone. E, fissandolo in volto, avea ripreso a dire: — Voi vorrete sapere certamente che farò, e, lo immagino, mi offrite il vostro ajuto e la vostra assistenza. Vi ringrazio; ma non ò bisogno di voi. Quello che farò è semplicissimo. Niente scandali, e niente vendette violente. Capirete bene che si può uccidere la moglie quando si scopre che vi à tradito per un amante. Ma una moglie che si dà per denaro e.... in quei modi, non val manco la pena d'ammazzarla. Anzi, appunto per evitare il pericolo di lasciarmi trasportare dall'ira, non la rivedrò neppure. Ò un amico buono e fidato, qui, certo Galli, un vecchio, al quale mi potrò confidare. È consigliere d'amministrazione della nostra società. Ora andrò da lui. Egli avvertirà la zia di mia moglie, perchè se la prenda in casa. Poi verrà avviato il regolare procedimento per il divorzio. È questa una grande liberazione, il divorzio, che mi è resa possibile dalle leggi del mio paese. E, nel frattempo, mi recherò in Inghilterra per rivedere la mia famiglia che non vedo da quattro anni. Voi partite stasera per Roma? domattina? Sta bene. Vi chiedo soltanto che mi diate la vostra parola d'onore di partire come era nei vostri disegni, e di dimenticare per un paio di giorni tutto quanto è accaduto, di non parlare a nessuno di tutto ciò.... Sì, lo so, è un giuramento inutile che chiedo a un gentiluomo come voi. Ma perdonatemi.... e non offendetevene. Ne ò bisogno. Quand'è che sarete di ritorno? — Credo fra tre giorni: ma non contavo fermarmi di nuovo qui. Però, se vi occorre.... — Ve lo chiedevo perchè potrebbe accadere che viaggiassimo insieme alla volta di Parigi e Londra. Giacomo diceva un ammasso di bugìe, e con la maggior calma apparente: ben diverse erano le sue intenzioni, ben altro il disegno che aveva formato nella sua mente; ma gli premeva di levarsi d'attorno il barone per un paio di giorni, quanti gli basterebbero a compiere l'affare. — Ò la carrozza fuori; se vi può servire.... — aveva detto Dumenville, stupito di quella calma e di quella freddezza, ma lieto, insieme, malgrado tutto, di cavarsi d'impaccio a così buon mercato, e desideroso di togliersi da quel luogo nel quale gli era capitata la più strana avventura della sua vita. — Grazie. Voi certamente andate all'Hôtel. Io mi reco a Porta Magenta, cioè da tutt'altra parte della città. Così s'erano lasciati, dandosi un vago appuntamento per attraversare insieme le Alpi. Dumenville aveva avuto cura di indicargli il suo indirizzo a Roma, per ogni evenienza: Hôtel Bristol. Giacomo, rimasto solo, aspettò che la carrozza del banchiere fosse lontana, poi prese il cappello e il soprabito, ed uscì. A Gasparino, che lo salutava alla porta, disse: 24 — Badate che per tre giorni non verrò in officina: debbo recarmi fuori di Milano. Avvertitene il capofabbrica: di me credo non ci sarà bisogno: ad ogni modo, per qualunque occorrenza, rivolgersi al signor Galli. Percorse a grandi passi l'ampia via suburbana che conduce al dazio, e quivi salì in una vettura dando l'indirizzo di casa sua. Il suo piano era fatto e stabilito, senza incertezze, e lo avrebbe compiuto senza titubanze. Fingere di partire, partire anzi, ma ritornare la mattina dopo: scendere al «Grand Hôtel des Etrangers», sotto un nome inventato, dandosi delle arie da gran signore. Conoscere César, la Bianchi; comperare sua moglie, coglierla in flagrante con.... sè medesiano — bizzarro adulterio! — e poi.... e poi.... Qui il suo piano si arrestava. Si arrestava alla curiosità di udire le giustificazioni, le scuse di lei. Ma le giustificazioni e le scuse che avrebbe trovate là, in quel momento, senza la possibilità di negare. Se arrivato a casa, adesso, avesse affrontata Adelina, e le avesse detto: — So tutto.... — Ah! ah! lei! sarebbe stata capace di rispondergli: — Tutto che cosa? — Perdio! era capace di ben altro, sua moglie! Quei quattro anni trascorsi: che poema di finzioni! Come si era comportata bene ai suoi occhi, come lo aveva ingannato, lui, che non era uno scemo! Sino a jeri, avrebbe dubitato di sè stesso, non di lei. Era dunque maestra nell'arte di dissimulare! Ma perdio! ma perdio! Il modello delle mogli era la cliente di una mezzana! E se egli avesse invocata la testimonianza di Dumenville: ebbene: Adelina sarebbe capace di affrontare il barone e di dirgli, a fronte alta, senza arrossire: «Voi mentite, o v'ingannate». Certamente, sarebbe capace anche di questo. Ah! no: bisognava pigliarla in trappola, la sfrontata! E la Bianchi? La Bianchi avrebbe taciuto, dato anche che avesse saputo qualcosa e avesse potuto parlare. Ma era possibilissimo che ogni cosa fosse combinata e preparata così bene che neppure la Bianchi sapesse chi era la sua cliente. Si dànno queste cose, a Parigi, a Londra, a Milano. Lo aveva detto Dumenville, e se ne intendeva, lui! Ma era fuggita, precipitosamente fuggita, vedendo Dumenville: ecco una prova!... Una prova? No! Adelina faceva una delle solite visitine a suo marito. Entrata nello studio, vi aveva scorto un forestiero, uno sconosciuto.... Avrebbe disturbato.... Pardon! Ed era scappata via. Non era fuggita; era scappata via. No, no, non così. Bisognava farla venir là, in quella casetta, nella viuzza giù di mano chiamata, noleggiata da un marchese britannico che avesse pagato profumatamente l'avventura. Là, là!... Ah! ah! la gioia, la gioia feroce di quell'incontro! Per Iddio! Ora, raggomitolato nell'angolo della carrozza, Giacomo, ripensandoci, ci trovava persino delle attrattive, lo affrettava col desiderio quell'incontro con sua moglie!... Che avrebbe detto, che avrebbe fatto, lei? Come avrebbe giustificato, non il tradimento, ma la degradazione sua? Come, perchè, per quali circostanze era precipitata così, sino a diventare una di quelle che si pagano? Perchè la era diventata: aveva sposato una vergine, lui. Il cavalluccio sfiancato della vettura da piazza trotterellava adagino. E il tragitto era lungo. Ad un tratto, un dubbio doloroso assalse Giacomo: che la vendetta così dolcemente feroce che meditava potesse sfuggirgli di mano. Infatti: Adelina entrata in istudio, e scorto il banchiere, poteva aver supposto e temuto che il banchiere a sua volta avesse riconosciuta lei. Poi, c'era il suo ritratto in istudio che Dumenville avrebbe potuto osservare.... Insomma, Adelina poteva supporre che fosse avvenuto quello che era realmente avvenuto. E allora? Si credeva scoperta? Aveva avuta la convinzione o la paura che tutto l'edificio delle sue menzogne fosse già crollato, che la verità fosse già conosciuta da suo marito? Si era già messa in salvo? O aveva, almeno, preparata la sua difesa? La troverebbe a casa? E in che condizioni la troverebbe?... E dato che ve la trovasse, e che tradisse, fosse pure al primo incontro con lui, la preoccupazione e la paura, saprebbe dominarsi, lui, Giacomo, e rassicurarla col suo contegno, e comportarsi così bene, così naturalmente, con tanta calma, da toglierle ogni dubbio, ogni sospetto, in modo che avesse a cadere poi nella trappola che le avrebbe tesa? Avrebbe dovuto, forse, lottare non solo coll'agitazione, coll'orgasmo proprî, ma anche colla preoccupazione, coll'orgasmo di lei.... Un'altra difficile prova stava dunque per subire, più difficile di quanto non avesse pensato a tutta prima, quando gli era balenato alla mente il suo terribile disegno. 25 Ebbene, sì, l'avrebbe questa calma. Oh! pur di assaporare quell'istante di gioia feroce dell'incontro con sua moglie, laggiù alla palazzina, saprebbe dissimulare, adesso, e fingere così bene, e mostrarsi così allegro, così affettuoso anche, da dissiparle e distruggere i dubbi e le paure di lei. Con le sue stesse armi la combatterebbe! Oh! quell'incontro, laggiù! Oh! la gioia di una vendetta spietata, feroce, prepotente! Poter sputare in faccia, finalmente, a colui che ci à offeso tante volte, impunito; potere, per improvviso mutamento di forze, ribellarsi a chi ci à martoriato e torturato a lungo senza possibilità di rivolta; poter conficcare un pugnale nel petto a chi vi à tenuto per tanto tempo un piede sul collo. Dio, che gioia! Oh! se la troverebbe la calma! E poi, non sarebbe che lo sforzo di un'ora. Avrebbe annunziata a sua moglie una improvvisa e forzata partenza, la sera stessa, con Dumenville, per affari, pei loro affari. La difficoltà era soltanto nel trovar modo di darlo bene quell'annuncio: con naturalezza, con affettuosità.... Allora, a un tratto, ricordò quel che aveva pensano il mattino. Sporse la testa della portiera e chiamò il cocchiere: — Di'! Vai sul Corso, e fermati alla bottega del Ventura; sai, quella gran bottega nuova, prima di arrivare a San Pietro all'Orto. Ah! ah! che idea! E nella soddisfazione di vedersi così calmo, così presente a sè stesso, così previdente; nella gioia furibonda colla quale pregustava la sua vendetta, e la apparecchiava così bene, curando tutti i particolari perchè non potesse sfuggirgli, Giacomo dimenticava, quasi, la propria sventura. Aveva più che trecento lire in tasca, una mesata di stipendio incassata al mattino, e che avrebbe dovuto dare a sua moglie la sera stessa; lui, poveretto, non si teneva un centesimo, non aveva mai bisogno di nulla. Scese da Ventura. Comperò una bizzarra toilette di primavera a vivaci colori, in una foggia nuova tanto elegante. Nello sceglierla, egli non si era preoccupato della qualità della stoffa, o della bontà della fattura. Una ragazza, alta, bruna, dagli occhi furbi, gli aveva fatte sfilare dinanzi agli occhi una diecina di vesti d'ogni colore e d'ogni foggia. Egli domandava il prezzo, soltanto, affrettato. E la ragazza vantava i meriti dell'una e dell'altra, e tentava fargli acquistare quella di prezzo maggiore. No, no. Aveva trecento lire da spendere — pensava Burton — quando sentisse pronunciare questa cifra, comprerebbe, e porterebbe via. E la ragazza alta, bruna, dagli occhi furbi, aveva finito per sorridere in cuor suo, pensando di trovarsi dinanzi a un innamorato che faceva, un sagrificio, il più gran sagrificio che poteva permettersi per un regalo alla sua bella: e chiedeva il prezzo minimo, addirittura, senza tentar di imbrogliarlo, quell'uomo rozzo che comperava ad occhi chiusi. — Il signore vuol darmi l'indirizzo? — No. Porto io stesso. Mettete in una scatola. Ò la carrozza. E via, colla gran scátola di cartone a cassetta. Ma se non la trovasse, l'Adelina, in casa? Se, paurosa che Giacomo sapesse già tutto, fosse fuggita? Ebbene, manderebbe Carolina, la fantesca, a chiamarla, o ne anderebbe in cerca lui stesso. Saprebbe dove trovarla: dalla zia, o dalla Bianca Caradelli. E si mostrerebbe stupito di non averla trovata in casa, così tardi, alle sei, all'ora del pranzo. Giacomo prevedeva tutto, e provvederebbe a tutto. Ma che il suo disegno si effettuasse! Il cavalluccio sfiancato trotterellava verso via Principe Umberto. Adelina aspettava, in casa, più morta che viva. Erano passate due ore terribili per lei. Il.... forastiero di ieri, là nello studio di suo marito! Perchè? Che era dunque accaduto? Era là perchè aveva saputo chi fosse Niniche? No, certamente. Infamia così bassa in un uomo le pareva impossibile. Una combinazione, dunque? Forse era un azionista dalla Società dei Tramway? No. Sapeva che gli azionisti erano tutti o inglesi o italiani. Chi dunque?... 26 Cercava, adesso, di ricordare tutti i piccoli particolari del suo ultimo convegno, tutte le parole scambiate coll'ultimo suo cliente. Jeri, nelle due ore passate laggiù alla palazzina, s'era parlato molto di lei.... Cioè, il forastiero aveva tentato di parlare di lei, di strapparle delle confidenze, e di indurla a partire per un viaggetto di piacere: ma aveva parlato pochissimo di sè stesso: quel tanto che gli era sembrato utile a ispirare fiducia; e le aveva, sopratutto, parlato delle sue ricchezze e della sua generosità colle donne: perchè supponeva, ed era giusto supponesse, che queste due qualità soltanto la dovessero interessare, e potessero convincerla e sedurla. Aveva detto d'essere francese, nobile, banchiere.... e null'altro? Null'altro? Ah! sì: le aveva rivelato il suo nome di battesimo: Oscar. Glie lo aveva rivelato, senza ch'ella lo chiedesse, nell'entusiasmo che il suo corpo gli aveva ispirato, e l'aveva pregata di chiamarlo per nome: «Oscar, Oscar, chiamami Oscar». Questo lo eccitava, quel fatuo. Le era rimasto ben fisso nella mente quel nome, e se lo sentiva ripetere adesso, come una stilettata, nelle orecchie. Rannicchiata nel vano della finestra, mentre le gambe le tremavano, e i polsi le battevano, spiava dietro le cortine l'arrivo di suo marito. Da due ore aspettava così. Ogni tanto si recava dinanzi allo specchio. Che faccia aveva? Stravolta? No.. Ma l'agitazione era dentro, terribile, e più terribile ancora l'incertezza. Il suo partito era preso. Negare. Negare tutto, accanitamente, insistentemente, in faccia a Giacomo, in faccia al francese. Negare i fatti, le circostanze. Negare persino, se occorreva, d'essere venuta, alla fabbrica, oggi. Prove ne avevano? No, certamente. Avrebbero potuto procurarsene? No. Negare dunque. Ma negare bene, con calma o con indignazione, secondo avrebbe giudicato miglior partito, pigliandola in ridere o minacciando un processo di diffamazione. Negare, negare! Ma che la faccia non rivelasse la preoccupazione e la paura, nel primo incontro con Giacomo. Era quello il momento scabroso da superare. Poi, poi, udita la denunzia, allora non avrebbe più paura. Era sicurissima di sè, delle sue forze. Soltanto il primo incontro la spaventava. Capiva che quello era l'istante terribile: l'istante di silenzio da parte sua, mentre parlerebbe lui. Dal momento che aprisse bocca, lei, per rispondere, non temerebbe più. Allora sarebbe naturale l'arrossirle del volto, e il tremito nella voce, e il sussultare di tutta la persona. Ma chi era, chi era, costui? Perchè si trovava presso suo marito? Per combinazione? Un convegno d'affari? Sì, era possibile. Queste combinazioni si danno nella vita. Ebbene: l'aveva riconosciuta? Forse no. Anzi.... no, certamente. Aveva messa la testa, appena, dentro la porta, un attimo, ed era fuggita. Ed era fuggita così lesta scantonando subito, nascondendosi poi dentro l'ándito della casa vicina. Ma no, era impossibile che l'avesse riconosciuta, Che sciocca! che sciocca! Perchè si martoriava, adesso?... Però, però.... forse era stato un errore di fuggire così. Era stata una confessione, quella fuga. Non sarebbe stato prudente, tra i due pericoli, scegliere il minore? Dominar la sorpresa, entrare? Darsi nelle mani del francese, sì, rivelarsi a lui, Niniche, la moglie di Burton. Ma non sarebbe meglio, adesso, essere in balìa del francese che non di suo marito? La verità saputa dal biondo d'ieri.... ebbene? Una disgrazia, sì, ma non una disgrazia senza rimedio, come sarebbe se la verità fosse nota a Giacomo. Dio! l'incertezza, che tormento! Fosse sicura che Giacomo sapeva: l'avesse questa terribile certezza; ebbene, saprebbe come attenderlo, come affrontarlo, come accogliere le sue prime parole, e preparerebbe la risposta, una buona, una franca, una convincente risposta. Se la studierebbe, adesso, se la imparerebbe a memoria.... Ma no, invece, non poteva neppur prepararsi: non sapeva, non poteva immaginare che fosse veramente avvenuto. L'aveva riconosciuta il francese? E dato che l'avesse riconosciuta, era possibile che avesse rivelata l'avventura del dì innanzi?... Come, perchè, l'avrebbe rivelata? La Bianchi non gli aveva detto, non glie l'aveva confermato lei stessa, che Niniche non era una donna qualunque? Che il mistero di cui il convegno veniva circondato non era una frottola, non era una lustra per strappar più quattrini al cliente, bensì una vera e sacrosanta necessità?... Sì; ma l'aveva creduto?... Era un uomo 27 vissuto, quel francese, era un parigino!... Non aveva buttato ogni cosa in burletta, quel blagueur, quel fatuo, quello scettico conquistatore di donne a suon di marenghi? Ebbene, sia pure: ma vedendola entrare là dentro, non gli era passato per la testa che Niniche fosse.... conosciuta, almeno, dall'uomo col quale si trovava in quel momento? Non aveva capito il suo dovere di tacere, non aveva sentito un naturale bisogno di riserbo e di delicatezza verso una donna? I francesi sono gentiluomini.... Sono, della donna, la gente più rispettosa.... No, no, non aveva parlato, certo, anche se l'aveva riconosciuta. Che sciocca, che sciocca, perchè si martoriava, adesso? Tuttavia, l'avventura aveva dovuto sembrare stranamente bizzarra a quell'uomo. Di passaggio a Milano, per due giorni (n'era ben certa, la Bianchi non l'aveva ingannata mai!), s'era incontrato due volte nella stessa donna e in condizioni così diverse. La sua sorpresa doveva essere stata enorme. Era riuscito a dominarla? Aveva resistito alla tentazione di soddisfare la propria curiosità, fosse pure il più corretto dei gentiluomini? Non aveva sperato che questo nuovo incontro gli fornirebbe il mezzo di sapere chi fosse veramente Niniche? Vi aveva rinunziato? Ben lungi, certamente, dal supporre la verità, dall'immaginare chi era l'uomo col quale parlava, non si era lasciato trascinare a delle confidenze per averne altre in cambio, d'interessanti?... Oh! come ricordava, adesso, l'insistenza colla quale le faceva delle domande sull'essere suo, ieri, e tentava di sapere quali fossero i vincoli che le impedivano di accettare le sue offerte, di seguirlo nel suo viaggio in Italia, e poi forse a Parigi, dove le aveva lasciato intravvedere una vita color di rosa! Perchè Niniche poteva vantarsi di essere piaciuta, ieri, al francese, di averlo entusiasmato. Oh! come ricordava le sue parole: «Non vuoi? non vuoi proprio? non vuoi proprio? non vuoi neppure che ti riveda domani, prima che io parta? assolutamente? a qualunque.... prezzo?... Ebbene, bada: se per fortunata combinazione t'incontrassi per via, sta in guardia, ti rapirò» aveva concluso, ridendo. Ed essa aveva dovuto pregare, chiedere la parola d'onore che, uscito, se ne andrebbe nella sua carrozza; e non starebbe ad attenderla giù, non la spierebbe e non la seguirebbe.... Non aveva mai avuto un adoratore più entusiasta di.... Oscar! E oggi, oggi, gli era capitata ancora dinanzi, la sua Niniche. Che aveva fatto, che aveva detto, vedendola?... Non si era precipitato fuori, non le era corso appresso.... Ah! che sollievo! questo, questo era l'indizio più rassicurante: non le era corso appresso.... Era la prova evidente che non l'aveva riconosciuta! Dio fosse ringraziato! Era salva!... Alle sei, il suono del campanello elettrico le diede un sussulto. Non poteva essere che Giacomo. Chi verrebbe a quell'ora, fuorchè lui? Però, di solito, non giungeva che alla sette. Perchè anticipava, oggi? Aveva udita una carrozza fermarsi, abbasso. Suo marito non arrivava mai in carrozza. Il francese, forse?... Liberatosi da Giacomo, saputo da lui chi era la bionda visitatrice di poc'anzi, veniva di nascosto, di sfuggita, per rivederla, per tornare all'assalto con un'arma in mano, adesso, terribile?... Eppure, fosse lui! Sì, fosse lui; saprebbe che era avvenuto, se aveva rivelato.... E purchè Giacomo non lo seguisse subito, il francese le direbbe che era successo.... e lei prometterebbe tutto, salvo a non mantener nulla.... E quando giungesse suo marito saprebbe come comportarsi.... Potrebbe forse mettersi d'accordo con Oscar, invocare una smentita da lui, se per caso avesse parlato, implorare e ottenere che disdicesse quanto aveva raccontato, affermando uno sbaglio, una somiglianza curiosa e ingannatrice.... Oh! fosse lui! Ma non osava togliersi dalla finestra: vi pareva inchiodata. La porta si aprì, e comparve Carolina, la fantesca, colla gran scatola di cartone tra le braccia. — Chi è? — susurrò Adelina senza muoversi. — Il signore. À mandato su il portinaio con questa scatola per lei. Passava il padrone di casa e si è fermato a discorrere in portineria. Adesso viene. Adelina fece due passi innanzi e toccò la scatola, colla mano, macchinalmente. — Per me? — Sissignora. Così à detto il portinaio. — Che contiene? 28 — Non so. Apriamola e vedremo. Adelina interrogava così la fantesca, senza saperne il perchè. Non capiva. Le pareva che Carolina potesse, dovesse illuminarla. Carolina posò la scatola sul letto, sollevò il coperchio, e disse, con un po' di sorpresa: — Un abito, signora! — Un abito? Allora Adelina si avvicinò ancor più e guardò nella scatola. Un cartoncino bianco era posato sulla veste. Lo prese, febbrilmente, e lo lesse. Era una carta da visita di suo marito, e v'era scritto a lapis: «Alla mia cara Adelina, per annunciarle la nostra fortuna». Adelina spalancò gli occhi, in faccia alla serva, interrogando. — È un regalo che le fa il signore. Sì, era un regalo. Dunque? dunque non era accaduto, nulla? non aveva saputo nulla? La sua mente non riusciva ancora a concretare nettamente un pensiero: era ancora, nella sua testa, un turbinio di idee confuse. Un regalo? Perchè? Era la sua festa, oggi? Un anniversario? No. Perchè un regalo? Ah! «La nostra fortuna». Che fortuna? Tolse la veste dalla scatola, la svolse. E, mentre cogli occhi ancora imbambolati cominciava ad osservarla, la porta si schiuse, e Giacomo si affacciò, rimanendo immobile sulla soglia. — Che vuol dire? — chiesa Adelina, sforzandosi di sorridere. — Il bigliettino l'ài visto? — Sì. — E dunque? — E fece due passi innanzi, porgendole le mani. Adelina, senza muoversi, appoggiata al letto, sollevò le braccia e mise le sue mani in quelle di lui. — Ringraziami dunque. — Sì.... ma non capisco. — Ora ti dirò tutto. Poi volgendosi a Carolina, — Bisogna togliere subito dal solaio il baule e preparar tutto per la mia partenza. — Parti? — chiese Adelina, stupita. — Sì, per otto o dieci giorni.... Ora ti racconterò. Ma ò una gran premura. Parto alle 7.55, pel Gottardo. E a Carolina, ancora: — Presto, presto. Preparate il baule; poi verrò io. — E non pranzi, prima? — No, pranzo al buffet della stazione, con un amico. Carolina uscì. — Dunque, prima di tutto, — chiese Giacomo, — ò scelto bene? — Sì.... tanto carina. Giacomo lasciò le mani di lei, e sollevò per un lembo la veste posata sul letto: — Nevvero? — Ma dunque? — chiese Adelina che cominciava a rassicurarsi e che la curiosità rendeva persino imprudente. — Dunque? — che è successo? Giacomo si tolse la giacca, il panciotto, rimboccò le maniche della camicia, e cominciò a lavarsi. Da quando era uscito dalla sua fabbrica, con passo franco, calmo, deciso, non aveva più avuto un momento di titubanza, nè di paura: nessun batticuore, nessun timore di tradirsi. Agirebbe sicuro, via, diritto sulla strada ormai tracciata, verso il punto prefisso. Se avesse incontrata Adelina súbito dopo il racconto di Dumenville, l'avrebbe strozzata, forse. Ma superato il primo momento d'ira e di dolore, si sentiva adesso corazzato contro emozioni anche più forti. Aveva temuto soltanto l'emozione di lei. E aveva voluto evitarla, rassicurandola prima di vederla. 29 Contava di riuscirvi con quel dono e con quel biglietto. Trovandola calma, sicura di sè, si vedrebbe facilitato il cómpito proprio. La sfrontata finzione di lei, derivante da quella sicurezza, avrebbe resa più facile, più completa la propria finzione; come un riflesso; come un incitamento alla lotta colle stesse armi, ma sorretto, lui, dalla certezza che nella lotta egli avrebbe la vittoria finale, completa, terribile. Ora, superato il primo incontro, doveva parlare, raccontare. Avrebbe cercato di rimanere il meno possibile dinanzi a sua moglie, per non esigere troppo dalle proprie forze. E cominciò la sua toletta: era del tempo guadagnato, e ciò gli permetteva di parlare a sbalzi, senza guardare Adelina. Così, mentre s'insaponava le mani, cominciò: — Sei venuta alla fabbrica, tu, oggi. — E, senza lasciarle il tempo di rispondere — Debbo sgridarti di non essere entrata. Sei una bambina, sempre. Ài vista una persona che non conoscevi, e via, come fosse il diavolo. Se tu fossi entrata, ti avrei presentata: a quel signore, il barone Oscar Dumenville, una carissima persona, della quale aspettavo la visita oggi, una visita da cui dipendeva la tua, la nostra fortuna. Perchè sono vari giorni che avrei potuto darti una bella notizia: ma ò voluto farti un'improvvisata. Ò voluto aspettare che la cosa fosse sicura, e conclusa. Sappila adesso, dunque. — E s'interruppe. Si asciugava la faccia, e la salvietta gli impediva di parlare. — Dio santo, mi tieni sulle spine, — disse Adelina, ritta, cogli occhi che seguivano attenti ogni movimento di lui. E Giacomo, calmo, riprese: — La mia scoperta è fatta: il mio sistema provato stamane: tutto va a perfezione. Adelina tacque. Non era quella che le premeva di più, la scoperta scientifica di suo marito: ma un'altra, e ben più importante scoperta. Tutto quanto aveva udito sin qui avrebbe dovuto rassicurarla. Eppure si sentiva ancora come una pietra sul petto. Aveva bisogno di altre parole, di altre assicurazioni. Quali? Non sapeva. Ma altre parole voleva udire dalla bocca di Giacomo. — Non dici niente? — chiese lui. Adelina si fece forza, e susurrò: — Puoi immaginare!... non trovo le parole.... — E Dumenville che è il capo della casa nella quale è impiegato mio fratello John.... — Ah! — fece Adelina. — Te ne eri dimenticata.... — Sì, è vero, ò udito questo nome, varie volte, pronunciato da te.... — E l'avrai visto sulle buste delle lettere che ricevo da Londra. — Ebbene? — Ebbene, Dumenville si fa iniziatore della società che compererà il mio brevetto.... Mezzo milione, almeno; ed io il direttore generale.... — Mezzo milione?! — chiese Adelina. Lo stupore era troppo forte. Le faceva dimenticare per un momento le sue preoccupazioni. — Tu avrai mezzo milione? — Metà in denaro e metà in azioni della nuova società. — E parti? Stasera? — Naturalmente. Non c'è tempo da perdere. Bisogna procurarsi la privativa in tutti i paesi del mondo. Poi, Dumenville è assolutamente obbligato a partire stasera per Ginevra. Approfitto della circostanza, e parto con lui. Adesso Giacomo toglieva una camicia dal cassettone, e introduceva negli occhielli i bottoni d'oro. Un dono di sua moglie, quei bottoni! Adelina non si scuoteva, ancora. Forse Giacomo capì il pensiero di lei. — Ti ò detto: se tu fossi entrata, ti avrai presentata al barone. Una simpaticissima persona. Egli era intento a parlare quando tu sei venuta. Udì, come me, il tuo piccolo grido di sorpresa; alzò, gli occhi; ma tu eri già sparita. Senza averti veduta, capì che una donna si era affacciata alla porta.... Allora dovetti spiegargli che io ò una moglie che è la timidezza personificata.... E ò dovuto esprimergli le mie scuse.... Oh! mi ài fatta fare una bella figura! Egli si sarà chiesto che borghesuccia scipita ò sposato quaggiù.... 30 Ah!... Adelina diede un grande respiro. Era salva, per davvero! Salva? Tutto un altro cumulo di idee le venne d'un tratto a turbinar nella testa. Dumenville in rapporti con suo marito! Per tutta la vita, forse! Un dì o l'altro avrebbe dovuto farne la conoscenza.... La conoscenza ufficiale, perchè Oscar lo conosceva di già, pur troppo!... E allora? Come spiegargli...? Niniche, la moglie di Burton? No, no, no. Non voleva pensare a codesto, adesso. C'era tempo a pensarci. Stasera, intanto, quel signor Oscar partiva. E non l'aveva veduta, e non si sapeva ancora nulla. Al poi, si provvederebbe. Alla peggio, si confesserebbe ad Oscar. Racconterebbe la sua storia, inventerebbe. Che cosa? Non sapeva. Ma intanto, intanto!... Ah! che sollievo. «Dio, vi ringrazio!» Allora saltò al collo di suo marito, che si curvava per abbottonarsi le scarpe; e gli stampò un grosso bacio sulla nuca. Giacomo fremette. Poi, si mise a salterellar per la stanza, allegra, con dei piccoli gridi di gioia: e, di furia, si sbottonò la vestaglia, se la tolse, e la buttò in un canto. — Che fai? — chiese Giacomo. — Provo il mio abito nuovo! — Che pazzia! Adesso? — Adesso sì, e ti accompagno alla stazione. Le era sfuggita nella gioia. Giacomo sussultò. Alla stazione? Dimenticava che ci doveva essere Dumenville? Oppure.... Dio! Dio! sua moglie era innocente? C'era errore? — No, piccina: tu devi pranzare.... Poi io debbo, anche, recarmi dal Galli per avvertirlo che parto.... E attese la risposta. Insisterebbe? No; Adelina, che s'era morse le labbra, senza preoccuparsi troppo, però, di quello che aveva detto, perchè saprebbe rimediare (aveva rimediato a ben altro), non insistette. — Ebbene, lo provo ugualmente. Era, in sottana, senza busto, bellissima. La camicia fine di tela, a fiorellini azzurri, scollata, cadente sulle spalle, lasciava scoperto il seno, un seno piccolo, eretto, da vergine. E mentre Giacomo, in mutande, cercava i pantaloni da calzare, essa corse alla porta e vi diede un giro di chiave. Poi, di sorpresa, buttò le braccia al collo di suo marito, cercando colla bocca la sua bocca. Era l'ultima prova da subire. Ma la calma dei sensi, malgrado il contatto, lo aiutò. — No, bambina, mi farai perdere la corsa: Dumenville mi aspetta alle sette e mezzo, e debbo andare dal Galli, prima. E, facendosi forza, la baciò sulla fronte. Sulla bocca, no, non voleva, non poteva baciarla. Ma Adelina insisteva: — Parti.... per otto o dieci giorni. Pensa! Allora Giacomo ebbe un impeto di rabbia. Le diede una stretta feroce, conficcandole le unghie nelle braccia nude, e, rudemente, la respinse. — Ahi! mi fai male. Giacomo si riprese subito. E si mise a ridere. — Ecco come si fa colle bambine viziate. Colle bambine che non ragionano. Per un capriccio si comprometterebbe un affare dal quale dipende tutto l'avvenire! Adelina appoggiata al letto, umiliata, susurrò: — Due minuti.... Giacomo tornò a ridere, forte, nervosamente, e scese alla volgarità, ubbriacandosi per trovar la forza di vincere la prova. — Ti conosco, mascherina. Due minuti! Allora anche Adelina rise; e rise e gioì più ancora entro sè stessa. Quel ricordo delle loro intimità, sulla bocca di suo marito, in quel momento, finiva di rassicurarla. 31 — Ebbene, non provo neppure la veste! E indossò di nuovo la vestaglia. Da quel momento era sparito ogni pericolo per Giacomo. Aveva terminato di vestirsi, di furia. Di furia aveva fatto il baule, come vien viene, aiutato da Adelina che lo serviva, allegra, chiacchierina, piena di cura e di grazia. — Questi pantaloni li porti?... E le scarpe chiare?... Quante paja di calze?... Fazzoletti?... Un po' di colorati e un po' di bianchi. Va bene?... Oh! di', porta la pelliccia, sai? Siamo d'aprile, è vero, ma di notte in ferrovia bisogna coprirsi: chissà che freddo sul Gottardo. Lui rispondeva a monosillabi. Lasciava fare. Quasi, ci prendeva gusto a quella commedia nella quale recitava così bene la sua parte. Perdio! non avrebbe creduto di sapersi dominare così. Che forza di volontà, era in lui, che sangue freddo! Se ne gloriava in cuor suo. Poi si concedeva un altro sfogo. Mentre Adelina chiacchierava, e gli chiedeva qualcosa ogni momento, e gli dava dei suggerimenti, lui, senza ascoltarla, la ingiuriava, e bestemmiava mentalmente. — Carogna! Cortigiana! Vigliaccona! Vai, vai, ne ài per poco. Ridi, ridi: ti rimane poco tempo da ridere. Ti preparo una farsa, lurida creatura, che di più belle non ne ài vedute mai in teatro. Ridi, scherza, canzonami, forse, in cuor tuo, fino a domani, fino a doman l'altro al più tardi. E vienci al convegno, sai? Vienci! Perchè può darsi che la butti in burletta, laggiù alla palazzina e mi accontenti di sputarti addosso! Ma se non ci vieni, se ti colgono delle paure o degli scrupoli di onestà proprio la volta che si tratta, di venderti a me.... se non me la dài questa soddisfazione, ah! perdio! ti abbranco qui in casa e ti faccio a pezzettini, carogna!... Adelina parlava sempre — Sai, farò la brava donnina, durante la tua assenza. Pranzerò ogni giorno dalla zia o dalla Bianca, starò sempre con esse. Va bene? E tu mi scriverai ogni giorno, nevvero? Anzi, mi telegraferai. Siamo ricchi adesso, puoi spendere. E tienmi bene al corrente del tuo itinerario, perchè sappia dove debbo dirigere le lettere.... Oh! a proposito: sono senza quattrini.... — Dirò al Galli che te ne mandi domani: debbo farmene dare anche per me. — Oh! non importa.... Tralascia. Tu, già, non stai via molto, nevvero? Io pranzerò fuori, dunque non ò bisogno di nulla. E poi, per ogni occorrenza, mi farò prestare qualcosa dalla zia.... Sulla porta, mentre il portinajo scendeva le scale col baule sulle spalle, Adelina aveva salutato suo marito, freddamente, imbronciata, senza chiedergli un bacio. — Sai, me la lego a un dito. E alludeva, cogli occhi furbi, al rifiuto di lui, poc'anzi. — Oh! quando tornerai, dovrai pregarmi.... dovrai metterti in ginocchio. Giacomo aveva approfittato della piccola commedia per togliersi da lei senza espansioni. Ma mentre scendeva le scale, essa, dal pianerottolo e sporgendosi in fuori sulla ringhiera, gli susurrava: — Cattivo! cattivo! torna indietro subito.... E, sottovoce: — Un bacino, cattivone! Ma, Giacomo avea scesi i gradini quattro a quattro, era salito in vettura, e s'era fatto portare dal Galli. Il Galli pranzava. Lo fece chiamare in anticamera. — Oh! che buon vento? A quest'ora? — Una disgrazia. Ò ricevuto due ore or sono un dispiaccio da Glasgow. Mia madre è moribonda. — Oh! — Parto alle 7.55. La prego di avvisare il Consiglio d'amministrazione, e di presentare le mie scuse. — Diavolo! non se ne discorre nemmeno. Vada e non si crucci. E mi dia notizie, che auguro buone. 32 — Grazie, signor Galli. Mi occorre anche un favore. — Quattro, caro il mio Burton. — Nella ristrettezza del tempo non ò avuto modo di recarmi alla Banca dove tengo un po' di denaro.... — Quanto le occorre? Due, tre mila lire? — Due, basteranno. — Eccole qua. Le ò in tasca; non le faccio perder un minuto. — Grazie. Mi favorisce un calamaio e una penna, per due righe di ricevuta? — Scherza? Tra galantuomini.... — No, sa, le cose in regola; dalla vita alla morte.... — Ma, che morte! Io conto di campare cento anni ancora. Lei, non se ne parla neanche. — Ma — Ma vuol perdere la corsa? E l'aveva spinto fuori, augurandogli ancora che la disgrazia fosse evitata. Alle 7.45 Giacomo era giunto alla stazione e aveva preso un biglietto per Como. Dieci minuti dopo partiva; e il giorno appresso, a mezzodì, arrivava a Milano il marchese di Morecambe. La notte, a Como, all'Hótel Volta, l'aveva trascorsa senza dormire, senza neppure spogliarsi, steso supino sul letto, cogli occhi fissi al soffitto, nella stanza fiocamente illuminata dalla candela. Non il dolore, non l'ira, non il pensiero dell'offesa, gli avevano impedito di dormire: ma la preoccupazione, soltanto, del suo disegno che andava studiando in tutti i particolari, ed il timore di non vederlo compiuto. A Como, prima di partire, aveva fatto un acquisto: una rivoltella; per ogni evenienza. Si fece servire in camera la colazione, ma non mangiò; ebbe cura pertanto di nascondere il cibo: temeva di tutto, curava i minimi particolari pur di riuscire. Chissà, César avrebbe potuto insospettirsi di un forastiero che non aveva appetito. Tracannò invece un'intiera bottiglia di piccolo bordeaux. In camera era venuta, dapprima, una cameriera, poi un cameriere. A questi aveva chiesto: — Siete César, voi? — Nossignore. — César non c'è? — Sissignore. — Mandatemelo. E César era venuto. — Il signor marchese mi chiama? — Siete César? — Il signor marchese mi fa l'onore di conoscermi? — Di nome e di fama. Burton non voleva perdere tempo: e non gli bastava l'animo di attendere l'occasione. Assunse un'aria da gran signore, annojato: si stese su una poltrona allungando le gamba su una sedia vicina, e accese un grosso avana. — Un amico mio del «Cercle de la Rue Vivienne» mi à parlato di voi, giovinotto. Si discorreva di viaggi, l'altra sera. E mi disse a Milano scendete all'«Hótel des Etrangers», e cercate di César. À dei buoni sigari — aggiunse con un risolino fine, canzonatore. Gli parlava in francese, ma affettando, ancor più che non avesse naturalmente, la pronunzia inglese. Quell'enciclopedico di César lo tolse subito dall'imbarazzo, e gli rispose in inglese: — Sono lieto che i miei piccoli servigi lascino così buona memoria di sè. — Orsù, César, come potrei impiegare le ore del pomeriggio? Avete già capito che non mi interesso alle pinacoteche. 