IL VENTRE DI NAPOLI MATILDE SERAO IL VENTRE DI NAPOLI MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1884. PROPRIETÀ LETTERARIA Tip. Treves. I. SVENTRARE NAPOLI. Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, poichè voi siete il governo e il governo deve saper tutto. Non sono fatte pel governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore belle e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi 2 abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata con racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l'altra parte: il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore; quanti mendichi non possono entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormono in istrada la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi siano; quanto rende il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s'impegni al Monte di Pietà 3 e quanto renda il lotto. Questa altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perchè siete ministro? * ** Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti l'avete percorsa tutta? Sarà larga dieci palmi, tanto che le carrozze non ci possono passare, ed è sinuosa, si torce 4 come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato: è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In quella strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, c'è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell'olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole che portano i nomi delle arti: la Zabatteria, i Coltellari, gli Spadari, i Taffettanari, i Materassari, e via di seguito. Sono — questa è la sola differenza — molto più strette dei Mercanti, 5 ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in un modo diverso: di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico. Varie strade conducono dall'alto al quartiere Porto: sono ripidissime, strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo a ogni bottega bruna arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove degli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte cola sempre una feccia di tintura multicolore. Un'altra strada, le cosidette Gradelle di santa Barbara, ha anche la sua originalità: da una parte e dall'altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio, e per ozio di infelici disoccupate nel giorno o per cupo odio contro l'uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe: e tutto resta su questi gradini, così che la gente pulita non osa 6 passarvi più. Vi è un'altra strada, che, dietro l'educandato di San Marcellino, conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano i Lanzieri: veramente, non è una strada, è un angiporto, una specie di canale nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un villaggio sudicio. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è lubrico e lo stomaco spasima. * ** In sezione Vicaria, ci siete stato? Sopra tutte le strade che la traversano, una sola è pulita, la via del Duomo: tutte le altre sono la rappresentazione della vera vecchia Napoli affogata, bruna, con le case puntellate, che cadono per vecchiaia. Vi è un vicolo del Sole, detto così perchè il sole non vi entra mai; vi è un vico del Settimo cielo, appunto per l'altitudine 7 di una strisciolina di cielo, che apparisce fra le altissime e antiche case. Attorno alla piazzétta dei SS. Apostoli vi sono tre o quattro stridette: Grotta della Marra, Santa Maria a Vertecoeli, vicolo della Campana, dove vive una popolazione magra e pallida, appestata dalla fabbrica del tabacco che è lì, appestata dalla propria sudiceria e tutti i dintorni del tribunale, di questa grande e storica Vicaria, sembrano proprio il suo ambiente, vale a dire un putridume materiale e morale, su cui sorga l'estremo portato di questa società povera e necessariamente corrotta: la galera. La sezione Mercato? Ah già! quella storica, dove Masaniello ha fatto la rivoluzione, dove hanno tagliato il capo a Corradino di Svevia: sì, sì, ne hanno parlato drammaturghi e poeti. Se ne traversa un lembo, venendo in carrozza, dalla ferrovia, ma si esce subito alla Marina. Al diavolo la poesia e il dramma! In sezione Mercato, niuna strada è pulita; pare che da 8 anni non ci passi mai lo scopino; ed è forse la sudiceria di un giorno. Ivi è il Lavinaio, la grande fonte dove si lavano tutti i cenci luridi della vecchia e povera Napoli: il Lavinaio, che è il grande ruscello dove la sporcizia viene a detergersi, superficialmente, tanto che per insultare bonariamente un napoletano sul proprio napoletanismo, gli si dice: — Sei proprio del Lavinaio. Nella sezione Mercato, vi sono i sette vicoli della Duchesea, in uno dei quali, ho letto in un dispaccio, vi sono stati in un'ora trenta casi; vi è il vicolo del Cavalcatoio; vi è il vicolo di Sant'Arcangelo a Baiano. Io sono donna e non posso dirvi che siano queste strade, poichè ivi l'abbiezione diventa così profonda, così miseranda, la natura umana si degrada talmente, che vengono alla faccia le fiamme della vergogna. 9 * ** Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre o quattro strade attraverso i quartieri popolari, per salvarli? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà: bisogna rifare. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi le case che sono lesionate dalla umidità; dove al pianterreno vi è il fango e all'ultimo piano si brucia nell'estate e si gela nell'inverno; dove le scale sono ricettacoli di sudicerie; nei cui pozzi, da cui si attinge l'acqua così penosamente, vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti; che hanno tutte un pot-bouille, una cosidetta vinella, una corticina interna in cui le serve buttano tutto; il 10 cui sistema di latrine, quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione. Voi non potrete lasciare in piedi le case, nelle cui piccole stanze sono agglomerate mai meno di quattro persone, dove vivono galline e piccioni, gatti sfiancati e cani lebbrosi; case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto e si muore nella medesima stanza dove altri dormono e mangiano; case i cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, criminali della Vicaria, sotto il livello del suolo. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi i cavalcavia che congiungono le case; nè quelle ignobili costruzioni di legno che si sospendono a certe muraglie di case, nè quei portoncini angusti, nè quei vicoli ciechi, nè quegli angiporti, nè quei supportici; voi non potrete lasciare in piedi i fondaci. Voi non potrete lasciare in piedi certe case dove al primo piano è un'agenzia di pegni, al secondo si affittano camere a studenti, al terzo 11 si fabbricano fuochi artificiali: certe altre dove al pianterreno vi è un bigliardo, al primo piano un albergo dove si pagano cinque soldi per notte, al secondo una raccolta di poverette, al terzo un deposito di stracci. Per levare la corruzione materiale e quella morale, per rifare la salute e la coscienza a quella povera gente, per insegnar loro come si vive — essi sanno morire, come avete visto — per dir loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna in gran parte rifarla. II. QUELLO CHE GUADAGNANO. Eppure la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz'aria, senza luce, senza igiene, diguazzando nei ruscelli neri, scavalcando monti d'immondizie, respirando miasmi e bevendo un'acqua corrotta, non è una gente bestiale, selvaggia, oziosa; non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura. Questo popolo, per sua naturale gentilezza, ama le case bianche e le colline: onde il giorno di Ognissanti, quando da 13 Napoli tutta la gente buona porta corone ai morti, sul colle di Poggioreale, in quel cimitero pieno di fiori, di uccelli, di profumi, di marmi, vi è chi li ha intesi gentilmente esclamare: o Gesù, vurria murì pe sta cca! Questo popolo ama i colori allegri, esso che adorna di nappe e nappine i cavalli dei carri, che s'impiuma di pennacchietti multicolori nei giorni di festa, che porta i fazzoletti scarlatti al collo, che mette un pomidoro sopra un sacco di farina per ottenere un effetto pittorico e che ha creato un monumento di ottoni scintillanti, di legni dipinti, di limoni fragranti, di bicchieri e di bottiglie, un monumentino che è una festa degli occhi: il banco dell'acquaiuolo. Questo popolo che ama la musica e la fa, che canta così amorosamente e così malinconiosamente, tanto che le sue canzoni dànno uno struggimento al core e sono la più invincibile nostalgia per colui che è lontano, ha una sentimentalità espansiva, che si diffonde nell'armonia musicale. 14 Non è dunque una razza di animali che si compiace del suo fango; non è dunque una razza inferiore che presceglie l'orrido fra il brutto e cerca volonterosa il sudiciume; non si merita la sorte che le cose gl'impongono; saprebbe apprezzare la civiltà, visto che quella pochina elargitagli se l'ha subito assimilata; meriterebbe di esser felice. * ** Abita laggiù, per forza. È la miseria sua, costituzionale, organica, così intensa, così profonda, che cento Opere Pie non arrivano a debellare, che la carità privata, fluidissima, non arriva a vincere; non la miseria dell'ozioso, badate bene, ma la miseria del lavoratore, la miseria dell'operaio, la miseria di colui che fatica quattordici ore al giorno. Questo lavoratore, quest'operaio non può 15 pagare un affitto di casa che superi le quindici lire il mese: e deve essere un operaio fortunato. Vi è chi ne paga dieci, chi ne paga sette, chi ne paga cinque: questi ultimi formano la grande massa del popolo. Anni fa, una compagnia cooperativa edificò, verso Capodimonte, un falansterio di case operaie, chiare, pulite, strettine, ma infine igieniche: per quanto restringesse i prezzi, non potette dare i suoi appartamentini a meno di trentaquattro lire il mese. Nessun operaio vi andò. Vi andarono degli impiegati con le famiglie, qualche pensionato, gli sposetti poveri, insomma una mezza borghesia che vuol nascondere la sua miseria e avere la scaletta di marmo. Quel grandissimo edificio resta lì, a far prova della miseria napoletana: anzi, anzi, gli scrupolosi e presuntuosi borghesi che vi abitano, punti nel loro amor proprio da coloro che li accusavano di abitare le case operaie, hanno fatto dipingere a grandi caratteri questa scritta, 16 sull'ingresso maggiore: le case della cooperativa non sono case operaie. Iscrizione crudele e superba. Trentaquattro lire? Queste trentaquattro lire un operaio napoletano le guadagna in un mese: chi porta una lira di giornata a casa, si stima felice. Le mercedi sono scarsissime, in quasi tutte le professioni, in tutt'i mestieri. Napoli è il paese dove meno costa l'opera tipografica; tutti lo sanno: i lavoranti tipografi sono pagati due terzi meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano tre lire a Milano, quattro a Roma, ne guadagnano