33 — Il signor marchese potrà impiegar bene il pomeriggio d'oggi, e benissimo quello di domani, se si trattiene a Milano. — Non so. Tutt'al più sino a domani sera. Ricordava la raccomandazione di Dumenville. E aggiunse, con viva curiosità: — E perchè non «benissimo» il pomeriggio di oggi stesso? — Signor marchese: il «benissimo» non lo si à sempre sotto mano. César parlava serio, in posizione d'attenti, come il più corretto e rispettoso dei servitori alla presenza del suo padrone. Decisamente, questa era una parte come un'altra del suo servizio di primo cameriere di una grande locanda. — Il signor marchese vuol fare da sè la propria scelta, o si affida a me? — No, no, sceglierò io. — E aggiunse ridendo: — Potremmo avere gusti differenti. — Il signor marchese mi permette di consegnarle una busta chiusa e un indirizzo? — Naturalmente. E prese la busta che César gli consegnò dopo averci messo un cartoncino sul quale aveva scritte poche parole, a lapis. César fece un inchino e stava per avviarsi. — Ch'io trovi dei sigari quando ritornerò. — Che qualità preferisce il signor marchese? — In ogni cosa, sempre la migliore. César s'inchinò ancora una volta ed uscì. Giacomo fu lieto del modo come si era condotto. Oltre la calma, riscontrava in sè stesso un fare da gran signore che lo stupiva. Davvero, ci si riconosce nelle grandi occasioni. Ma una curiosità lo pungeva, adesso. Leggere il bigliettino che avrebbe dovuto consegnare alla Bianchi. E non vi seppe resistere. Quali erano le qualità che bisognava possedere per avere il diritto di comperare sua moglie? Allora bagnò con dell'acqua la busta sul rovescio: attese un minuto, che la gomma si liquefacesse, e aprì. Sul cartoncino era scritto: «Inglese — marchese — parte domani sera — anche il 3 se non basta il 2. Attendo quanto m'è dovuto per l'affare d'ieri l'altro. — Filippo». Benone! Bisognava dunque, proprio, essere un forastiero, possibilmente nobile, certamente ricco, e ripartire subito. «Anche il 3 se il 2 non basta». Occorrerebbe insistere! E quel buffone si serviva di lui — la bella occasione! — per ricordare il proprio credito. Quale? Quello che si riferiva a Dumenville, evidentemente. Gli spettava la provvigione? Ma perbacco: Dumenville aveva pagato 500 lire. La mediazione alla Bianchi, la provvigione a César — (si chiamava Filippo, quel César!) — non ne restavano molti per Adelina! Perdio, si dava per un'inezia, sua moglie. Fece chiamare una vettura e diede l'indirizzo al fiaccheraio: via Speronari 53. Finora, ogni cosa camminava a dovere. Giacomo ormai non aveva altra preoccupazione: riuscire. Che si trattava di una sconcia commedia la quale avrebbe potuto tramutarsi in un dramma terribile; che si trattava di lui, di sua moglie, sua moglie, una cortigiana che andava a contrattare, volgarmente, sfrontatamente; che era un uomo ridicolo, lui, e un uomo offeso, mortalmente offeso; tutto ciò non lo preoccupava più. Come un invasato, non pensava più che al suo disegno feroce; e aveva una sola preoccupazione attuarlo. Non l'offesa, ma l'attesa, gli dava la febbre. Era un ipnotizzato; lo avevano addormentato, e gli avevano detto: «Tu farai questo». Ed ora, sveglio, lo faceva. I coniugi Bianchi, erano gente per bene. Come vivessero, i vicini, la portinaia, il padrone di casa, tutti potevano constatarlo. Sull'uscio della loro abitazione c'erano appiccicati due cartellini: «F. Bianchi, perito giudiziale», sull'uno; «Z. Bianchi, sarta», sull'altro. Il signor Faustino stava fuori quasi tutto il giorno: la sua professione lo traeva pei corridoi dei Tribunali e delle Preture, o dove c'erano degli inventari e delle aste di mobili e di merci di gente fallita. Il vecchio Sinigallia, l'antiquario del primo piano, lo trovava quasi sempre come perito o come banditore quando si recava a dar la caccia a della roba vecchia messa all'incanto. E lo raccontava in portineria: 34 — Quel signor Faustino sa il suo mestiere. Non c'è pericolo che mi lasci portar via una moneta o una statuetta per un quattrino al di sotto del suo valore. Fossero tutti come lui, e se non avessi qualche inglese e qualche americano da infinocchiare un pochino, ogni tanto, sarei già fallito anch'io. Se s'incontravano, poi, su per le scale, o in portineria, erano lunghe discussioni sulle vendite e sugli acquisti fatti nella giornata. Il signor Faustino aveva cura, anche, di avvertirne il suo buon vicino, quando c'era in vendita, qua o là, qualche oggetto gustoso: — Ma, intendiamoci, per quello che vale! Niente favoritismi, signor Sinigallia! — Ed era una risatina e una stretta di mano. L'onestà in persona quel signor Faustino! La signora Zaira invece, era sempre in casa. Faceva la sarta. Per dir meglio, aveva fatto la sarta in gioventù. Ora conservava soltanto qualche vecchia cliente, e, piuttosto, si faceva intermediaria, poichè godeva di una gran fama e di una gran fiducia, tra le clienti vecchie e nuove, e le giovani sartine che si raccomandavano a lei per averne lavoro. Così, era un andirivieni di ragazze, tutto il giorno, in casa sua. Poi, adesso, s'era acquistato un altro merito: guariva la sciatica meglio della famosa donna di Cassano, e come certamente non sapevano fare i medici malgrado la loro prosopopea. Anche la portinaia aveva sperimentata questa virtù della Bianchi: — Oh! signora Zaira, è il suo decotto che mi à guarita, e non tutti gli empiastri che mi avevano dati all'ospedale. — Eh! eh! — rispondeva la vecchia — i medici sanno dire dei paroloni che riempiono la bocca; per esempio, la chiamano eschialgia: ma guarirla, poveretti, non sanno neanche da che parte si cominci. Così, anche per questa ragione, era ogni giorno e tutto il giorno un va e vieni di gente dalla Bianchi. Gente d'ogni età e d'ogni condizione, perchè di fronte al male siamo tutti eguali come il Signore Iddio ci à creati. E che buona donna, quella signora Zaira: dai ricchi accettava qualche piccolo compenso, ma dai poveri nulla. Ed erano benedizioni che le piovevano sul capo, e che echeggiavano e si ripetevano nella monotona intonazione delle litanie, giù per le scale e in portineria. Ogni povero che vi passava, guarito.... o quasi, versava le ultime lagrime di consolazione sul seno della portinaia: — A chi lo dite?! una santa donna, ecco. Non ci fosse il paradiso, bisognerebbe inventarlo per mettercela lei! E non solo guariva la sciatica, ma anche degli altri piccoli malanni. Era una medichessa, insomma, che non si dava importanza, che lavorava più per pratica che per studi fatti. Ma valeva più lei che tutti i medici del quartiere. Certi giovanotti che le venivan per casa, per esempio? C'era da immaginarselo, perchè ci venivano. — E su questo, a dir la verità, era meglio chiudere un occhio, — osservava la portinaia: — ma, dopo tutto, quando il bene è fatto a fin di bene, nessuno à diritto di metterci il naso. Poi, la signora Zaira aveva un'altra virtù. E non ne faceva mistero, perchè non era una megera delle solite, non era una di quelle imbroglione che speculano sulla credulità dei gonzi: faceva il gioco delle carte. Ma, ohe! niente filtri, niente ciocche di capelli, niente teste da morto. E non dava numeri del lotto, e non vendeva gli elixir di lunga vita, o per innamorare i giovanotti, o per trovare marito. Niente, niente! Il gioco delle carte, semplice e puro, alla luce del sole, con un mazzo qualunque, e senza misteri, e senza assumere delle pose da spiritata. — La vita è tutta un destino, va bene o no? — aveva spiegato alla portinaia. — Se voi morite adesso, è perchè era destino di morire. Anche se cadete per le scale, anche se vi casca una tegola sul capo. Era destinato così. Dunque, questo destino che noi non sappiamo cosa sia, che è nell'aria insomma, ma che è una cosa certa e sicura, non può darsi che sia scritto in qualche sito? Il giorno che nascete, si scrive il vostro destino. Dove? Nelle carte. Ma bisogna saperlo leggere. Ed io ci ò fatta la pratica. Ma niente soperchierie — continuava. — Viene la tale signora, e mi dice, per esempio: «Fate che colui che amo si innamori di me?» Allora, io le rispondo: «Nossignora. Questo andate a chiederlo alle imbroglione, che vi daranno i filtri e le diavolerie. Ma non serviranno a niente. Io vi dirò invece se quello che amate vi ricambierà un giorno o l'altro. Questo sì, perchè è già destinato, 35 e si può leggerlo nelle carte. E secondo la risposta che esse daranno, voi potrete regolarvi: e ne avrete contentezza o dolore, speranza o disinganni. Se le carte risponderanno di sì, non avrete che ad aspettare con santa pazienza: se risponderanno di no, vi metterete il cuore in pace.... e penserete ad un altro». Dico bene?... E non è mica da credere — aggiungeva per scrupolo d'onestà — che ce l'indovini sempre neppur io. Alle volte si presentano certe combinazioni di carte che a leggervi giusto ci vorrebbe Domeneddio. Ma non imbroglio mica la gente, io. Quando ci leggo sicuro, dico: «È sicuro!» Quando sono incerta, dico: «Badate, mi pare così, ma il vostro caso è indeciso: la risposta ve la dò come la trovo, ma non garantisco». E così, quelli che vengono da me, se vogliono darmi qualcosa in compenso del mio disturbo, sanno che i loro denari li spendono bene. Se ce ne veniva della gente, anche per il gioco delle carte! E che gente! Signore, signorone con tanto di pelliccia, perchè il mal d'amore è comune ai poveri ed ai ricchi. Infatti, non era difficile veder ferme dinanzi al numero 53 di via Speronari delle carrozze cogli stemmi. La signora Zaira poteva vantarsi di avere delle contesse e delle marchese fra le sue clienti. Ci andavano impunemente, confidandoselo e consigliandoselo tra amiche. Non sapevano, poverette, quale altro mestiere faceva la Bianchi, e che rischio corressero recandosi da lei. Senonchè, di quell'altro mestiere non ne sapeva nulla nessuno. Tutt'al più, forse, ne aveva indovinato qualcosa la portinaia. Ma la portinaia si prendeva fior di mancie: non le conveniva di indagare troppo e, tanto meno, di rivelare i suoi dubbi agli altri pigionanti ed al padrone di casa. Poi, la signora Zaira non le aveva guarita la sciatica? La ricompenserebbe bene davvero, sparlando di lei! Così, nella casa quieta ed ammodo, la Bianchi esercitava le sue molteplici industrie; ed era tenuta in considerazione dai vicini — gente borghese di vita e d'intelletto — a causa del bene che faceva e, anche più, di quella carrozze stemmate che si fermavano alla porta. Perchè alla Bianchi occorreva, appunto, di abitare in una casa dall'aspetto decoroso e pulito, se non ricco, per ricevervi i clienti che le erano inviati dai Césars dei grandi hótels, quelli che, in fondo in fondo, erano la vera e lauta fonte di lucro. Tutto il resto, la sartoria, i medicamenti, e anche il gioco delle carte, erano lustre, che le servivano perfettamente a giustificare l'andirivieni di tante persone d'ogni età, d'ogni ceto e d'ogni sesso. E ci teneva alla sua reputazione. Aveva l'aristocrazia, del proprio mestiere, come disse Dumenville. In fatto di donne, non sdegnava di trattare la ballerina d'ultima fila, o la fanciulla al principio di carriera, caduta da poco, e per la quale non c'era bisogno del mistero. «Perchè è la varietà che occorre in tutti i commerci, soleva dire, e i gusti variano quante sono le persone. Fior di signoroni, talvolta, preferiscono una birichina di sedici anni colle vesti a brandelli ad una donna maritata». E poi, non di rado, anche una di quelle della cartella n. 1, presentata bene, come sapeva far lei, poteva fruttar molti quattrini, se capitava un cliente mandato da César che avesse nessuna pratica della città e molti luigi in scarsella. In questi casi, era un maggior guadagno per lei e anche per la poveretta che si trovava ancora in principio di carriera: un vero benefizio. E quante ne aveva rimpannucciate la Bianchi! Quante, per merito suo, erano salite di grado, poco a poco, passando dalla cartella n. 1 alla cartella n. 2, e, qualche volta persino alla cartella n. 3! Naturalmente però, dove metteva il maggior entusiasmo e adoperava tutta la sua arte sopraffina, era nel trattare il genere più elevato e i casi più difficili. Essa non si limitava all'offerta. Riceveva anche le domande. La sua bravura, il suo tatto erano tanto noti in città! Era riuscita, lei, laddove altre colleghe avevano tentato invano; laddove, agendo direttamente, certi spasimanti incapricciati non sarebbero riusciti mai. «Già — era il suo assioma — a 'sto mondo è tutta quistione di denaro. Venisse Rothschild domani da me, e mi dicesse: «Credito aperto, ma voglio la tale», e fosse pur posta in alto, la tale, fosse pure la regina del Paraguay.... o che sì o che no.... non so se mi spiego». E non aveva torto di vantarsi, la Bianchi. La fama di certi suoi successi aveva attraversate tutte le trincee del riserbo o della delicatezza. In casa sua, tuttavia, poteva andarci chiunque, chè cose brutte non se ne facevano mica. «In casa mia, — diceva, — venite, andate, trattate i vostri affari: sta bene; sono qui per questo, e se posso 36 rendervi un servizio mi faccio in quattro. Ma.... c'intendiamo, ragazze! questa è un'agenzia di collocamento, se volete chiamarla così: ma una locanda no, cavatevelo dalla testa». E aveva una succursale, in via Orti, della quale consegnava le chiavi, quando occorreva. Allora, bene inteso, tanto di mediazione e tanto d'affitto. «Perchè l'indoratore (il padrone di colà) a Pasqua e a San Michele pretende la sua pigione». Jamès Burton, scese di carrozza, e chiese alla portinaia: — La signora Bianchi? — Secondo piano: la porta a destra. Salì, trepidante. La gran prova, la prova decisiva stava per compiersi. La biondina era dunque, era proprio sua moglie? Ne dubitava? Sì, adesso sì. Un barlume di speranza lo sorreggeva e lo agitava insieme, ora che mancavano pochi minuti ad acquistare la certezza piena, completa. Dal momento che s'era separato da Dumenville, non aveva agito più che guidato da un'idea fissa, da una convinzione assoluta, e da un desiderio acuto di vendicarsi, così, come aveva immaginato in un attimo, ferocemente. La sua mente non s'era arrestata a pensare, a indagare, a vagliare. Ma adesso ripensava a tutto quanto era accaduto. Era vero? Era possibile? Era possibile, in nome d'Iddio, quello che aveva udito? Che sua moglie fosse scesa così basso? Ma perchè? Ma perchè? Ma per quali strane ragioni? Ma per quali incomprensibili avvenimenti della sua vita, Adelina era diventata una cortigiana volgare, una di quelle, che si comperano a prezzo fisso, una di quelle che si posseggono il giorno stesso che se ne fa la conoscenza? Ma non era assurdo, tutto ciò? Ma non c'era uno sbaglio di mezzo, provocato forse da una rassomiglianza strana, bizzarra, per quanto assoluta? A tutto questo non aveva pensato mai, da ieri. Ci pensava adesso. E una speranza, un ultimo tenue filo di speranza lo guidava. Saliva i gradini di furia: voleva accertarsene; e s'indugiava sui pianerottoli: temeva di perdere, lassù, l'ultima illusione. Correva, e poi si fermava. Doveva affrettarsi a conquistare la felicità, a raggiungere la fine di un brutto, di un orribile sogno? O doveva indugiarsi, per ritardare, fosse pur d'un minuto, l'esecuzione di una sentenza di morte? E ritornava colla mente al passato. Un passato così calmo, così lucido, così sereno. Quattr'anni di felicità, non attraversati mai da una nube, da un dubbio, da un avvenimento, da una parola che lo avessero scosso nella sua illimitata fiducia. Quattro anni, nei quali Adelina, pareva avesse lavorato, minuto per minuto, ad un unico intento: conquistarsi la riconoscenza di suo marito, centuplicarne l'affetto. E come il suo affetto si era ingigantito, dì per dì; come era nata, ora per ora, nel suo cuore, la riconoscenza per questa donna buona ch'era il sorriso dolce della sua esistenza, ch'era il raggio di sole caldo nella sua casa! E questa donna che aveva un bacio e un augurio, ogni mattino, per lui, quando si alzava per recarsi al lavoro; che lo attendeva sulla soglia, al suo ritorno, e lo accoglieva con una carezza e con un bacio; questa donna tutta cure, tutta affetto, tutta tenerezza.... tutta onestà, era dunque una creatura abbietta che la mezzana vendeva ai principi e ai duchi di passaggio? Ma era possibile, questo? E da quando? Che mutamento era avvenuto, nella sua casa, dal dì delle nozze? Nessuno. Che avvenimento, nella loro vita, aveva potuta trascinarla fin là? Nessuno. Lo faceva per interesse? Ma allora l'aveva cominciato subito, quel mestiere? Subito, appena sposata?... Perchè i bisogni non s'erano accresciuti col volgere degli anni, e le rendita erano state le stesse, sempre. Non era dunque assurdo, tutto ciò? E non era stata una colpa, in lui, un delitto, di credere, ciecamente così, a quel fanfarone di Dumenville? Non avrebbe dovuto pigliarlo alla gola, e gridargli: — Bada, mascalzone, tu parli di mia moglie, della più onesta delle creature! — O, almeno, passato il primo impeto di furore, vinto il primo dubbio e il primo scoramento, non avrebbe dovuto correre da Adelina, e dirle, francamente, 37 quanto era avvenuto: e chiederle perdono d'aver dubitato un momento, e domandarle la smentita e la consolazione suprema nel più affettuoso dei suoi abbracci, nel più caldo de' suoi baci? Ma come aveva dubitato? Come dubitava ancora? Tutta la vita di sua moglie non era stata un crescendo d'attaccamento per lui? Un crescendo, sì. Da un anno l'esistenza di lei era divenuta ancor più calma, ancor più metodica, ancor più regolata. Quante volte, la sera, non usciva di casa, da un anno, e rimaneva a tenergli compagnia. S'era comperato un pianoforte, trovando modo di pagarne il prezzo a piccole rate, come aveva fatto per la macchina a cucire: e passava le ore a suonare, per divertirlo, per distrarlo. E, ogni giorno, quasi ogni giorno, da un anno, non veniva a vederlo in istudio, e non ci rimaneva delle ore, con un libro in mano, o col ricamo, o senza far nulla, a guardarlo lavorare, sorridendogli? Egli conosceva dunque la vita di sua moglie, ora per ora.... Possibile che la Bianchi fosse incaricata di procurarle.... dei guadagni?... Ma no! ma no! ma non era possibile questo! Era assurdo! Giacomo s'era fermato, a mezza scala, reggendosi a stento, colle mani abbrancate alla ringhiera. Che azione da galera stava per commettere adesso? Ma se Adelina, innocente, pura, onesta, l'avesse saputo quello che stava per fare, non avrebbe avuto il diritto di sputargli in faccia, di abbandonarlo per sempre, come il più abbietto degli esseri? Oppure non ne sarebbe morta di dolore?... Perchè non tornava indietro? Perchè non risaliva in vettura, non si faceva riportare all'albergo, non recitava la commedia dell'arrivo come aveva recitata ieri quella della partenza, nascondendo a tutti il lurido disegno che aveva concepito, e nell'attuazione del quale, per fortuna, era ancora in tempo a ritrarsi? Perchè? E ieri? Iersera; quando era rincasato, col suo piccolo dono per lei? Non l'aveva trovata, non le era parso di trovarla così calma, così serena come avrebbe dovuto essere se tutto quanto aveva udito da Dumenville fosse stato il frutto di un errore o di una menzogna? È vero: c'era stato un momento in cui, istintivamente, per trarla d'impaccio, un impaccio che non gli era sfuggito, aveva dovuto dirle — Dumenville non ti à veduta. — E in quel contegno, egli aveva creduto di trovare la conferma della rivelazione orribile e strana. Sì, è vero. Ma, via, ricapitolando i fatti, cercando di esaminare con un po' di calma, e senza preconcetto sopratutto, le circostanze, non si spiegava, forse, anche quel po' di agitazione, anche quel po' d'imbarazzo? La sorpresa causata dal dono, una cosa tanto inusitata da parte sua; l'annuncio della improvvisa partenza; più ancora, l'annuncio della ricchezza conquistata, non erano tali fatti, tali avvenimenti da giustificare ben altra e più profonda emozione? Ebbene, sì: l'ambizione non era forse l'unico difettuccio che aveva sempre riconosciuto in Adelina? Era dunque una cosa strana di vederla ridere, saltarellare, entusiasmarsi dinanzi a un abito nuovo? Non era una bambina, tutta sentimento, capace di commuoversi sino alle lagrime nei preparativi per una festicciuola qualunque, o al ricevere l'invito per un concerto o l'offerta di un palco a teatro? E lui, che non aveva mai saputo toccare quel lato debole del sentimento, che non le aveva mai regalato uno spillo, che era sempre stato il marito, soltanto il marito, per quanto onesto e buono e affettuoso, lui, ieri, nientemeno, le recava in dono una veste da 300 lire, e l'annunzio della ricchezza! Ah! per Iddio! c'era di che sconvolgere quella mente e quel cuore da bambina! Poveretta! E gli aveva buttate le braccia al collo, e aveva cercati i suoi baci, le sue carezze. «Pensa starai assente otto giorni!» E poi, sulla scala: «Me la lego a un dito, sai? — dovrai pregarmi in ginocchio!» Oh! se l'avrebbe pregata in ginocchio! Com'era dolce il pensare a tutto ciò. Come sarebbe dolce il convincersene.... E perchè non ci aveva pensato prima? E perchè non se ne convinceva adesso? Che strano e crudele dubbio lo rodeva ancora, lo teneva inchiodato lì, non gli permetteva di rifare a precipizio le scale, di fuggire da quella casa maledetta? Non erano giuste, ragionevoli, sensate, tutte le supposizioni fatte adesso, in un minuto? Non gli venivano a risultare chiaramente come assurde, tutte quelle fatte prima? Ebbene? Perchè non se ne convinceva? Perchè non prendeva una risoluzione decisiva, buona, la giusta forse? Perchè non fuggiva? 38 Udì un rumor di passi, in alto sulle scale. Qualcuno scendeva. Non bisognava lasciarsi vedere così, fermo sul pianerottolo. Bisognava risolversi. E stava per seguire l'impulso del cuore, fatto gonfio di tenerezza e d'angoscia durante quei brevi minuti di sosta, quando una voce, come un'eco lontana, gli tintinnò nelle orecchie: «La mia biondina!» Il grido giulivo di Dumenville, ieri, là nello studio, la sua esclamazione di sorpresa, così sincera, così spontanea, irrefrenata! Allora, in due passi, fu alla porta su cui era scritto «Bianchi». Si abbrancò colle due mani al cordone del campanello, e diede uno strappo. Mentre aspettava che aprissero, gli passò dinanzi la persona che aveva udito scendere dall'alto: un prete. Quella figura nera, in quel momento, gli fece un effetto strano. E gli ricordò che era quegli il ministro di un culto non suo, il culto di sua moglie, che essa professava con tanto ardore, con tanta pietà. Era questa l'unica piccineria di sentimenti che aveva dovuto perdonarle: gli scrupoli che, ogni tanto, la coglievano, di aver sposato un protestante; e per trovar la forza di vincerli essa non mancava mai alla messa la domenica, nè alla confessione e alla comunione una volta al mese. Sarebbe dunque possibile che una donna così pia, così.... Avrebbe ricominciato a fantasticare, e a torturarsi nel dubbio, se l'uscio non si fosse aperto. — Madama Bianchi? — chiese ad una ragazzona fiorente, un tipo volgare di contadinotta abbigliata a festa, che gli si presentò dinanzi. La figliolona non rispose, ma lo invitò col gesto ad entrare. Attraversarono un'anticamera non grande e poco illuminata da una finestra che guardava sul pianerottolo, ed entrarono in salotto. Qui la ragazza gli accennò di aspettare, e se ne andò. Giacomo, spossato, sedette e si guardò d'attorno. La stanza, arredata senza gusto, con dei mobili dozzinali, aveva tutte le caratteristiche dell'alloggio borghese di una buona famiglia che à tremila lire all'anno da spendere e della quale non fanno parte nè una fanciulla moderna nè una giovane sposa. Tutto era sciatto e scipito là dentro: i mobili, i ninnoli, il modo come questi e quelli erano disposti. Pure, nella stanza spirava un profumo di calma e d'onestà. Lo si sarebbe detto l'alloggio di un impiegatuccio governativo, di un usciere di tribunale. Alle pareti erano appese due oleografie, date in dono agli abbonati del «Secolo», e, l'uno di contro all'altro, i ritratti in litografia di Vittorio Emanuele e di Garibaldi. Burton cercò invano i sintomi della corruzione; inutilmente cercò di scoprirle i ferri del mestiere. Non una sola fotografia di donna. Una scarabattola a vetri, appoggiata alla parete, tra le due finestre, era piena di conchiglie, di piccole scatoline in cartapesta di quelle in cui si offrono dalla povera gente e dalla bassa borghesia i confetti di sposa; c'era anche una piccola gondola nera di stagno, e un duomo di Milano in legno a traforo: c'era persino una bambola. Infine, nulla che non fosse volgare, ma nulla che non fosse ammodo. La signora Zaira non lo fece attendere molto. Si presentò, salutandolo con un inchino e con un «monsieur» pronunciato male, ma pieno di grazia. A furia di trattare con dei forastieri, essa riusciva adesso a farsi capire un poco in tutte le lingue, e specialmente in francese. E l'occhio molto avvezzo, a conoscere la gente, le rivelava subito, prima ancora che un nuovo visitatore parlasse, la sua nazionalità e lo scopo della sua visita. Vedendo Burton, s'era subito detta: «Questo è un inglese e viene pour le bon motif», una di quelle otto o dieci frasi caratteristiche che aveva imparate e che, pronunciate più o meno a proposito, le davano l'aria di una profonda conoscitrice della lingua, alla quale mancasse soltanto l'esercizio per parlarla correntemente. La Bianchi, all'aspetto, si rivelava subito per la borghese abitatrice di quella casa borghese. Ai visitatori più ingenui poteva anche sembrare l'onesta padrona di quella casa onesta. Era una donnetta sui cinquant'anni, brutta ma non di un brutto antipatico, vestita modestamente e pulitamente di nero. Aveva i capelli brizzolati, divisi sulla fronte, alla vergine. Dal polso, su su fino quasi al gomito portava delle specie di manopole di maglia color avana; quelle manopole, e un ampio grembiale di percalle azzurro cupo che le ricopriva quasi tutta la veste, le davano un aspetto di massaia insieme e di donna di lavoro, che la rendeva simpatica. 39 Giacomo, che aveva fretta, volle evitarle il perditempo dei preamboli, non solo, ma l'imbarazzo del parlar francese. E le porse il biglietto di César, rivolgendole la parola in italiano. — Ò questo biglietto per lei. Trovò la forza di fingere bene, affettando un accento marcatissimo forastiero, come già aveva fatto col cameriere della locanda. Allora ci era riuscito senza sforzo, nella gran calma che gli aveva imposto l'acutissimo desiderio di riuscir nel suo intento. Ora, malgrado l'agitazione e l'orgasmo, trovava questa forza di fingere nella paura che lo aveva invaso di commettere una azione orribile, nel dubbio che lo tormentava di aver agito e di agire troppo leggermente. Ancora sotto l'impressione dei pensieri che gli avevano turbinato nel cervello poc'anzi, si vergognava quasi di quello che stava per fare; e, come tentava di mutar voce ed accento, avrebbe voluto potersi truccare anche il viso, rendersi irriconoscibile persino a sè stesso, nello specchio che gli stava dinanzi, sul caminetto, e nel quale non osava di guardarsi per timore d'arrossire delle proprie azioni. Dio! Se in quelle famose cartelle che gli stavano per venirgli dinanzi agli occhi non ci avesse travato il ritratto di Adelina — (perchè era ben deciso a veder tutto, fosse pure ricorrendo alla violenza!) — o, meglio, se avesse trovata una fotografia che, con una rassomiglianza strana, gli desse la prova dell'innocenza di lei; Dio! che orrore, che orrore lo avrebbe preso di sè stesso, di quello che ora stava per compiere! Oh! come sentiva che non avrebbe avuto la forza e il coraggio di fingere con sua moglie, di nasconderle quanto aveva fatto, ciò di cui aveva dubitato, e l'inchiesta che aveva compiuta, e il piano mostruoso che aveva architettato. — Oh! come sentiva che sarebbe corso da lei, e si sarebbe buttato ai suoi piedi, lagrimando, strappandosi i capelli, implorando perdono, cercando di giustificarsi, non invocando il timore della dignità offesa, o il sentimento d'orrore che lo aveva invaso, ma soltanto l'amore immenso, smisurato, insensato, che nutriva per lei, così intenso, così pazzo da annebbiargli la vista, da fargli perdere il retto criterio, la giusta visione delle cose! Oh! come avrebbe pianto e implorato!... E tutta una vita di devozione, di adorazione, di rispetto, non avrebbe bastato a cancellar quell'affronto, a farlo dimenticare a lei, buona e santa Adelina, a rigenerarlo, e a risollevarlo agli occhi di lei e di sè stesso! Sarebbe vissuto invocando un perdono che sentiva non avrebbe meritato. Ma essa, cara e dolce creatura, glie lo avrebbe concesso, il perdono; e questa grazia suprema lo renderebbe il suo schiavo devoto, riconoscente, felice, fino alla morte. La Bianchi, letto il bigliettino, era uscita e rientrava adesso recando una cassetta di cartone come ne usano negli uffici per conservarvi le carte. La posò sul tavolo sorridendo, e l'aprì. Ma Giacomo aveva furia. E, dominandosi, con tono forzatamente calmo e fintamente annoiato, disse: — Signora, i suoi usi mi sono noti: un amico mio che ebbe il piacere di conoscerla, mi à avvertito, pochi giorni or sono, a Parigi dove mi trovavo, che ella à diverse categorie.... La prego quindi.... — Ò già capito, — interruppe lei, con un altro sorriso pieno di malizia. — Ma si accomodi.... E tenendo una delle sue mani larghe, dalle dita ossute, sul coperchio della scátola, come a custodire un tesoro, gli fissò in volto gli occhietti scrutatori. — Ma lei parla bene l'italiano. Viene spesso in Italia? — Una volta all'anno, per divertimento. — Ah! Burton temette di aver compromesso l'esito dell'inchiesta. La Bianchi lo fissava sempre: pareva dubitasse. Allora capì che abbisognava un ultimo sforzo di volontà. Poichè era arrivato fin là, poichè non era più in tempo a ritrarsi, tanto valeva andar fino in fondo, e conquistare questa certezza assoluta che lo renderebbe felice. Felice? Sì, ogni minuto che passava, mano mano si svolgeva questa scena bizzarra e così nuova per lui, egli si persuadeva dell'assurdità dei suoi dubbi e delle sue paure. Tutto quanto aveva udito ieri da Dumenville, gli pareva un sogno. Non era possibile. Non era vero! No, non era vero! — Avanti, avanti! coraggio! — L'agitazione da cui si sentiva invaso, non era paura, più, non era 40 dubbio: era soltanto la smania di toccare con mano, quanto più presto possibile, ciò che egli vedeva già come certo. Bisognava assicurare la Bianchi. — Sa.... l'italiano l'ò imparato un pochino perchè, vari anni or sono, ò dimorato qui per alcuni mesi. — A Milano? — No.... a Roma e a Napoli.... Fu il mio viaggio di nozze. Ecco un'idea che gli era venuta, chiacchierando, e che gli era sembrata buona. — Ah! il signore à moglie? — Sì.... in Inghilterra.... Sono ammogliato da tre anni.... La Bianchi ebbe un altro sorrisetto malizioso: — E adesso si viaggia soli.... e si tenta magari uno strappo alla fedeltà coniugale.... Giacomo buttò fuori una gran boccata di fumo; e, con sussiego: — Lontano di casa! Poi, subito, per ribattere il chiodo: — Anzi, tante volte sono stato in Italia, e non mi ero mai fermato neppure un giorno a Milano. Mi avevano detto che non è una delle città più belle d'Italia. Ma questa volta ò voluto proprio fermarmici. E, con aria disinvolta, accavallando una gamba sull'altra, e seguitando a fumare: — Dunque, cara signora, l'amico mio mi à detto un mondo di bene di lei.... e di una certa biondina che ella conosce.... — Ah! la Biondina!... Ma aspetti: l'amico suo è un uomo d'età.... cinquant'anni circa.... alto, brizzolato?... — No. — Allora.... un giovinotto biondo, tarchiato, inglese? — Neppure. La Bianchi appoggiò l'indice della destra sulla fronte, e rimase un momento in silenzio, come facesse uno sforza di memoria. — Forse.... — riprese; e s'interruppe: — Ma già, come ricordarli tutti? Ne vengono tanti, e dacchè ò la Biondina la gran maggioranza non sceglie che lei. È tanto carina! — conchiuse la vecchia, come il fabbricante che vanta l'articolo di sua invenzione e del quale à la privativa. «Molti dunque!» pensò Giacomo. E, senza scomporsi, disse: — Vediamola, la famosa biondina. La Bianchi, intanto, aveva aperta la cassetta, e ne aveva cavato un plico voluminoso di ritratti. Stava per sciogliere la fettuccia azzurra che lo teneva legato, ma Burton intervenne: — No, — disse, curvandosi sulla cassetta per guardarvi nel fondo, e allungando una mano per trattenere quelle della Bianchi. — No, glie l'ò già detto: sono venuto qui guidato da un'idea fissa: quella di ammirare l'immagine della biondina. Lei mi faccia vedere il ritratto, soltanto, perchè possa accertarmi che risponde all'ideale che me ne sono fatto. — Ma no, ma no, — lo interruppe la vecchia, che rassicurata entrava in confidenza. — Io voglio che veda qualcos'altro. La Biondina, sta bene ma ò dell'altra roba prelibata: chissà che a gusto suo, non possa trovare anche di meglio. E ad ogni modo — aggiunse ridendo — si farà un'idea della qualità e della quantità, e potrà parlar bene di me con gli amici, e indirizzarmeli all'occasione. Giacomo non insistette di più. Sudava freddo, ma la sua forte e rude natura lo aiutava. Sentiva che saprebbe resistere ancora. — Come vuole, — disse, — ma mi mostri almeno addirittura la categoria hors ligne: mi risparmi l'esposizione della roba minuta. E assumendo di nuovo una posa annoiata, aggiunse: — Capirà che quando si dà uno strappo alla fedeltà coniugale, bisogna che valga la pena di darlo, quello strappo! 41 — Oh! a questo penso io, — disse la Bianchi. — So con chi tratto. Giacomo ebbe un sussulto udendo queste parole. Il senso letterale soltanto, lì per lì, lo aveva colpito. Ma si rinfiancò subito e disse a sè stesso, ancora una volta: «Coraggio, siamo alla fine!» La vecchia, allora, mise da parte il primo plico, e levò dalla cassetta il secondo, un po' meno voluminoso dell'altro. Sciolse il nastro, e dispose sulla tavola, in bell'ordine, le fotografie che vi erano contenute, illustrandole. L'arte della danza e la mimica, quasi esclusivamente, erano rappresentate in quella mostra bizzarra. Molte nudità, molti costumi chiassosi: tutte le Ninfe, le Najadi e le Nereidi sorte dalle onde di cartapesta del palcoscenico: tutte le Fate e le Arpìe sbucate dai trabocchetti: tutte le Plejadi brillanti sui cieli di garza: tutte le Jadi folleggianti tra i boschetti che ànno odor di vernice: e le Baccanti alla nuova conquista delle Indie: e le Danaidi assassine; e le Sirene canore; e le Pretidi superbe; e le Esperidi prodighe dei loro pomi dorati; e le Vestali, e le Driadi, e le Grazie. Poi le «Luci» dell'«Excelsior», e le «Bianche di Nevers», le i «Re di Tule». Tutta una fantasmagoria di visi, di tipi e di figure, aventi una caratteristica sola: la sfrontata provocante esibizione di sè stesse. Erano curve opulente di anche e di coscie; prepotenze di seni gonfi ed eretti; luccicori di gemme, di diademi e di perle; e ahi! forse, quanti misteri di bambagia, di puntelli, di rossetti e di tinture! La Bianchi aveva per ognuna una frase illustrativa, una parola di lode. Questa rappresentava la giovinezza, quella la grazia, quast'altra la forza; un'altra ancora la raffinatezza del godimento procurato; e questa la sapienza della donna vissuta, preferibile forse all'inesperienza nella giovinetta a' primi passi; e quella lo spensierato abbandono di un'allegria, non mai sazia, «raccomandabile per cene e veglioni»; questa, la timida e pudibonda ritrosìa di una quasi verginità, «non osate e non chiedete troppo a Lucilla»; qualcuna, era chiamata, soltanto, una «buona figliola»: ma che poema di garanzie e di promesse in quella semplice frase: «è una buona figliola!» Giacomo osservava, e ascoltava, un poco stupito suo malgrado. Tutto ciò era così nuovo per lui. — Guardi questa bionda, signor marchese, — diceva la vecchia, — ne à fatte girare delle teste! Agiva alla Scala, l'inverno scorso. Non era che un paggio, nel ballo. Ma che paggio! Un vecchio abbonato mi diceva: «Gambe come quelle, non ne ò vedute mai, in quarant'anni d'abbonamento». Ma Giacomo non si entusiasmava punto. — Ò capito: non è il suo genere questo. A lei la molta roba non piace. Ò da dirgliela? L'approvo. Se fossi un uomo non avrei i gusti che à la gran maggioranza degli uomini. Quando ànno detto: «Che gambe!» ànno espresso il non plus ultra dell'ammirazione. Come se le gambe fossero tutto!... Ebbene, ecco qui un generino di quelli che piacerebbero a me, io che, sarei per giurarlo, piacerà anche a lei. To'! ricorda un poco la Biondina. Giacomo afferrò il ritratto, istintivamente, e lo fissò a, lungo. La Bianchi credette di scorgere in quell'atto un segno d'ammirazione. — Eh? Che bocconcino? Mingherlina, sì.... è tanto giovane! diciassette anni. Ma tutta fuoco, tutta nervi. Quella lì, tal quale la vede, e giovane com'è, e tutta poesia come pare, ne insegna a me ed a lei. Chi ci va, ci ritorna. Giacomo ebbe un impeto di furore. Avrebbe voluto con un pugno buttar da banda la vecchia, e mettere le mani di furia sul terzo plico, che vedeva in fondo alla cassetta. Ma trovò ancora la forza di dominarsi. Non era l'inchiesta soltanto che voleva compiere, ma la vendetta feroce. Avrebbe potuto affrettare quella, ma compromettendo, ma rendendo forse impossibile questa. No, quel ritratto non c'era là dentro, non ci poteva essere: era assurdo che ci fosse: ma pure.... se ci fosse? Avrebbe lottato finora inutilmente? Gettò via lo zigaro, e disse: — No, no, no! queste storie non m'interessano. Ma la Bianchi continuava imperturbata. 42 — Lei forse crede, marchese, che queste ragazze, perchè sono mime o ballerine, non sieno roba prelibata. Crede forse che si possano, incontrandole, fermare per via, invitarle a cena, andarci in casa senza essere stati presentati prima. Ebbene s'inganna. Capirà, non è che mi vanti: può far la prova se vuole. Questa qui, l'Antonietta Gariboldi, balla al Dal Verme. Crede lei che se le scrivesse, al teatro, o l'aspettasse all'uscita, dopo lo spettacolo, accetterebbe un invito? Nossignore. Perchè à un amante, un avvocato, che è un carabiniere. E lei, naturalmente, non vuol perderlo, perchè denari glie ne dà: ma si sa bene, i denari non bastano mai: io glie ne procuro degli altri. E di me si fida, perchè sa che la presento soltanto a chi non la comprometterebbe. E come l'Antonietta tutte le altre di questa cartella. Vede? Ai miei clienti milanesi, crede lei che glieli mostri questi ritratti? Fossi matta! Potrebbe nascere uno scandalo, una lite tra amanti, un putiferio qualunque, e la mia fama sarebbe rovinata. Queste — e batteva leggermente, quasi carezzevolmente colle dita, sui ritratti — queste sono pei forastieri. Vuol sentirne un'altra? La Ginetta.... la Ginetta Cavasini.... dove s'è ficcata?... ah! eccola: guardi 'sta brunetta: una rosa appena sbocciata: prima ballerina all'Eden. Sa quanti l'ànno avuta, a Milano? Neppur uno. E tutti la credono vergine. Ma à una mamma come dovrebbero averle tutte queste ragazze: una donna che à la testa sulle spalle, e che ripete sempre a sua figlia: «Vedi? Sin che ti credono vergine, tutti ti stanno d'attorno, e ti fanno la corte, e ti mandano fiori, e ti battono le mani e il tuo successo aumenta ogni sera, e la carriera sarà presto fatta. Se domani ài un amante, questo allontana tutti gli altri, e servitor suo. Denari ce ne vogliono, d'accordo, per tirar avanti la barca. Ma non ci sono soltanto i milanesi a questo mondo». Non le pare che abbia buon senso quella mamma? E così, come le dicevo, chi per una ragione chi per l'altra, fatto sta che questa è roba sopraffina, e non bastano i denari per assaggiarla. Giacomo fremeva. E come la vecchia non accennava a smettere, la interruppe: — Insomma, vuol farmi andar via senza concludere nulla? — E fece l'atto d'alzarsi. — Là, là, non s'impazienti, — disse la Bianchi. — Non ne vuol proprio sapere? Vuol veder la Biondina, assolutamente? Raccolse le ondine e le fate ed i paggi, e li rinchiuse nella loro busta. Poi, con delicatezza, con circospezione, sciolse il nastrino che chiudeva il terzo involto. Giacomo si sollevò ritto sul busto, e fissò gli occhi su di esso. Il cuore gli martellava; le mani e le gambe avevano un tremito che non gli riusciva di vincere o di dissimulare. Si decideva della sua vita, adesso. — Qui non che cinque ritratti. Anzi quattro: perchè uno è inutile che glie lo mostri. Il nodo del cordoncino era tanto stretto che non riusciva a scioglierlo. E intanto chiacchierava; quei particolari potevano interessare il visitatore. — Vuol che l'aiuti? — disse Giacomo, allungando una mano verso il plico. — Grazie. Ecco fatto. — Oh! vediamo dunque. — Un momento! E la vecchia prese le cinque fotografie, volgendone il dorso verso Burton, perchè non le vedesse. Poi ne scelse una e la ripose nella scátola: — Questa, come le dicevo, è inutile che glie la mostri. Era prima donna al Carcano, or fa qualche mese, ma adesso è andata a cantare a Roma. La conservo qui perchè à promesso di tornare. — Senta, anche le altre — disse Burton — è inutile che me le mostri. Mi dia la Biondina. — Un momento, un momento. Guardi questa, prima; una marchesa. Autentica, veh! Ah! ah! — aggiunse con un risolino — potessero vederlo questo ritratto, i miei concittadini! Che sorpresa!... Una disgraziata, sa? Il marito, un porco, ubbriacone, le à mangiato il fatto suo.... Una storia dolorosa. Burton aveva preso il ritratto, senza guardarlo, e aspettava. — Questa invece è la figlia di un magistrato, diventato pazzo: vive colla madre, dà lezioni di cembalo. Sì, ci vuol altro che il cembalo per sbarcare il lunario. 43 Va bene, e poi? — chiese Giacomo, la cui curiosità ed impazienza giungeva oramai al parossismo. — Quelle due lì non le piacciono? Non mi dice niente?... Ecco la Biondina. Giacomo, rapidissimo, allungò la mano, prese il ritratto, si sprofondò nella poltrona, sollevandolo all'altezza degli occhi per farsene schermo alla faccia. — Eh? Che cosa le pare?... — chiese la vecchia. — Carina! — disse Burton, con voce ferma, indifferente. Era Adelina. Nessun dubbio. C'era persino, a togliere qualunque timore di una curiosa rassomiglianza, il piccolo neo sulla guancia sinistra, vicino all'orecchio. Ed era, inoltre, la stessa fotografia ch'egli aveva in istudio, più piccola però: ma lo stesso abito, la stessa posa: una onesta fotografia. — Carina! — aggiunse ancora, senza tremiti di voce, senza emozione. Avveniva in lui che la certezza acquisita, per quanto disperatamente dolorosa, gli ridonasse quella calma dei nervi e quella quiete dello spirito colle quali aveva agito dal giorno innanzi, fisso nella idea della vendetta, e che aveva perdute da mezz'ora soltanto, dal momento cioè in cui era giunto in via Speronari. In quell'istante, che aveva segnato il vero principio dell'attuazione del suo feroce disegno, se n'era spaventato, era stato lì lì per ritrarsene. E, per giustificare questa paura e questa fuga, la sua mente — per la prima volta — avea preso a considerare con più pacatezza quanto era avvenuto, quanto gli avevano raccontato, e quanto, aveva creduto. Ed era nata la lotta; e, dalla lotta, l'agitazione e l'orgasmo. Entrato là, cominciato il colloquio colla Bianchi, quell'orgasmo, quell'agitazione erano diventati febbre divoratrice. Ora, a un tratto, l'incertezza cessava. La Biondina era l'Adelina. E l'animo di Giacomo ritornava nelle condizioni di mezz'ora prima: quando, convinto della colpa di lei, era sceso a quella porta di via Speronari, là dove veniva a tendere il laccio che doveva procurargli la frenetica voluttà della vendetta. Così, fissi gli occhi sul ritratto, rimaneva in una contemplazione dolorosa ma calma, che durò a lungo, e che la Bianchi, credendola ammirazione ed esame minuzioso di buongustaio, non osò disturbare. Contemplava la fotografia di sua moglie; quella fotografia che si trovava presso quella donna, e con quello scopo! Ebbene? Non lo sapeva di già? La cosa non gli era già nota da ventiquattr'ore? Che impressione poteva ritrarre dalla constatazione materiale di un fatto già conosciuto? Ma ne aveva dubitato! Che sciocco! Come mai ne aveva dubitato, fosse pure per un minuto? Tutte le circostanze che avevano accompagnata la rivelazione di Dumenville non gli avevano data la prova certa, indiscutibile? E il contegno di sua moglie? L'agitazione di lei, da principio; la sua sfrontata sicurezza, dopo, quando egli l'aveva rassicurata colle sue bugie? Che sciocco! Oh! come aveva fatto bene di salire! Come aveva fatto bene di non lasciarsi trasportare dalla rabbia e dall'impazienza! Oh! come sarebbe calmo, adesso, per interrogare ancora la Bianchi, per tentar di sapere qualcosa di più; come sarebbe guardingo e prudente per ottenere quanto più presto, oggi stesso se era possibile, il convegno con sua moglie. Dio! che gioia, di trovarsi faccia a faccia con lei, laggiù alla palazzina, per dirle: — Cortigiana! — sputandole sul viso! Esiste dunque questa curiosa sorta di felicità nella vita! La felicità morbosa e crudele che, dopo il tormento del dubbio, è data dalla certezza acquisita, sia pure di aver subito il maggiore degli oltraggi, e dalla visione netta e sicura di una vendetta pronta e feroce. Mentre contemplava il ritratto, adesso, pregustando la gioia del vendicarsi, un unico e solo sentimento egli provava: quello della curiosità. Come mai sua moglie era precipitata così in basso? Questa domanda se l'era già fatta, poc'anzi. Ma se l'era fatta per potersi rispondere: No, non è precipitata così; non è possibile. Se l'era fatta per giustificare i dubbi e le paure che lo avevano colto, ad un tratto, mentre stava per bussare alla porta della Bianchi. 44 Ora invece la ripeteva a sè stesso coll'acuto desiderio di sapere, di conoscere, gradino per gradino, tutta la scala di colpe, di abbiezioni, di sozzure che Adelina aveva dovuto discendere per arrivare sino alla mezzana. E lo saprebbe! Da lei lo saprebbe, domani, fra poche ore forse. Avrebbe ben dovuto parlare! Avrebbe dovuto giustificarsi, spiegargli, raccontargli, il come e il perchè. Oh! in quel momento, pigliata di sorpresa, non avrebbe avuto tempo di architettare una difesa basata sulla menzogna. In quell'istante di paura, di terrore anzi, trovandosi di faccia a lui, a suo marito, sarebbe stata sincera. Perchè si è sinceri quando si à paura. E ci doveva essere, certo, nella vita di lei, un avvenimento, o strano, o doloroso, o terribile, che l'aveva trascinata in quel fango. Un avvenimento a lui sconosciuto, che lo riguardava anche lui — forse — nel quale era stato attore senza accorgersene, del quale era stato vittima — forse — senza avvedersene. Oppure questa degradazione era la conseguenza ultima e inevitabile e fatale, di un passato che egli, sposando Adelina, non aveva indagato e non si era curato o non gli sarebbe stato possibile di conoscere, innamorato, allora, dalla grazia e dalla bellezza della fanciulla bionda e procace? C'era un'allusione e un presentimento — forse — nelle parole del Galli, quando aveva cercato di dissuaderlo da quelle nozze? E perchè, in tal caso, non aveva detto tutto il buon vecchio, che pure gli dimostrava tanto affetto e tanta stima? Il ritratto sorrideva. Adelina sorrideva a suo marito, lì, nella casa di quella donna. C'era qualche cosa di epicamente terribile in quel sorriso. — Guardi anche questo, — disse la Bianchi per toglierlo a quella contemplazione che diventava persino inquietante. E gli porse un altro dei quattro ritratti che formavano l'incarto n. 3. Burton lo prese, macchinalmente: e come ne teneva già tre, aperti a ventaglio, quest'ultimo fu lì lì per scivolargli di mano. Allora, nel movimento rapido delle dita e degli occhi per trattenerlo, fu trascinato suo malgrado a guardarlo. Una nuova e curiosa sorpresa gli era riserbata. Quell'ultima fotografia che la Bianchi gli aveva offerta, era quella della Bianca Caradelli, l'intima amica di Adelina. A Giacomo parve si aprisse uno spiraglio di luce. La Caradelli? Anche lei? Arrivava dunque a questo punto la loro intimità? Oppure.... cominciava, era cominciata da lì? La Caradelli? Una santa donna! Una creatura angelica! Quanto bene glie ne avevano detto tutti, anche il Galli! Anche il Galli, che l'aveva conosciuta bambina, perchè la Bianca, l'Adelina e le sue figliole erano state compagne di scuola. La Caradelli, che era ricevuta in tante case ammodo, intima di famiglie note e di moralità irreprensibile?! Gli pareva di sognare, ma insieme credeva di aver trovato, in questa inaspettata rivelazione, il bandolo dell'intricata matassa. Che mistero stava dunque per squarciare?... La Caradelli? Oh! lei, lei senza dubbio, aveva trascinata Adelina in quella abbiezione. Certo! La Bianca non era la santa donna che tutti credevano. Era un'avventuriera volgare. Chissà chi era, di dove veniva, che cosa aveva fatto. Aveva raccontato d'essersi sposata all'estero; di aver avuto per marito un uomo indegno, dal quale aveva dovuto separarsi. Ed era tornata a Milano ingannando tutti, sorprendendo la buona fede dei vecchi amici. Ed era stata riaccolta nelle famiglie che l'avevano conosciuta fanciulla, onorata, rispettata, compianta. Una cortigiana!... Lei, lei, aveva sedotta e corrotta Adelina, lei, senza dubbio.... Burton pensò, per un momento, di concludere due contratti colla Bianchi, invece d'uno solo. Pensò di avvicinare anche la Caradelli. Avrebbe chiesto ragione, laggiù, nella palazzina, anche a lei, della sua vita. Le avrebbe chiesto ragione della sua azione scellerata, di aver trascinata in quel fango una creatura buona ed onesta come Adelina. Infame! Infame!... Oh! non era — forse — contro di essa soltanto che dovrebbe sfogar le sue ire? Non era soltanto di lei che dovrebbe vendicarsi? Adelina non sarebbe — invece — che una vittima? Una vittima dalla propria ingenuità, della propria ignoranza? 45 Così, la indulgente bontà di Giacomo, e l'amore, forse, non ancora spento, per sua moglie, trovavano un ultimo sfogo e una desiderata ragione di sussistere, di non morire, in quel cumulo nuovo di pensieri e di supposizioni che il ritratto della Caradelli gli veniva a suggerire. Pensò di interrogare la Bianchi. Erano amiche, queste due? Certo essa lo saprebbe. L'una, senza dubbio, era stata l'introduttrice dell'altra presso di lei. E quale era, stata per prima, fra le due, sua cliente? Quanta luce farebbero a' suoi occhi le risposte a tali domande! Ma ebbe timore di compromettersi. Allora, nella calma che la certezza del fatto gli dava, non conturbata dalla curiosità di conoscerne i particolari, una curiosità che era ben sicuro di poter soddisfare col tempo, e in un tempo brevissimo, egli chiese: — Dunque? Lei m'à parlato della marchesa — mi pare — (gli era rimasta nelle orecchie come l'eco confusa e indistinta delle parole della Bianchi) e della moglie del pazzo. Ma di queste due non mi à detto niente. La Biondina.... è maritata, anche lei? — Si, da un anno. — Ah! Ma il marito non la mantiene? — Eh! — osservò filosoficamente la vecchia, — i bisogni delle donne sono tanti! Giacomo tacque un momento, ripetendo, a sè stesso questa frase, così nuova, così curiosa, così strana per lui: «I bisogni delle donne sono tanti!» Era dunque nascosto in questa frase, susurrata dalla Bianchi senza darvi importanza, il segreto di un'abbiezione che egli avrebbe creduta, sino al giorno innanzi, al di là delle umane degradazioni? Possibile? Possibile che Adelina si desse proprio unicamente per denaro, volgarmente, sfrontatamente, per ritrarre dalla prostituzione di sè stessa i mezzi di soddisfare una mania di lusso o di divertimento? Possibile? E quale lusso, e quali divertimenti? Non conosceva, lui, la sua vita, ora per ora? Non sapeva i divertimenti che si concedeva? Non aveva contate le vesti e i cappellini che portava? Che vi era di straordinario in tutto ciò? Non aveva sempre speso — Adelina — quanto era giusto e possibile ch'ella spendesse, date le rendite di cui poteva disporre?... No, no, ci dovea essere dell'altro. Ci dovea essere qualcosa di ignoto, di incomprensibile, di inindovinabile per ora: qualche fatto strano, qualche avvenimento doloroso, che l'aveva trascinata sì in basso. Aveva un amante povero, forse?! E lo manteneva lei?!... Sì, questo s'era visto molte volte.... Un amante?! Ma se lui, Giacomo, si era sentito amato, sempre, intensamente! No, no! Un mistero, un mistero era là dentro: un mistero terribile.... nel quale, forse, si nascondeva una scusa — una scusa no — una giustificazione per Adelina.... — Allora,? — chiese la Bianchi per toglierlo dalla meditazione in cui era ripiombato. Giacomo si scosse, sollevò la testa, e con un ultimo sforzo, cercò di assumere di nuovo un'aria lieta e disinvolta. — Allora, la Biondina: E quando? — Domani, signor marchese. — Domani? E perchè non oggi? — Oh! impossibile, oggi. — Perchè? — Perchè bisogna che le scriva, e la lettera non arriva in giornata. È già tardi. — Mandata per la posta, no: ma recapitata a mano. La vecchia ebbe un risolino furbo: — Se sapessi dove abita, ci andrei io. — Appunto. — Ma non lo so. Non so neppure come si chiami. — Oh! possibile? — chiese Burton, incredulo. — In parola d'onore. Scrivo alla posta, a un indirizzo convenuto. — Quanto mistero! — Eh! à marito; e non basta: è una signora per bene, molto conosciuta, che va in società, nella migliore società. 46 Giacomo fece il furbo alla sua volta. — Non me la dà ad intendere, questa. Ella sa benissimo chi è, dove sta, eccetera, eccetera. E poichè sa che io sono forastiero, che parto domani, che non c'è pericoli insomma, con me, potrebbe.... — Ma se le giuro. E poi, se potessi, crede che non lo farei? Burton non insistette. Ciò che gli premeva era di riuscir nel suo intento. — Allora, domani. — Domani. Ella vada, alle due, a questo indirizzo. — E gli consegnò un foglietto sul quale aveva scritto il nome di una via, ed il numero. — Sarà introdotto, e troverà la Biondina. Sa non ci fosse di già, non avrà che da attendere qualche minuto. Burton si alzò: — Sta bene. E il prezzo! — aggiunse con un tremito impercettibile nella voce. — L'amico suo che le parlò di me e della Biondina, le avrà detto forse.... Giacomo cavò il portamonete, ne tolse un biglietto da cinquecento lire e lo buttò sulla tavola. Lo pungeva il desiderio di tentare, se era possibile, di spendere meno: tanto per sapere a che prezzo minimo si comperavano i favori di sua moglie. Ma capì la necessità di non sollevar sospetti di alcuna natura. Prese il cappello, ed uscì, accompagnato dalla Bianchi, che seguitava a ringraziarlo, inchinandosi. Egli infilò la porta e scese le scale a precipizio. Quando fu di nuovo nella carrozza che lo riportava alla locanda, scoppiò in un pianto dirotto, angosciosamente disperato. 47 III. Il treno diretto era partito il mattino da Parigi e correva velocissimo verso il Mediterraneo. Bianca Caradelli, vestita a bruno, raggomitolata in un angolo dello scomparto, immobile, gli occhi pieni di lagrime, riandava colla mente il suo passato tenebroso, senza trovarvi un ricordo buono, dolce, sereno. L'ultimo dolore, la morte della bimba adorata, avvenuta tre giorni prima, aveva annientata la sua fibra, in lotta da cinque anni col destino terribile, feroce. La sua bellezza di matrona giovine e forte s'era distrutta poco a poco in quei cinque anni di vita parigina, piena di orgie forzate e di dolori immeritati. Ritornava in patria, adesso, vinta. Il treno correva velocissimo: pure il viaggio era lungo, e le ore parevano eterne. Bianca si alzò e tolse dalla reticella una piccola sacca nera. Si rincantucciò di nuovo: alzò il velo fittissimo che le ricopriva la faccia: aprì la sacca, ne tolse un pacchetto di lettere. Erano quelle di Adelina, ricevute regolarmente a periodi quasi sempre uguali e brevissimi durante quei cinque anni in cui era rimasta lontana dall'amica intima d'infanzia. Le uniche lettere che aveva conservate. Quante, da quanta gente, ne aveva ricevute! Di blasonate, di profumate, di intime, di inconcludenti, di banali, di appassionate. Ma le aveva distrutte, prima di partire. Queste sole di Adelina aveva conservate, e le portava con sè: erano tutto ciò che le rammentava la sua giovinezza serena: rappresentavano — esse — tutto ciò che di più onesto — o di meno disonesto — c'era stato nei suoi rapporti e nelle sue relazioni con gli uomini e con le donne che aveva conosciuti e trattati da cinque anni in qua. C'erano tutte, quelle lettere, amorosamente conservate in ordine di data. Bianca svolse il primo foglietto e lo lesse. Poi altri, scorrendo appena le lettere meno importanti; rileggendo invece, assaporando quasi, le più intime, le più dettagliate, quelle in cui l'amica, sinceramente, raccontava la sua vita. Vi cercava un sollievo ai propri dolori, egoisticamente compiacendosi dei dolori altrui? Oppure voleva ritrarne il coraggio di ripresentarsi all'amica, convincendosi che la sua esistenza non era poi tanto indegna di accoppiarsi e di unirsi a quella di lei? Mercoledì, 3 maggio 1884. Cara Bianca adorata, Sei partita da otto giorni e mi paiono otto secoli! E perchè ài aspettato tanto a scrivermi e a darmi il tuo indirizzo? Così per otto giorni, ò provato, oltre al dolore di non aver tue notizie, anche quello di non poterti dire.... tante cose, tante, se non tutte quelle che potevo dirti, e ti dicevo, quando eri qui. Bianca mia, tesoro mio, ti eri dunque dimenticata della tua Adelina? Possibile? No, nevvero? Scrivimi subito che ài pensato sempre e che pensi a me.... Che mi pensi!... Come sei stata cattiva! Sei partita martedì scorso. Giovedì mattina devi essere giunta a Parigi, ed oggi, oggi soltanto, ò avuta la tua prima lettera. E che lettera! Sette righe, le ò contate, sette righe! Capisco le cure del nuovo soggiorno, la novità dell'ambiente, il lavorìo dell'allogarsi in una casa nuova. Ma via, tutto codesto nuovo non doveva farti dimenticare l'amica.... Oh! come è vero che lontan dagli occhi lontan dal cuore! E poi, quelle sette righe, che miseria! Non una frase veramente affettuosa, non una parola di quelle che m'intendo io! Decisamente, vuoi farmi rimpiangere, ancor più che non rimpiangerei anche senza questa tua freddezza, i bei tempi del collegio, quando mi scrivevi.... ricordi?..: firmandoti «Ugo». Così, ti punisco, e smetto. Volevo scriverti a lungo, dirti tante cose. Aspetterò a farlo quando vi sarò autorizzata da una tua lettera.... 48 Chè se la lontananza vuoi che sia sinonimo di abbandono, devi avere almeno il coraggio di dirmelo. La zia ti saluta. Io.... ti bacio. ADELINA. 9 maggio 1884. Tesoro, tesoro, tesoro! Sì, tu ài tutte le ragioni, io ò tutti i torti! Il viaggio, le persone nuove, tutto il brouhaha parigino!... Avevi fatto anche troppo mandandomi quella sette linee. Ed io ò avuto il coraggio di lamentarmi e di rimproverarti! Ma cosa vuoi che capisca, cosa vuoi che sappia, io, povera bietolona di diciannove anni, vissuta sino a due anni or sono in un collegio, e poi qui, in questa piccola città che è Milano, in questa piccola casa che è quella della zia? Ò delle idee piccine, ecco! Però, bada, non montare in superbia, adesso, perchè sei a Parigi. Che tu abbia a formare la mia educazione, a darmi il la insieme coll'ultimo figurino della moda, sta bene. Ma un poco alla volta, con affetto, con indulgenza. Infondimi la scienza nuova da amica, da sorella, senza salire in cattedra.... Sai che se il presente ci divide, il passato ci unisce. E non posso accordarti nessuna superiorità,.... Siamo unite per la vita e per la morte. Qui, il solito tran-tran. Una vita noiosa, senza raggio di sole poichè tu non ci sei più. Vivo di ricordi; e affretto col desiderio il tuo ritorno. Bianca mia! Vedi, io sono tentata di mettermi a piangere, e di buttar giù otto o dieci pagine piene di lagrime e di baci, quali ci scrivevamo in collegio. Ma allora, tempi beati! ce le scrivevamo per ridere.... cioè no, sul serio, ma per ingannare il tempo, invece di fare i cómpiti e di studiar le lezioni. E ce le scambiavamo appena uscite di classe, quando suonava la campana della ricreazione; e, ricordi? correvamo a nasconderci in fondo al giardino, dietro la fontana, e là le leggevamo.... Senti; in questi due anni passati insieme qui a Milano, dopo il collegio, non ò mai rimpianto quella vita; anzi! Ma adesso che dobbiamo vivere divise, lo credi? la rimpiango. Piuttosto il collegio, che lontana da te.... Almeno, là, molte ore le avevamo per noi, per noi sole, tutte per noi! Che fai in questo momento? Mi pensi? In casa niente di nuovo. Fuori, poco o nulla. La zia mi cerca marito. Il banchiere, Totò, l'aiuta. Poveretti, avranno un bel cercare! Sono bellina.... (me lo dicevi tu, ed io ti ò creduto sempre!) ma non ò un soldo di dote! Bianca mia, non essere gelosa: il marito è ancora di là da venire.... molto di là da venire. E tu, piuttosto? Tu? Questa improvvisa partenza mi è parsa un pochino misteriosa. Perchè la tua mamma, un bel giorno, un brutto giorno, ti à detto: «Andiamo a Parigi?» E, detto fatto, avete preso il treno, e via? Perchè? Lo zio? Che zio? Chi ne aveva parlato mai dello zio?... Delle conoscenze, delle amiche a Parigi, si sapeva che ne avesse tua madre. Ma uno zio?... Dimmi la verità: è un marito che vogliono darti? Il figlio di qualche amica che abita costi? Dimmi la verità, ti scongiuro. Dimmi se indovino. Non potrei impedirlo, lo so, non ò nessun diritto: ma, almeno, che si sappia di che male s'à da morire. Ecco; ò perduto anche quel poco d'allegria che mi restava! Ò in mente, adesso, che non tornerai più. Che i tre mesi d'assenza progettati diventeranno sei, dodici, cento! Dimmi la verità. A quest'ora devi aver capito tutto. Tra noi non ci possono essere misteri. Scrivimi subito. Ti bacio. ADEL.... 49 Domenica, 14 maggio 1884. Dio, che gioia mi à data la tua lettera, Bianca mia! A proposito, e finchè me ne ricordo: non scrivermi più qui, all'indirizzo della zia. Per dir meglio: scrivimi ogni tanto una letterina qualunque; qui, dirigendola alla signorina Adelina Olivieri: ma le lettere che debbo leggere io sola, — cioè quasi tutte, bada! — dirigile ferme in posta. Ò già trovato il mezzo di andarle a prendere. Ò durata una fatica, iersera, per non mostrare la tua lettera alla zia! E come mostrarla? Francamente!... Non ci avevi pensato, tu? Dunque, ài capito? Adelina Olivieri fermo in posta. Via e numero, soltanto quando parli del bello e del brutto tempo. E come ciò mi interessa mediocremente, ne basterà una al mese di codeste lettere ufficiali. Che gioia, che gioia, la tua di iersera! Niente marito?... Oh! tu sai che non è l'invidia che mi fa parlare così! Però, sulla quistione del ritorno, non dici una parola. Dividi dunque anche tu le mia paure, che l'assenza si debba prolungare, e forse di molto? Non ài osato, o ti sei dimenticata di rispondermi su questo? Ma, Dio santo, devi aver ben capito che intenzioni abbia tua madre. Che dice? Che fa? Questo zio benedetto ritrovato all'ultim'ora vi vorrà tener con sè tutta la vita? No, no, non voglio martoriarmi, adesso, in queste supposizioni tristi. Oggi sono allegra, sono quasi allegra, a causa della tua lettera buona. Bellissimo il figurino di quella capotine che mi ài mandato. Stamane sono uscita colla cameriera, e sono andata a comperare un fusto: poi, con del tulle bianco, con dei crisantemi d'ogni colore che avevo in casa, mi son messa a lavorarci attorno; e ò agucchiato per due ore; credo di essere riuscita a copiare il modello per bene. E mi sta che è un amore. La sfoggierò stasera, chè zio Totò mi conduce al Dal Verme. Adesso mi son messa a chiamarlo zio, tanto per fare 'na cosa, come diceva quell'istitutrice napoletana. La zia, la prima volta, si è spaventata un poco. Zio? Ma io l'ò detto e l'ò ripetuto con tanta grazia infantile, con tanta ingenuità, che le paure le sono passate. E poi non abuso. Una volta ogni tanto; nei momenti d'espansione! Perchè non si sposano, poi, non sono ancora riuscita a capirlo. Ti ò nominata la cameriera. È una nuova, che abbiamo da otto giorni. La Cleofe abbiamo dovuto mandarla via. Cioè, l'à licenziata, su' due piedi, la zia, perchè si è accorta che amoreggiava con un furiere del Genio. — À certi scrupoli, zia Ermelinda, che sono una meraviglia. La nuova è una veneta, si chiama Bettina, come le cameriere dei proverbi in versi martelliani. Una ragazza tutta zucchero, tutta flemma, tutta calma: «Siora sì, come che la comanda, la diga pur, no la se scomoda.... » Ma dev'essere, in fondo, una tale stoffa!... Basta, io, a buoni conti, me la sono attirata dalla mia; le ò fatto capire che chiuderò un occhio se essa li chiuderà tutti e due. E sarà lei che mi condurrà alla posta a ritirare le tue lettere. È strano, sai, che a questo mondo si debba fingere sempre, non solo per vivere tranquilli, ma per essere rispettati dalla gente! Vedi come è tutto menzogna e ipocrisia quaggiù. E dappertutto dove vai, con chiunque parli, più vedi, più osservi, tutto è finzione. La direttrice era una santa donna: e tu sai come me che se la intendeva col maestro di geografia. La mamma della Parodi, un'altra santa donna, povera signora disgraziata, eccetera, eccetera, il modello delle mamme. E chi non si era accorto che veniva a vedere l'Enrichetta proprio nell'istessa mezz'ora che veniva il papà della Sangalli? — Uscite di collegio, ne abbiamo vedute delle finzioni e delle ipocrisie, attorno pel mondo, eh? Qui in casa mia, per esempio, non per malignare, Dio mie ne guardi, ma insomma zia Ermelinda e Totò si vogliono bene. Possono dirlo alla gente? Nossignori. Debbono nasconderlo a tutti, altrimenti la gente risponderebbe corna, e la zia sarebbe messa al bando dalla società. Io e te, per finirla di filosofare (chissà perchè, poi, oggi mi sono messa a filosofare), io e te saremo costrette a scriverci di nascosto, perchè il mondo non permette che due ragazze si amino come ci amiamo noi e si dicano 50 quello che pensano. Senti, io credo che quelli che propugnano l'abolizione del matrimonio, e di tutto quanto, abbiano mille ragioni. Ti parrà che ci sia poco nesso in quello che ti scrivo: ma ripensaci un momento e vedrai che il nesso c'è. Sto leggendo un libro divertentissimo che ò trovato in casa, dimenticato in fondo a un cassetto: «Tous quatre» di Paul Margueritte. Se ti riesce di procurartelo, leggilo. Anzi te lo manderò io se potrò fartelo avere senza che mammà tua lo veda. Perchè è uno di quei libri che le ragazze non devono leggere. Altra ipocrisia come sopra. Ciao, tesoro. Bacioni e bacini da ADELINA tua. P.S. Piove. Niente capotine, stasera, perchè zio Totò è anche un poco avaro e sarà difficile che prenda, una vettura.... colla scusa che abitiamo vicino al teatro. 28 settembre 1884. Auff! Finalmente, Bianca mia, eccomi di ritorno a Milano. Che noia, che noia questi due mesi passati sui monti! Lo credo che le mie lettere erano diventate uggiose! Anzitutto, girottolando sempre, mi era reso impossibile di aver le tue, che mi avrebbero rimontata un poco. A proposito, qualcuna, certo, sarà rimasta in qualche alberguccio di montagna, giuntavi dopo la mia partenza. E tu che m'invidiavi! Sì! Fossi stata a Saint-Moritz o ad Alagna, o al Maloja, in un grande hôtel pieno di gente, pazienza! Mi ci sarei forse divertita. Ma pensa: partir da Milano e gironzolar due mesi su per i monti, trattenendosi tre giorni qua, otto là, dieci più in su, altri otto più in giù, sempre negli alberghetti meno frequentati, dove non c'era una faccia di persona ammodo, dove non c'era un cane con cui scambiar due parole: sempre noi tre, eternamente noi tre: io, zia Ermelinda e Totò. E tutto perchè? Per salvar le apparenze: e Dio benedica le apparenze e chi le à inventate! Una volta, per forza, si dovette pernottare in un grande hôtel, sai, di quelli dove ci si mette in decolleté per andare a pranzo. Desinare e pernottare, soltanto, veh! ma impossibile farne a meno: partendo da dove eravamo per andare dove si voleva andare, nessun altro luogo che quello per passar la notte. Che si fa? Io e la zia in una carrozza, Totò in un'altra, a mezz'ora di distanza. Tu capisci? Si fosse, per avventura, trovato colassù qualche milanese, qualcuno di conoscenza, Totò e zia Ermelinda incontrandosi, avrebbero fatte le grandi meraviglie, e si sarebbero detti: «Oh! che combinazione! Lei qui? E lei? Oh! ah! uh!» La gente, naturalmente, non ne avrebbe creduto un fico di tutto ciò: ma le apparenze sarebbero salve: e il mondo avrebbe perdonato l'incontro, perchè combinato con tutti i riguardi dovuti; mentre avrebbe gridato all'obbrobrio se fossimo arrivati tutti e tre insieme in una sola vettura. È così, Bianca mia. Me ne convinco ogni giorno di più. Il mondo perdona sempre ad una donna di avere un amante, a patto che sia uno solo: anzi, glie lo concede volentieri; ma vuol essere lui a concederlo: non vuole che la donna glie lo imponga. Guai à qui s'affiche! Zia Ermelinda tutto questo l'à capito benone, e la fa in barba al mondo. Così è amata, rispettata, ossequiata. Ma per me, che mi trovo a dover dividere soltanto le noie di quaste pruderies e di queste finzioni, capirai che gusto! Naturalmente essa non si illude mica di darla ad intendere anche a me: ma di me si fida. Io poi mi diverto a tormentarla un pochino, ogni tanto. A metà delle nostre peregrinazioni, un giorno, stanca morta, annoiata, le ò detto: — Ma non si potrebbe fermarsi in un buon hôtel dove ci sia un po' di gente, e qualche passatempo? Allora lei, con gran bonomia: 51 — Vedi, cara, non è conveniente. La gente è maligna: non ammette che una signora e sua nipote che vogliono passare un mese in montagna, non avendo uomini in famiglia, scelgano la compagnia di un vecchio e buon amico. La gente penserebbe e direbbe chissà che cosa. E bisogna adattarsi alle esigenze e ai pregiudizi della folla. Anzi, tornando a Milano, non converrà neppure di dire che siamo state coll'Orlandi; per evitare pettegolezzi e supposizioni ridicole. Allora io divenni feroce. — Senti, zia; per parte mia non ò nessuna paura; non si potrà mai credere che ci sia qualcosa tra me e quella botticella impagliata di zio Totò. — Oh, Adelina! Sono scappata a cogliere degli edelweiss. L'avevo detta grossa: ma anche la pazienza à un limite. E così sono passate le vacanze, Bianca mia! Due mesi di noia, di orribile noia, di disperatissima noia! Ma abbiamo salvato le apparenze: e potremo andare ancora a testa alta nei salotti della A., della B., della C.; potremo ricevere la D., la E., e la F.; e nessuna delle nostre amiche, fino alla Zeta, avrà diritto di elevare il minimo dubbio, di arrischiare la più piccola supposizione. Come vedi, faccio esperienza, tesori di esperienza. E se, un dì o l'altro, dovrò proprio prendere marito per levare alla zia il peso di me stessa, entrerò nel mondo ben corazzata! Scrivimi, e dimmi che mi vuoi bene. Per ora, di buono, di caro, di vero, non ò che te. ADELINA tutta tua. 12 gennaio 1885. Bianca mia! Come ò indovinato, eh? I tre mesi sono già diventati otto e ancora non parli di ritorno. Anzi, si capisce dalle tue lettere che non osi dirlo apertamente, ma che sai già o ài la convinzione che non tornerai più, salvo qualche nuovo avvenimento nella tua vita. Dovevo immaginarlo. Oh! quando sei partita, qualcosa dentro il cuore mi diceva che ti perdevo per sempre!... Per sempre? Ah! no. Cascasse il mondo, ma ci dobbiamo rivedere: non so quando e non so come; non so se verrò io a raggiungerti allorchè proprio avessi perduta ogni speranza di un tuo ritorno; non so in che modo e per quali circostanze strane riescirei a far questo: ma so che dobbiamo rivederci. Ci apparteniamo troppo, mia Bianca! Quando ti ò accennato, altra volta, in una mia lettera, a questi miei dubbi e a questi proponimenti, mi ài risposto di non fare delle pazzie e di non pensarle neppure. No, no! sta tranquilla, non ne farò! Ma ò fede nell'avvenire. Questa vita non durerà sempre così. Però, lásciatelo dire: diventi terribilmente seria e ragionevole. Che succede? ADELINA. Bianca sentì, a questa frase, le lagrime scorrere a un tratto più calde e copiose sulle sue gote. «Che succede?» chiedeva Adelina. Oh! la verità, la verità orribile non l'aveva detta, e le era parso — allora — che non l'avrebbe detta mai! Il treno s'era fermato. Bianca ripiegò le lettere lette fin, qui, e le ripose. E mentre, sotto l'ampia tettoia della stazione di Lione, era un frastuono di voci e di rumori, e un correre e un affannarsi di viaggiatori, di facchini, d'impiegati, essa continuò nella lettura, scorrendo le lettere insignificanti, senza importanza di racconti o d'impressioni, che seguivano nel plico, cercando di astrarsi, di non dar retta, di non porgere attenzione a tutto quel fracasso e a tutta quella fantasmagoria di persone 52 che riempievano la stazione, e che la richiamavano alla dura e dolorosa realtà della sua vita presente. Il treno si rimise in cammino. 12 luglio 1885. Mia cara Bianca, Ecco, oggi, impensatamente, un argomento nuovo, per il quale avrò modo di variare il tema solito delle mie lunghe lettere di ogni giorno. Ma è un argomento serio e doloroso e grave. Grave anche per me. Perchè quanto è accaduto avrà forse, dovrà forse avere una grande influenza sul mio avvenire. Io voglio e debbo dirti tutto, acciocchè tu mi consigli (chi potrebbe consigliarmi se non tu?), e mi dica se quanto penso di fare non è giusto, se la risoluzione che mi pare di dover prendere non è buona e giudiziosa. Oh! ti giuro che preferirei intrattenerti, anche oggi, soltanto colle mie chiacchiere vuote. Bianca, Bianca mia, che brutto mondo è questo in cui viviamo. Quante sozzure, quante bassezze ci circondano; e noi, tante volte, neppure ce ne accorgiamo! Anche oggi ò acquistato un granellino di più d'esperienza: e una illusione di più se n'è andata. Il preambolo è lungo; ma, che vuoi, non so neppure come cominciare. Per la prima volta in vita mia, forse, sono veramente angosciata; e sento di aver perduta, stamane, in un attimo, tutta la gaiezza spensierata che era del mio carattere. Tu mi perdonerai, non è vero? se ti dirò che oggi ò provato un dolore più forte di quello che provai quando mi lasciasti per recarti a Parigi, e anche quando mi scrivesti che bisognava rinunciare alla speranza di rivederci presto perchè la tua mamma aveva deciso di prendere fissa dimora costì? Mi perdonerai? Ascoltami. Tra Orlandi.... Ecco la prima volta che non mi sento più il coraggio di scherzare su di lui! Ecco la prima volta che non posso e non debbo chiamarlo Totò!... Tra Orlandi e zia Ermelinda ci fu stamane una scenata. Essa non à mutato in nulla i loro rapporti, ma.... muterà forse i miei con loro due. Io non vi ò assistito, per fortuna ma ò udito tutto. Come e perchè mi fu dato di udirla, non so. La zia mi credeva fuori di casa? Oppure, nella foga irrompente del dire, offesa, indignata, umiliata, a volta a volta implorante e imprecante, si è dimenticata di me? Fatto sta che, richiamata la mia attenzione dalla concitazione del dialogo, io mi avvicinai alla porta, e stetti in ascolto. E non me ne pento. Era bene, anzi, era giusto che io sapessi quello che ora so. Non ti riferirò parola per parola, quanto ò udito. Non lo saprei neppure, nell'orgasmo e nella eccitazione in cui ancora adesso mi trovo. Nè ti potrebbe importare. Ti dirò solo quello che più preme. La discussione era cominciata sull'argomento delle vacanze imminenti. Dove si passerebbero i due mesi dalla metà di luglio alla metà di settembre? Sino a quando rimasi in collegio tu sai che, salvo una quindicina di giorni che zia Ermelinda mi teneva con sè, il resto delle vacanze lo passavo colle mie compagne che non lasciavano il convitto: e si andava ad Arona. L'anno scorso (il primo che mi trovavo.... in famiglia — chiamiamola così) sai che abbiamo fatto: si gironzolò sulle Alpi. Quest'anno si trattava, pare, di decidere oggi che cosa si farebbe. Ogni sito di acque di cura climatica proposto dall'Orlandi veniva scartato dalla zia. Dappertutto, il pericolo di trovare dei milanesi, o, per lo meno, della gente che si conosce: e l'Orlandi è noto più della bettonica. La zia non vuole compromettersi. L'Orlandi aveva un bel proporre: — Tu e Adelina, mi precederete, io vi raggiungerò dopo due giorni, — tutto inutile. Zia Ermelinda ribatteva: Non la si dà ad intendere a nessuno. 53 — Ebbene, — replicava lui, — poichè non la si dà ad intendere a nessuno, non curiamoci della gente e facciamo i nostri comodi! La discussione era press'a poco a questo punto, e durava già da un pezzo e si era di già raggiunto un diapason abbastanza alto, quando la zia ebbe come un attacco di nervi. — Dio! Dio! che vita d'inferno! non si può durarla così! Si mise a piangere e, quasi, a strapparsi i capelli! — Ah! non si può durarla così? — sbofonchiò allora l'Orlandi. — Non si può durarla così? Ma possiamo smetterla, quando volete, amica mia. Nessuno vi ci obbliga, ed io meno di chiunque.... No, no, Bianca mia, mi ripugna di continuare! Senti: non sono — e tu lo sai — una fanciullona tutta innocenza, tutta candore, tutta ingenuità, come forse ce n'è qualcuna al mondo. Non so se in grazia o per colpa della circostanze speciali della mia vita; o perchè ebbi un'infanzia e una fanciullezza tutt'altro che serene e liete; o se per maggiore acume e più fine intuito che natura mi abbia dati; fatto sta che conosco, e capisco, e indovino molte e molte cose di quelle che alle ragazze non si dicono, e che esse, quando le sanno, fingono di ignorare. E non solo credo di possedere questa scienza della vita, che, dopo tutto — io suppongo — è utile di apprendere anche prima di maritarsi: ma so valutare il bene ed il male; so che importanza bisogna dare quaggiù — considerato il mondo com'è — e considerato anche che non sarebbe in nostro potere di mutarlo — che importanza bisogna dare al bene ed al male: — so che il bene è sempre da lodarsi meno di quello che si vorrebbe, e il male è da rimproverarsi sempre meno di quello che si dovrebbe. Sono scettica, in una parola, e pessimista. Per natura, forse, e per esperienza; quell'esperienza che si fa anche soltanto osservando le persone e le cose, quando si sa osservarle. Sono quindi disposta, ed anzi propensa, a non stupirmi di nulla: cioè sì, a stupirmi quando trovo il bene ed il buono assoluti, in qualcuno e in qualcosa: a stupirmi che ci sia ancora qualcosa di veramente buono, e qualcuno cui sembri valga la pena di operare il bene. Come vedi, entrata nel mondo (per così dire) da tre anni soltanto, io so già a ventun'anno, à quoi l'on doit s'en tenir. Nè ti deve stupire. Di questi tre anni, due li abbiamo passati insieme: abbiamo osservato e ragionato assieme sugli uomini e sulle cose: ci siamo aiutate reciprocamente a formarci un giudizio nostro, sulla società e sulle sue leggi. E quel giudizio non è sbagliato: ogni giorno che passa me ne convinco di più: e altrettanto, certamente, è accaduto a te. E mi convinco sempre più che i disegni che noi formavamo pel nostro avvenire, erano giusti e sensati: e che le idee, le aspirazioni, i sentimenti, coi quali ci proponevamo di entrare nel mondo erano i soli possibili e pratici, dato il mondo qual'è; e che i metodi di vita che ci proponevamo di seguire, quali si fossero le circostanze della vita, erano quelli soli che ci avrebbero procurato il benessere e la felicità, e il rispetto della folla, della folla che vuole gli individui eguali a sè stessa, e che è più facile loro perdoni d'essere ad essa inferiori che non li esalti e li onori trovandoli migliori di sè. Ebbene: tutto questo ò voluto ripeterti qui, adesso: per dimostrarti che sono quale mi ài lasciata; che non ò mutati i miei sentimenti da quando sei partita. Ò voluto ripeterti tutto questo per dirti poi che, quantunque così — come dire? — così corazzata, e disposta a non stupirmi di nulla, oggi ò dovuto stupirmi; e adesso, mentre ti scrivo, una grande amarezza mi sale dal cuore alla gola, e provo un senso di nausea nel raccontarti quello che ò udito oggi. Senti: non so che avverrà di me: non so che cosa mi riserbi il destino. Ma se.... finirò male (sì, sì, oggi ò di queste idee, di questi dubbi, ed è giusto che li abbia), se finirò male, vorrò ben vedere che curiosa faccia avrà quel tale che troverà il coraggio di rimproverarmene, di farmene una colpa. Perchè la mia vita è questa: non ò conosciuta la mia mamma, morta mettendomi al mondo; quasi non ricordo mio padre, morto quando avevo otto anni, lasciandomi sola quaggiù e senza un quattrino; fui raccolta — per modo di dire — da una zia che pensò bene di liberarsi di me e delle noie che avrei potuto darle, affidandomi ad un collegio, dove rimasi dieci anni, e dove essa veniva a vedermi otto o dieci volte all'anno. Quando, proprio, dal collegio (perchè ero una ragazza.... da marito), mi avrebbero mandata via, essa à dovuto decidersi a togliermene, mi à condotta in questa casa 54 dove non ò trovato certo nè amorevoli cure (se non nelle apparenze), nè onestà d'esempi (se non nelle apparenze ancora), nè tranquilla regolarità d'esistenza (se non nelle apparenze, sempre!). Un'unica cosa buona, nella mia vita, un unico ricordo affettuoso: tu, e la nostra intimità, la nostra amicizia.... Ed oggi.... No, no.... non posso continuare, adesso.... Io, la scettica, ò gli occhi pieni di lagrime. Che amarezza! mezzanotte. La sai la verità? La verità è che la zia non è soltanto, come io credevo, l'amante di Orlandi. È qualcosa di più e di peggio. È la sua schiava.... C'è una parola che dice meglio, che dice tutto, crudamente. Ma non la voglio scrivere. Oh! non perchè sono una fanciulla (lo sono ancora? Essere fanciulla consiste proprio soltanto nell'aver diritto ai fiori d'arancio?), ma perchè si tratta della sorella di mia madre! Bianca, parlo con te, ed è come parlassi a me stessa. E, forse, viedi? non parlerei neppure a te di tutto questo, se non ci fossi costretta più ancora che da un irresistibile bisogno di espansione, dalla necessità in cui mi trovo di chiedere consiglio, e aiuto forse, a chi sola può concedermeli. Rimasta vedova e quasi povera — perchè la pensione governativa che la morte del marito le procurava non poteva bastare alle aspirazioni di benessere e di lusso che, lui vivo, e facendo dei debiti, le era stato possibile di soddisfare, la zia aveva accettata l'interessata amicizia dell'Orlandi, ma colla speranza, colla convinzione anzi, che sarebbe riuscita a farsi sposare. Ne' suoi calcoli, quell'amicizia accordata non doveva essere che un anticipo, per parte sua, sui diritti del futuro marito: e l'aiuto pecuniario accettato, un anticipo, per parte di lui, dei suoi futuri doveri. Ma molti anni sono passati senza che l'Orlandi si sia deciso a realizzare il sogno della zia. Egoista e calcolatore, egli non à trovato necessario di compiere un atto che non gli avrebbe dati maggiori diritti di quelli che già possedeva, mentre gli avrebbe imposti maggiori doveri, o, per lo meno, avrebbe resi quei doveri e quegli obblighi indeclinabili per tutta la vita. Tutto questo ò udito, oggi, dagli sfoghi angosciosi della zia, non smentiti, anzi confermati cinicamente dall'Orlandi. Capisci? Ed io che credevo di dover tutto a lei, ò saputo costì che non le devo nulla o quasi nulla. Un signore che non conoscevo sino a ieri, posso dire, che non è nulla per me, e che odio adesso, è quello che à fatto le spese. Credevo di dovergli dei palchi in teatro! No: gli devo il pane che mangio, le vesti che indosso, la casa nella quale abito. È lui che paga! Ah! ah! ci raccontavano, quando eravamo piccine, che noi si nasce dai fiori: che quando viene al mondo un bambino, gli angioletti in cielo sorridono e cantano in coro. Vorrei sapere, io, da che curioso fiore sono sbocciata, e che strana canzone macabra ànno cantato gli angioletti quando io sono nata! Che amarezza! Bianca: sino a ieri mi gloriavo in cuor mio di non essere una fanciullona; di sapere, di aver indovinate tante cose; e ridevo delle mie amiche bietolone tutte ingenuità, tutte candore. Non rido più, e non mi glorio più, oggi. Come è brutto di sapere! E piango! Non sono dunque scettica come credevo di essere; non sono dunque, ancora, così cattiva come, sino a ieri, quasi quasi mi faceva piacere di trovarmi. Rimane dunque ancora qualcosa di ingenuo, di candido, di tenero, di buono, di.... onesto in fondo al cuore. Rimane? No, no: rimaneva sino a stamane. Ora tutto è svanito, tutto è perduto. Conosco il passato, e prevedo l'avvenire. Ed io che scherzavo nelle mie lettere — ricordi? — sui rapporti tra zia Ermelinda e l'Orlandi! Io che, nella mia piccola cattiveria di fanciulla lo chiamavo zio!... Oh! benedetta quella cattiveria: c'era in essa, ancora, dell'ingenuità! Me ne accorgo adesso. Come era ingenua quella mia furberia da fanciulla disinvolta e vissuta! Quante cose ò imparate, oggi, in mezz'ora, io che credevo di saper tutto! Comincio a vivere, oggi, a ventun anno: comincio oggi a camminare sulla mia strada, sola, colla coscienza di quello che sono, di quello che valgo, di quello che posso sperare. Tu vedi che non è bello il punto di partenza. Come sarà quello d'arrivo? Seguiterò a discendere, o troverò mezzo di risalire? 55 Che fare adesso? Andarmene? Fuggire da questa casa? E dove? A far che? Capisci? Mia zia aveva dei denari da spendere, e mi à fatta educare in un collegio di signorine. A fin di bene, naturalmente. Io dovevo essere la nipote della signora Orlandi, della signora Orlandi milionaria; la sua pupilla, forse; la sua erede. Povera donna! Ma il fatto è che, oggi, completata la mia educazione, io non so nulla e non so far nulla. Mi avessero messa, tredici anni fa, allorchè è morto mio padre, all'orfanotrofio, laggiù a Porta Magenta, nelle «Stelline», adesso sarei una cucitrice, una stiratora, una sarta, che so? una telegrafista, una serva! E, forse, meno disgraziata di quello che sono. Così, che posso fare? Dove posso andare? A chi chiedere aiuto, consiglio, ospitalità? Oh! Bianca, dimmi tu, dimmi tu, una parola buona, una parola sensata, che valga a rincorarmi, a rischiarare questo buio che mi circonda. Vedi: al principio di questa lunga lettera ti ò detto: prenderò una risoluzione energica, anzi l'ò già presa. Era quella di fuggire. Per andar dove, non so. A far la cameriera, in qualche casa: non potrei far altro.... a meno di scendere in istrada ed offrirmi al primo uomo che passa.... Ma me ne manca il coraggio, e mi pare di non averne il diritto. Non mi sento il coraggio (vedi che sono sincera), non mi sento il coraggio di affrontare una soluzione onesta, virtuosa: se lo trovassi, capisco che non ci resisterei. E ciò, malgrado il disgusto di cui mi sento invasa, oggi, dopo quello che ò udito ed appreso. Che farci? Quella che sono moralmente, non la sono per colpa mia. C'è contraddizione, forse, tra quel disgusto e questa mancanza di coraggio: ma non saprei spiegarla. È così. A te sola posso confessarmi qual sono, a te sola che puoi comprendermi. E mi pare di non avere il diritto di disporre liberamente di me...., del mio corpo, per parlare più chiaramente. Anche questo, che non so spiegare, è così. Non ci si decide da sè, neanche nei momenti più desolati, qual'è quello nel quale mi trovo. Non è un residuo d'onestà e di pudore. Te l'ò detto: a ventun anno, non ne ò già più. E non è colpa mia. Non è onestà, malgrado lo schifo per la disonestà che mi circonda.... È.... non so che cosa. Non saprei spiegarti il sentimento che provo, altrimenti che ripetendoti la frase di prima: mi pare di non averne il diritto: cioè, che io non posso, non posso — capisci? — concedere questo diritto a me stessa. Fossi amata ed amassi, ah! questo sì, lo sento, non ti avrei neppur scritto, e a quest'ora mi sarei già buttata tra le braccia dell'uomo amato, senza chiedere nulla, senza sperar nulla, ma coll'unica consolazione e coll'unica soddisfazione di essere tolta di qui prima di tutto, e di trovarmi avviata, domani, su una strada qualunque: quella del Municipio.... od un'altra. Perchè non ci si decide da sè. Bianca: spunta il sole. Ò trascorsa la notte a scriverti, ad aprirti l'anima ed il cuore. E mi pare di già un sollievo. Oh! campassi mille anni e mi capitassero le più bizzarre avventure, non dimenticherei mai questa notte del 12 luglio 1885! Non so neppure se faccio bene, se ò il diritto di inviarti tutti questi foglietti pieni di parole e di lagrime, pieni di angoscie e di sincerità. A buon conto, non rileggo, per non pentirmi, per non arrossire, forse, di quello che ò scritto. E scendo io stessa per portar alla posta la mia lettera. È l'alba: la via è deserta. Per giungere alla buca delle lettere, cento passi, debbo passare accanto al naviglio. Ecco forse un'idea! A te, Bianca mia. ADELINA Sabato mattina, 13 luglio 1885. 56 Vorrei, mia Bianca, che queste poche righe ti giungessero insieme alle molte che ti ò spedite all'alba per rassicurarti. — Nella chiusa della mia lettera, mi pare di avere stupidamente espressa anche l'idea del suicidio. Ebbene no, sono viva; quell'idea è durata ben poco. L'aria fresca del mattino mi à rinfrescata anche la mente. Non ragiono ancora, ma mi sento sulla via di ragionare. Attendo la tua risposta. Sono convinta che mi farà del bene. Ora sono stanca morta, affranta, spossata. Aspetto una buona lettera. Ti bacio ADELINA tua. 17 luglio 1885. Ài ragione, Bianca. Non ò il diritto di disporre di me e della mia vita. E non ò il diritto di ripagare collo scandalo tutto ciò che la zia à fatto per me. Ché, se lo à fatto bene o male non lo so, ma, certo, lo à fatto guidata da buone intenzioni. Ài ragione: io non debbo saper nulla. Io non debbo sapere come vivo: cioè che cosa mangio, dove alloggio, di che mi vesto. Sono in casa di mia zia. Se questo basta al mondo, che ci fa di cappello, deve bastare anche a me. Ài ragione. Si vive di transazioni. Sta bene. L'altro giorno, scrivendoti, ti giuro che ero sincera. Non era uno sfogo a freddo, non era un'esaltazione di progetto. Del resto, ne sei convinta, poichè mi scrivi che, frammezzo agli errori dell'esaltazione, ritrovavi me stessa, e vedevi di già i germi del ravvedimento che il mio senso pratico non avrebbe tardato ad impormi. È forse vero: anche senza i tuoi consigli, anche senza le tue parole amorose, sarei giunta, a questa conclusione. Ad ogni modo tu l'ài affrettata: e te ne ringrazio. Ma ti giuro che fui sincera. Che era quell'indignazione? Che era quel disgusto? Un resto di candore, o un rimasuglio d'inesperienza? Non so. E così ci si forma, Bianca mia. E anche questa crisi avrà servito a qualcosa. Vedo la mia strada, diritta, dinanzi a me. Non so dove conduca. Ma la strada la vedo. Quando il momento verrà, incomincierò risolutamente il mio cammino. E a seconda del compagno di viaggio che avrò, saprò che metodo seguire, saprò se tener la destra o la sinistra, saprò se correre o andare adagino. Ma stai sicura: in qualsiasi modo, non cadrò nei fossati. Ci si forma. Non so se come si vuole: non so se come si dovrebbe, nel senso rigido della parola dovere. Ma, certo, ci si forma come si può e come gli eventi vogliono, e come il destino comanda. La tua strada è più facile della mia. Tuttavia, dal modo come mi parli, vedo che sei ben preparata anche tu, e che sapresti sorpassare difficili ostacoli, se si presentassero. Ma non si presenteranno. Io te lo auguro. È sempre meglio non trovarne: ci si logora meno. Grazie, mia cara Bianca. Ma s'invecchia, sai? Che differenza dalle lettere del collegio a queste!... In fine della settimana ventura si parte. La cosa, fu decisa iersera tra la zia ed Orlandi. Si va in Val d'Aosta. Non so se per gironzolare come l'anno scorso, o per fermarci in qualche paesello. Anderemo innanzi io e la zia e ci fermeremo a Chambéry, dove Orlandi ci raggiungerà per proseguire insieme. Perchè da qui a Chambéry c'è pericolo di trovare qualcuno che si conosce. Dopo, è più difficile. Non mi divertirò, certamente. Ma che vuoi? Per ora, bisogna che mi lasci vivere. Ti scriverò sempre. Tanti tanti baci da ADELINA tua 57 3 febbraio 1886. Ti mariti?! Bianca, ti mariti?! Bianca interruppe la lettura, un momento, e rimase angosciosamente assorta. Ecco una delle sue menzogne; non la più grave; ma quella, forse, che le era costata di più: perchè nel dare quella falsa notizia, forzatavi dalla necessità di rivelare poi la gravidanza e la maternità — ne aveva provato (lo ricordava, adesso) uno schianto. Doveva fingere un marito. Che irrisione! Riprese a leggere. Ti mariti?! Bianca, ti mariti?! Ebbene, no, non temere: non ti farò una scena di gelosia. N'è passato del tempo da quando ci giuravamo eterna fede! Ricordi, in collegio? Che amore disperato! E le scenate che ti facevo se ti coglievo a sorridere a qualcuna, a guardarla — soltanto — un po' a lungo! E quel giorno che mi avventai sopra di te, come una jena, perchè ti avevo sorpresa ad abbracciare una piccola bionda della quale ero tanto gelosa?! Quella volta, se avessi avuta un'arma in mano, ti avrei colpita! N'è passato del tempo! Si invecchia, e.... si ragiona. Ti mariti? È bello? È ricco? Come si chiama? Ugo? Ugo, il nostro nome favorito, quello che avevi scelto per firmarti nelle tue lettere, in collegio? È francese? Come si dice Ugo in francese? Hugues, mi pare. Non è bello come in italiano! Curioso! io faccio di queste disquisizioni su un nome immaginario! Chissà se il tuo sposo si chiama così? Perchè tu non me ne dici nulla! Ed anzi, se ti risparmio una scena di gelosia, non posso risparmiarti i più serii rimproveri per il lasciarmi che fai così all'oscuro d'ogni cosa. Due righe, di passata: — Sai? pare che mi mariti! — come si trattasse di una cosa da nulla. E dato anche fosse una cosa da nulla per te, per lui, per i tuoi, per la gente, tu sai o dovesti sapere che è un avvenimento di grande importanza nei rapporti tra di noi due. Intanto, non ammetto, non posso ammettere che sia un pare, un dicesi soltanto. Se me ne parli, gli è che è cosa fatta e decisa. Sei troppo seria, tu, troppo pratica! E perchè non dirmene nulla sinora? Se il matrimonio è deciso, non l'avrai mica conosciuto ieri.... questo Hugues! La cosa sarà maturata poco a poco. E solo oggi me ne avverti, con un cenno così affrettato. Via, Bianca, c'è del mistero. E poichè ò toccato questo tasto, colgo l'occasione per dirti che da molto tempo io avevo rilevato qualche cosa di misterioso nelle tue lettere, che mi aveva stupito e addolorato. Non mi parlavi più tanto di te, delle cose tue: non mi raccontavi i dettagli della tua vita, come avevi fatto sempre e come non ò mai cessato di far io. E poichè non posso imputare questa mancanza di sincerità ad un affievolimento del tuo affetto per me, perchè le tue lettere furono sempre ed anzi ognor più affettuose, così essa mi riesce tanto più inesplicabile e incresciosa. Oggi, Bianca mia, raccontami tutto, per bene. E dimmi che nulla è mutato tra di noi, e nulla muterà dopo il tuo matrimonio. Aspetto e ti bacio. ADELINA tua. Senti che idea: non potresti fare il tuo viaggio di nozze in Italia? Perchè farai certamente un viaggio di nozze. (Credo che, sposandosi, si possa rinunciare a tutto fuorchè a quello: dev'essere l'unica cosa divertente del matrimonio!) Dunque, se tu venissi in Italia, ci si vedrebbe. Non aggiungo altro: l'idea sarebbe sciupata! Bacioni ancora. 58 Lunedì, marzo 1886. Mia Bianca, Dunque, malgrado il tuo matrimonio, io debbo seguitare a scriverti al vecchio indirizzo e al tuo nome di famiglia: Bianca Caradelli, Boulevard Poissonnières, 2. Va bene. E dimmi: potrò almeno, cioè dovrò scrivere Madame invece di Mademoiselle? Perchè posso dubitare anche di questo.... (scrivimi.... tutto!) visto il grande mistero del quale circondi.... il tuo nuovo stato. Del resto, sono cattiva di scherzare così. Anche io ti ò pregata di scrivermi fermo in posta. Le stesse ragioni, forse, ti ànno consigliata a non ricevere le mie lettere nella tua nuova casa.... maritale. Anzi, ti ringrazio: avrò minori riguardi e potrò continuare a scriverti tutto quello che mi accade e che.... mi passa per la testa. E niente viaggio di nozze? La mamma malata ti à tenuta costì? Peccato! Mi avrebbe interessato tanto la descrizione di quel viaggio. In compenso, raccontami il tuo viaggio attorno alla.... nuova casa. Sarà più interessante — almeno per me — del «Voyage autour de mon jardin» di Alfonso Karr. Si chiama Gontran, lui? Carino, ma.... che disperazione che tutti i francesi si chiamino o Gontran, o Gaston, o Oscar. Diventa monotono. Non si incontrano altri nomi in tutti i romanzi. Scrivimi a lungo. Dimmi che mi vuoi un po' di bene anche dopo e malgrado il tuo matrimonio. Gontran mi ti à fatta dimenticare, completamente? ADELINA. È vero che si torna alle crinolines? La mia sarta dice che ci si arriva poco a poco: ma io mi fido sino ad un certo punto. E, ad ogni modo, sarò l'ultima ad adottarle. Ci tengo alla mia magrezza che le sottane attillate disegnano!... Natale (1886). Bianca mia bella, mammina bella! Mammina! Ecco una parola che m'intenerisce, malgrado tutto il mio scetticismo, la noia e il disgusto che ò della vita!... Sei mamma! Dimmi, è bello d'essere mamma? Te lo chiedo, io che non lo sarò forse mai (chi mi sposerà più?); te lo chiedo io che non so neppure che cosa voglia dire essere figlia! Mamma e figlia: due parole di cui non so e non saprò forse mai il significato. Come è triste, come è sconsolante!... Oh! non per le perdute speranze nell'avvenire, sai? ma pel ricordo del passato! È Natale, il secondo che passiamo divise, noi due. Ma il tuo è lieto, oggi: ài qualcosa di dolce e di caro che ti attacca alla vita, che te la rende beata, forse. Natale, a differenza di tre giorni soltanto, è anche quello della tua bimba, che tu ài chiamata Ester, come tua madre. Se avrò una bambina — chissà? — la chiamerò anch'io come si chiamava la mia mamma: Giuseppina. Per me, il Natale sarà molto triste. Lo passeremo io e la zia, qui in casa, noi due sole. Totò è ammalato: pare abbia fatta una indigestione di paté de fois-gras. Zia Ermelinda è uscita: mi à detto che starà fuori tutto il giorno, a girar le chiese. È da Totò, a tenergli compagnia. 59 ADELINA. Che sarà di me? Sono stufa, stufa, stufa! 6 gennaio (1887). La grande notizia d'oggi — mia Bianca adorata — è che iersera ò ballato. Lo credi? avevo quasi dimenticato anche il ballo, in questi tre anni di vita uggiosa, monotona e casalinga. Per fortuna mi sono ripresa presto, e ò udito dire che fui la regina della festa. Povera regina di una povera festa. Ricordi Clara e Virginia Galli, la piccola bionda, e la grande bruna, figlie di quel Galli fabbricatore di candele, tutto pancia e tutto anelli e catenelle, che veniva a vederle regolarmente ogni domenica accompagnato dalla dolce metà? Ebbene: ci siamo incontrate, tre o quattro giorni or sono. Eravamo in casa Cavaleri, quando arrivarono la Galli colle due ragazze. Presentazioni, riconoscimenti, baci ed abbracci (fuori di collegio si dimenticano anche le antipatie, e mi erano antipatiche, allora!) e relativo invito alle festine (oh! borghesia della parola e della cosa!) che esse dànno al sabato sera. La zia à subito accettato.... E qui calza una parentesi. Zia Ermelinda, da qualche tempo mi cerca un marito, con più zelo, con più accanimento, ed è giusto riconoscerlo, con più speranze di trovarlo, che non pel passato. Non è un accrescersi d'affetto che l'ispiri, nè la preoccupazione della mia sorte, nè un maggiore interessamento per me. No. È.... un accrescersi d'affetto e un sempre maggior interessamento per.... sè stessa; è la ognor più grande preoccupazione della sua propria sorte. Infine, nella sua mente è passata un'idea luminosa: — Che, Totò non si decida, a sposarmi, più ancora che per il timore di diventare un marito, per la paura, per il terrore di diventare un padre? — Il padre di Adelina? (Come tu capisci, sarebbe un padre.... molto putativo!). L'idea l'à colpita. E, povera donna, cerca in tutti i modi — nei migliori modi — di allogarmi, e di mandarmi a far benedire.... dal Sindaco. Quanto a me, lascio fare, con poche speranze per me stessa e per lei, ma non intralcio e non contrario i suoi tentativi. Tutte le volte che essa, vagamente, mi parla di qualcuno che potrebbe essere un marito, io la secondo, non elevo obbiezioni, e se il qualcuno mi capita sotto mano, centúplico le arti di seduzione e mi rendo la più ingenua e graziosa civetta che abbia mai vestito abiti di fanciulla. Tu capisci: io debbo farmi sopportare; sono di peso, sono una noia, un ostacolo, un inciampo. Ma che tutto ciò, agli occhi della zia, dipenda dalla fatalità, contro la quale non si lotta. Che essa non possa credere o dubitare — povera donna — che mi metto della partita col destino, e che évito di far tutto ciò che è in mio potere per sollevarla da questa noia, da questo peso che è il mio io! Ed è giusto. È giusto, perchè le ambizioni e le aspirazioni di zia Ermelinda sono generate da un nobile sentimento. Essa vuol farsi sposare, non per interesse: non potrebbe pretendere da Totò più di quanto ora lui le concede. — Ma essa ci tiene a regolarizzare una posizione equivoca; ci tiene a diventare la signora Orlandi, unicamente per il proprio decoro, per la propria tranquillità d'animo e di coscienza. Vorrebbe poter dare a sè stessa un attestato d'onestà al quale il mondo à già posto la firma, ma che essa, in coscienza, non può firmare. Tu lo sai: zia Ermelinda à sempre avuta una così assidua cura delle apparenze, e, nell'aspetto, nei modi, negli atti, nelle parole, si è così ben conservata dama, che la società non à mai cercato od osato di esercitare un controllo su di lei. Chi non sa, s'inchina. Chi sa, s'inchina del pari, perchè essa non à mai autorizzato una supposizione o un sospetto. Così, io credo che una donna che à avuti cento amanti è ugualmente rispettata e onorata se li à saputi nascondere od anche soltanto se non li à buttati in faccia alla gente. Mentre una donna che 60 ne abbia uno solo viene messa al bando, se in un momento d'oblìo, o di spensieratezza, o di passione, si è tradita e à dimenticato che il mondo vuol far finta, anzi non cerca di meglio che di far finta di non sapere. Potrò forse sbagliarmi, ma, per ora, credo fermamente che sia così. Zia Ermelinda, dunque, il rispetto del mondo lo à, ma non le basta. Vuole il rispetto di sè stessa. È commendevole. Oh Dio! certamente ci sarebbe una morale più assoluta, più rigida ancora: non avendo potuto riparare non so se ad un fallo di gioventù o ad una debolezza di donna accasciata dalla sventura — (Totò data dalla morte dello zio) — essa avrebbe potuto da molti anni (e sarebbe sempre a tempo di farlo), scontare quel fallo o quella debolezza; ritrarsi, dare un addio a Totò e.... Ma non si vive con due o tremila lire di pensione.... E certi eroismi non si possono pretendere da tutti. Tanto meno a me, toccherebbe di pretenderli! Ti va? Faccio della psicologia, mi pare. E ti annoio! Ma, via, mentre culli Esterina, puoi leggere le mie pappolate. Ed a me, lo scriverti tutto quello che mi passa per la testa, serva di passatempo e di svago. E chiudo la lunghissima parentesi. Zia Ermelinda à dunque accettato con entusiasmo l'invito della Galli. Figurarsi! queste festine di famiglia sono vere incubatrici matrimoniali. Si direbbe una ricetta tolta dal «Re dei cuochi». Prendi vari giovinotti ed eguale quantità di fanciulle. Avvolgi queste nella mussolina o nel crèpe a 95 centesimi il metro comperati da Bocconi; avvolgi quelli in un frak purchessia, magari da nolo, in mancanza di meglio; mettili tutti assieme nella casseruola della sala da ballo; falli ben bene rimescolare a furia di polke, di galoppi e di mazurke; aggiungi un po' di limonata (ci sta, anche il doppio senso), qualche bicchiere di marsala e una fetta di panettone; fuoco lento, che può durare da Santo Stefano al primo giorno di quaresima: e.... servi altrettante coppie di sposi quanti sono gli ingredienti adoperati in origine. Alla peggio, qualcuna di meno: qualcuna che rimane bruciata dal conflitto degli interessi; qualcuna cui sarà mancato il condimento della dote per tenere assieme la polpetta.... Ma, tutto ben considerato, nessuna migliore fabbrica di matrimoni che una festina di famiglia. Ed ora dovrei parlarti di quella dei Galli, alla quale ò preso parte ieri sera. Ma la lettera è lunga. Ti dirò domani le mie impressioni. La zia mi chiama: vuol dire che Totò se n'è andato. Oh! mi annunciasse il suo matrimonio! Sai, Bianca: se riuscissi a maritarla questa mia zia, mi parrebbe di vincere un terno al lotto. Senza arrière-pensée.... te lo giuro. Bacioni da ADELINA tua. 7 gennaio (1887). Eccomi qua, Bianca mia, alla mia lettera quasi quotidiana. E per non annoiarti colle mie solite malinconie, o per annoiarti il meno possibile, riprenderò il tema di ieri: la festa dei Galli. Se ti dicessi che mi ci sono divertita, direi una bugia. Che vuoi? mi accorgo ogni giorno più che ò delle idee e dei gusti aristocratici. Tutto ciò che è borghese non mi va. E nulla di più borghese dei Galli, della loro casa, dei loro ballonzoli dati per cercar marito alle figlie, dei loro discorsi, della gente che ricevono, del modo come ricevono. Qualcosa di così sciatto, di così scipito, di così provinciale, di così.... onesto (là, la parola mi è cascata — era nella penna, non ce ne ò colpa io!) da farti rimescolar il sangue, quando non ti addormenti in piedi. Già, comincierò col dire che il ballo come ballo, cioè il ballo come fine non l'ò mai capito: lo capisco come mezzo. Mi spiego? Quando non si ama; quando non s'à la possibilità di amare; quando non ci si mette in mostra perchè non ne vale la pena; quando non si può ballare per la platea, perchè è una platea indegna di sè; quando non si cerca marito.... come mai può divertire un ballo o ci si può prendere gusto? Ora: io non cerco marito 61 (me lo cerca la zia, e basta: lascio fare a lei!); io non amo e non è certamente in casa Galli che mi sarà dato di amare (i giovinotti sono otto o dieci o quindici, più o meno rispettabili, più o meno ricchi, più o meno belli, che ànno tutti il tipo borghese, melenso e volgare che noi a Milano caratterizziamo così bene col nome di spazzabaslott); io non mi metto in mostra e non faccio nessun frais di nessun genere perchè, francamente, non ne torna il conto; dunque? Tu capirai che il non divertirsi in casa Galli non è una posa. Oh! quei ballerini, Bianca mia! quando te ne avrò descritto uno, te li avrò descritti tutti. Il signor Anselmo Gerli. Giovinotto sui 28 anni, forse 30, forse 33. Nè alto, nè basso. Faccia da scemo. Baffetti arricciati, in principio di festa: spioventi, verso mezzanotte. Capelli pettinati, lisciati, impomatati: la scriminatura sul lato destro della testa, e una ciocca stiracchiata, stirata, appiccicata sulla fronte, in semicerchio. Altro termine milanese che rende la situazione: è pettinato alla s'giafa, proprio come se un ceffone gli avesse incollato quella ciocca di capelli sulla fronte come avverrebbe di una pelle di fico sbattuta sul muro. Insomma: bella testa da parrucchiere. Marsina abbondante con dei risvolti senza seta, enormi, e le cui punte giungono sino alla spalla: le falde lunghe, che arrivano al polpaccio: il panciotto aperto a cuore perfetto, mette in mostra uno sparato di camicia a ricamini, fiorellini, bucherellini, ultimo lavoro di sua sorella, allieva alla professionale: lo sparato fa delle pieghe sino da quando Anselmo Gerli entra in salotto: in fine della festa è una cosa che mette pietà. Il colletto della camicia è posticcio e qualche volta, nella foga del ballo, si sbottona; allora egli interrompe la danza e se lo riallaccia non senza fatica. Anche i polsini, qualche volta, sono staccati, escono dalle maniche del frak e ci si accorge allora che furono già portati al ballo precedente e ne conservano le traccie.... sull'orlo che questa volta sta.... cioè dovrebbe stare, dentro la manica: perchè sono a doppio uso. Scarpe a vernice, a forma di barchetta: la punta, curiosona, guarda in su, verso la testa del proprietario, come a chiedere: mi farai gironzolare ancora per un pezzo? Cravattina di raso bianco-burro, a nodo fatto, con una spilla conficcata a traverso. Nelle spille, varietà enorme: dalla scheggia di brillante al ferro di cavallo d'acciaio brunito; dal piccolo rubino al velocipede d'argento in miniatura; dal cornetto di corallo alla testina da morto, emblema pieno di distinzione rivelante l'uomo scettico e superiore. Guanti bianco-burro (nuance alla cravatta) e spesso rilavati. Gibus, che.... è meglio veder chiuso, e che, chiuso, mette in mostra una bella fodera scarlatta, o verde, od azzurra. Tutto ciò potrebbe far credere che, finanziariamente, il signor Anselmo la tiri coi denti. Niente affatto. È figlio di un mercante di frutta che à un giro d'affari di milioni ogni anno. Il signor Anselmo è occupato nella casa. All'alba contratta in verziere: poi tiene la corrispondenza. La sera, si mette in chicchera, e si diverte! abbonato in palco al Dal Verme ed à fama di essere allegro, spiritoso e spendacchione. Si dice che mantenga una ballerina. Come vedi, non gli manca nulla. Cioè sì: gli manca un po' di distinzione, ma lui non se ne accorge e non se ne accorgono in casa Galli, dove lo dicono un partito eccellente per qualunque ragazza. Je n'en voudrais, pas, par exemple! I discorsi del signor Anselmo, quando sei al suo braccio, alla queue. Comincia in dialetto: ma tu, per tentare — come puoi — di divertirti, gli rispondi in italiano, e allora lui si trova in obbligo di continuare la conversazione in lingua: — Si comincia a sentire il caldo, minga vero? — Il ballare l'è bello, non dico di no: ma se non si sudasse, sarebbe una gran bella cosa. — E a lei signorina ci piace di ballare? — L'è stata al Dal Verme a sentire la «Traviata»? Mica male, vero? C'è la prima donna che la pare un gattino sbrojato (parigina mia, ti ricordi ancora che sbrojato vorrebbe dire scottato?), ma in complesso non si può mica lamentarsi. Quello che c'è di bello l'è il ballo. La Bessone l'è proprio un amorino. — E la sua zia non la balla mica? La si è proprio già messa far da tappezzeria? (una risata). — Ohi! Signorina, a momenti tocca a noi! Piccoli incidenti graziosissimi: 62 Quando sei alla queue, il signor Anselmo si accorge di un piccolo vano tra due coppie un po' dinanzi a noi. Allora ti trascina piano piano, con furberia; s'insinua, violento, ad un tratto, in quel vano, schiacciando un piede a una delle ballerine, dando una gomitata al cavaliere che gli sta dinanzi, e ti dice, trionfante: — Abbiamo guadagnati tre posti! Risate, rimproveri, proteste dalle altre coppie. Allegria generale in tutta la fila. Oppure, sempre alla queue: Il signor Anselmo adocchia di sopra alla spalla del ballerino che gli sta dinanzi, la camelia che egli tiene all'occhiello. Allora ti stringe un poco il braccio per richiamare la tua attenzione, dà una strizzatina d'occhi, furbescamente, come a dire: — sta a vedere adesso! — e poi, piano piano, passando il proprio braccio sopra la spalla dell'amico, gli ruba il fiore. Risatte, rimproveri, proteste. Allegria generale! Come vedi, mia Bianca, persone e discorsi onestissimi, scherzi innocenti e lieti. Il signor Carlo Valenzini, capo contabile alla Banca cooperativa dei suburbi. Id. id. Il signor Giuseppe Buttarelli, mercante di coloniali. Id. id. Il signor Arturo Cantaluppi, capomastro. Id. id. Il signor Giacomo Beretta, pilatura di riso. Id. id. Eccetera, eccetera. Le ragazze, un poco meglio. Già, prima di tutto, noi donne abbiamo sempre una distinzione innata che soltanto la degradazione morale, io credo, può far perdere qualche volta. Anzi, io sono persuasa che i maschi nascono tutti barabba, e le femmine tutte dame: e le donne trasformano i barabba in gentiluomini, mentre gli uomini fanno di noi donne, molto sovente, delle.... (ò l'idea, ma mi manca la parola: trovala tu). Poi, tutta questa gente borghese, questi nuovi ricchi, se trascurano l'educazione dei figli, o trovano nei figli una grande riluttanza ad ingentilirsi, ci tengono assai e mettono ogni cura a rendere la più completa e raffinata l'educazione delle figlie. Essi sanno bene che i maschi saranno — ed è bene che sieno (gente pratica, in fondo) — dei fabbricatori di candele, degli ortolani in grande, dei mugnai, come i padri. Le figliole invece possono tessere fonti di connubî e d'incroci di razze che formano il sogno dorato di molti papà e di tutte le mamme. Qual'è quel pilatore di riso o quel fabbricante di saponi che non sogni di veder sua figlia contessa? E l'esperienza gli dice che non è un sogno tanto difficile a realizzare. Quanti marchesi spiantati non ànno introdotto nel loro stemma avito il porchetto ingrassato che il suocero gli à recato ricoperto di marenghi? Ma bisogna che della figlia, quando à l'età da marito, si possa dire: «Guardatela: che grazia! Uditela: che coltura! Pare una contessina!» — Quando pare, perchè non la diventerebbe per davvero? — Così, le mettono in collegio, le figliole. Ne escono (io e te ne sappiamo qualcosa) non sempre delle colombe, non sempre colla mente ingenua e lieta e coll'animo aperto e schietto. Ma parlano il francese, il tedesco e l'inglese: suonano: danzano: dipingono: son maestre nel ricamo: sanno come ci si contiene in società.... E, fors'anco, rientrando in famiglia, s'indignano della volgarità dei genitori, e correggono le lettere che i fratelli scrivono alle loro amanti. Infine delle spostate intellettuali, odiose in casa loro, ma che — prese a piccole dosi, ad un ballo o in conversazione — sono, nel loro ceto, meno antipatiche e insoffribili dei maschi. Se qualcuno all'infuori di te leggesse queste considerazioni che mi sgocciolano giù dalla penna, non so bene perchè, direbbe che pontifico e che sono una bas-bleu da dozzina. Ma tu sai che è la esperienza che me le detta. Quell'esperienza che abbiamo fatta assieme, io e te, in collegio e fuori: io e te che, volere o volare, siamo due donne intelligenti. Perchè mi metto anch'io tra le donne, sai? nonostante i miei fiori d'arancio! Ebbene, senti: malgrado il mio scetticismo, malgrado la corruzione dell'animo e del cuore (una ragazza che sa, che à capito, che à vissuto, che à sofferto, che i casi della vita spingono a ridere di tutto e di tutti, perchè dopo aver pianto molto à compreso che non val la pena di piangere; una ragazza così fatta, questa società tutta finzioni e ipocrisie, la chiama una fanciulla corrotta!) — malgrado quello che sono, insomma, io — vedi — un giovinotto di quelli lì, un Gerli, un Buttarelli, un 63 Beretta, non lo vorrei, neppure se mi coprisse d'oro. C'è ancora qualcosa di.... che so? di gentile e d'ingenuo dentro di me. Una ingenuità tutta mia speciale: ma questo lo sento, ne sono profondamente convinta: tra lo sposare un Buttarelli e.... il perdermi per sempre, preferirei il perdermi. E avverrà così, sai? Perchè potrebbe accadere che uno di codesti scemi, in un momento d'entusiasmo o di buon umore, fosse capace di dimenticare che non ò un quattrino di dote (prima.... dote che si cerca alla sposa in codesto mondo!) e mi chiedesse in moglie. Quel giorno non avrei un argomento buono, convincente per rifiutare. Avrei anzi l'obbligo sacrosanto di accettare con entusiasmo, non tanto per me quanto per liberare la zia! Ebbene, quel giorno me ne andrei, non so dove e non so a far che cosa. Me ne anderei, voltando le spalle al ricco partito! Tu, Bianca, che ti diletti come me, qualche volta, di psicologia, spiegami. Egli è che ò dei gusti aristocratici, raffinati — come ti ò già, detto e come tu sai? E preferisco, forse, la colpa, circondata di distinzione, all'onestà accompagnata dalla volgarità? Sarebbe una spiegazione assai semplice. Eppure non credo che sia la giusta. Vedi, io sento, per esempio (e ti giuro che sono sincera), che preferirei essere la donna di un artista povero ma di genio che mi tenesse con sè anche se non mi potesse sposare, che non la moglie di uno di codesti ricconi sciatti e borghesi d'intelletto, di vita, di modi e di parole. E questo mi par buono, veramente buono, e alto, e nobile, e forte.... Ma so che nel primo caso la società mi metterebbe al bando.... Quella società che invece onora e rispetta.... qualcuno che m'intendo io! E dopo ciò, a che raccontarti e descriverti le festine di casa Galli? Immagina il peggio che tu puoi dal punto di vista che ò discusso: sarai sempre un gradino troppo in alto sulla scala della intellettualità. Ti abbraccio e ti bacio. ADELINA. Perchè non sei un uomo, tu? Ci saremmo amati! Eravamo fatti l'una per l'altro. 23 marzo 1887. Stanotte, Bianca mia, pensando che avrei dovuto — appena alzata questa mattina — mettermi a tavolino per darti la grande notizia, mi rivoltavo nel letto rifacendo mille volte mentalmente la mia lettera. Come avrei cominciato? Ti avrei detto, crudamente, di botto, senza preamboli.... quello che ò da dirti? Oppure sarebbe meglio prenderla da lontano, e arrivarci pian pianino, dopo avertici preparata coi sottintesi e colle allusioni? La notte è passata insonne, ma non sono giunta a nessuna conclusione. Ed ora? Ed ora.... Ebbene, eccola qui, in due parole. Attenta bene! Mi.... La dico o non la dico? Sì, la dico: Mi marito! Là! è detta. E sul serio, sai, Bianca? Non credere che canzoni. Vuoi che te lo ripeta? Mi ma-ri-to Faccio la presentazione: Il signor James Burton, di Glasgow (Inghilterra), mio fidanzato. Tu lo guardi; e cosa vedi? Vedi un bel giovanotto sui trent'anni, alto, biondo, forte, nerboruto, simpatico, distinto, un poco timido; non ricco, ma in buona condizione, e che à un avvenire. E questi è il signor James Burton, 64 direttore tecnico della Società Internazionale dei Tramway a vapore che à sede a Milano. Mio fidanzato. Ho detto: Mi-o fi-dan-za-to. E tre. Perchè tu (io lo vedo da qui), ài l'aria di non crederlo. Tu pensavi — come me, del resto — che nessuno sposerebbe la signorina Adele Olivieri, bella ragazza pericolosa, che non à nè babbo nè mamma (e pazienza questo! — per chi dovesse sposarla, intendiamoci!), ma che non à neppure un soldo di dote: anzi, non à neppure il corredo, perchè se la zia glie lo offrisse (almeno quello!) non potrebbe accettarlo.... per non doverne ringraziare Totò. E quando Bianca Caradelli, sua amica d'infanzia, sua sorella d'adozione, suo confessore e.... suo primo amore, à saputo che Adelina era fidanzata, à pensato che chi la sposava era o un meschinuccio impiegatuccio borghesuccio a mille e due che si decideva ad accasarsi.... per fare economia; oppure un vecchiotto pensionato che, ritirandosi dal mondo e dai suoi piaceri, aveva bisogno di una serva che gli facesse il pranzo, o, tutt'al più, di una dama di compagnia che gli curasse la gotta! Ebbene: crepi l'astrologo, e schiatti l'invidia; io sposo un bel giovanotto che à quattromila lire all'anno di stipendio, oltre gl'incerti; che sarà forse ricco un dì o l'altro; che è la scienza, la coltura, la probità, il lavoro, e.... la distinzione (il mio dadà) in persona! E perchè il signor James Burton sposa la signorina Adele Olivieri? Perchè se ne è innamorato. Oh bella! sono cose che cápitano di rado, ma che cápitano ancora, qualche volta. E la signorina Adele Olivieri è innamorata del signor James Burton? Per ora no; ma spera di diventarla col tempo e con un poco di buona volontà. Sono le dieci del mattino, e bisogna uscir di casa colla zia. Pare che ci sieno molte cose da fare. Riprenderò la lettera più tardi. Anzi, no. Nel dubbio che oggi non mi resti tempo di scrivere altro, spedisco, intanto, questa, che reca semplicemente l'annunzio: «Adelina, Olivieri — James Burton, oggi fidanzati». A più tardi, o a domani, i particolari. Bacioni dalla immutabile amica ADELINA.... BURTON. 24 marzo 1887. Come avevo preveduto, mia cara Bianca bella, ieri non ebbi più neppure un minuto da dedicarti. (Ne sei gelosa un pochino? Dimmi di sì, mi farebbe tanto piacere!) Ma che vuoi? Pare che il matrimonio sia una cosa molto seria. Le formalità da compiere — perchè il mio fidanzato vuol far presto, anzi prestissimo — (benedetto lui!) — le compere.... Oh! le compere! Che cosa dolorosamente e tristemente comica minacciano di essere! La zia (beata, lei, di queste nozze), è stata colta da una felicità sconfinata, da una allegria senza limiti, e da.... una generosità che è il colmo del disinteresse. — Bisogna fare, bisogna procurarsi, bisogna comperare, bisogna avere.... — eccetera eccetera. E vorrebbe entrare in ogni bottega e portar via mezza la roba che contiene. Almeno ventiquattro camicie; almeno trentasei fazzoletti; almeno sei toilettes; almeno otto cappellini! Ed io, per contro, a dir di no; a dire che basta quello che ò; a convincere che troppo lusso sarebbe fuor di luogo, che non piacerebbe neppure a James. Dio! come sono onesta.... in fondo! E, ti dico, è stata una lotta, tutt'oggi. Trentasei fazzoletti!? Ma, zia, sei matta? Che diavolo credi, che il matrimonio mi darà il raffreddore in permanenza?... Sei toilettes? Ma per farne che? Quelle che ò non bastano? Otto cappellini? Ma dovrò metterli sotto il letto, nella piccola casa! E via, e via! 65 Infine, ò dovuto acconciarmi ad accettare qualcosa: della tela, la stoffa di una vesta di seta, qualche altra piccola cianfrusaglia: ciò che, a mio giudizio, potevo supporre stesse nei limiti delle rendite proprie e assolute e personali della zia. E lavorerò io, durante il mese che mi separa dalle nozze, a prepararmi il.... corredo nuziale! Così è, Bianca mia. Questo periodo di tempo tra la promessa e il matrimonio, che io credo debba essere il più bello, il più dolce, il più sereno, il più felice nella vita di ogni donna è amareggiato anche questo, per me, da un pensiero fosco, increscioso, umiliante, brutale! Oh! ero nata per essere buona! Chissà se le circostanze, i casi della vita, mi permetteranno di esserla?! Ma non è di ciò che ti debbo parlare. T'interessa forse, anzi certamente, anche questo, a causa dell'affetto che mi porti. Ma oggi ò il dovere di soddisfare anzitutto la tua giusta curiosità. Come si è concluso questo matrimonio? Come? Non so bene neppure io. Il Galli è uno degli amministratori della Società dei trams di cui James è direttore. Ed egli mi à conosciuta ad una di quelle festine delle quali ti ò parlato. Come e perchè si sia innamorato di me, non lo so. A proposito: è la seconda volta che uso questa parola innamorato: la prima per ischerzo, la seconda sul serio. Potresti credere che fosse presunzione, la mia. Ebbene no. Tanto, io non vi dò importanza, sai? Dò importanza al fatto che egli mi sposa, ma al perchè mi sposa.... No, adesso stavo per, ridiventare cattiva, e non voglio! Ma è proprio innamorato. A modo suo, s'intende, cioè in un modo inglese. Mi guardava, balbettava parlandomi, arrossiva persino, qualche volta, lui che è un uomo forte: e poi, me lo à detto, ieri, quando la cosa fu conclusa: —Vi amo, signorina. Spero che saremo felici.... Io gli ò buttate le braccia al collo e gli ò dato del tu! E poi, via, è l'unica ragione perchè mi sposi, che sia innamorato. Perchè, diciamolo franco, sposandomi, non è mica un affare che conclude, poveretto! E tu? mi domandi certamente. Io?... Io trovo che è tutto quello di meglio che potevo desiderare, se pure avessi potuto formare dei desideri. E sposandolo, non faccio nessuna concessione ai miei gusti. È bello (sin troppo bello per un marito!), è intelligente, è distinto. Che posso desiderare di più? Non lo amo, cioè non ne sono innamorata. Forse, gli è che non ò avuto modo e mezzo d'innamorarmene. Ma gli voglio bene, ch'è forse meglio. E ripeto, inglesamente come lui: Credo che saremo felici.... se non cápita qualche malanno! Aggiungi che queste nozze sono un piccolo trionfo per me. Il Galli aveva già messi gli occhi su Burton per farne il marito di Clara o di Virginia. Clara poi, specialmente, credeva di averlo già conquistato. È un po' meno scema delle sorelle, e sa di avere una dote che può far gola a molti. — Quello è per me — aveva certamente detto in cuor suo. Non che gli premesse; ma il Galli papà glie lo aveva fatto capire, che avrebbe desiderato un matrimonio coll'inglese. Perchè il vecchiotto è furbo: e quantunque James non sia ricco, aveva capito che c'è in lui la stoffa di un grand'uomo. Quanto a Clara, come gusti, in fondo, avrebbe preferito, io suppongo, il primo Gerli o il primo Buttarelli venuto. Perchè il Gerli e il Buttarelli posseggono dei cavalli per condurre i sacchi di farina alla stazione o le patate in verziere: e quei cavalli si possono attaccare al biroccino la domenica, dopo pranzo, e farsi scarrozzare così nel suburbio, con grande invidia dei vicini. Ma se papà Galli apriva gli occhi da una parte, zia Ermelinda li apriva dall'altra. James era stato uno dei tanti dei quali essa mi aveva detto: Che buon partito sarebbe! Ed io, appena mi diceva così (e purchè non si trattasse di un Gerli), mi mettevo in campagna. Ma sai, del resto, con che fiducia! Dio mio, tutto questo è molto volgare, lo so: ma io avevo una buona scusa: per me, il cercarmi marito era un caso di coscienza, mentre tutte queste manovre sono, starei per dire, delle piccole infamie in chi non à le ragioni troppo dolorose che avevo io per dedicarmi alla caccia al marito. 66 E, te lo accerto, queste arti si mettono in opera dalle mamme o dalle figlie in novanta famiglie su cento! Ne ò sapute di quelle, sul conto di molte nostre amiche! Dunque, ti dicevo; la Clara se lo credeva già legato al proprio carro. E faceva la spiritosa con me: — Adelina, l'inglese ti guarda! — Ma con un tono, come, a dire: — Non farti illusioni però! Se lo aspetti, lo aspetterai per un pezzo! Io, zitta. Ma l'approccio era difficile. Lui non ballava, lui non si avvicinava, lui non faceva la corte, lui — quasi — non parlava. Come fare? E come ò fatto? Francamente, non so, e non mi ricordo. Credo che un mio potente ausiliario sia stata la «poule des dames»: oh! la «poule des dames», che invenzione! La conclusione, è che ieri James fece la sua domanda formale. Per essere sempre sincera, ti dirò che me l'aspettavo. Aggiungerò ad onor suo, che non mi à lasciato aspettar molto. Quanto alla zia, puoi immaginarlo: poco mancò che non mi buttasse tra le sue braccia e gli dicesse: Tò, pigliala, benedetto da Dio! e portala via oggi stesso! Io però avevo una gran paura che, conosciute le condizioni mie finanziarie.... Ma non ricordavo che avevo a che fare con un inglese: prima di decidersi al passo supremo, si era informato appuntino. E non si era spaventato della mia povertà. Come vedi, è uno di quegli atti che caratterizzano un uomo. Perciò gli voglio bene, e sento che glie ne vorrò sempre. Mi porta via di qua! Infine, che dirti, Bianca mia? Sono felice. Una felicità relativa, non completa, non assoluta: una felicità che è di questo mondo, insomma. Ma posso pretendere di più? Tra un mese, le nozze. Dimmi subito cosa pensi di tutto ciò. A me pare un sogno. Ed è appunto, perchè mi pare un sogno che mi convinco che debbo accontentarmene ed esserne felice. Come vedi, mi rendo felice a furia di ragionamento; non lo sono per spontaneità di sentimento; non sono, mi rendo felice: c'è una gran differenza. Ma se la si raggiunge questa felicità in un modo o nell'altro, per un giorno o per sempre, non è già una fortuna che può, e deve riconciliare un poco colla vita? Scrivimi senza indugio, a lungo. ADELINA tua. Mi piace tanto anche il nome del mio fidanzato: Giacomo: un nome comune, ma forte, rude, da uomo. E in inglese poi è veramente bello: James. No? 2 maggio 1887. Mia Bianca, due giorni soltanto mi separano da quello delle mie nozze. Si è dovuto ritardare di una settimana per attendere certe carte dall'Inghilterra: poi, la nostra casetta in via Principe Umberto non era ancor pronta: anzi, mancavano — nientemeno — i mobili della stanza da letto: mancava il letto nuziale, non ancora ultimato! Come vedi.... impossibile sposarsi! Tanto più che, da gente di spirito, sopprimiamo (come ài fatto tu) il viaggio di nozze. James è tanto occupato alla fabbrica! Abbiamo deciso che, invece, ci recheremo per una quindicina di giorni in Isvizzera il mese venturo. Percui, posdomani, uscendo dal municipio, ci recheremo a casa nostra (nostra!...; mi fa un certo effetto!) direttamente, senza cerimonie, senza pranzi di nozze. Francamente, zio Totò a tavola mi avrebbe seccato. Insomma, il mio matrimonio si compirà nel modo più semplice. A proposito: neppure in chiesa; si anderà, perchè James — non so se te l'ò detto ancora — è di religione protestante. Ti confesso che non me ne importa niente. È tanto tempo che ò protestato anch'io, contro tutto e contro tutti! Babbo e mamma Burton (i miei futuri suoceri che non conosco altro che in fotografia) mi ànno mandata la loro benedizione. Poveretti! E il loro regalo anche: mille lire, quaranta sterline, da 67 gente pratica come sono, perchè mi comperassi quello che desideravo. Le ò cedute a James e ànno servito anch'esse all'impianto della casa. Ò messo giudizio.... sino al punto di stupirmene io stessa. Altri regali: la zia, un orologio d'oro colle mie cifre in rubini; Totò un braccialetto con uno smeraldo circondato di brillantini (lo venderò alla prima occasione; non voglio portarlo); e il tuo regalo, tanto carino, tanto affettuoseo, e del quale ti ringrazio ancora con cento bacioni belli. I Galli ànno dovuto fare bonne mine à mauvais jeu. Lui, il vecchio, un buon diavolo dopo tutto, à regalato a James una spilla: il pensiero è gentile, tanto più se si pensa che, proprio, non aveva nessun obbligo di farlo. E le ragazze ànno regalato a me un monumento di frastaglio e ricamo, che vorrebbe essere un portacarte, e che io appenderò in anticamera. Del resto, nulla di nuovo dall'ultima volta che ti scrissi. E tu mi perdonerai se in questo mese ò diradate un poco le mie lettere. È stata un'epoca di transizione. Da doman l'altro tutto tornerà a camminare regolarmente, e anche la mia corrispondenza non soffrirà interruzioni. Gli è che in questi giorni ò avuto tante cose da fare, e tanti pensieri, tanti sopraccapi. Ma, quando sarò la moglie di James avrò tutta la giornata a mia disposizione. Come sai, mio marito deve stare all'officina tutto il giorno. Che potrò far di meglio, per occupare il mio tempo, che di scriverti, a lungo, come per il passato, quando non avevo nulla da fare? Ma in questo mese! Il mattino l'occupavo tutto a lavorare: e il pomeriggio, zia Ermelinda mi trascinava di qua e di là, in visita dal tocco alle sei. A chi, a chi, Dio benedetto, non abbiamo fatto visita? Persino le vecchie conoscenze quasi dimenticate essa è andata a scovar fuori; persino delle sue antiche compagne di scuola che non vedeva più da molti anni. E tutto ciò a quale scopo? Per annunciare il mio matrimonio! Questo avvenimento l'à resa tanto felice, che à sentito il prepotente bisogno di comunicarlo a mezzo mondo. Persino in istrada, persino nei trams (abbiamo speso una sostanza in trams durante questi giorni!) essa chiacchierava forte, e sempre delle mie nozze, come le premesse di farle conoscere anche ai conduttori, anche agli sconosciuti che ci sedevano accanto. Ti dico, è ringiovanita di dieci anni, povera zia Ermelinda. Si direbbe che il mio matrimonio le paja un augurio e debba preludere al suo. E Dio lo volesse! La sera, poi, James è sempre venuto a tenermi compagnia. Che uomo curioso! Ti ò detto che è innamorato di me. Ogni giorno che passa me ne convinco di più. Ma credi tu che me l'abbia detto mai? Dopo il primo giorno, quello della promessa, che pronunciò quella famosa frase: — L'amo signorina: spero che saremo felici, — più una parola su questo argomento.... dello amore. Ogni sera, alle otto, arriva; rimane sino alle dieci, chiacchierando di tutto, non escluso del nostro matrimonio e dei preparativi di esso; e poi se ne va, baciandomi in fronte. Ma una parola calda di passione, ma una frase d'amore, mai! E sì che la zia, spesso e volentieri, ci lascia soli: vuol che gustiamo in pace la nostra felicità, e pregusta la sua che l'attende: la liberazione da questo peso che era la nipotina. E quanto a me, te lo confesso in gran segreto, ò tentato anche di incoraggiarlo qualche volta: non fosse che per entrare un po' in intimità e non aver da far tutto il dì delle nozze. Voglio dire che diventare marito e moglie dovrebbe essere più facile — mi pare — se lo si diventa a poco a poco. Invece, con James, questa graduale, progressiva intimità non c'è mezzo di ottenerla. Siamo, oggi ancora, come due buoni amici che si vogliono bene e che si rispettano: che si rispettano molto, anzi. Dopo domani, entrando nella nostra casa, sarà molto difficile, o molto curioso per lo meno.... Basta! Ci à da pensar lui, dopo tutto! E vedremo anche questa! Malgrado ciò, mi sono convinta ogni giorno più — come ti ò detto — che mi ama sul serio. I suoi silenzi, più che le parole compassate, le strette di mano, più che i baci sulla fronte, me ne ànno fatta persuasa. E, te lo confesso, è una cosa che mi fa piacere, di sentirmi amata così sul serio, da un uomo serio. Ciò mi dà come una gran sicurezza, una gran fiducia. E questa sicurezza, questa fiducia, più ancora che la mia pratica di mondo e la quadratura della mia testa, mi impediranno di provare nessun tremito, nessuna commozione, nessuna titubanza, nel pronunziare il gran «si», e nell'attaccarmi al braccio di mio marito per tutta la vita. 68 Avvenne così anche a te? Mi sei sempre stata avara di particolari, tu, sulle tue nozze e su tutte le circostanze che le ànno accompagnate. Io, dal giorno che mi sono fidanzata, ò avuti tanti pensieri nuovi, ò fatte tante considerazioni, ò provati dei sentimenti e delle sensazioni così diverse, che mi pareva, in certi momenti, di non essere più io. E allora sai a chi pensavo? A te. E mi chiedevo: Perchè Bianca non mi à mai parlato di tutto ciò? Eppure anch'essa deve aver sentito e provato quello che sento e che provo io! Ci siamo scritti dei volumi: ma se, un dì o l'altro, ci sarà dato di riavvicinarci, quante e quante cose non avremo ancora da raccontarci e da confidarci reciprocamente! Ciao, Bianca mia, tesoro mio. Non so se avrò tempo di scriverti domani. Giovedì no certo: è la grande giornata, pensa! Ma, non fosse che un dispaccio, venerdì mattina te lo mando. Tu, quando ài preso marito, mi ài dimenticata: io non ti dimenticherò. Ti abbraccio. ADELINA. Parigi-Milano, 5 maggio, ore 8,15 ant. Bianca Caradelli — Boulevard Poissonières 12 Paris — Tout bien. — enchantée — tendresses. ADELINA. 6 maggio 1887. Credo e spero, Bianca mia, che il mio dispaccio di ieri mattina ti abbia — nel suo laconismo — completamente informata di tutto: degli avvenimenti e delle impressioni. Il dispaccio rendeva la situazione. Sono contenta, ecco. Fu il primo giorno ieri, dacchè sono nata, che, levandomi il mattino, guardandomi attorno, aprendo le finestre per lasciar entrare il bel sole tepido di maggio, appoggiandomi al davanzale e rimanendo a guardare giù nella via, il mondo mi è parso meno brutto, e ò trovato che — forse — valeva la piena di essere nata e di vivere. Nella strada era il formicolìo della gente affrettata e il rotolar delle carrozze e dei carri che vanno e vengono dalla stazione. Più al largo, verso piazza Cavour, era tutta una passata e un raggrupparsi a crocchi, un incrociarsi e un salutarsi di bimbi e di balie diretti ai giardini pubblici. E mi sentivo lieta, nella lietezza che mi circondava, che era nell'aria del mattino caldo di primavera. Appoggiata così al davanzale, ò salutato colla mano James, che si dirigeva ad una vettura per recarsi all'officina. Poi sono rimasta a lungo, a guardare senza vedere, pensando, cercando di leggermi dentro l'anima mia. Ò fatti dei proponimenti buoni. Ò pensato che se la sventura non ci colpirà, sarà una vita dolce, gaia, tranquilla la nostra. Ò detto a me stessa che eviterò tutto quello che possa portarci sventura. E ò desiderato di aver presto un bambolino, anch'io, da condurre ai giardini, il mattino. James, ieri, è venuto a casa anche a far colazione: ciò in via straordinaria, perchè era il primo giorno della nostra vita in comune. Poi è tornato all'officina. È rincasato alle sei: abbiamo pranzato e siamo usciti a passeggio. Alle nove eravamo a casa di nuovo, e alle dieci a letto, come due bravi figliuoli giudiziosi. La zia mi à ceduta Bettina — sai, quella tal cameriera. Essa à imparato anche un po' di cucina. Io e James ce ne accontentiamo. E per me fu un gran sollievo il non trovarmi con una faccia nuova nel primo inizio del mio ménage: debbo fare anch'io il mio tirocinio, e Bettina mi ci aiuta e mi consiglia. Sarebbe stato un grave impiccio il dover pensare alla spesa giornaliera! 69 Infine, ancora una volta: sono contenta. Soltanto, — è curioso! — mi pare di essere un'altra. Chissà: è lo stordimento? è tutto questo nuovo, morale e materiale, che mi attornia? è il nuovo stato? è la nuova casa? sono le nuove cure? la nuova via che i pensieri necessariamente ànno presa? Non so. Ma, mi pare di essere un'altra. Per esempio ò riletto a questo punto i foglietti della mia lettera: non mi ci riconobbi. Sino a ieri l'altro, mi pareva, avrei giurato che la mia prima lettera a te, da donna maritata; sarebbe stata ben diversa. Più gaia, più ridanciona, più leggiera, più.... particolareggiata. Ancora adesso, vedi, tento di essere Adelina che scrive a Bianca, e non mi riesce. Il mio antico stile si è esaurito, forse, nel dispaccio di ieri. Era l'ultimo messaggio di Adelina Olivieri.... quantunque non lo fossi già più: da oggi, è Adelina Burton che scrive. Che è? Che è successo? Non so. Eppure sono lieta. Eppure sono contenta. Chissà? Ti abbraccio.... ADELINA. Bianca interruppe ancora — a questo punto — la lettura. Rimase col foglietto tra le mani, pensierosa, fissando, senza vedere, il paesaggio che attraversava. Non pensava più ai casi suoi, adesso. Pensava ad Adelina. Tutto quanto avea letto sin qui e che le era sembrato quasi nuovo — perduto come s'era, oramai, nei laberinti della memoria — lo riannodava a quanto Adelina le aveva scritto di poi, e che, più recente e più importante, le era ancor fisso in mente. Riannodava, e trovava tutto logico, conseguente, fatalmente giusto. Nelle lettere della fanciulla, nelle impressioni, nei giudizii, nei propositi, sinceramente espressi, scorgeva adesso, lei, fatta donna da un pezzo, e logorata da una vita così intensamente vissuta, i germi da cui sarebbero sbocciati — poveri fiori di cimitero — gli errori e gli orrori di una esistenza sbagliata, e i falsi amori, e le artificiose emozioni, e le inutili rivolte, e le codardie vantate come eroismi, e le ipocrite incoscienze messe innanzi per iscusa d'ogni tradimento, d'ogni bassezza. Come tutto era logico! E lei, Bianca, al primo fallo rivelato, se n'era stupita e addolorata! Come mai? E ricordava la propria vita, e la paragonava a quella dell'amica. Chi più degna — tra loro — di compianto e d'aiuto? Il treno correva velocissimo. Le Alpi biancheggiavano, vicinissime ormai. Poche ore, ancora, e Bianca toccherebbe il suolo d'Italia. 27 maggio 1887 Sai, mia cara Bianca, che io non ti racconterò più nulla di me, della cose mie; che smetterò addirittura di scriverti, se tu non muterai sistema? Anzitutto, la minor frequenza delle tue lettere: io ne ò una delle tue ogni quattro o cinque delle mie. Pazienza! So che ài più cure di me: la mamma, il marito, la bimba: e poi, la vita parigina, molto diversa della mia, scipita e borghesuccia: so che non puoi disporre di molto tempo come me che sono sola tutto il giorno, e quando ò letto un'ora, e lavorato un'altra ora, e gironzolato per la città per altre due, il meglio che mi resta a fare è di mettermi a tavolino per scriverti. Pazienza, ò detto! Comprendo tutto ciò, e ti scuso. Ma che, almeno, quando mi scrivi, tu avessi la confidenza che io uso con te: e mi raccontassi che fai, che ti succede, come vivi, che pensi. Nulla di tutto questo. Letterine punto lunghe; affettuose, non dico di no, ma inconcludenti. 70 Le toilettes, le mode, la première al «Vaudeville», il grand prix d'Auteuil, magari un pizzico di Boulanger.... E che me ne importa? Cioè sì, me ne importa e faccio tesoro delle notizie, degli avvertimenti, dei consigli che mi dài. Ma non mi basta. Ci sono, ci devono essere tante altre cose che non mi dici. In una parola, per spiegarmi: tutte le tue lettere io potrei mostrarle a mio marito. Mentre invece, tra due amiche come noi siamo, ci si dovrebbe scambiare delle lettere gelosissime, piene di piccoli misteri, di piccole confidenze, di piccole impressioni, che, senza aver nulla di straordinario e, Dio ne liberi, di colpevole, un marito è bene ed è utile che non sappia. Io l'ò sempre seguito questo sistema: ti ò sempre detto tutto. E tu, furbona, mi ài ingiunto di scriverti al vecchio indirizzo di casa tua, anche dopo maritata. Anch'io ò fatto così. Ti ò detto subito: continua a scrivere «Adelina, Olivieri, fermo in posta»: Bettina ci à fatta l'abitudine di andarle a prendere. Oh sì! Fatica inutile, e strade sprecate. Le tue lettere potresti dirigerle a casa mia che non sono punto compromettenti. Già, mio marito è fuori tutto il giorno, ed è più facile che io riceva e apra le sue, che lui le mie. Ma ne leggesse anche, delle tue lettere, non ci troverebbe che da annoiarsene. Dunque? Bada: noi partiremo verso l'otto, o il dieci per la Svizzera. Staremo assenti una ventina di giorni: e per questo tempo ti dò vacanza: tanto, gironzoleremo sui monti, e non saprei dove farmi indirizzare le lettere. Ma prima dell'otto, cioè prima che io parta, voglio avere una lettera tua, ma una bella lettera. Ài capito? E intanto ti punisco: avrei molte cose da dirti: un argomento interessantissimo sul quale intrattenerti, e non lo faccio. Lo farò quando te lo meriterai. Chez moi, nulla di nuovo. Continuo ad essere contenta. La vita è un po' monotona, poco emozionata. Ma non me ne lagno. Te l'ò già detto: sono molta mutata, e, sopratutto, ragiono molto. E se penso alla mia vita di ragazza, quella che meno adesso mi pare una vita di paradiso! È un mese, a dir poco, che non vedo Totò: soltanto questo è una beatitudine. Vado quasi ogni giorno dalla zia (sempre vedova, più vedova che mai!), ma nelle ore in cui sono ben sicura di non trovarcelo. Lavoro; mi occupo un poco della casa, acciocchè Bettina non ne diventi troppo la padrona; qualche visita (faccio passeggiare pei salotti il mio nuovo titolo di Signora!); leggo molto. E tu? Suvvia, squarciami i veli della tua esistenza. Perchè, sai? decisamente c'è del mistero nella tua vita. Tanti bacioni belli da ADELINA tua. Mercoledì, 3 novembre 1887. La domanda che mi rivolgi — mia cara Bianca — nella tua lettera che mi è giunta stamane, mi à fatto ridere. «Niente ancora?» Ma no! niente! Anzi, meno che mai. E, ti giuro, non è la buona volontà che ci manca! Che ci posso fare? È il destino! Non à permesso che io sapessi che cosa vuol dire essere figlia: e non permette, adesso, che io sappia che cosa vuol dire essere mamma. È un atavismo.... fisico-morale. E, per dirti tutto, comincio ad aver paura che questa sia, ed abbia ad essere, una disgrazia per me. Capisco che è presto per disperarsi. Ma insomma io mi annoio. Non ò niente da fare, e la giornata mi riesce lunga, eterna, interminabile. James non lo vedo che all'ora del pranzo: alle nove è stanco, perchè si è levato all'alba e à lavorato tutto il giorno: ed è un debito di coscienza per me il permettere che se ne vada a letto. Io lo seguo poco appresso. Se volessi, uscirebbe a passeggio con me, dopo pranzo: ma mi fa pena il chiederglielo. Dunque, vado a letto prestissimo anch'io. Ne viene di conseguenza naturale che mi alzi presto; alle otto, alle nove del mattino. E per arrivare all'ora del pranzo, ce ne vuole! Ti assicuro, è una fatica improba. Leggo molto: ò letto tutto il leggibile e, forse, anche l'illeggibile. Ò messo a contribuzione la zia (che mi à aperta — finalmente — la sua biblioteca, e ci ò trovata della roba più.... onesta di 71 quella che avevo già letto di straforo prima di sposarmi); ò messe a contribuzione le amiche (che mi diedero i libri più interessanti); mio marito (che mi à inflitto Dickens); persino Totò, che à l'impudenza di farmi delle visitine adesso, ogni tanto, e mi porta — di sotterfugio, in gran segreto — Catulle Mendès e Armand Silvestre; con delle strizzatine d'occhi e dei risolini latte e miele, come gli premesse o credesse di rendersi gradito e.... di formare la mia educazione. Ma le amiche sono quelle che mi forniscono le letture più interessanti; intendiamoci: più artisticamente interessanti; perchè ò anch'io i miei gusti letterarî, e mi picco di essere una conoscitrice e una buongustaia. Io già, lo confesso, son per la nuova scuola naturalistica. Dopo Zola — Bonnetain, Rosny, Guiches, Descaves, Métenier, ecc. Certamente tu conosci tutti questi autori, tu che vivi nel gran cervello letterario del mondo. Amo un po' meno gli impressionisti, se ne togli i De Goncourt che adoro perchè sono degli aristocratici. Abborro i simbolisti: Huysman per esempio non lo capisco: mi pare un uomo non di questo mondo. I filosofi, come Bourget, Rod, Houssaye, Véron, Karr, trovo che non ne capiscono nulla di nulla, specialmente quando parlano della donna e vogliono dipingere la donna: dicono delle cose sbagliatissime. Ogni tanto, per passatempo, come a sollievo dello spirito, mi piace un po' di roba mondana: e mi attacco a Droz; a Gyp a Halévy. Ai romantici poi, non ò mai fatto l'onore di riceverli in casa mia. E, infine, ò messo al bando gli Erckmann-Chatrian, gli Andrea Theuriet, e tutti codesti melensi scrittori di romanzi per le appendici dei giornali che entrano nelle famiglie. Della roba vecchia poco o nulla: un po' di Balzac e un po' di Flaubert, perchè è roba vecchia che è sempre nuova. E basta! Come vedi, ti ò dichiarati anche i miei gusti letterarî. Non so se potrei essere più sincera. Perchè io credo che i gusti e le preferenze letterarie in una donna sieno uno dei dati più certi per giudicare delle sue tendenze, delle sue idee, dei suoi metodi di vita; dei proponimenti e degli intenti, dei desiderî e delle speranze, delle paure e delle audacie, delle ingenuità e delle furberie, delle forze e delle debolezze che l'accompagnano nello esplicarsi quotidiano della sua attività di essere pensante e volente. Ma se domandi alla donna (l'ò constatato) quali sono i libri e gli autori suoi prediletti, in novantanove casi su cento ti senti rispondere una bugia. Essa capisce che il rispondere sinceramente a quella domanda, può voler dire tradirsi, scoprirsi completamente, mettere a nudo il carattere suo. E la donna non à nessun interesse a non conservarsi enigma. E sai perchè quella sincerità le sarebbe fatale? Perchè ogni donna ama i libri nei quali vede riprodotta sè stessa o la sua vita, se non nei casi che cápitano all'eroina, nei gusti, nelle sensazioni, nei difetti o nella virtù, negli odii e negli amori (per gli uomini a per le cose) che l'autore à dati e fatti provare ai protagonisti dei suoi romanzi. Ed è questa la vera ragione per cui il libro, come la commedia, non può avere influenza nè educatrice, nè demoralizzatrice sulla folla. Perchè ogni commedia e ogni romanzo non colpisce e non interessa in modo efficace e duraturo se non quei dati individui che trovano dei punti di contatto tra i personaggi dell'opera d'arte e sè stessi. E a questi individui l'opera d'arte non à più nulla da insegnare. Io, che sono sincera — non fosse che con te — ti ò detto i miei gusti: e ti ò rivelata, ancora una volta, me stessa. Ma credi tu che quei libri che amo abbiano avuta altra influenza su di me se non quella di farmeli amare? Credi tu che mi abbiano appreso qualcosa di nuovo o che abbiano modificate le mie idee? Credi tu che quello che ò letto possa spingermi od indurmi ad agire o a pensare o a condurmi diversamente da quello cha avrei fatto anche se non lo avessi letto? Credi tu che quei romanzi mi abbiano resa più o meno buona di quella che era prima di leggerli, più istrutta del mondo e della vita, più esperimentata dei vizi e delle virtù del nostro secolo? Credi tu che quelle letture mi incoraggeranno a correre più presto sulla mia via, o mi daranno maggiori titubanze a percorrerla?... Ma no! Io amo quei libri perchè in ognuno vi ó trovato qualcosa di me stessa: perchè in ognuno ò constatato che io, al posto dell'eroina, avrei agito come lei. Ecco tutto. Il libro deve rifar la gente! Frottole, Bianca mia, da raccontarsi ai ragazzi di scuola. E mi arresto.... perchè un gran dubbio mi coglie: Dio! starei per diventare una donna noiosa? Vedi che vuol dire non aver nulla da fare! E gli è perciò che in certi momenti di noia, sdraiata sulla poltrona a dondolo, con gli occhi al soffitto, pensando e cercando di trovare quali occupazioni potrei procurarmi, quali mezzi potrei tentare 72 per trascorrere un po' meglio e un po' più in fretta le lunghe ore della giornata; in certi momenti — dicevo — mi pare che la maternità, sarebbe la migliore soluzione di questo problema che comincia a impaurirmi. Ma sono maritata da sei mesi. Aspettiamo e.... con coraggio. Te beata! Il desiderio di tutte le spose fu per te appagato nel limite minimo! Sei sempre stata più fortunata di me. ADELINA tua. 11 gennaio 1888. Mia cara Bianca, Ò pensato e deciso che non c'era proprio una ragione al mondo di guastarsi il sangue e di rovinarsi l'esistenza: ti basti il dire che dal mio matrimonio in poi ero dimagrata e diminuita di peso. Ti giuro, non avrei potuto durarla più a lungo nella vita che mi ero imposta per un eccesso di riguardo verso mio marito. Che lui debba coricarsi alle dieci per alzarsi alle sei, sta bene. Ma che io dovessi seguire le sue abitudini e sottomettermi completamente a' suoi bisogni, ah! perbacco, no e poi no. L'ò durata nove mesi e mi pare anche troppo. Un altro poco e sarei diventata idrofoba! Così, ò preso il mio coraggio a due mani e mi sono emancipata. Da quindici giorni esco quasi ogni sera: vado in casa della zia, o della Clelia, o della Rossi. Qualche volta a teatro; e con ciò rendo un servizio a zia Ermelinda, la quale, da quando mi sono sposata, non aveva più potuto mettere piede al Manzoni o ai Filodrammatici, perchè sola con Totò: non ci voleva andare. James, dopo pranzo, mi accompagna. E qualcuno mi riconduce a casa. Non faccio nulla di male, ti pare? Anche mio marito, del resto, riconosce che questo è perfettamente giusto, che io mi svaghi un pochino e non mi corichi all'ora della galline. Anzi, è lui che mi spinge ad escire. Perchè à questo gran merito, bisogna riconoscerlo: non è un egoista, e non è geloso. E siccome le poche ore che sto con lui, io sono cortese, docile, affettuosa, egli è contentissimo di me, e mi ama ogni giorno di più. Permettendo che mi diverta un poco, ci guadagna anche lui. Perchè, lo confesso, in questi ultimi tempi, la monotonia, la troppo grande tranquillità della mia esistenza, avevano finito per rendermi a volte malinconica, a volte dispettosa, irascibile, quasi sempre immusonita. E lui, innamorato (a modo suo, ma innamorato), se ne impensieriva e se ne crucciava. Da quindici giorni invece, le cose sono mutate. La sera vado di qua o di là: vedo un po' di gente; chiacchiero, qualche volta mi diverto: torno a casa allegra, eccitata.... Lo sveglio, gli racconto che cosa ò fatto; chi ò visto, cosa si è detto.... E dopo, si riaddormenta felice e beato come un re. Così, siamo contenti in due! In casa della Clelia c'è ogni sera una causerie simpaticissima. Di signore, lei sola, ed io quando ci vado. Uomini pochi e per bene. Niente giovinottini azzimati, corteggiatori di mestiere, fannulloni antipatici: niente di quegli uomini la cui unica scienza è il sapersi fare il nodo alla cravatta come se lo fa il Principe di Galles. Clelia è diventata veramente una dama piena di distinzione, e rivela una intellettualità non comune. (Chi lo avrebbe detto? Era una smorfiosa, in collegio!). Si è circondata di pochi intimi simpaticissimi. Il senatore Duranti, il dottor Malusardi, il maestro Colorno e Giovenzani sono i quattro immancabili di ogni sera. Come vedi, niente di compromettente. Il più.... irresistibile sarebbe Giovenzani, il romanziere gentiluomo e raffinato del quale ti ò mandato e avrai letto il romanzo uscito l'anno scorso. Ma anche lui à quasi quarant'anni ed à il buon gusto di non far la corte. Si chiacchiera di arte, di scienza, talvolta anche un pochino di politica, ma senza pedanteria. Si commenta l'ultimo libro o la nuova commedia; si racconta, magari, lo scandaluccio del giorno; si beve una buona tazza di thè; e mezzanotte arriva sempre troppo presto. Qualcuno dei poco compromettenti 73 cavalieri mi riaccompagna: più sovente il Giovenzani che abita in via Manzoni e fa, quindi, la mia strada. I nostri quattro amici chiamano me e Clelia le due vedovelle. Dalla Rossi il circolo è più largo: ci va più gente: più signore sopratutto. E le serate vi sono meno simpatiche. Come vedi, il fatto soltanto che io preferisco le piccoli riunioni della Clelia, ti dimostra che sono una donnina di giudizio. E tu che fai? Ti diverti? Scrivimi a lungo e ama la tua ADELINA. 2 aprile 1888. Sapresti dirmi tu — mia Bianca — che cos'è un amore colpevole? È una domanda che mi rivolgo da due mesi e la risposta che dò a me stessa, non è una risposta assoluta: è soltanto relativa, non mi soddisfa abbastanza, ma mi tranquillizza. Io mi rispondo cioè, che non so precisamente che cosa sia un amore colpevole: ma che il mio non è tale. Non parrà strano, a te che mi conosci e che dividi le mie idee, ch'io ti parli con tanta calma di ciò che — lo giurerei — avevi preveduto dovesse accadere, ed è accaduto. Ma, infine, ne ò colpa? Vediamo. Una donna va in società: è bellina, è giovane, molto libera per circostanze indipendenti da lei. Naturalmente, le sono subito d'attorno in molti. Le fanno la corte, pieni di speranze: la conquista pare tanto facile! Ed essa, che non ama suo marito, si lascia corteggiare, per vanità, per leggerezza, per assenza di senso morale. Il più ardito, o il più pratico; il più bello o il più elegante; un ufficiale di cavalleria col tintinnare della sciabola e degli speroni; il conte A, o il marchese B colla lustra delle loro corone; o il milionario C che può spendere profumatamente in tutto ciò che serve a far la corte a una donna, senza, naturalmente, che questa donna ne abbia il minimo lucro o vantaggio materiale; uno insomma di codesti eterni corteggiatori di mestiere, riesce, anche più presto di quello che sperava. Un bel giorno la signora accetta il convegno, e gli arriva in casa.... punto innamorata, ma semplicemente curiosa, di.... fallare. Novantanove volte su cento, si accorge, a cose compiute, che non ne valeva la pena. Ma l'irreparabile si è messo di mezzo: e, tanto per giustificare, in faccia a sè stessa ed al mondo, la propria colpa, ci ricasca e la rinnova. Perchè una caratteristica di questa colpa che è l'adulterio, è che il mondo la scusa tanto più quanto più dura. L'adulterio di un giorno è un capriccio; quello d'un anno è una passione; quello di tutta la vita è una fatalità, innanzi alla quale ci si inchina. Nel primo caso si deride il marito: nel secondo, lo si compiange: nel terzo, si compiange.... la moglie. Gli scettici soltanto compiangono invece l'amante. Ebbene, niun dubbio: quella, donna che si è data così, per curiosità, è una creatura indegna: il suo è un amore colpevole. Ma il mio amore è ben altro. Mio marito va a letto alle nove, ogni sera. Per otto mesi di matrimonio io mi acconcio a una vita da monastero. Ma alla fin fine me ne stanco: sento il bisogno di vivere, io che non ò ancora vissuto, io che ò avuto una fanciullezza disgraziata, e che ò trascorsa metà della mia giovinezza rimpiangendo di essere nata. Mio marito trova giusti i miei desiderî, e li seconda. Ebbene, non mi sbriglio: non corro i salotti di ricevimento, non mi lascio tentare dalle feste, dai teatri, da tutti i luoghi così detti di perdizione. No. Il mio luogo di svago favorito è la onesta casa di una onesta signora, dove non trovo che gente ammodo, che persone per bene: dove non si fa la corte alle donne, dove non si tengono discorsi nè vani, nè fatui, nè sovvertitori; un ambiente che non corrompe l'anima ma 74 la innalza; dove l'intelletto non s'inaridisce discorrendo di mode o di scandali, ma si coltiva in una conversazione di uomini forti, intelligenti, superiori. Ebbene, lì, in quell'ambiente, per disgrazia o per fortuna mia, m'innamoro. Per la prima volta dacchè vivo, sento qualcosa dentro di me che mi esalta, che m'innebria.... oh Dio! sì, che mi rende felice. Per la prima volta sento di vivere, sento di essere qualcuno, sento di essere donna. E lui non mi à corteggiato mai; non à fissati più a lungo, fosse pure una volta sola in tre mesi che ci siamo visti quasi ogni giorno, i suoi occhi nei miei: non mi à detto mai una parola che non fosse di cortese rispetto soltanto. Riaccompagnandomi la sera, nel breve tratto di via, si è mostrato nulla più che un gentiluomo: à spinto la sua riservatezza sino a non offrirmi il braccio, sino a mostrarsi evidentemente lieto, e meglio a suo agio, se qualcun altro si univa a lui per accompagnarmi. Ed io, a lui, non ò mostrato che dell'ammirazione, della fiducia, dell'amicizia: non fui mai nulla più che cordiale. Ma una sera, istintivamente, contemporaneamente, senza volerlo, senza averlo pensato, quasi senza accorgercene, ci troviamo, lui ad offrirmi il suo braccio, io a cercarlo. E procediamo, adagio, senza parlare; e passiamo dinanzi alla porta di casa mia senza vederla: e andiamo avanti, senza rendercene conto, sino a che un fanale sfacciato di luce elettrica ci impone di ritornare sui nostri passi. E giunti alla mia abitazione, ci tratteniamo, la mano nella mano, a lungo, senza guardarci, paurosi di guardarci. E solo ci decidiamo ad aprire lo sportello, quando udiamo dei passi di persone che vengono verso di noi. E allora soltanto, egli mi susurra: — Non venite più dalla signora Clelia, la sera. Io scappo su in casa, felice, beata; e mi pare di essere un'altra, e mi pare di essere nata allora, e che la mia vita sino a quel momento non sia stata che un sogno. E a mio marito che si sveglia, racconto allegra, chiacchierina, quanto ò udito, di che cosa si è parlato, dalla Clelia, come sempre. E mentre lui mi abbraccia, io chiudo gli occhi, e mi dimentico. È un amore colpevole, il mio? ADELINA. Domenica. Naturalmente, mia Bianca, dalla Clelia ci sono tornata. Non ò mai dubitato un momento di doverci tornare, nè ò provato paure o titubanze rientrando nel salotto dove lui era già, seduto sulla sua solita poltroncina, in quella sua posa abituale, piena di abbandono e di corretta compostezza insieme. Credo di non aver neppure arrossito, vedendolo. Ogni essere messo al mondo senza che gliene venga chiesto il permesso (vecchio pensiero e vecchia frase, ma in cui si nasconde — e a ragione — la scusa prima e più convincente ad ogni colpa degli uomini), à diritto di vivere. Vegetare è degli animali e delle piante. Io ò vegetato, più o meno bene, soddisfacendo più o meno regolarmente alle funzioni dell'organismo, sino ai 25 anni. E un bel giorno mi sento vivere, e provo la voluttà di vivere. Debbo rinunciarvi? Perchè sono nata una poveretta; perchè crebbi senza gioie, senza sorrisi, senza affetto d'intorno a me; perchè ò toccati i venticinque anni maledicendo il giorno che venni al mondo; perchè il cuore mi si era atrofizzato nel petto, senza la possibilità di amare e neppure di voler bene — (anche te, unico essere caro, mi fosti tolto!); — perchè ò trascinati i più begli anni deridendo, odiando, infischiandomi di tutto e di tutti, senza speranze, senza ambizioni, senza meta.... ebbene, oggi, che qualcosa di buono, di intimamente buono mi si presenta; oggi che provo e constato che il cuore non era morto; oggi che trovo uno scopo alla vita; oggi che amo, in una parola, che amo, e che amando mi sento qualcuno, qualcuno che à dei diritti finalmente, mentre non ebbi mai che dei doveri; che mi sento, insomma, un essere completo, uguagliato agli altri, quaggiù, dove l'uguaglianza è il dono più bello che la natura à decretato e al quale stupidamente o paurosamente molti rinunciano; oggi, io dovrei rinunciare a tutto ciò? Ah! no! 75 — Innamórati di tuo marito! — ti dicono i rétori e i legislatori. Cretini! Come se il cuore fosse un orologio che si carica a epoca fissa!... come se i legislatori amassero tutti la moglie loro e non la donna altrui, anch'essi! E non ò mercanteggiato! Niente false ipocrisie, niente stupidi pudori, niente sciocco rispetto.... di sè stessi — come lo chiamano le amiche mie che si fanno far la corte un mese, fissando in precedenza il giorno che diranno di sì. No. Oggi sono stata da lui.... e di lui. Non so, Bianca, se le mie confessioni continueranno. Non so se ti spedirò questi foglietti in cui verso l'anima mia. Essi sono il mio giornale, senza voler essere la mia scusa. Se li riceverai, gli è che avrò sentito un bisogno irresistibile di espansione, quella voluttà che si prova di rivelare a qualcuno la propria felicità: una rivelazione dalla quale la felicità viene centuplicata. Se ti giungeranno, non accoglierli come lettere. Lettere, non ò più tempo di scriverne. Perdonami. Lunedì. Vedendomi entrare, ieri, si alzò, stupito, ma con una serena contentezza nei grandi occhi scuri profondi. Mi stese le mani, mi fissò a lungo, senza, parlare. Poi, alla fine, commosso, a bassa voce, come è suo costume, smorzando l'ultima sillaba delle parole, come se le parole gli morissero sulle labbra, mi chiese: — Perchè, Dély? Audacemente ò risposto: — Perchè di sì. Avrei trovato una ragione migliore? Perchè di sì, pensavo; cioè, perchè ti amo, perchè mi ami, perchè bisogna che io sia tua, e tu mio; perchè non c'è una ragione di non concederci questa felicità, che era nel destino, se non abbiamo fatto nulla per procurarcela, e che nessun sacrifizio ci impone per conquistarla: nessun eroismo e nessuna bassezza. Perchè di sì. Eccomi! Ma egli ricominciò a parlare. — Perchè, Dély?... Vi amo.... con tanto affetto, con tanta tenerezza vi amo, che ò paura del mio amore, per il danno che vi potrebbe arrecare. L'amore è sovente, troppo sovente, sinonimo di sventura. Il dolore di farvi del male, sia pure senza volerlo, sarebbe così grande, così intenso, che neppure tutte le felicità che mi dareste, voi, adesso, e il ricordo di esse, poi, un giorno, basterebbero a lenirlo. Mi aveva fatto sedere di contro a lui, e mi susurrava queste parole, a fior di labbro, fissandomi. E io non osavo più di guardarlo. Sul tavolino accanto era un libro: il suo romanzo. Lo avevo preso fra le mani, e lo tenevo stretto, gli occhi fissi sul nome di lui, stampato in cima alla copertina. Mi ripetevo quel nome, mentalmente — Eugenio Giovenzani — insistentemente, quasi dovessi impararlo a memoria, come se a furia di ripeterlo potessi appropriarmelo, farne qualcosa di mio. — Non vi ò cercata, lo sapete; non ò commesso con voi la volgarità di.... farvi la corte.... — Lo so — risposi. — Allora, forse, non vi avrei amato. — Ebbene, poichè non c'è colpa, in questo amore, facciamo che senza colpa rimanga. Perchè distruggere l'incanto?... Vi amo, sì, tanto: ma non voglio farvi del male. — Che importa? Non ò paura. Amo, per la prima volta in vita mia; voglio amare, voglio provare l'amore. Ne ò il diritto. — Non voglio farvi del male. — Non me ne farete. — Sì, ve ne farò, vostro malgrado, mio malgrado. Allora ò alzati gli occhi su di lui, pieni di lagrime, interrogando: 76 — Quell'altra?... Eugenio chinò la testa. — È quell'altra che amate!... — susurrai angosciosamente. — Per, me, forse, un po' di affetto, chissà, un capriccio.... E avete l'onestà di prevenirmene. Egli cadde ai miei ginocchi. — No, ti giuro. Non l'amo più. Amo te, te sola, te lo giuro, Dély, te lo giuro; e ò il diritto di essere creduto, io che non ti ò chiesto nulla, io che non osavo neppure di guardarti. Ma quell'altra esiste e à dei diritti! È una moglie, è una madre: ed à arrischiata la vita per me, e l'onor suo, e la sua pace, e l'affetto e la stima dei figli. Essa — oggi — è virtualmente mia moglie. Tu lo sai, poichè sventuratamente lo sanno tutti. Essa à ogni diritto: io nessuno, neppur quello di amar te. Si alzò, e mi disse: — Vattene. Non potevo. Allora, gli ò giurato che mi sottometterei: che comandasse, lui, tutto, fuorchè di rinunciare al suo amore. Mi sono avviticchiata al suo collo, disperatamente: — Amami, come puoi, come vuoi, come l'altra lo permetterà nella sua ignoranza: concedimi quella parte soltanto di tempo e di pensiero che potrai. Non sarò esigente, non imporrò nulla, non sarò neppure gelosa. Mi acconcierò a tutto, a saperti di un'altra, persino! Ma ti amo, ma non posso rinunciare a te.... Martedì. Anche oggi ò passate tre ore con lui, in casa sua, nella sua bella casa severa, che pare il tempio dell'arte e della distinzione. Che grande amore, che dolce amore è il nostro, in cui la sensualità non è che una concessione che lo spirito fa alla materia. Oh! le belle ore passate nello studio di Eugenio, chiacchierando, abbracciati; sfogliando delle riviste; ammirando delle incisioni; tacendo; gli occhi negli occhi ubbriachi di letizia quieta, le mani nelle mani tranquillamente, fiduciosamente abbandonate. Oh! le belle ore di gaudio sereno! È un amore intellettuale il nostro. È una fusione delle anime.... Giovedì. Non siamo gelosi. Mi à detto che vuol bene a quell'altra. Che egli le deve voler bene, per rispetto al passato. Gli ò detto che voglio bene a mio marito. Che gli devo voler bene, perchè mi à tratto dal nulla. E non siamo gelosi di questo bene, che è così niente in confronto del nostro amore: che è l'adempimento di un dovere, adempimento pel quale possiamo tuffarci nel nostro amore e bearcene senza rimorsi: come uno svago dello spirito, come un sollievo dell'anima dopo la fatica di un dovere compiuto. Non è un tradimento il nostro. Ci concediamo — noi — quello che non possiamo, che non potremmo concedere ad altri. Il nostro amore non è amore rubato ad altrui. Se non ci amassimo, non ameremmo nessuno. Non io mio marito, non lui quella donna. Ciò che ad essi l'anima nostra può dare, ciò che il dovere ci impone di dare, lo diamo: stima ed affetto nel campo morale: cure, riguardi, assistenza, nell'ordine materiale delle cose. La folla, se conoscesse il nostro segreto, ci condannerebbe, forse. Ma ci basterebbe il rispetto di pochi eletti a compensarci della condanna. I pochi eletti che comprendono l'anima umana. Eugenio mi parla del romanzo che pensa. Vorrei essere la sua musa! 77 14 giugno 1888. Mia cara Bianca, Ti ringrazio dei consigli che mi dài: e le tue paure sono una prova novella dell'affetto che mi porti. Ma non temere. Sono tre mesi — ormai — che ci amiamo, che ci vediamo quasi ogni giorno, e nessun pericolo abbiam corso, e nessuno sospetta nè sospetterà mai di nulla. Nessuno, e sopratutto James e.... quell'altra. Gli è che la nostra relazione è qualcosa di speciale, di diverso da tutte le altre. Nulla muta — per essa — nella nostra vita non solo, ma, ciò che più importa ed è più difficile a spiegarsi, nei nostri sentimenti. Oh! sì, come è difficile a spiegarsi! Un uomo od una donna volgare, se io loro dicessi che, avendo un amante, non odio e non trascuro — in nessun senso — mio marito, non mi capirebbero: concluderebbero, forse, che sono una viziosa o che non amo nè l'uno nè l'altro. Ma tu, tu che mi ài seguita passo passo dalla fanciullezza: tu che sai i casi della mia vita: tu che conosci l'anima mia e il mio pensiero, mi comprendi certamente. Mi comprendi, certamente, e, più che tutto, perchè sei una donna intelligente. Quando ò cominciato ad andare in società, ricordi? ti ò detto: questo si risolve in un bene anche per mio marito. E forse, allora, qualcuno avrebbe potuto dire che lo trascuravo. Invece, si risolveva in un bene, perchè quel po' di svago uccideva l'uggia, impediva anzi all'uggia di nascere: e ritornavo a mio marito allegra e devota, quale mi voleva. Adesso (tu mi comprendi, sai che non faccio dell'accademia, sai — sopratutto — che non cerco delle scuse — e perchè le cercherei, e per chi?), adesso, anche questo avvenimento nuovo che da tre mesi mi occupa e occupa la mia vita, si risolve in un bene per mio marito. Non ò mai capito come e perchè l'amore per un uomo debba, recare di conseguenza l'odio per un altro. E il mio amore, poi, è così alto, così nobile, così sereno, starei per dire così ideale, che non tocca a tutto ciò che è della terra, e non corrompe l'anima, e non scompiglia lo spirito. Non mi fa dimenticare i miei doveri e i miei obblighi. Oserei dire che me li rammenta, che mi dà tanto più la forza, il coraggio, e la volontà di adempirli. Anzitutto perchè la sua stessa nobiltà, la sua stessa elevatezza mi migliora, mi rende buona, mi nobilizza, mi innalza. Poi, perchè è a prezzo di adempiere ai miei doveri, che questo amore — che è la mia vita spirituale — mi sarà conservato. Mio marito? Non è un uomo volgare; ma, forse per natura, o per necessità di circostanze, o perchè l'esplicarsi della sua intellettualità è assorbito dal lavoro che è il gran problema della sua esistenza; mio marito non chiede a me che di essere una massaja, una buona, un'attenta, una devota massaja. Ed io la sono. Mi costa così poco di esserla! Nessuna fatica morale e materiale, e nessuna ripugnanza. Io adempio, serenamente, tutti i miei doveri: tutti, nessuno escluso: serenamente e volonterosamente: appunto perchè so che sono dei doveri: appunto perchè so che debbo adempirli. L'anima e il corpo ànno due vite ben diverse, ben distinte in me. Così James è felice; e benedice, dopo più che un anno di matrimonio, il dì che mi à sposata. Tu vedi, Bianca, che non ài nulla a temere, che non corro nessun pericolo. ADELINA tua. 17 luglio 1888. Due righe sole, di furia, oggi, mia Bianca cara. Parto domani per Saint-Moritz. Parto colla zia. James; anche lui, mi à incoraggiato ad accettare l'invito, poichè il caldo mi à proprio spossata, e 78 credo che mi ammalerei se non godessi di un po' d'aria pura per una ventina di giorni. Ò detta a James, oggi, la prima bugia: che la zia mi à invitata. La verità è che le mie spese le farò da me — e sempre per quella tale ragione che tu sai — colle mie piccole economie. Il braccialetto di Totò mi à fruttato ottocento lire. Ne ò di troppo per la mia cura. Ò decisa zia Ermelinda a lasciare gli scrupoli, e a scegliere il soggiorno di Saint-Moritz, dove Totò ci raggiungerà. Ormai à perduta ogni speranza di matrimonio: à quarantasei anni: può permettersi il lusso di sfidare le malignità della gente. Ò durata, un po' di fatica, ma sono riuscita a convincerla. Immagini, certo, perchè volevo Saint-Moritz. Ci va Eugenio con lei. Ma gli ò giurato di essere buona. Scrivimi lassù. ADELINA. Saint-Moritz, 22 luglio. .....Essa è qui sola. Il marito, banchiere e milionario, à troppi affari a Milano. Stamane è arrivato Totò, e le presentazioni, così, per mezzo suo, avvennero prima che Eugenio — come avrei preveduto — le facesse, quando arriverà, domani. Perchè Totò è collega in banca del Guglielmi; e quando à saputo che c'era qui la moglie dell'amico, le si è presentato, le à presentato poi, oggi durante il pranzo, me e la zia. Essa mi à accolto con non troppa cordialità. Sospetta forse? Non so. Sfoggia un lusso principesco. Vista da vicino non è bella, e non è giovanissima. Ma, innegabilmente, à uno charme, ed è ciò che deve essere piaciuto, illo tempore, a Eugenio. Immagino la sorpresa di questi, domattina, quando saprà che abbiamo già fatta la reciproca conoscenza. Poveretto! passerà una ventina di giorni poco lieti: sarà un supplizio per lui. Ma io, questo sacrifizio di stare un mese senza vederlo, non ò potuto farglielo. E poi, gli ò giurato di essere buona. E la sarò. Il luogo è magnifico. Ma che me ne importa? Saint-Moritz, 3 agosto .....Decisamente essa non mi può soffrire. Mi tratta d'alto in basso, mi fa degli sgarbi. Certo non sa nulla: ma suppone — (anche Eugenio me lo à lasciato capire che la situazione è questa) — suppone che io sia innamorata di Eugenio e che tenti di portarglielo via. E lotta. Lotta di furberia, di astuzia, per scoprire: lotta di tenerezza (che arriva fino alla spudoratezza) con lui, e di eleganza e di lusso per tenerselo avviticchiato. Non temere, Bianca. Sono calma: ò giurato a me stessa ed a lui di non compromettermi e di non comprometterlo. La lascio al suo lusso (figúrati, in quindici giorni non à messo due volte la stessa toilette!) e non tenterò certamente di lottare con lei in questo campo. E non sono esigente con Eugenio. So che non può stare con me; so che è spiato, giorno e notte. Credo che quella smorfiosa gironzoli pei corridoi dell'hôtel, all'oscuro, pur di coglierlo in fallo! In quindici giorni ò potuto abbracciarlo una volta. Pazienza! Meglio così, che lui qui con lei, ed io lontana. 79 E sopporto i suoi sgarbi. Sai, mi tratta da borghesuccia, lei che viene dal nulla: i milioni del marito, soltanto, le permettono di far la duchessa e di cambiare il suo nome volgare di Giovannina in quello di Jeanne! Che m'importa? Eugenio m'ama: ed è ben diverso il tono della sua voce quando, anche in mezzo alla gente, si rivolge a lei dicendole: — Signora Jeanne, — da quando invece mi chiama: Signora Dély. — Dély, il bel vezzeggiativo che egli à creato per me. C'è un tremito nella sua voce, quando pronuncia, il mio nome.... Saint-Moritz, 10 agosto. .....Ebbene no, non ò voluto, dargliela vinta! Pareva che il suo soggiorno qui dovesse durare tutt'al più sino al 12 corrente. Ma à udito che il 20 ci sarà un gran ballo: à telegrafato a Milano perchè le inviassero una toilette nuova, fatta apposta, e si propone di eclissare, quella sera, tutta le signore del luogo. Poi, forse, le arrideva l'idea di farmi un dispetto: di vedermi andar via, annunciando che lei — e lui per conseguenza — si tratterrebbero ancora una diecina di giorni. Allora ò detto alla zia: «Restiamo anche noi una settimana di più». — Si è fatta pregare un poco, ma à finito coll'acconsentire. Perchè, insomma, qui, con Totò, ci è venuta e ci si è fatta vedere: otto giorni più, otto giorni meno, non sono quelli che la comprometteranno. Convinta la zia, bisognava procurarsi i mezzi e le armi per la mia lotta personale. E, sopratutto non dovevo perdere di vista mio marito. Allora ò fatta una corsa a Milano, ieri l'altro, dicendo a zia Ermelinda che era meglio andassi a salutare James e a chiedergli il permesso di prolungare la mia assenza. James fu commosso da questo mio pensiero gentile. — Bastava che tu mi scrivessi, — egli mi disse. — Cattivo! Desideravo di abbracciarti! — gli ò risposto. Come vedi, Bianca mia, la necessità aguzza il talento! Poi sono andata dalla sarta. Che portento di donnina è la mia sarta! Non solo mi à promesso pel 19 un abitino bianco che sarà un amore: non solo non mi chiede che le paghi il conto e mi presta un fido illimitato: ma à spinto la sua cortesia e la sua fiducia sino a farmi un prestito di 500 lire, che ò saputo chiederle con un'arte squisita, inventando una sequela di contrattempi, di curiose circostanze, di equivoci strani. E sono qui con tutto quello che mi occorre per affrontare la battaglia. Ah! Jeanne del mio cuore, ài trovata una donnina che ti vale! Quanto ai debitucci che ò dovuto fare, troverò modo di pagarli in seguito. Già, questa cura di Saint-Moritz è l'unico lusso che mi concedo. Dopo, tornata a Milano, mi rimetterò in carreggiata. E, proprio, a mio marito non avevo cuore di cercar denaro. Prima di tutto so che non ne avrebbe da darmene, o, per darmene, dovrebbe fare dei sacrifizi. In secondo luogo mi preme di non procurargli nessuna preoccupazione di nessun genere. Dalla preoccupazione al sospetto il passo è breve, e.... Dimmi, Bianca, ti pare che io sia una donnina che ragiona? Che pensi di me? Ciao, tesoro; sono felice! ADELINA. Saint-Moritz, 21 agosto. .....Si parte domani, io e la zia. Totò è partito stamattina. Che dolore, che schianto sarà, domani, l'andarmene, sapendo che lei ed Eugenio, rimarranno qui ancora due giorni, loro due soli! 80 Mi consolo un pochino pensando che tra quattro giorni lo rivedrò a Milano: e lei non ci sarà, se Dio vuole! Perchè è obbligata a recarsi nella sua villa sul lago, dove, per quanto essa sfidi l'opinione pubblica, non può tenersi con sè Eugenio. Egli anderà due o tre volte a trovarla, durante il settembre e l'ottobre. Non di più, me lo à promesso. Rimangono qui sino a lunedì, e verranno a Milano assieme. Quella spudorata non si gena di nulla. À avuto il coraggio di pregarnelo — commedie, naturalmente — in pieno circolo, ieri l'altro sera — «Giovenzani, sarete il mio cavaliere, sino a Como?» Dio! l'avrei strozzata! E quel babbeo di marito?... Veramente c'è chi dice che sappia tutto e lasci correre per amore di quiete. Ma che ci sieno proprio dei mariti di quella specie? O che sia possibile, invece, che una relazione di tal natura sia nota a tutti, a tutta la città, fuorchè al marito? Eppure di questi casi se ne vedono tanti! Decisamente, c'è un Dio per gli innamorati. La festa d'ieri sera, magnifica. Non mi sono divertita molto perchè... ero troppo occupata. Ma quel poveretto d'Eugenio si è divertito ancora meno di me. Era sulle spine. Tra due fuochi, pensa! Scrivimi a Milano, fermo in posta, come sempre. 6 gennaio 1889. Bianca, Bianca mia, che angoscia! Oh! perchè non sei qui, accanto a me? Perchè non mi sei vicina, in questo momento terribile della mia vita? Da te sola potrei avere una parola di conforto; tu sola potresti farmi del bene; tu sola, forse, riusciresti ad evitarmi delle pazzie. Che farò? Che sarà di me? Tutto è finito! E per sempre! Per sempre, sì, perchè l'onestà di Eugenio, una onestà che è orgogliosa di sè stessa (la peggiore di tutte!), gli impedirà qualunque concessione, qualunque dimenticanza, qualunque debolezza. Egli è partito, stamane, dicendomi che non ci vedremo mai più. E terrà la promessa! È partito chiedendomi perdono. — Te ne avevo avvertita, — mi disse, — ti avrei fatto del male, senza volerlo. Perdonami, Dély. Non ò la forza, non ò il coraggio, Bianca, di raccontarti per disteso quello che avvenne. Ti basti questo: essa, la Guglielmi, à scoperto tutto, e ci à sorpresi, ieri l'altro, in casa di Eugenio. A avuto il coraggio di venir là, sapendo che io vi ero. E ci veniva per la prima volta, perchè in casa di lui non aveva mai voluto entrarci, per paura di compromettersi. Si vedevano altrove. Ma ieri l'altro ci è venuta, come un marito tradito che arriva per constatare un flagrante adulterio. Dio! che scena! Breve, terribile nella sua semplicità, nella sobrietà delle sue tinte. Una scena da commedia; ma, purtroppo, nella triste realtà. Si chiacchierava, in salotto, come facevamo, per delle ore, ogni giorno. A un tratto, udiamo un susurrar concitato nella stanza vicina, e come un insistere di chi viola la consegna. Poi la porta si spalanca e appare essa, pallida, tremante. Io rimango allibita nello stupore di quella apparizione. Eugenio si alza, di scatto, e fa un passo verso di lei. Ma essa lo ferma col gesto, come a dire: «Non temete; non è uno scandalo che voglio». — E, dopo un momento, gli susurra: — Era dunque vero. Avete un'amante. Poi, dopo un'altra piccola pausa: — Bisognava aver il coraggio di avvertirmene, almeno! E, con un tono indefinibile di ironìa e di odio, di scherno e di rabbia: — Non avrei avuto la ferocia d'impedirvelo! E uscì. 81 Come dirti che avvenne poi, tra me e Eugenio? Non so, non ricordo più nulla. Ma egli è partito stamane, chiedendomi perdono. Non è uomo che potesse rimanere in una situazione simile, dolorosa e ridicola insieme, incresciosa e umiliante. Non potendo far nulla per quella donna verso la quale, nella sua onestà, aveva — egli dice — assunti obblighi e doveri sacrosanti per tutta la vita, a cui era venuto meno non di progetto, non per leggerezza, ma spinto dalla fatalità che aveva fatto di noi due innamorati, non gli rimaneva che rinunciare a me, a questa felicità che era un insulto a quella donna. Io mi ero sacrificata, come lei: io avevo arrischiato ciò che aveva arrischiato lei: tutte e due avevamo calpestata la nostra onestà, per lo stesso uomo. Ma essa c'era prima di me. Io lo sapevo: egli me ne aveva avvertita. — «Dovrò farvi del male!» — E il presentimento si è avverato. E sono io che devo inchinarmi, oggi, e rassegnarmi. Eugenio me ne à convinta. E ci lasciammo, per sempre, innamorati più ancora del giorno che, trascinati da una forza sovrumana, ci siamo buttati l'uno nelle braccia dell'altro. E finita! A che vivere, ancora? a quale scopo? Bianca, Bianca, come avrei bisogno di te, oggi, delle tue carezze, delle tue parole buone! Vieni, vieni. Trova il mezzo di fare una gita a Milano. Dammi questa prova di amicizia e di affetto. Potessi venire io da te! ma non posso, non posso! ADELINA. 8 febbraio 1889. .....E trionfa, lei! E se ne infischia di tutto e di tutti! L'à mai amato, forse? Ella saprà — probabilmente — dove Eugenio si trova. Credi che gli scriva, che lo richiami? Che! Pensa a divertirsi, a sfoggiare un lusso sfrenato. È alla Scala, ogni sera, e non manca ad un ballo, ed è citata sui giornali; e si lascia fare la corte. L'à mai amato? Se lo avesse amato si consolerebbe così facilmente? Potrebbe dimenticarlo così da un giorno all'altro? E ci sarà chi lo chiama dignità di donna questo suo modo d'agire e di contenersi. Storie! Io, nei suoi panni, innamorata come sono, avrei perdonato.... o l'avrei ammazzato. Dov'è Eugenio? Chi lo sa? Oh! come vorrei scrivergli! Come vorrei raggiungerlo se lo potessi! Ma, se sapessi dov'è, troverei modo di raggiungerlo; e mi getterei ai suoi piedi, e lo scongiurerei di tenermi con sè.... per tutta la vita! Le tue lettere, Bianca, sono buone e affettuose ma non riescono a calmarmi. Forse le tue parole ci riuscirebbero. Ma non puoi venire! non puoi! Non temere per me. Mio marito è un buon diavolo, e null'altro. Non capisce niente. Quando trova la tavola apparecchiata, rincasando, non domanda di più. Sì, un abbraccio, qualche volta. E mi lascio abbracciare: e chiudo gli occhi, e penso a tutt'altri che a lui. È un'ubbriacatura. Speriamo che passi, altrimenti ci lascio la vita. Avessi un bambino, almeno!... Ma no, il mio destino crudele mi à negata anche questa gioia della maternità. Sento che sarebbe un conforto, adesso; un rimedio, forse.... 13 marzo 1889. ...Tanto fa! Se è questo il mio destino, ebbene, che il destino si compia! 82 Mi sono logorata l'anima e il corpo per due mesi. L'angoscia aumentava ogni giorno, anzichè scemare. Sono dimagrata, non mangiavo più, dormivo agitata. Se n'è accorto anche mio marito, finalmente. E mi credeva malata. E mi consigliava di riprendere la mia vita dell'inverno scorso; di andare in società, di svagarmi. — Tu ài una natura, Adelina, per la quale non puoi acconciarti ad una vita troppo tranquilla, e sedentaria — egli mi disse. — Ài bisogno di moto, di aria, di luce. Perchè stai sempre in casa? Perchè non vai più dalla zia, dalla Clelia, o dalla Rossi? E in teatro, qualche volta? Vedrai, ti farà bene. — Sì, mi farà bene. E ò accettato il consiglio. Da quindici giorni, Bianca mia, faccio una pazza vita. Voglio imitare la Guglielmi. Anzi, voglio emularla. Dalla Clelia ci sono tornata, ma mi ci annojai. Non c'è più lui! Mi fa malinconia quel salotto. Vado dalla Rossi. C'è molta gente, molte donne, molti giovinotti. E mi fanno una corte! Uno tra gli altri, un tenente di cavalleria — il marchese di Centomonti — un napoletano, stupido come la sua sciabola, che si dice innamorato morto di me. Poi trascino la zia a teatro. Persino alla Scala, con dei palchi che mi offro da me e che la zia crede sieno pagati da James, mentre questi non dubita che sieno pagati dalla zia. Passo delle ore dalla sarta, alla quale saldo i conti con delle cambiali. Chi diavolo finirà per pagarle quelle cambiali, Dio solo lo sa. Non importa! quello che preme è di riuscire a stordirmi. Se raggiungerò lo scopo, un bel giorno farò la confessione generale a mio marito (confessione finanziaria, intendiamoci!), e, pentita, sottomessa, tornerò alla mia vita borghesuccia dalla quale, tu lo sai, mi son tolta non per capriccio, non per vanità, non per leggerezza: ma per quella fatalità, quella fatalità che mi persegue. Finora, la cura pare che un po' di bene mi faccia. Mi ubbriaco, ogni sera, moralmente. E torno a casa eccitata, sovreccitata. Ciò piace molto a mio marito che comincia a rassicurarsi sulla mia salute. E tu, te ne prego, Bianca, non seccarmi colle tue lettere che, da un po' di tempo cominciano a diventare noiose. Lasciami fare quello che voglio. Alla peggio, c'è sempre un revolver appeso accanto al letto di James. ADELINA tua. 31 marzo 1889. .....Lui od un altro, nevvero? Meglio lui che è stupido ma è marchese, parla coll'erre e porta delle maglie di seta. A questo son giunta! E se mi volgo a guardarmi indietro, mi accorgo che ho fatto molto presto: e che sono andata più in là e più in fretta di quello che avrei supposto. Sono maritata da meno di due anni! Non me ne stupisco troppo, e non me ne spavento punto. Se volessi giustificarmi ai miei occhi, direi che il destino à voluto così. Una magra scusa: ma ne ànno veramente di migliori le donne che fallano? Senonchè non cerco affatto di giustificarmi. Riconosco che la gente cosidetta per bene à tutto il diritto di condannarmi. Ma non me ne importa niente. Ò spinto l'apatismo sino a concedermi ad un uomo che non amo: figurati se posso preoccuparmi dei giudizi che certo si portano su di me. Ti parrà che ci sia dell'esagerazione in questo che ti scrivo. No. Sono l'amante del marchese di Centomonti, perchè.... egli lo à voluto. Tra lui e mio marito, preferisco mio marito. E questo spiega come James non abbia mai sospettato e non sospetti neppur ora, anzi, ora meno che mai, della mia fedeltà; non è possibile egli dubiti che ci sia al mondo un uomo che mi piace più di lui. Soltanto, mio marito à il difetto di starmi lontano la giornata intera. La giornata è molto lunga. E quando mi sono martoriata per delle ore pensando al mio primo ed unico amore, ad Eugenio, e il martirio 83 diventa parossismo, nella disperazione che mi assale, una forza sovrumana, e che non tento neppure di combattere perchè la so invincibile, mi spinge a vestirmi, a correre fuori, dalla sarta o dalla modista, poi in qualche salotto di amiche dove vedo delle mogli che ànno un amante, dei mariti che mantengono una ballerina, delle donne tradite, degli uomini che sanno.... e che lasciano correre. E al primo tenente di cavalleria che mi si avvicina e mi susurra: «Vi darei la vita!» — rispondo: — «Oh! non mi occorre tanto! distraetemi per due ore al giorno, delle dodici interminabili durante le quali o mi annoio o mi martorio.... e sarò io debitrice vostra». Il senso morale se ne va, chissà dove, così lontano, che, dopo la colpa, non rimane della colpa neppure il rimorso. Persino i miei gusti raffinati e aristocratici, vado smarrendo poco a poco. Una volta, cercavo nell'uomo la distinzione. Ma una distinzione intima, innata, profonda, completa, di pensiero e di forma; la distinzione dell'anima e quella del corpo; delle parole e dei sentimenti; dell'intelletto e dei modi. Ora, non più. Mi accontento dell'esteriore: una corona da marchese sul pomo di una sciabola; un profumo, che non sia dozzinale, nel fazzoletto. E le più sceme insulsaggini non mi indignano più, purchè sieno pronunciate coll'erre. Precipito. Non lascerò il Centomonti. Non m'importa nulla di lui; perchè lo lascerei? Sarà lui che si stancherà, presto o tardi; o muterà di guarnigione. Gli succederà un altro, probabilmente. Chissà se di qui ad allora non avrò rinunciato, o non mi importerà più, o non mi accorgerò neppur più di rinunciare anche alla distinzione delle forme esteriori? E avanti, in questo sconforto in cui si annega l'ultima bricciola di onestà. Tutto ciò che mi rimane di buono è il coraggio che ò di vivisezionarmi così dinanzi a te. Purchè anche questo coraggio non sia che mancanza di pudore! E l'unico senso di onestà che mi rimane è di non ritrarre nessun lucro, neppur minimo, neppure indiretto, da questa colpa che è la mia distrazione e il mio sollievo. E arrivo, in ciò, sino alla meticolosità. Centomonti mi manda ogni mattina dei fiori. (Come è.... da lui questa forma di corte che il segretario galante insegna!). Un giorno trovai quei fiori rilegati da un nastro azzurro fermato da una piccola miniatura circondata di brillantini; un oggetto da cento lire. Glie l'ò rimandata.... a costo di farmi dire borghese. Voleva offrirmi dei palchi a teatro. Li ò rifiutati sempre. La mattina, sovente, quando la notte è stata più tormentosa di sogni sconsolati, esco, per tempo, e vado in carrozza alla nuova Piazza d'Armi. È di moda. Ci vanno le signore ad ammirare i baldi cavalieri del reggimento nei loro galoppi. Esse vi imparano, forse, la scienza delle evoluzioni, e si ammaestrano, nell'esempio, al salto degli ostacoli. Centomonti mi offrì di mandarmi lui la carrozza. Ò rifiutato, e me la pago da me. Mio marito crede che, io esca colla serva a sorvegliare la spesa. Tutto ciò: le scarrozzate, i palchi a teatro, le toilettes, aumentano i miei debiti. E questa, è un'altra distrazione che mi procuro. Ò imparata la scienza delle finanze. Faccio miracoli di sconti e di rinnovazioni; impegno, rivendo, faccio dei cambi.... e delle cambiali che si accettano anche senza la firma del marito, perchè si sa che c'è un marito. Ò trovata una donnetta che mi fa da sensale, da pignorataria, da banchiera, persino da.... avallante: un tesoro. Qualche volta, quando vedo aumentarsi ad ogni fine di mese il mio debito, mi spavento per un istante. Allora è lei che m'incoraggia: «Oh! signora! ò viste delle situazioni peggiori. Qualche santo aiuta sempre. Si trova sempre mezzo di pagare». — E mi dà, gratis, i numeri del lotto.... .....Frammezzo a tutto ciò, due novità. L'una, che ò lâché, completamente e definitivamente, i Galli. Avevo conservata questa relazione per riguardo a James e, in fondo, anche un poco per riconoscenza, ricordando che in casa loro avevo trovato un marito. Ma da qualche tempo si mostravano freddi con me. Restituivano a lunghissimi intervalli le mie visite; avevano un'aria sostenuta; la madre non si fidava più a lasciar sole con me la Clara, e la Virginia; infine, pareva cercassero ogni mezzo per sfuggirmi, come un soggetto pericoloso! Figúrati! 84 La seconda novità è che ò dovuto accorgermi e convincermi che Totò è innamorato di me. Ò pensato per un momento se dovevo indignarmene: ma ò concluso che era miglior partito il riderne di gusto. Viene sovente a vedermi in casa, scegliendo le ore che non c'è nessuno. E ogni volta mi fa questo discorso: — Non dite a vostra zia che sono stato qui, oggi. Io ci vengo come da una cara amica che ò conosciuta bambina e alla quale porto un grande affetto.... Mi ci trovo bene, ecco, un'oretta con voi. Ma vostra zia.... sapete.... è una benedetta donna.... à certe idee tutte sue.... — Potrebbe essere gelosa! — completo io, ridendo. Quando egli è da me, non mi preoccupo molto di lui. Faccio quello che ò da fare, giro per la casa, magari discinta, come mi trovo; leggo, scrivo. Lui rimane lì, seduto in un angolo. Chiacchiera e non gli rispondo. Mi guarda cogli occhietti bigi concupiscenti.... ed io lo lascio guardare, ridendomene. Poi si alza. — Ve ne andate? — Sì. Tornerò presto. — Bravo. Arrivederci. Una cosa leggermente ributtante, ma sovranamente ridicola. Un giorno, mi disse: — Volete, piccina (piccina è il vezzeggiativo che la sua alta mente à saputo inventare per me), volete che vi faccia una confessione? — Fatemela. — Quando eravate ragazza, in casa della zia, ò pensato tante volte a chiedervi in moglie. Ma non ò osato.... — Avete fatto bene, perchè vi avrei rifiutato. Queste sono le cortesie che mi dice, e sono quelle che gli dico io, a lui. Quando penso al primo giorno dopo le mie nozze, a quella mattina, che mi affacciai al balcone, irraggiata dal sole di maggio, e vi rimasi ad osservare i bimbi e le balie che si recavano ai giardini.... e desiderai di avere un bambino anch'io!... Facevo dei proponimenti buoni, quella mattina! Che poco tempo è passato da allora: e che mutamento! Ne ò colpa? Per lo meno: ne ò tutta la colpa? Fossi stata la moglie di Eugenio! Ecco una frase che tutte le donne, forse, pronunziano, mettendo al posto di Eugenio il nome dell'amante.... del primo amante. E sono sincere in quel momento che la pronunziano, come sono sincera io, adesso. Che se poi quella frase nasconde una bugia, o un'ipocrisia, o una illusione, è proprio sempre e unicamente nostra colpa? Credo che no, sinceramente del pari. E non ci tengo, oramai, a' trovarmi delle scuse o delle attenuanti, te l'ò detto.... ADELINA Era questa l'ultima lettera. Poi c'era un dispaccio, quello che aveva indotta Bianca Caradelli a lasciare Parigi: Parigi-Milano, 12 aprile (89) ore 10,50 ant. Bianca Caradelli — Boulevard Poissonières, 2 — Vieni subito subito — per me sei sempre Bianca — e vali ancora più di me — ti aspetto — telegrafami ora arrivo. — Adel. 85 Questo dispaccio di Adelina era provocato da una lunghissima lettera, strana ed inattesa, di Bianca. In essa, la Caradelli raccontava e rivelava tutta la sua vita, dal giorno che — fanciulla — aveva lasciato Milano e si era fissata a Parigi, condottavi dalla madre. La rivelava in tutti i particolari pietosi ed orribili, dopo aver chiesto perdono all'amica di averle sempre mentito durante cinque anni di corrispondenza. Le aveva mentito, da principio per lo scrupolo naturale di rivelare cose nefande ad una fanciulla; dopo, per vergogna di sè stessa. La madre l'aveva condotta a Parigi con la scusa di rivedere un vecchio zio sconosciuto a Bianca. Poi, la verità, a poco a poco, si era fatta strada, attraverso una serie di casi dolorosi. La fanciulla aveva appreso, con stupore e con raccapriccio insieme, che sua madre non era, una donna onesta, come essa aveva creduto, e come credevano le poche persone — Adelina e la zia, tra le altre — che frequentavano la sua casa. Era invece, da molti anni, dall'epoca della sua vedovanza (che datava dalla fanciullezza di Bianca), l'amante di un avvocato, che la manteneva. Un bel giorno, l'avvocato, per certi affari poco puliti, avea dovuto abbandonare Milano, e aveva deciso di cercar fortuna a Parigi, il gran centro a cui affluiscono i fuggitivi di tutto il mondo. Ma, dopo pochi mesi di inutili ed affannosi tentativi, si era dato per vinto, ed ucciso. La madre di Bianca era rimasta così, senza niun appoggio, colla miseria bussante all'uscio di casa, nella grande città sconosciuta. E come essa era ancora una donna forte e piacente, la miseria aveva potuto essere scacciata dalla soglia coll'oro che qualche decadente dell'amore aveva offerto a quella beltà sul declino. La casa di lei era diventata, in breve tempo, uno di quei centri equivoci dove una società cosmopolita trascorre la notte giocando d'azzardo. E Bianca, bella, giovane, fiorente e procace, s'era trovata un giorno, suo malgrado, ma senza opporre resistenza, vittima dell'ambiente, novella Fernanda alla quale mancò la Clotilde della commedia. Poi, morta la madre, aveva salita la gran scala della perdizione, dopo aver messo al mondo una bambina senza sapere chi ne potrebbe essere il padre fra i tanti. Il giorno che quella bambina era nata, Bianca aveva pianto d'angoscia e di tenerezza. Aveva sentito di amare, per la prima volta in vita sua, sinceramente. E questo primo amore potente e sincero era sua figlia. Le aveva dato il nome di Ester, il nome della mamma morta, come un perdono concesso in un momento di tenerezza indulgente e dimenticatrice. Perchè qualcosa l'aveva conservata buona in fondo all'anima; qualcosa le aveva impedito di corrompersi, di scordare tutto un passato che contrastava così fieramente col presente; un passato dolce e sereno di fanciulla onesta onestamente cresciuta, e per la quale la gran colpa e l'unico peccato erano l'amicizia spinta sino all'amore per una compagna di collegio. E questo qualcosa, che la riattaccava al passato, era appunto il ricordo di quel legame — nel quale c'era un piccolo segreto di cui, forse, fatta donna e se il suo destino fosse stato diverso, avrebbe arrossito — e che ora, nella esistenza che conduceva trascinatavi suo malgrado e per fatalità di circostante, le pareva l'ultimo residuo di una ingenuità e di una purezza di sentimento travolte poscia e sommerse nella gran burrasca della sua vita. Quel legame non si era rotto mai completamente, a causa della corrispondenza che — talvolta nolente e disgustandosene — aveva dovuto conservare con Adelina. Non aveva trovato mai il coraggio di interromperla: aveva trovata, invece, la forza di fingere. E quella corrispondenza curiosa, trascinata per cinque anni, era stata sempre per lei un tormento insieme e un sollievo. Quasi ogni giorno, una lettera di Adelina era venuta a rammentarle il passato: ed ogni giorno, imprecava a quelle lettere che le riaprivano nel cuore una acerba ferita; ma le benediceva poi, perchè le pareva che le impedissero di precipitare del tutto. Erano una pugnalata, ogni mattina, ma le sembravano la tavola di salvezza sempre a portata di mano, per attaccarvisi e ritornare con essa alla riva, quando potesse o volesse ritornarvi. Era, ogni giorno, la sua angoscia di rispondere a quelle lettere, ingannando la cara amica d'infanzia, parlandole di una mamma che era moralmente morta anche prima di scendere nella tomba, di un marito cha non era esistito mai; sincera soltanto quando la intratteneva del suo grande amore per la propria bambina. Ma era, anche, ogni giorno, un grande sollievo di mettersi al tavolino 86 per scrivere all'amica: come un raggio di sole che, per un istante, veniva a rischiarare il buio della sua esistenza: come un bagno morale che le sollevava il cuore e le rigenerava lo spirito, dopo il mattutino bagno di latte in cui la cocotte alla moda ammorbidiva le sue carni. Quella corrispondenza le sembrava una disinfezione. E Bianca si era addolorata e impensierita e commossa dal progressivo corrompersi di quell'anima buona di fanciulla. L'avrebbe voluta felice ed onesta. Ma la confessione sincera dell'amore per Eugenio dapprima, la sfrontata rivelazione, poi, di un amorazzo qual'era la relazione di Adelina col Centomonti, l'avevano sgomentata. Prevedeva la rovina. E aveva tentato di consigliarla bene, di farla ravvedere, di ricondurla all'affetto del marito e della sua casa. Ci si metteva coll'entusiasmo di un apostolo a quest'opera rigeneratrice, essa, la cocotte parigina! E sinceramente parlavano in lei l'affetto immutato per l'amica, e un residuo di pudore e d'onestà che i casi della vita non avevano distrutto, e che protestava — adesso — in nome altrui, poichè non era più possibile protestare in proprio nome. Adelina le rispondeva: «Non farmi la morale, tu! È facile essere oneste, quando tutto sorride d'attorno, e tutto va a seconda, e si à la fortuna di essere legata all'uomo che si ama, e ogni mattino ci si sveglia senza un desiderio da soddisfare e ogni sera ci si addormenta senza un desiderio insoddisfatto...» E Bianca rimaneva, a lungo, con quelle lettere tra mano, mentre il labbro inconsapevolmente ghignava, e gli occhi disperatamente lagrimavano.... In cinque anni varie erano state le vicende. La moda, colassù dove la s'inventa, non risparmia nessuno, e miete le sue vittime ovunque. Glie ne occorre un numero fisso per ogni stagione: quando non ne trova tra gli usi e i costumi, le cerca tra le donne. Così, Bianca aveva trascorsi dei momenti buoni e dei cattivi. Era stata molto in alto e, talvolta, molto in basso. Aveva provata la voluttà di possedere quattro cavalli, e l'angoscia di mandare al monte di pietà l'ultimo gioiello. Un giorno la bambina ammalò. Fu un lungo martirio. E come la madre più che mai si era risvegliata in Bianca, e non aveva più cure e baci e sorrisi che per la bambinetta inferma si trovò poco a poco la casa vuota. Non era l'amore materno che gli amici venivano a cercare in casa sua. E quando la piccina morì, la povera mamma dovette vendere dei gioielli per ricoprire di fiori la piccola bara. Allora, quel giorno, dopo l'angoscia suprema di quel funerale, sentì prepotente, irrefrenabile, la necessità di uno sfogo. Ebbe un acuto, irresistibile bisogno di sincerità, uno di quei momenti di schietto abbandono che sono la valvola di sicurezza dei grandi dolori e delle grandi gioie. E scrisse ad Adelina, la verità orribile e disperata, chiedendole perdono e conforto. Adelina le rispose dicendole: Vieni, sei migliore di me. Bianca, arrivando a Milano, contava trattenervisi un po' di giorni solamente, nascosta in una locanda dove Adelina verrebbe a passare molte ore con lei. Essa le avrebbe raccontati tanti altri piccoli avvenimenti della sua vita parigina, che nella sua lunga lettera, per quanto dettagliata, non aveva avuto il tempo e il coraggio di narrare. E Adelina l'avrebbe consolata. Anzi, pareva a Bianca che avrebbe trovato un conforto soltanto nel rivedere la sua città e la buona amica d'infanzia, nel rivivere per pochi giorni la vita dal passato. Poi sarebbe ripartita. Il suo destino la riconduceva nella grande città dove la sciagurata trasfigurazione dell'essere suo s'era compiuta, dove, ormai, e in nessun altro luogo che là, avrebbe dovuto e potuto — senza arrossire — ricominciare la facile lotta per l'esistenza. Perchè Bianca non era nata a quella vita. Trascinatavi suo malgrado, non era di quelle che l'accettano senza ribellioni e senza rimpianti, e che il giorno del primo mercato elevano una immane barriera tra il passato e l'avvenire, tutto dimenticando del passato, come se l'essere si sdoppiasse e alla cortigiana novella fosse negata persino la facoltà del ricordare. Bianca invece, ricordava il passato, l'aveva ricordato sempre; e dal ricordo nascevano la nausea e lo sconforto. Per questo — e non per leggerezza, non per sfrenata vanità, come credevano i 87 suoi amici — essa non aveva portato mai alcun senso pratico nell'esercizio della sua professione, non era riuscita mai a proporsi uno scopo, una meta da raggiungere: la ricchezza. Non aveva ammassato mai, per quante occasioni le si fossero presentate. Molte volte, nei momenti di più sconsolato abbandono, aveva sacrificato nelle spese più vane e più pazze o a sollievo di improvvise miserie, il denaro che si era trovata a possedere quasi suo malgrado, quasi senza avvedersene. Voleva vivere giorno per giorno, bene o male, a seconda della fortuna o del caso. E vivrebbe, poichè questo era il suo destino, così, di codesta vita: ma senza cavarne alcun frutto che le potesse servire al di là dell'oggi, senza ammassare una fortuna che le servisse — come a tante sue simili — per ricomperare la propria onestà e per riacquistarsi il rispetto della folla. L'idea di arricchire non le era mai passata per la testa: o, se le era passata, ne aveva provato orrore: quell'oro, ricordantele ad ogni istante il modo com'era stato acquisito, l'avrebbe umiliata più che il tu con cui la trattavano gli amici. Tornerebbe dunque a Parigi, a ricominciar la sua vita, più sconfortata, più nauseata di prima. Finora, qualcosa di dolce, di buono, di casto, aveva allietata la casa: la sua bimba. Per molte ore della giornata, per tutta la giornata talvolta, quando la necessità, o il diritto accordato per forza a qualcuno — non l'obbligavano a mettersi in fronzoli e a ricevere, ma poteva concedersi il lusso e la gioia di chiudere la porta a tutti, essa si rincantucciava in una camera appartata del suo alloggio, e si abbandonava alla voluttà di essere soltanto una mamma. Quella camera era il suo sacrario. Nessuno mai ci aveva messo piede: neppure il profumo, neppur l'eco della corruzione erano giunti sin là. Là, c'era la bimba, c'era la sua vita. E la ninnava, e le cantarellava le vecchie cantilene, e se la baloccava sui ginocchi, in una tenerezza infinita. Se, per un momento, le veniva di aggrottare le ciglia nel corruccio che le causava la visione dell'avvenire per quella creatura senza padre, scacciava poi ogni triste pensiero, si accontentava della beatitudine dell'oggi: e dedicava tanto più affetto a quella piccola che le pareva tanto più sua, poichè non era di nessun altri che sua. Ma la bimba era morta. — Oh! non mi vuoi più bene, non mi vuoi più bene: non ài più affetto, non ài più amicizia per me. Non mi ami più, ecco! — ripeteva Adelina: a Bianca. — Perchè torneresti a Parigi? A far che? Non ti ripugna di ritornare là dove ài provato il più gran dolore della tua vita, quindici giorni or sono? Rimani qui, accanto a me. Faremo vita assieme, come una volta. Rimani, Bianca mia. Bianca la guardava trasognata. — Perchè tornerebbe a Parigi? — E avrebbe voluto rispondere: «E che cosa resterei a far qui?» Ma non osava. Infatti: che rimarrebbe a fare, qui? Ciò, che farebbe a Parigi? — E allora? E Adelina? E tentava di farglielo capire. E le diceva: — Qui no: mi conoscono, mi ànno conosciuta per quella che ero: non bisogna che sappiano quella che sono. Ma Adelina, della irriflessione a cui si abbandonava di progetto, pur di stordirsi, pur di evitarsi la pena e il dolore di pensare e di ricordare, non ragionava e non approfondiva più. Forse, questa volta, insistendo presso Bianca perchè rimanesse, il pensiero andava un poco più in là delle parole che le uscivano dalla bocca: intravvedeva, forse, le conseguenze di quella preghiera se venisse accettata. Ma non se ne impauriva. La rivelazione di Bianca l'aveva addolorata, ma non impressionata: e sinceramente le aveva detto: «Tu, cortigiana, vali ancora, più di me, donna onesta». Ed ora che Bianca era qui, essa, nell'affannosa ricerca di tutto ciò che valesse a stordirla, a procurare una nuova via ai suoi pensieri, a darle un pretesto purchessia di occupazione; in quel bisogno irresistibile che è nelle nature espansive di possedere e di aver daccanto una persona per la quale non si ànno segreti, alla quale si dice tutto quello che si fa e che si pensa, che è un altro sè stesso su cui par di versare una parte della responsabilità della propria vita; essa si attaccava disperatamente all'amica: e le pareva persino una fortuna che le condizioni di lei fossero tali, anzitutto perchè il possesso del suo segreto gliela rendeva più sicura, più fidata, più utile forse; poi perchè essa, che si sentiva depravata, avrebbe con tanta minor ripugnanza, senza l'ombra della vergogna, rivelato ogni pensiero ad una donna che conosceva — sia pur suo malgrado — la depravazione, e ne aveva vissuto. Nella 88 istintiva mancanza di rispetto per Bianca si accrescerebbe la confidenza, la sincerità cui si sentiva trascinata, dopo la fatica della finzione che durava da un anno e che avrebbe dovuto durare ancora, con suo marito e col mondo. — Sei innamorata? Ài qualcuno che ti preme a Parigi? — No. — Ebbene: allora rimani qui. E non pensava, e non voleva pensare, Adelina, al problema dell'esistenza di Bianca. Se vi pensava, vi trovava forse di già, vagamente, istintivamente, fatalmente, la soluzione facile e naturale: essa l'avrebbe risolto qui come lo aveva risolto a Parigi. Purchè non si sapesse da nessuno: purchè di Bianca ella potesse farsi l'amica intima e cara per sè e in faccia al mondo: purchè suo marito, al quale l'avrebbe presentata, non ne dubitasse mai e la stimasse come una donna onesta e degna di essere la compagna indivisibile di sua moglie: purchè Bianca — infine — potesse rimanere la confidente, la complice forse, che desiderava, di cui aveva bisogno.... ebbene, tutto il resto non le importava nulla. Leggendo la rivelazione di Bianca, non aveva avuto un senso di rivolta, non aveva arrossito di essere l'amica di una cortigiana: non aveva titubato nel rispondere, vieni, ti aspetto; e l'aveva abbracciata; e aveva riudita la sua confessione senza provare che della compassione per lei. Questi sentimenti non muterebbero per l'avvenire: ne era sicura! Non si pentirebbe mai di averla pregata di restare! Bianca, buona e debole creatura, per accondiscendere all'ardente preghiera, senza decidervisi mai in modo assoluto, rimase, protraendo di giorno in giorno, di settimana in settimana, di mese in mese, la sua partenza. Consumata la somma che aveva portata con sè, aveva fatto realizzare a Parigi, da un amico, tutto quanto vi possedeva in abiti, in mobili, in gioielli. Ne aveva ricavata una diecina di mille lire. Allora Adelina l'aveva indotta a prendersi una casa a Milano e ad ammobiliarla. Era necessaria una casa, acciocchè essa potesse ripresentare l'amica alle vecchie conoscenze. E Bianca fu creduta, da tutti, separata dal marito. Essa si era lasciata convincere così, a mentire, per affetto verso Adelina e per intima compiacenza di rivivere la vita che aveva sognata fanciulla. Era un godimento dello spirito, una soddisfazione del cuore che si concedeva, trascinatavi dall'amica, convinta che non durerebbe a lungo, tutt'al più sino alla consumazione del suo peculio. Poi sarebbe ripartita. Qui, no. Qui, dove era cresciuta, dove aveva vissuto da ragazza, dove la stimavano e la credevano onesta e sventurata, no, non avrebbe mai rinnovato il mercato di sè stessa. Colle ultime cinquecento lire avrebbe rifatto il triste viaggio, e ricominciata la sua triste vita. Ma, intanto, si concedeva — in questa vacanza — la gioia di essere quella che avrebbe voluto essere. E durerebbe quanto fosse possibile: un mese od un anno. Ma sarebbe sempre tanto di guadagnato: sarebbero sempre delle ore tolte e rubate a quella vita che l'indignava, che le ripugnava, di cui il solo pensiero la faceva arrossire. Intimamente buona ed onesta, Bianca si beava di questa rigenerazione che il caso le aveva procurata: e si doleva soltanto che non potesse durare per sempre, e pensava con raccapriccio al giorno in cui avrebbe dovuto riprendere il suo cammino sciagurato. Nei primi giorni, un grande sconforto la coglieva a certe ore del giorno: quando rincasava o quando rimaneva sola in casa sua, dopo che le visite delle riannodate conoscenze erano finite. Allora si vergognava, e aveva paura di ciò che faceva: aveva essa il diritto d'ingannare così la buona fede altrui? Non era ancor più ignominiosa questa sua vita d'adesso, che quella condotta sino allora?... Ma se rivelava questi suoi dubbi ad Adelina, e questi timori, essa ne rideva, e l'incoraggiava dandole della sciocca. — Il mondo è tutto un inganno! Quelli che ài paura d' ingannare, t'ingannano alla loro volta. Ricevi delle donne che si dicono oneste e che ànno dieci amanti: degli uomini che sono creduti fior di virtù e sono dei poco di buono nella loro vita pubblica o privata. E tutti se ne ridono del prossimo, che ingannano o credono ingannare tanto bene. Tu, ridi di essi, alla tua volta. Bianca non si convinceva del facile ragionamento, ma si lasciava cullare dalla compiacenza dolce e insperata che le causava il rispetto di cui si trovava circondata, essa che, donna, non aveva 89 conosciuto ancora che fosse il rispetto per la donna. Si era sempre sentita chiamare la petite Blanche, quando pure non la chiamavano Babà, o Lulù, o Titì, nelle orgie delle ore piccine. Ed ora, qui, si sentiva dire signora, e aveva riacquistato un cognome smarrito insieme coi fiori d'arancio e non più cercato, perchè divenuto una cosa inutile o superflua, un particolare di nessuna importanza. Allora, dopo aver pianto di vergogna e di paura, piangeva di tenerezza, riconoscendosi buona, convincendosi che nessuna colpa era in lei, e che sarebbe stata una brava moglie, una madre affettuosa, una donna rispettabile e rispettata se il destino lo avesse permesso. E in quei momenti di tenerezza intima e dolce, dopo una confessione di sè stessa a sè stessa, che finiva, ed era così giusto finisse, in una assoluzione, Bianca andava formando un semplice disegno: quello di fingere, il dì che il peculio fosse esaurito, la propria rovina economica: e cercarsi del lavoro, un lavoro purchessia: diventare commessa di magazzino, sarta, stiratrice, serva magari; per non rinunciare mai più a questo grande godimento che ora, per la prima volta, aveva provato in sua vita: di essere una donna onesta. Questo, il proponimento semplice e buono. Ma Adelina, nella sua discesa disastrosa, doveva fatalmente trascinarla con sè. Un giorno, Adelina giunse frettolosa in casa di Bianca, con gli occhi luccicanti, affannata, sovraeccitata. — Che c'è? Che è avvenuto? Pasticci di denaro, ancora? — Oh! di quelli ne ò sempre. Ma che me ne importa? C'è ben altro. Leggi. E le porse un giornale. Era il «Corriere di Napoli ». Un piccolo brano era segnato a lapis, rosso. Quel brano diceva: «Eugenio Giovenzani è tra noi. Questo nome non riuscirà nuovo certamente alla lettrice amante dell'arte aristocratica e raffinata. Il suo romanzo «La Sfida» fece chiasso tre o quattr'anni or sono, e trovò le più ardenti ed entusiaste ammiratrici tra le donne, che riscontrarono in quel libro una così fine, acuta e delicata dipintura di un dolce carattere femminile. E certamente più d'una tra le ammiratrici di Eugenio Giovenzani, si chiedevano da tempo: che è del nostro autore favorito? Poichè lo scrittore lombardo era scomparso dal mondo dell'arte e dagli aristocratici salotti che lo avevano eletto a loro beniamino. «Per un anno e mezzo più nulla s'era saputo di lui. Neppur gli amici più intimi sapevano quale angolo nascosto egli avesse scelto — chissà per quale recondito scopo — a sua dimora. Ora, finalmente, Eugenio Giovenzani è tornato. Ma, purtroppo, non bene. Delle febbri malariche lo colsero in Egitto, dopo una lunghissima peregrinazione nell'Asia minore, nell'Indostan e nel Continente nero. Egli è sbarcato qui or fanno tre giorni, e scese all'Hôtel Vesuve. Ma lo strapazzo del viaggio à seriamente nociuto alla sua fibra, già intaccata dal male, ed ora deve guardare il letto ed essere seriamente curato; i medici non possono nascondere agli amici, che amorosamente si raccolsero attorno al suo letto, lo stato inquietante dell'infermo. Noi fervidamente auguriamo che l'aura nativa ritorni alla salute il giovine e simpatico artista». Chi aveva inviato ad Adelina quel giornale? Essa non lo sapeva. Chissà? Forse la stessa Guglielmi? Forse un amico napoletano che aveva raccolta una confessione, nel delirio della febbre? — Partiamo, stasera. — Partiamo? — chiese Bianca, stupita. — Sì. Non metterai in dubbio, spero, che io debba correre al letto di Eugenio. Ma come partire senza di te? — Adelina.... — Poche parole. Si può inventare una sorella, mi pare; una sorella malata a Napoli, gravemente. Tu accorri per curarla, ma non ài cuore e coraggio di andartene sola. E mi preghi, e mi scongiuri di accompagnarti. — Ma se tuo marito sapesse, scoprisse? — Che cosa? E come lo scoprirebbe? 90 — E occorre denaro.... — Io non ne ò. Ma tu ne ài. Fammi un prestito. Te lo restituirò, te lo giuro. — Oh! — Spicciamoci. Vieni da James a pregarlo. — Ma.... — Ricusi? Temi di perdere il tuo denaro? — Oh! Adelina! — E allora? — Ma dimmi, dimmi: pensa a quell'altro.... — A chi? — A Centomonti. — Che me ne importa? — Dovrai avvertirlo. — Neppur per sogno. Che diritti à? — Quelli che gli ài dati tu. — Io? Non glie ne ò dato nessuno. Gli ò dato me stessa, non so neppure perchè. Ora mi ritolgo. — Ma se ti ama, cercherà scoprire la ragione della tua partenza. Ti seguirà. Scoprirà. Potrebbe vendicarsi. — Prima di tutto non mi ama. Mi à presa perchè il prendermi era la cosa più facile di questo mondo. Ma gli preme certamente di più Kattie, la sua cavalla. Anzi, non gli parrà vero di liberarsi di me così a buon mercato.... — Ma, Adelina, è di te che parli? — Naturalmente. Ti stupisce? Stupisci piuttosto che, a quest'ora, io non abbia avuto cento amanti invece d'uno solo. — Invece di due. — Di uno, quell'insoffribile scemo di Centomonti. — E Giovenzani? — Ah! quello non è un amante. È l'amore. Bianca comprese che non era possibile far ragionare quella donna. E farle della morale, poi! E lei, proprio lei, Bianca avrebbe potuto fargliela? Partirono, la sera stessa, per Napoli. Per due mesi, Adelina visse al letto di Eugenio, tentando, a furia di cure, di baci e di carezze, di contenderlo alla morte che poco a poco s'impadroniva del suo corpo disfatto dalla febbre e dall'amore. Morì una notte, in un ultimo bacio disperato, come i medici avevano predetto senza poterlo impedire. Morì, sapendo di essersi affrettata la fine, beato di morire dopo quei due mesi di spasimo inenarrabile ch'erano stati la voluta conquista della morte. E da quell'ultimo bacio Adelina uscì trasformata. Il suo cuore era morto con Eugenio: Eugenio se l'era recato nella tomba con lui. Quando portarono via il cadavere, strappandolo a viva forza agli abbracci di lei, essa rimase, come istupidita, sorretta da Bianca, gli occhi fissi, immobili, trasognati. E quando tornò in sè, si guardò nello specchio, quasi volesse assicurarsi d'essere lei, proprio lei, ancora lei, tanto le pareva di essere un'altra. Aveva vissuta tutta la sua vita, in quei due mesi. Ora, tornerebbe a Milano: riprenderebbe la sua esistenza calma, regolata, d'un tempo. Il suo organismo sano e forte resisterebbe, funzionerebbe ancora, regolarmente, insensibile a tutto. Sarebbe la moglie di James Burton, null'altro. Aveva provato tutte le gioie e tutti gli spasimi che anima umana può sopportare quaggiù. E l'anima s'era atrofizzata in quella lotta disperata dell'ultima ora, e il cuore si era avvizzito per sempre. Non avrebbe amato più. Oh! come lo sentiva! Oh! come ne era sicura! Non era stato un giuramento vano, ispirato dalla pietà, quello fatto ad Eugenio. Era un convincimento saldo e profondo. Egli, di lassù, non dovrebbe 91 ringraziarla di mantenere il giuramento. S'anco volesse amare, d'ora innanzi, non lo potrebbe. Durante il viaggio del ritorno, di notte, mentre Bianca dormiva, Adelina teneva gli occhi fissi al finestrino del vagone, seguendo, senza guardare, i fili del telegrafo sui quali la luna scriveva, monotona, delle scale cromatiche. E pensava al passato. Il passato le pareva un sogno. Era lei, Adelina, che aveva amato, odiato, tradito? Come aveva fatto tutto quello che aveva fatto? E Centomonti? Si era data a lui? Come? Perchè? Che era avvenuto? Possibile che il dispetto, la noia, una sovraeccitazione morbosa l'avessero buttata tra le braccia di quel bel cretino cogli sproni? Come mai l'amore vero, profondo, santo, per Eugenio, non l'aveva salvata? Come mai il ricordo di quell'amore non era stato il suo angelo tutelare? Oh! se, allora, Eugenio le avesse scritto! Poichè non era il corpo di lui, soltanto, che amava, ma l'anima sua, sarebbe bastata la corrispondenza delle anime a tenerla in vita, a darle una ragione di vivere, e a far sì che non perdesse il rispetto di sè stessa. E non era la propria degradazione che ora la stupiva e l'addolorava. Ma il tradimento di quell'amore che — adesso che era morto — capiva essere stato così vero, così completo, così giusto. Che calma, che calma, adesso! Come erano svaniti tutti gli odî, tutte le irrequietezze, tutte le agitazioni, tutti gli appetiti malsani! Che gran calma, in tutto l'essere! Se l'era portata via da quel cimitero, da quella tomba cosparsa di fiori. Le era penetrata nell'anima, durante tutto quel tempo che era rimasta là, inginocchiata, sino all'ora della partenza, sino a che Bianca era venuta a prenderla, colle valigie nella carrozzella, per condurla alla stazione. Le era penetrata nell'anima: ne avrebbe per tutta la vita. Si sentiva persino allegra, di quell'allegria quieta che viene dalla sicurezza di sè, dalla rassegnazione per il passato, dalla visione netta di un avvenire tranquillo, senza scosse, senza nulla di impreveduto. Eugenio era morto, morto d'amore. E, d'amore, era morta Dély. Erano laggiù, nel bel camposanto, sotterrati assieme. Adelina sopravviveva; anzi, Adelina Burton soltanto, la moglie borghese e massaja di un onesto e laborioso industriale. Oh! come la sua esistenza sarebbe facile, adesso. Ma la signora Zaira Bianchi l'attendeva all'arrivo. La vecchia aveva tese ormai tutte le sue reti: Adelina n'era ben circondata, e non sfuggirebbe più. Introdottasi dapprima come venditrice di merletti, le aveva fatto poi da pignorataria, da sovventrice di denaro, da avallante, da mediatrice, nell'affannoso e nascosto rammendo, che durava da un anno, di quella maglia cadente a brandelli ch'era la situazione economica di lei. Era ben tempo di diventarne la mezzana. Essa si trovò là ad attenderla, con un fascio di cambiali in scadenza, colla minaccia del sequestro, della rivelazione al marito. Come fare? Come fare? Adelina implorò, lagrimando: chiese tempo, ancora. Allora la vecchia si svelò: disse con bei modi il mezzo, lento forse, ma sicuro, di togliersi dall'imbroglio. Adelina, rossa di vergogna, la scacciò. E corse da Bianca. Ma Bianca non potè aiutarla che in minima parte. Il peculio, ultimo frutto della vergogna a cui si era tolta, e in cui si vedeva ripiombare suo malgrado, era quasi tutto svanito. — No, no, ài ragione. Non puoi darmi più nulla. Ti debbo già tanto, e non so quando potrò pagarti. Perdonami, perdonami, sono una disgraziata. E tu, che farai? — Tornerò a Parigi. E il mio destino, Adelina. Allora, da Parigi, potrò aiutarti! Tutta l'anima sanguinava pronunziando quelle parole. Oh! i suoi sogni! Oh! le sue speranze! Oh! il ricordo della bimba morta, che l'avrebbe benedetta di lassù, se l'avesse vista rigenerata dalla propria morte, e le avrebbe perdonata la disonestà della sua nascita! — No, aspetta! E Adelina, come colta da una súbita idea, come attaccandosi all'ultima speranza, corse dall'Orlandi. — Oh! che buon vento? — chiese il banchiere, fissandola cogli occhietti bigi di vecchio lussurioso. 92 Adelina, facendosi forza, chiese un prestito di denaro. Inventò dei debitucci contratti per leggerezza, per sbadataggine; un impegno insomma, urgente, che non poteva rivelare al marito. L'Orlandi non si mostrò stupito. Disse che sapeva, in parte, e prevedeva questo guaio; quale membro della Commissione di sconto di una Banca cittadina, le era passata per le mani una cambiale colla sua firma. — E, ve lo confesso, Adelina, — aggiunse, — aspettavo la vostra visita. A chi, in un pasticcetto simile, vi sareste rivolta prima che al vecchio amico, che sapete quanto affetto vi porta, e non da ieri, ed à sempre cercato di dimostrarvelo? E, sedendole più vicino, e passandole una mano attorno alla vita, le susurrò che desiderava di far qualcosa per lei, anche molto, se ella lo volesse; e non solo per l'oggi ma per l'avvenire. Adelina fu appena in tempo ad evitare che le labbra oscene del vecchio si posassero sulle sue guancie. Si alzò, fremente, ed uscì. Il giorno dopo, la Bianchi introduceva con gran cura nella cartella riservatissima che portava il n. 3, il ritratto della Biondina. Adelina aveva pensato che, tra le due degradazioni, era preferibile questa ch'era solo ed unicamente del corpo, per quanto abbietta, per quanto la equiparasse alle ultime femmine da trivio. Così, essa si dava per denaro, spinta dalla necessità assoluta ed imperiosa, ma non aveva un amante. L'anima rimaneva libera e pura da codesto mercato. Il darsi ad Orlandi o ad un altro le sarebbe parso ancora più abbietto. Anzi, non l'avrebbe materialmente potuto. Il mercato, per quanto obbrobrioso, avrebbe sempre assunto l'aspetto di una relazione. E questo non voleva e non poteva. Non voleva, perchè aveva giurato ad un moribondo di non aver altri amanti; e un amante che paga è pur sempre un amante. Non poteva, perchè tutto dentro di lei, dopo la trasformazione subita, protestava contro ciò che potesse assumere, anche lontanamente, l'aspetto di un legame fisso e continuo con un uomo purchessia. Concedendosi al primo venuto, nella sicurezza del mistero che l'interesse medesimo della Bianchi le assicurava, le pareva di mancare il meno possibile ai suoi doveri di moglie, e di non infrangere la promessa fatta a sè stessa e ad Eugenio. Suo marito, al quale voleva bene, e pel quale sentiva del rispetto, non diventava ridicolo per questo adulterio d'un'ora, consumato con uno sconosciuto, e allo scopo unico e solo di evitargli la rovina materiale; e, di questo adulterio, non poteva essere gelosa la memoria del morto. Così, nello smarrimento ultimo e completo della mente malata, Adelina si diede, e continuò per un anno a darsi regolarmente ad ogni chiamata della Bianchi, senza sgomento dapprima, senza titubanze e senza ripugnanze poi. Il recarsi a quella palazzina era — ormai — divenuto un fatto normale, una necessità della sua vita, come l'uscir presto il mattino per dirigere la fantesca nella spesa giornaliera, come il tagliarsi e il cucirsi una veste: necessità imposte dal bisogno di fare economia per pagare i suoi debiti. Poco a poco, sepolto in fondo al cuore il ricordo del suo unico amore; senza possibilità che l'amore rinascesse, e tranquilla in questa sicurezza della pace acquisita per lo spirito e per il cuore, una pace che nulla e nessuno avrebbero più turbata; la sua vita diventò regolare, ordinata, metodica. Dopo le faccende di casa, sbrigate con cura assidua e diligente; dopo le ore passate con la Caradelli; dopo qualche visita alla zia; anche dopo i convegni procurati dalla Bianchi e dei cui frutti essa non toccava un quattrino (ma si accontentava di scontare sulla nota del êsuo debito cinquecento lire per ogni convegno); essa si recava ogni giorno all'officina, e vi passava un'ora con suo marito. In quei momenti essa gli diceva in cuor suo «No, non t'ingannerò più, non ti tradirò più. Non ti amerò mai, certamente, ma non amerò nessun altro. Sarò sempre una buona moglie, come la sono adesso: sarò quella che a te preme io sia. Ò amato e fui amata: e l'amore è morto. Una nuova êra è cominciata per me: non rimpiango quella che si è chiusa, e non la rinnoverò certamente». E allora una nube le passava dinanzi agli occhi: non il rimorso, ma il dolore, anzi il rincrescimento soltanto di non poter essere completamente — per ora — la moglie saggia che avrebbe desiderato di essere. Ma poi quel rincrescimento lo affogava, riesciva ad affogarlo, nella pace che si era imposta, una pace artificiosa, come tutto era stato artificioso in lei, anche l'amore, e le pazzie 93 che in nome dell'amore aveva commesse. E pensava che quei convegni alla palazzina non erano tradimenti; che quel darsi al primo venuto non era un adulterio; e che — ad ogni modo — erano una crudele necessità a cui essa si sottometteva per evitare un dolore a suo marito e una grave preoccupazione finanziaria che avrebbe compromessa, ritardata, forse resa impossibile la riuscita dei suoi studî. Si consolava così, e si tranquillizzava, tanto più, nel pensiero che anche quest'ultimo strappo alla fedeltà coniugale non durerebbe sempre, ma un anno, due anni al più, quanto occorreva a pagare il suo debito. E se le passava per la testa l'idea di confessare quel debito a suo marito, la scacciava subito, senza fermarcisi sopra. La confessione avrebbe arrecato un gran dolore a James: e pazienza questo: ma avrebbe potuto toglierlo dalla credulità, dalla fiducia che aveva sempre avute per lei: e indagando, avrebbe potuto scoprire (avrebbe scoperto anzi certamente, poichè le cambiali erano tra le mani della Bianchi), tutto il passato, e le cause prime e vere di quel suo dissesto. E allora? La rovina, che essa aveva sempre con tanta cura evitata, non dimenticandosi mai, anche nei momenti più burrascosi della vita. Poichè non la passione, intima e profonda, l'aveva condotta fin là, ma una sovraeccitazione costante dello spirito e dei sensi, una irrequietezza del cervello, un desiderio acuto e morboso del nuovo, dello sconosciuto, dell'impreveduto, e quella sua innata aristocrazia di gusti e di sentimenti che la spingevano in alto mentre le mancavano e le erano sempre mancati i mezzi per giungervi. No, no, la confessione, mai! Anzi, poichè James amava, dopo un lavoro faticoso di tante ore, una buona tavola e una moglie sempre pronta alle carezze, essa metteva adesso ogni cura nel soddisfare a questi desideri di lui, così legittimi, così giusti, così discreti. Quanto a Bianca, fu Adelina a convincerla che, anche per lei, tra le due degradazioni si doveva scegliere quella che le concedeva di conservare almeno l'apparenza dell'onestà. E il suo ritratto era andato presto a tener compagnia a quello della Biondina. Le due amiche vivevano così della medesima vita. Erano i due ubbriachi, nei quali il vino è andato più alle gambe che alla testa: ed ànno la mente ancor libera: e capiscono il loro stato: e vedono la porta di casa e vorrebbero arrivarci. Ma le gambe li reggono a stento; e si sostengono a vicenda, e procedono a sbalzi, disegnando la biscia, appoggiandosi al muro, cadendo ogni tanto nel fango, risollevandosi con pena per ripigliare la via: cantando sempre, per scacciar le preoccupazioni, e per darla ad intendere a sè stessi ed a quelli che passano. 94 IV. James Burton, che aveva passata la notte insonne, e soltanto verso l'alba si era assopito vinto dalla stanchezza, fu risvegliato di soprassalto da un bussare all'uscio della stanza. Scese dal letto — non s'era neanche spogliato — e corse ad aprire. Entrò César. — Che c'è? Non ò chiamato. — Il signor marchese vorrà perdonarmi, ma.... — Che ora è? — Le dieci. — Ebbene, che volete? — Ò una comunicazione da farle da parte di madama Bianchi. — Cha cosa? — Madama Bianchi è addoloratissima di doverla avvertire che, per la prima volta in vita sua, si trova nella impossibilità di adempire ai propri impegni. — Vale a dire? — chiese James, spaventato. — Vale a dire, signor marchese, che la signora da lei scelta ieri e colla quale doveva trovarsi oggi, si rifiuta.... — Si rifiuta!? —— esclamò Burton con ira e con stupore insieme, e con tanta eccitazione che anche César ne fu colpito. — Ecco: non è che si rifiuti precisamente: à fatto rispondere alla Bianchi che oggi non può; non so se stia poco bene, o se qualche impedimento.... Sa, — aggiunse César con un risolino furbo, — una donna maritata.... James, che non s'aspettava questo contrattempo; che, da due giorni, assaporava la gioia fremebonda di quell'incontro con sua moglie; perdette la calma e la circospezione. — Ah! ma questo è un inganno. Questa è una truffa! — Perdoni, signor marchese.... — Questo è un sorprendere la buona fede di un gentiluomo.... E si mise a passeggiare a grandi passi per la stanza, concitatamente. — Perdoni, signor marchese, — continuò César, fermo accanto alla porta, e sempre nell'atteggiamento e con quel suo tono di voce di ossequio rispettoso e devoto: — Perdoni ma è la prima volta che capita un fatto simile. Madame Bianchi non si arrischierebbe — oh! jamais de la vie! — ad assumere un obbligo che non fosse ben sicura di poter soddisfare. Le donne, le signore, che ricorrono a lei come intermediaria, non anno mai mancato agli appuntamenti da lei fissati. — E neppur la Biondina? — chiese Burton, fermandosi di botto. — Non conosco nè di nome nè di figura nessuna di quelle signore; ma posso garantire l'esito di tutti gli impegni di questo genere nei quali ò avuto finora l'onore di impegnare la mia responsabilità. — E allora, perchè questa volta?... — È ciò appunto che neppure madama Bianchi sa spiegarsi. Essa però, addoloratissima dell'accaduto, si è fatta premura di avvertirla per mio mezzo: e mi à incaricato di presentarle tutte le sue scuse, alle quali, signor marchese, permetterà che aggiunga le mie. — E adesso?... — Ecco. S'ella parte, se è assolutamente obbligato a partire stasera, madama Bianchi si farà un dovere di restituirle il denaro che.... — Non è ciò che importa!... — A meno che il signor, marchese non volesse accettare una sostituzione.... — No! — gridò Burton, che si sentiva il sangue salire alla testa, per l'ira, per il dispetto, causati da quel contrattempo. Poi, rifacendosi e dominandosi un poco: È quella là che mi premeva, non un'altra.... 95 César, vedendo tutto quell'interesse, tutto quell'accanimento, pensò che il marchese britannico s'era proprio pigliata una cotta per questa Biondina, e, ciò che era anche più curioso, dopo averne soltanto ammirato il ritratto. Ma egli conosceva le eccentricità di codesti uomini del nord, e non se ne stupì. Abbassò ancora la voce, dando un tono di mistero alle sue parole, e continuò: — Che se poi il signor marchese può trattenersi qualche giorno a Milano, non è impossibile, anzi oserei dire non è improbabile che la biondina che à scelto si renda al convegno in séguito. — Come lo credete? — È questa una confidenza che mi permetto di farle. Madama Bianchi, molto adirata per il rifiuto di oggi, che la obbligava a fare una cattiva figura verso un signore della sua distinzione, si sfogava con me, poc'anzi, e mi diceva: Birichina! Crederebbe mai di emanciparsi costei? Vedrà con chi à a che fare! E ò un certo mezzo sicuro di costringerla ad adempiere ai suoi doveri verso di me.... —Ah! sì? — chiese Burton, con vivo interesse. — E come? — Non ne so di più, signor marchese. Ma madame Bianchi è una donna molto pratica e sensata: e se diceva così gli è che era ben sicura di poterlo dire. E mi permisi di ripeterlo al signor marchese per dargli una speranza nella riuscita del suo disegno che, se non m'inganno — aggiunse César con fine ironia — gli preme assai. Ma James aveva mutato faccia ad un tratto, e, colpito da una súbita idea, si era concentrato in sè stesso, senza ascoltar più la loquacia del cameriere. E chiese: — Posso recarmi io stesso dalla signora Bianchi? — Perfettamente, signor marchese. — La troverei in casa, adesso? — Senza dubbio. Io aveva l'incarico di farle la restituzione della somma sborsata ieri, se proprio Ella non avesse.... Ma se vuol spingere la sua cortesia fino a tornare da madame Bianchi, io credo che riuscirà meglio e direttamente a mettersi d'accordo, e.... James lo interruppe — Chiamatemi una carrozza. César s'inchinò ed uscì, pensando in cuor suo che la mediazione non sarebbe perduta come aveva temuto; e se ne rallegrava. James aveva capito che la colpa di quanto accadeva era tutta sua. Non aveva egli — senza riflettere alle conseguenze — detto a sua moglie: «Siamo ricchi»? Non le aveva inventato che un lucroso affare era stato concluso con Dumenville, e che da esso glie ne veniva già, tanto per cominciare, un guadagno di mezzo milione?... Sua moglie, che si dava per denaro, non ne aveva più di bisogno! Ma dopo il riconoscimento del proprio errore, aveva subito trovato il rimedio. La sua mente si acuiva nel frenetico desiderio di compiere la sua vendetta così come le era balenata dinanzi agli occhi, d'improvviso, dopo la rivelazione di Oscar. Si recò dalla Bianchi e le disse: — Sentite, o mi fate avere la Biondina, oggi, senza indugio, o non concluderemo nulla tra noi. Egli capiva bene che il minacciare alla vecchia la rescissione del contratto, la restituzione del denaro, la rinuncia al lucro, era il miglior mezzo di indurla ad adoperare ogni suo potere, ogni arma di cui disponesse perchè l'avventura non gli sfuggisse. E, del resto, James non aveva bisogno di null'altro che di questo: che la Bianchi facesse recapitare subito alla Biondina un biglietto che lui stesso scriverebbe. — Vogliamo scommettere, cara signora, — egli le disse, sforzandosi ancora d'esser calmo, come se giuocasse solo di puntiglio, — vogliamo scommettere che se voi le fate avere due righe che io vi consegnerò per lei — suggellate, badiamo! — essa si recherà al convegno? — Ma.... — obbiettò la vecchia, un poco paurosa di quel mistero. 96 — Sì o no? — insistè James, facendole ben comprendere che un no avrebbe significato la restituzione del denaro. — Non mi compromette? — chiese ancora la Bianchi, indecisa. — In parola di gentiluomo. Allora si arrese. E James scrisse, in francese, senza lasciar vedere alla vecchia che cosa scriveva: «Sono ancora io. Vi scongiuro di venire per il bene vostro. Non c'è altro mezzo di vedervi in modo sicuro. Venite, per la vostra salvezza. — Oscar Dumenville». Poi chiuse la busta e disse alla Bianchi: — Mandatela subito, me presente. — Ma, io non posso mandarla che per posta — obbiettò la vecchia, ricordando la commedia giuocata il giorno prima. — Ma che storie! — esclamò James facendosi rosso in viso per l'ira che lo riaccendeva. — Che storie! figurarsi se voi non sapete come farla recapitare direttamente. — Ma.... — Sentite: queste fanfaluche raccontatele a qualcuno meno furbo e meno pratico di me, e quando vi possono servire a dar colorito ai.... vostri affari. Ma ormai che l'affare è fatto.... via!... D'altronde, cosa temete? Sapete chi sono: sapete che parto stasera, che non conosco la Biondina e non m'importerà di conoscere chi sia.... Suvvia! — Le assicuro!.,. — tentò d'insinuare ancora la Bianchi. James prese il cappello e accennò a congedarsi. — Come volete! Stasera debbo partire per affari urgenti. Non posso rimanere ai comodi vostri, e per un'avventura che — dopo tutto — mi preme assai poco. Favoritemi il mio denaro. — Dio buono! Sa che è un benedetto uomo lei! Tenterò, ecco: ò certi dati.... vedrò se non mi sono sbagliata..., forse un'amica della Biondina.... credo che sia sua amica.... non so.... — Sta bene, sta bene. Veda, sono così sicuro che lei riuscirà a farle avere questo biglietto e che esso, senz'altro, deciderà la Biondina a non mancare al convegno, che io, alle due, sarò laggiù dove mi à indicato, nella palazzina, ad attenderla. Ed uscì, sicuro del fatto suo. Quelle quattro righe otterrebbero certamente l'effetto desiderato. A bella posta le aveva scritte in modo sibillino. Esse farebbero comprendere ad Adelina, non foss'altro, la necessità assoluta per lei, di recarsi al convegno. Supponesse qualunque cosa: che il solo Dumenville avesse scoperto chi era: o che involontariamente, dopo il suo incontro nello studio di lui, di James, nell'officina, egli avesse rivelata la cosa al marito; supponesse pure, soltanto, che Oscar si valesse di questo mezzo per rivederla, egli che l'aveva tanto e tanto pregata di un nuovo abboccamento; Adelina, poichè sapeva, adesso, che Oscar era Dumenville, avrebbe compresa l'utilità di incontrarsi con lui, non fosse che per chiedergli la complicità del segreto; a prezzo di qualunque concessione, di qualunque promessa. E alle due, James arrivava in carrozza ad una porticina, aperta nel muro di cinta, di un giardino costeggiante la lontana e deserta via degli Orti. Una vecchietta, in abito dimesso, dall'aspetto quasi contadinesco e dalla faccia ebete, venne ad aprirgli: e dietro presentazione del biglietto che la Bianchi gli aveva dato a mo' di passaporto, gli fece cenno d'entrare. Attraversarono un'ortaglia, e giunsero ad una casetta rustica, perduta tra il verde degli alberi. Salirono una piccola scala e arrivarono ad una stanza superiore. La vecchietta aprì la porta di essa e fece cenno a James di entrare e di attendere. James si guardò d'attorno. Era una camera abbastanza grande, bassa di soffitto, illuminata da due piccole finestre che guardavano sull'ortaglia vasta e verdeggiante che egli prima aveva attraversata. Tra il mobilio spiccava un gran letto matrimoniale a cortinaggi azzurri, che si spingeva fin verso la metà della camera. Di contro al letto, un divano azzurro del pari, di antica foggia, e due poltroncine. Dinanzi al divano una tavola quadrata, e su di essa due album. Di fianco al letto, un attaccapanni. In faccia alla porta per la quale James era entrato, v'era un'altra porticina, aperta; per essa si entrava in un piccolo gabinetto di toilette, nel quale nulla mancava di ciò che può servire alla toilette di una donna. Tutto l'arredo 97 era semplice, ma pulito, e vi si vedeva una certa quale ricerca di eleganza, se non di distinzione. Dalle griglie semichiuse entrava una luce calma e discreta piena di riflessi verdi raccolti tra le piante dell'orto: e per le vetrate aperte penetravano nella stanza i profumi sprigionantisi dai ciliegi e dagli albicocchi in fiore. Una gran calma, tutt'attorno; all'orecchio di James, non arrivava che il báttito cadenzato di una zappa, e, a tratti, l'armonia dolce, malinconica, di una canzone susurrata a fior di labbro da qualche contadina nascosta tra la verzura. Una gran pace era là dentro. James, un poco affranto e spossato dalle fatiche di corpo e d'intelletto durate in quei due giorni, ma ancora sorretto e tenuto sveglio dall'ansia che andava aumentando di minuto in minuto, mano mano ci si avvicinava a questa ch'egli prevedeva sarebbe l'ultima fase e la catastrofe del gran dramma scoppiato nella sua esistenza; dopo essersi guardato attorno per ogni lato, dopo aver esaminato palmo palmo il luogo dove si trovava; si lasciò cadere, involontariamente, a sedere sul letto. Ma il letto era così soffice e le molle tanto flessibili, che egli ne ebbe un sobbalzo; e si trovò ritto in piedi, quasi spaurito, indignandosi istintivamente di aver posate la membra, fosse pure per un attimo solo, là dove si era compiuto il mercato di sua moglie. E rimase, cogli occhi fissi, imbambolati, colla febbre che gli martellava nei polsi e alle tempie, nell'ansia di quella terribile attesa. Verrebbe, Adelina? Sì, egli n'era, quasi sicuro. Quelle due righe, se la Bianchi le aveva recapitate, dovevano trascinarla suo malgrado alla palazzina. Ma che bestia, che cretino era stato! Nell'ultimo abboccamento con sua moglie, egli stesso, inventando quella improvvisa fortuna di denaro, aveva compromessa la riuscita del suo disegno!... D'altra parte, come prevedere tutto, come pensare a tutto, là per là, in quegli orribili istanti, dopo la rivelazione dell'infamia di lei e della propria sventura? Non aveva fatto anche troppo, non si era dominato anche troppo? La sua anima, il suo cuore, la sua mente, non avevano dato — in quel frangente improvviso e sciagurato — tutto ciò che anima forte, che cuore indurito, che mente equilibrata possono dare? Per frenarsi, per trovar modo di frenarsi in quel colloquio con Adelina, egli aveva sentito il bisogno di crearsi una specie di sovraeccitazione: e, come antidoto all'esulcerazione dell'animo, non aveva trovato di meglio che di darsi in balìa ad una allegria artificiosa: egli aveva fatto come il solitario camminatore notturno nella campagna deserta e sterminata: si era sforzato di cantare per scacciare la paura. E poi, in quel colloquio con sua moglie, aveva capito ch'era necessario — per evitar di tradirsi, di perdere la calma e il sangue freddo, di saltarle al collo e strozzarla — ch'era necessario trovar un argomento di discorso impensato, che potesse dare luogo a molte parole, a uno svolgersi di pensieri nuovi, in cui la mente e le labbra trovassero sfogo ampio e improvviso: cosicchè Adelina, colpita dalla straordinaria notizia e assorta nelle argomentazioni che essa le avrebbe suggerite, non si accorgesse dell'orgasmo, della sovraeccitazione di lui: ed egli, occupato ad ascoltarla, a risponderle, e secondarla, potesse riuscire — in quei brevi istanti che avrebbe passati accanto a lei — se non a dimenticare tutto quanto era avvenuto e stava per accadere, a renderne il ricordo e la preoccupazione meno intensi e dolorosi. Adesso, però, gli pareva di aver rimediato per bene a quell'errore. E non dubitava dell'arrivo di Adelina. Egli non provava che l'ansia dell'attesa, tanto più forte — forse — quando si à la certezza che chi si attende verrà. James aspettava Adelina coll'orgasmo e il batticuore di un innamorato che è al suo primo convegno lungamente invocato, finalmente promesso. Appena la vedesse entrare, tornerebbe la calma. Oh! sì, saprebbe dominarsi. Gli premeva troppo di udire da lei stessa, tutta la storia della sua sciagurata degradazione; era troppo curioso di conoscere per quali casi terribili e strani essa era giunta sin là. E osservava quella stanza tranquilla, pulita, quasi elegante, così nascosta al mondo, così perduta, nella città rumorosa, tutta circondata di silenzio e di verde, dove Adelina aveva per tante volte prostituito sè stessa e il suo nome. Tante volte?... Quante?... Chissà?... E chi erano stati i suoi rivali di un giorno o di un'ora?... E dov'erano adesso? Oh! come avrebbe voluto vederseli rivivere lì, tutti quanti, tutti assieme, tutti in fila, dinanzi a sè non per ucciderli, non per chiedere loro ragione dell'insulto: no, non ne avrebbe il 98 diritto: gli riderebbero in faccia; ma per osservarli, uno ad uno, per contarli.... per far dei confronti. Ce ne sarebbero di giovani e di vecchi, di belli e di brutti, di distinti e di volgari, d'ogni paese, d'ogni tipo. Oh! la strana congrèga! E quanti? quanti?... Strano! uno, o cento, l'infamia non sarebbe stata più o meno grande, chè dal numero non avrebbe attinto minore o maggior gravità. Eppure, adesso, avrebbe voluto sapere quanti erano stati. Ecco la più acuta curiosità che lo pungeva, adesso, ecco il particolare che gli premeva di più di conoscere. Ma lo saprebbe da Adelina. Li aveva contati certamente, lei: e li direbbe. Scoperta, smascherata, che le importerebbe ormai di rivelare quel numero? Uno o cento, non era lo stesso? E seguitava a guardarsi d'attorno, ad osservare ogni angolo della stanza, ogni mobile, ogni oggetto. Lì, lì, dunque, essa lo aveva tradito. Tradito? Si fermò su questa parola, e il suo pensiero fu trascinato per nuovi sentieri. Tradito! E poteva dirsi un uomo, tradito, lui? Da chi? Dov'era questo rivale? Chi era l'amante di sua moglie? E poteva dirsi un amante? Il viso di James cambiò espressione, ad un tratto. Parve, per un istante, quasi rasserenato. In fondo, alla conclusione ultima delle cose, l'infamia sarebbe, per avventura, meno grave di quanto gli era parsa, a tutta prima? Volere o volare, una delle circostanze che rendono più dolorosa, più... seccante, la scoperta dell'adulterio nella propria moglie, non è la paura, anzi la coscienza del ridicolo che ci piomba sul capo? Una delle maggiori preoccupazioni che ci colgono, in quell'istante, non è la certezza che tutti parlano di noi, e raccontano l'avventura, e ci deridono? Così che pensiamo quasi con raccapriccio al momento in cui dovremo ripresentarci nel mondo, agli amici, che ci compiangeranno, sorridendo nel loro compianto? E allora? Che curioso caso era il suo! Egli, domani, oggi stesso, potrebbe ripresentarsi in pubblico, senza paura di sorprendere un sorriso di scherno, di far cessare — colla sua presenza, — un pettegolezzo sul conto suo e di sua moglie. Se nessuno ne sapeva nulla!... Nessuno, sì. La Caradelli era una complice che non avrebbe parlato mai. La Bianchi, probabilmente, anzi certamente, sapeva come far recapitare le sue missive ad Adelina, ma non conosceva di certo chi fosse veramente Adelina: non era possibile che essa si fosse data così in balìa d'una mezzana! E poi, e poi, la Bianchi! Era un essere che si poteva trascurare: non entrava a far parte del mondo, che osserva, che giudica, che ride. Era dunque un uomo tradito, lui? Restavano a conoscersi le ragioni e le cause per le quali Adelina era giunta a quella degradazione; più o meno bizzarre, più o meno dolorose, più o meno.... scusabili, forse; ma il tradimento esisteva? Un tradimento che lo potesse urtare e intaccare nel sentimento, se non nella dignità certamente intaccata e compromessa? Come marito, sì, senza dubbio, era stato offeso, orribilmente offeso. Ma come maschio? Il suo amor proprio non doveva, anzi, trovar ragione di lusinghe, in questa forma di adulterio che sua moglie aveva scelto? Sua moglie si era concessa per lucro: un'infamia senza nome: ma non si era fatto un amante, non gli aveva preferito nessun uomo sulla terra.... E James rimase, così, a lungo, gli occhi fissi, meditando. Nell'uomo onesto, intemerato, rispuntava l'animale. Oppure, forse, come tutti, nei momenti più terribili della vita, quando la sventura colpisce ed atterra, cercava un sollievo purchessia, fosse pure in un'illusione, fosse pure in un'aberrazione del sentimento? Udì un passo leggiero sul viale, e un susurrìo sommesso di parole. Corse a spiare dietro le persiane. Una donnina, tutta vestita in nero, con un fitto velo sugli occhi si avanzava, preceduta dalla vecchietta di poc'anzi. Adelina, certamente. Non le vedeva il viso, ma la statura, il portamento, erano i suoi. Allora si ritrasse dalla finestra: venne sino in mezzo alla stanza, e si volse verso la porta, appoggiandosi, sedendo quasi sulla tavola. E attese. La porta si aperse e la donnina entrò: ma appena entrata, alzò gli occhi, vide James, e un piccolo grido di terrore gli sfuggì dalle labbra. E, rapidissima, rifece un passo indietro, come per riguadagnare 99 la soglia. Ma James, che si aspettava questo tentativo di fuga fu pronto alla sua volta, e, senza muoversi, disse, in tono di comando: — Adelina! Adelina, si fermò, di botto, e si appoggiò, suo malgrado, allo stipite della porta, come si sentisse venir meno. Allora, dopo un silenzio, James si mosse: venne a lei, tenendole gli occhi fissi sul volto ricoperto dal velo: la prese per un braccio, come in una morsa, la scostò dalla porta, che rinchiuse a chiave, e la attirò verso il mezzo della stanza. Attese ancora un istante, indeciso: poi, tenendola sempre stretta ad un braccio, coll'altra mano le strappò il velo che la copriva; poi, violentemente la spinse verso il divano, abbandonandola. Adelina cadde su di esso, sollevò un attimo gli occhi verso James, li abbassò subito, spaurita, tremante, si coprì la faccia con le mani, ed ebbe uno scoppio di pianto lungo, angoscioso, convulso. Piangeva di dispetto e di rabbia. Ora, ora che aveva intravveduta la fine di questa abbiezione nella quale durava da un anno; ora che aveva creduta la sua situazione assestata e regolarizzata; ora che colla ricchezza acquisita aveva contato di pagare la Bianchi e liberarsi dalla orribile, obbrobriosa schiavitù; ora, proprio ora, si vedeva scoperta, tradita: tutto il suo bell'edificio di speranze e di sogni crollava! Suo marito era lì: suo marito le aveva dato convegno, sapendo di darlo a lei, per vendicarsi certamente, per ucciderla, forse. Ma non la visione della morte la spaventava. La spaventava il pensiero di quel colloquio, in cui avrebbe dovuto umiliarsi, non per chiedere perdono o pietà, ma per udire le cose terribili che James le avrebbe dette. Umiliarsi, lei, così orgogliosa, sempre, anche nella degradazione: tanto orgogliosa che dovendo prostituirsi, aveva scelta la forma di prostituzione che le permetteva di non divenire la schiava dell'uomo che la pagasse, che non la obbligava a ringraziare: la forma che le concedeva — nel mistero che circondava il mercato — di camminare a testa alta, di non temere la malignità o lo scherno, anche soltanto la mancanza di rispetto della folla che odiava. Come, come, suo marito aveva saputo, ed era lì, adesso? Oscar aveva parlato? Aveva detto tutto? Aveva date tutte le indicazioni necessarie? Come un delatore volgare, proprio, per rovinarla? Che vigliacco! Dio! fosse qui, ora, come si sentirebbe la forza, lei donna, di sbranarlo! Il mattino, quando le era giunto l'invito della Bianchi, se n'era indignata, per un istante; poi ne aveva riso. Dopo il colloquio con suo marito, dopo l'annuncio festoso della grande fortuna conquistata, non ci aveva pensato, alla Bianchi, ai suoi orribili impegni. Aveva pensato soltanto, un momento, al pericolo che le sovrastava da parte di Oscar. Ma, nella grande felicità che tutta l'avea invasa, non ci aveva data una grande importanza. Oscar non l'aveva riconosciuta, poichè suo marito nulla sapeva e partiva con lui, per la Francia: forse non la riconoscerebbe in seguito: la riconoscesse, negherebbe: o, alla peggio, saprebbe comperare il suo silenzio!... Ed era corsa dalla Caradelli, poi dalla zia, a raccontare la grande novella. Alla Bianca, nell'entusiasmo della contentezza e dell'affetto, aveva detto: «Sono finite le mie pene, e le tue: io sarò tanto ricca: lo sarò anche per te!» E avevano pianto di gioia, insieme, benedicendo, insieme, al nome di James! «Gli vorrai sempre bene — le aveva chiesta l'amica — sarai una moglie buona, affettuosa, devota....» «Sì, sì, sì.... lo amerò fors'anche» — aveva risposto Adelina. Allora, quando le era giunto il biglietto della mezzana, fissantele il convegno, si era indignata. La ripiombava, quel biglietto, nel ricordo della propria infamia, la faceva arrossire di vergogna per la prima volta. Ma la visione dell'avvenire l'aveva consolata presto e aveva finito per riderne, di quell'invito. «Ah! ah! vecchia mia — aveva pensato — è finita! è finita! ti pagherò, per la malora tua! ti pagherò il debito, e gli interessi; e pagherò il tuo silenzio per l'avvenire. Sono ricca: non ò più bisogno di te!» Poi le aveva risposto, subito, che non verrebbe: che non poteva: che era occupata: che le darebbe delle spiegazioni soddisfacenti fra qualche giorno. 100 Allora era giunto un secondo biglietto, firmato Oscar. «Venite, venite, vi scongiuro, per la vostra salvezza!» Queste parole l'avevano colpita. Oscar? Aveva dunque rivelato? Si trattava di rimediare? Non era dunque partito con James? O era ritornato, con un pretesto, per vederla, per parlarle, per mettersi d'accordo con lei? E allora, poichè sapeva chi era, perchè non era venuto egli stesso, in casa sua? Non aveva osato, forse? Non era sicuro, forse, di averla riconosciuta? La sua comparsa, all'officina, nello studio di James, era stata d'un attimo!... Oppure, Oscar nulla sapeva, ed era questo un mezzuccio a cui ricorreva per rivederla, egli che si era così entusiasmato di lei, che aveva tanto pregato, tanto supplicato per ottenere un nuovo colloquio? Adelina era rimasta così, col biglietto tra mani, pensosa, indecisa. Che fare? Recarsi al convegno? Non recarvisi? Si era raccolta in sè stessa, aveva chiusi gli occhi, come per ascoltare una ispirazione, come per leggersi dentro, ciò che il cuore le dettava di fare. Ma poichè era Oscar che scriveva, senza dubbio.... Poichè le scriveva così.... Perchè non andarci?... Non era utile, necessario, di vederlo, di udire che era avvenuto?... Ecco la curiosità, l'ansia di sapere, che la riconquistavano. Si era trovata, allora, nello stato d'animo istesso di quel tempo trascorso tra la sua comparsa all'officina e il ritorno a casa, mentre aveva aspettato, là, nel vano della finestra, l'arrivo di suo marito. Ed ora le si offriva il mezzo di sapere.... Se Oscar l'aveva riconosciuta, ebbene, era la buona occasione questa, di rivederlo, di parlargli, di commuoverlo, di impietosirlo, di raccontargli una storia terribile e dolorosa, che avrebbe inventata lì per lì, e fargli giurare il segreto.... E se non l'avesse riconosciuta, là all'officina, ieri l'altro.... allora, vedrebbe, giudicherebbe sul da farsi.... Ci andrebbe velata, oggi, al convegno, irriconoscibile: e prima di scoprirsi, udrebbe, da lui, che era successo da due giorni, conoscerebbe questa incognita che la martoriava, adesso, dopo quel biglietto, più ancora di prima, che non le lascerebbe più pace, che la spingerebbe a tradirsi, forse, al primo incontro con suo marito. Si era abbigliata, macchinalmente, come spinta da una forza superiore, senza sapere bene che facesse, perchè lo facesse, se era la salvezza o la rovina, a cui andava incontro. Qualcosa di fatale la spingeva a quel convegno: era l'ultima carta che restava a giuocarsi: su quella carta era puntata la vita. Ora! piangeva di rabbia e di dispetto. Cretina! era caduta nel tranello. Come mai il tranello le era stato teso, come si era potuto tenderglielo così bene, non sapeva, non tentava indagare. Ma ci era caduta. Aveva tutto perduto, sull'ultima carta. Tutto, sì! Oh! non fosse venuta! E Oscar l'avesse pur riconosciuta: e fosse pure in balìa di lui! E dato che egli fosse l'ultimo dei miserabili, e avesse rivelata la cosa a tutti, a suo marito anche; ebbene: avrebbe negato, avrebbe giurata la propria innocenza: avrebbe potuto difendersi, sempre, fino all'ultimo: e, se vinta, morir bene, da forte, orgogliosamente, gridando all'infamia, alla menzogna, al tradimento. Ora no. Era qui. Era qui, nella palazzina, dinanzi a suo marito. Non si poteva tentare una difesa. Non si poteva inventar nulla, invocare più nulla a propria scusa. Era finita, per sempre, senza remissione! James era rimasto in piedi, di contro a lei, gli occhi fissi su di lei. La tavola li separava, soltanto. E attese che finisse quello sfogo di pianto, che l'impeto dei singhiozzi si facesse meno frequente e convulso. Poi disse, calmo: — Parla. Ma il pianto ricominciò, ancor più affannoso, come se la voce di lui l'avesse risvegliata da un assopimento di morte. 101 Egli attese ancora, poi ripetè — Parla! Adelina si sollevò un poco sui gomiti, scostò le dita dagli occhi, e li volse verso di lui; quasi interrogando. Nel suo sguardo più che una preghiera, c'era dell'ira per quell'umiliazione, impostale così. — Parla! — ripetè James, violento questa volta. Essa susurrò: — Ammazzami, finiamola. Ed egli, calmo di nuovo: — Sì, forse. Ma poi. Prima devi parlare. Devi dirmi il come e il perchè. Allora Adelina si alzo in piedi, raccolse il velo, con fare deciso, e mosse verso la porta. No! non avrebbe parlato. L'ammazzasse, ne aveva il diritto. Glie lo aveva chiesto lei stessa che l'ammazzasse. Parlare, no! Non aveva nulla da dire. Non poteva umiliarsi a tal punto. Implorare? Invocare? Che cosa? Non aveva nulla da implorare. La vita? Era inutile ormai. Il perdono? Sentiva che non aveva nessun perdono da chiedere: ciò che era avvenuto era stata opera del destino. La sua stima? Non glie l'avrebbe riconcessa più. Era un marito, che le stava dinanzi; un marito non potrebbe concederla. La uccidesse o la lasciasse andare: tornerebbe dalla mezzana. O peggio, o più in basso. — No, non si esce di qui! — disse James. E come Adelina giunta alla porta, accennava a girar la chiave e ad aprire, egli le fu sopra, d'un salto, la ripigliò ad un braccio, la attirò a sè, violento, e la ributtò verso il letto. Essa ci cadde quasi, ma si rizzò subito, e rimase, appoggiandosi con una mano, fissando James con uno sguardo pieno d'odio e di rabbia repressa. Dio! Ora l'odiava quest'uomo che era stato così cieco, che aveva aperti gli occhi adesso, proprio adesso, nel momento della sua vita in cui le sarebbe riuscita più preziosa la sua cecità, in cui, per la prima volta, l'avrebbe desiderata con tutte le forze dell'anima. L'odiava quest'uomo, che non aveva veduto, allora che non le sarebbe importato nulla che egli vedesse, nei momenti più sconsolati della sua vita, dopo l'abbandono d'Eugenio, per esempio. Come avrebbe confessato tutto, allora, fieramente; con quale entusiasmo si sarebbe fatta ammazzare, allora, vittima dell'amore. Adesso, aveva aperti gli occhi, adesso soltanto, per vedere un'ignominia cui la fatalità l'aveva trascinata; adesso che, soddisfatte le aspirazioni dell'anima, fatti cessare per sempre da una morte i moti del cuore, si preparava a vivere beatamente tranquilla, nel benessere calmo del corpo, nella quiete assoluta della mente. — Parla! — comandò James, ancora. E levò dalla tasca dei pantaloni un revolver, posandolo sulla tavola e tenendovi sopra una mano; come un argomento per indurla a questa confessione che tanto gli premeva di udire. Adelina ebbe un senso d'orrore istintivo. Poi proruppe con ira: — Non ò nulla da dire! — Si! Ài, devi aver qualcosa da dirmi! — susurrò James. — Nulla, nulla che ti possa interessare, e che possa valermi di scusa.... E non cerco scuse. Ammazzami! La sovraeccitazione aumentava in lei mano mano. E la vista di quell'arma, che le faceva paura, le dava adesso il coraggio temerario di chi si sa vicino a morire, inevitabilmente condannato, e lotta disperatamente per contendere la vita, per prolungarla, fosse pur d'un minuto. Con quell'uomo debole, devoto? — innamorato, forse, ancora — bisognava lottare d'audacia e di fierezza. — No, non ò nulla da dirti! — ripetè. — Le mie giustificazioni, non le comprenderesti, tu! Non puoi comprenderle! Se non vuoi ammazzarmi, lasciami andare! — E accennò a muoversi di nuovo. James, questa volta, non ebbe bisogno di imporsi col gesto o colla parola. Impugnò, soltanto, la rivoltella, ma senza levarla in alto, tenendola ferma sulla tavola, colla mano. 102 Adelina sentì un brivido correrle per le ossa; e ristette, fremente d'ira. Dio! da che rabbia furibonda si sentiva invasa! Avrebbe voluto possedere un'arma anche lei, e sarebbe stata capace di sparare per la prima; a costo di un delitto si sarebbe tolta a quella umiliazione. — Vuoi che parli, di', vuoi che parli?! Per dirti che non è colpa mia se mi trovo qui, se una, mezzana mi vendeva al primo venuto? Che soddisfazione ne avrai tu? Che vantaggio ne ricaverò io? Se non ti chiedo perdono! Se ti chiedo soltanto d'ammazzarmi!... Vuoi che parli! Perchè ti pare impossibile che si giunga a questo! Perchè è questo che ti stupisce! Se tu mi avessi scoperto un amante, uno solo, non ti saresti stupito, nevvero? Cápita a tanti, codesto!... Ebbene: mi sono venduta per denaro, perchè avevo bisogno di denaro, perchè ero piena di debiti, perchè mi si minacciava la rovina, la mia e la tua rovina; perchè.... non avevo altra via di salvezza! Ecco perchè. Ti basta? Sai quello che volevi sapere? Finiamola, adesso! Si fermò, stupita ad un tratto della sua stessa audacia. Ed attese. James rimaneva impassibile, gli occhi fissi su di lei, aspettando alla sua volta. E come il silenzio si prolungava, egli sedette, quasi, sul tavolo, tranquillamente. Ma il movimento di lui spaventò Adelina, che credette giunta la fine. E riprese subito, precipitosa: — E ti stupisce, e non comprendi che io mi sia trovata in condizioni tali! Naturalmente! Che ài mai saputo, tu, della mia vita, della nostra vita? Te ne sei sempre occupato così poco!... Non ài mai pensato, tu, non ti è mai passato per la testa di sapere, che facevo io, nelle lunghe eterne giornate durante le quali rimanevo tutta sola. E la sera, quando mi lasciavi uscire, andar sola nel mondo, mentre tu dormivi placidamente nel tuo letto! Mi concedevi tanta libertà! Purchè il pranzo fosse pronto, quando rincasavi, e ben cucinato; non chiedevi di più a tua moglie. Ed io, attorno. Vedi! disgraziatamente, perchè ti volevo bene forse, ò avuta la disgrazia di non innamorarmi, di non farmi un amante. Oh! quello non lo avresti scoperto mai! Se lo avessi scoperto, non ti avrebbe forse stupito! No: non ò avuto un amante, come quasi tutte le donne, come tutte quelle che praticavo, come tutte quelle che incontravo nei salotti delle amiche. Ma ero giovane, piena di sangue nelle vene.... eccitabile, impressionabile! Allora, invece di farmi un'amante, ò fatto dei debiti. Ài mai aperto la mia guardaroba, tu? ài mai cercato di vedere il conto della sarta e della modista? ài mai chiesto chi pagava i palchi alla Scala o il soggiorno a Saint-Moritz? Li pagavo io! Io, perchè ero così onesta da non lasciarmeli pagare da altri che sarebbero stati tanto contenti di pagarli! E ài sempre creduto che bastassero quattro mila lire all'anno per tutto ciò.... Tu, uomo pratico, ài sempre vissuto nelle nuvole! Si interruppe di nuovo. Ora non si stupiva più di quanto diceva: si ubbriacava delle proprie parole. Ma tentava di indovinare quale effetto facevano su James. James, impassibile, ascoltava. Allora, dopo una pausa, portandosi il fazzoletto agli occhi, commovendosi mano mano, di una commozione che era spossatezza, esaurimento graduale delle sue forze, Adelina riprese: — E un giorno mi trovai rovinata: un fascio di cambiali era tra le mani di una donna che avevo creduta sempre, inesperta com'ero, la mia benefattrice, la mia buona consigliera, e che, invece, aveva minata la mia vita, mi aveva circondata colle sue reti infami, per sorprendermi e dichiararsi per quella che era, allora soltanto che non mi sarebbe più possibile ribellarmi e salvarmi. E mi si minacciava di rivelarti ogni cosa, di rovinarti insieme con me. Ò avuta paura; ò cercato e non ò trovato il coraggio di venire da te, di confessarti tutto. Ò temuto di avvelenare per sempre la tua vita, di spezzare la tua esistenza, di distruggere il tuo avvenire. Ò chiesto aiuto, soccorso, a chi onestamente poteva concedermeli. Ò trovato degli infami più infami della Bianchi. Un uomo, che dopo essere stato per vent'anni l'amante di mia zia, avrebbe voluto essere il mio amante, e, a prezzo del mio amore, avrebbe pagati i miei debiti. Allora la disperazione mi à colta. Non ò ragionato più, ò perduta la testa.... Mi sono venduta! Tacque. Un singhiozzo convulso le troncava la voce. James rimaneva impassibile, in attesa. Adelina, adesso, si stupiva di quel silenzio. 103 Era forse la salvezza? La sua audacia, la sua sincerità avevano impressionato quell'uomo? La risparmierebbe? E nella vita soltanto? Ci fu un lungo silenzio. — Ài finito? — chiese James. La voce di lui la scosse; il tono col quale pronunciò quelle due parole le fece paura, di nuovo; e la sua impassibile freddezza le risvegliò l'ira e l'odio che la laceravano dentro. Allora, riprese, violenta: — Sì, ò finito, poichè sai tutto, adesso. E sai perchè sono qui, perchè ci venivo, e con chi. Con della gente che non conoscevo e che non mi conosceva. È perfettamente inutile, nevvero? che ti dica lo strazio dell'anima, e l'onta e la vergogna che provavo, e il disprezzo che sentivo per me stessa. È inutile, nevvero? Poichè non cerco scuse! Poichè non mi crederesti e avresti il diritto di non credermi! Avrei potuto risparmiarmi tutto ciò! Avrei potuto trovarmene uno solo, sempre quello, che mi amasse e mi pagasse! L'onta, e la vergogna sarebbero stati di una volta soltanto. E mi ci sarei abituata! E avrei potuto ottenere di più, concedendomi meno! Non sono le occasioni che mi mancarono! Oh! no, te lo giuro!... Ma, che vuoi! Ero una ingenua! Depravata, sì, ma ingenua! E onesta nella mia depravazione! Mi premevi! Volevo rispettarti! E ò scelto il ludibrio che fosse il peggiore, per me e il minore per te! Era così facile di avere un amante: ma ti avrebbe reso ridicolo. Ò preferito averne cento. Uno non lo si nasconde, cento sì. A uno solo avrei dovuto legarmi per tutta la vita: a questi mi legavo per un'ora, e non c'era neppur bisogno di fingere l'amore con essi! Così, mi acconciavo ad arrossire io, perchè non dovessi arrossire tu.... E ci sono riuscita!... Ammazzami, adesso, se vuoi: ma non andar attorno a dire il perchè mi ài ammazzata: non ti presteranno fede! Mi credevano la più onesta delle donne, ti credevano il più fortunato dei mariti. Si arrestò, di nuovo. La sovraeccitazione istessa, le impediva di continuare. James dopo un istante, chiese ancora, calmo: — Ài finito? Essa rispose, fieramente: — Sì. Allora Burton si mosse, tranquillo, deciso. Non aveva più nulla da apprendere, e nulla più gli avrebbe interessato. Non si aspettava tanta volgarità di difesa. Aveva creduto — aveva sperato forse — che un fatto straordinario, che una avventura strana e dolorosa fosse nella vita di sua moglie che la giustificasse, che la scusasse. No: aveva dinanzi a sè una delinquente volgare. Ora, neppure la curiosità di conoscere quanti l'avevano posseduta non lo pungeva più. Neppure gli premeva più di sapere se Bianca aveva trascinata Adelina in quella perdizione. Tutto ciò non muterebbe aspetto alla cosa. Sua moglie era una femmina da trivio; lo era divenuta per vizio, per corruzione dell'anima, per assenza di senso morale. Egli mosse verso di lei, adagio, coll'arma in pugno. Adelina ebbe un sussulto. Quando le fu vicino e alzò il revolver su di lei, diede un piccolo grido, si buttò bocconi sul letto, si raggomitolò su sè stessa, e tentò nascondere la testa tra i cuscini. Ma James la raggiunse, colla canna del revolver sul collo, e sparò. Adelina, ferita, si volse, nelle convulsioni della morte, colla bava alla bocca, cogli occhi injettati di sangue, e trovò ancora il fiato e la forza di gridargli: — Vigliacco!... Ebbene, sappi tutto. Ti ò tradito, sì.... ò amato un altro uomo.... ò avuto un amante.... James sparò ancora, a bruciapelo; il corpo di lei rigirò su sè stesso, e cadde a terra, vicinissimo al letto. Burton buttò l'arma, e attese un momento. Poi scosse quel corpo col piede. Era immobile. Allora uscì, è andò a costituirsi. I giurati lo ànno assolto. FINE. 104 Aprile-Luglio, 92. 105