una a Napoli, tanto che in questo benedetto e infelice paese, è dove più facilmente nascono e vivono certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare neppure tre numeri. I sarti, i calzolai, i muratori, i falegnami sono pagati nella medesima misura: una lira, venticinque soldi, al più trenta soldi al giorno per dodici ore di lavoro, talvolta penosissimo. I tagliatori di guanti guadagnano 17 ottanta centesimi al giorno. E notate che la gioventù elegante di Napoli è la meglio vestita d'Italia; che a Napoli si fanno le più belle scarpe e i più bei mobili economici; notate che Napoli produce i più buoni guanti. Altri mestieri inferiori stabiliscono la mercede a settantacinque centesimi, a dodici, soldi, a dieci soldi. Per questo non possono pagare più di cinque, sette, dieci lire il mese di pigione — e come la miseria incombe, la donna, la moglie, la madre, che ha già molto partorito, che ha allattato, tutti quelli che dovrebbero lavorare in casa, cercano lavoro fuori. Fortunate quelle che trovano un posto alla fabbrica del tabacco, che sanno lavorare e arrivano ad allogarsi, come sarte, come cappellaie, come fioraie! La mercede è miserissima, quindici lire, diciassette, venti lire il mese, ma sembra loro una fortuna. Ma sono poche: tutto il resto della immensa classe povera femminile si dà al servizio. La serva napoletana si alloga per dieci lire 18 il mese, senza pranzo: alla mattina fa due o tre miglia di cammino, dalla casa sua alla casa dei suoi padroni, scende le scale quaranta volte al giorno, cava dal pozzo profondo venti secchi di acqua, compie le fatiche più estenuanti, non mangia per tutta la giornata e alla sera si trascina a casa sua, come un'ombra affranta. Ve ne sono di quelle che pigliano due mezzi servizi, a sei lire l'uno, e corrono continuamente da una casa all'altra, continuamente rimproverate per le tardanze. Ne ho conosciuta una, io, si chiamava Annarella, faceva tre case al giorno, a cinque lire: alla sera era inebetita, non mangiava, morta dalla fatica, talvolta non si svestiva per addormentarsi subito. Queste serve trovano anche il tempo di dar latte a un bimbo, di far la calza; ma sono, esseri mostruosi, la pietà è uguale alla ripugnanza che ispirano. Hanno trent'anni e ne dimostrano cinquanta, sono curve, hanno perso i capelli, hanno i denti gialli e neri, camminano come sciancate, portano un vestito quattro anni, un grembiule 19 sei mesi, Non si lamentano, non piangono: vanno a morire prima di quarant'anni, all'ospedale, di perniciosa, di polmonite, di qualche orrenda malattia. Quante ne avrà prese il colera E tutti gli altri mestieri ambulanti femminili, lavandaie, pettinatrici, stiratrici a giornata, venditrici di spassatiempo, rimpagliatrici di seggiole (mpagliaseggie), mestieri che le espongono a tutte le intemperie, a tutti gli accidenti, a una quantità di malattie, mestieri pesanti o nauseanti, non fanno guadagnare a quelle disgraziate più di dieci soldi, quindici soldi al giorno. Quando guadagnano una lira, le miserelle, fanno economia e si maritano. Sono brutte, è vero: si trascurano, è verissimo: fanno schifo, talvolta. Ma chi tanto ama la plastica, dovrebbe entrare nel segreto di quelle esistenze, che sono un poema di martirio quotidiano, di sacrifici incalcolabili, di fatiche sopportate senza mormorare. Gioventù, bellezza, vestiti? Ebbero un minuto di bellezza e di gioventù, furono amate, si sono maritate: dopo, il marito 20 e la miseria, il lavoro e le busse, il travaglio e la fame. Hanno i bimbi e debbono abbandonarli, il più piccolo affidato alla sorellina, e come tutte le altre madri temono le carrozze, il fuoco, i cani, le cadute. Sono sempre inquiete, agitate, mentre servono. Me ne rammento una: aveva tre figli, un piccolino, specialmente, bellissimo. Aveva già due anni e gli dava ancora il latte, non aveva altro da dargli da mangiare; questo bimbetto l'aspettava, ogni sera, seduto sullo scalino del basso. Diceva il medico dell'assistenza pubblica: «levagli il latte chè ti si ammala.» Ella chinava il capo: non poteva levargli il latte. Si ammalò di tifo, il bimbo; le morì. Ella mondava le patate, in una cucina, e si lamentava sottovoce: «figlio mio, figlio mio, io t'aveva da accide, io t'aveva da fa murì! O che mamma cana che ssò stata! Figlio mio, e chi m'aspetta cchiú, la sera, mmocc'a porta?» Il lavoro dei fanciulli? Ahimè, le madri sono molto contente, quando un cocchiere signorile 21 vuol prendere per mozzo un fanciullo di dodici anni, dandogli solo da mangiare; sono molto contente, quando un mastro di bottega lo piglia, facendolo lavorare come un cane e dandogli solo la minestra, la sera; la pietosa madre gli dà un soldo per la colazione, la mattina. Le sarte, le modiste, le fioraie, le bustaie prendono per apprendiste delle fanciullette dodicenni, che sono, in realtà, delle piccole serve e che guadagnano cinque soldi la settimana! Ma, per lo più, queste creature restano a casa o nella strada, tutto il giorno. Nelle campagne, il figlio è una gioia, è un soccorso, è una sorgente di agiatezza; in Napoli, rappresenta una cura di più, una pena materna, una sorgente di lagrime e di fame. Sentite un poco quando un'operaia napolitana nomina i suoi figli. Dice: le creature, e lo dice con tanta dolcezza malinconica, con tanta materna pietà, con un amore così doloroso, che vi par di conoscere tutta, acutamente, la intensità della miseria napoletana. III. QUELLO CHE MANGIANO. Un giorno, un industriale Napoletano ebbe un'idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni culinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoli vi luccicava; il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con mozzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla 23 vi accorse: poi, andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana. * ** È vero, infatti: la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo di moltissima parte del popolo napoletano. Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze, tagliate in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante: e lì resta 24 quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che s'ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvigione è finita, il pizzaiuolo la rifornisce sino a notte. Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno entro cui stanno queste fette di pizza, e girano pei vicoli e dànno in un grido speciale, dicendo che la pizza ce l'hanno col pomidoro e con l'aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne, sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza. Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pèl popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini minutissimi, fritti nell'olio, quei pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli; dallo stesso friggitore si hanno, per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle 25 frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano ci bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un'altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco cotte nell'acqua; per un soldo, una povera donna che allatta suo figlio e soffia sopra un braciere di terracotta, dà due spighe di granturco arrostite. Dall'oste, per un soldo si può comperare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchette o di molignane fritte nell'olio e poi condite con pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo in cui sta intasata, come una conserva e da cui si toglie con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l'oste ci versa sopra la scapece. 26 Dall'oste, sempre per un soldo, si compra la spiritosa; la spiritosa è fatta di pastinache gialle cotte nell'acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano, aglio e peperoni. L'oste sta sulla porta e grida: addorosa addorosa, a' spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba fritta è cotta in un olio forte e nero, tutta questa roba è condita in modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più eccitato palato meridionale. * ** Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quattro quartieri popolari hanno uno di quelli osti che installano all'aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Cotrone. 27 Anzi tutto, quest'apparato è molto pittoresco, e dei pittori lo hanno dipinto, ed è stato da essi reso lindo e quasi elegante, con l'oste che sembra un pastorello di Watteau; e nella collezione di fotografie napoletane, che gl'inglesi comprano, accanto alla monaca di casa, al ladruncolo di fazzoletti, alla famiglia di pidocchiosi, vi è anche il bacco del maccaronaro. Questi maccheroni si vendono a piattelli di due soldi e di tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie, nu tre. La porzione è piccola e il compratore litiga con l'oste, perchè vuole un po' più di sugo, un po' più di formaggio e un po' più di maccheroni. Con due soldi si compra un pezzo di polipo bollito nell'acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel brodo; per due soldi l'oste, da una grande 28 padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l'unto caldo e bruno non coli per terra, che vada tutto sulla mollica, perchè il compratore ci tiene. Appena ha tre soldi, quattro soldi, otto soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall'oste per comprare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata. Con quattro soldi si fa una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o una insalata di patate cotte e di barbabietole; o una insalata di broccoli di rape o una insalata di citrioli freschi. La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria o tutte quest'erbe insieme, la cosidetta mmenesta maretata; o una minestra, 29 quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro. Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta e che si chiama efficacemente la monnezzaglia: e la condisce con pomidoro e formaggio. * ** Il popolo napoletano è goloso di frutta: ma non spende mai più di un soldo alla volta. A Napoli, con un soldo, si hanno sei peruzze, un po' bacate, ma non importa; si ha mezzo chilo di fichi, un po' flosci dal sole; si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l'aspetto della febbre; si ha un grappolo 30 di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po' fradicio; dal venditore di molloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che son riusciti male, vale a dire biancastri. Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi di mollone e di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e lo stomaco si gonfia, come se avesse mangiato. La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all'occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite. 31 * ** Questionario: Carne arrosto? — Il popolo napoletano non ne mangia mai. Carne in umido? — Qualche volta, alla domenica o nelle grandi feste — ma è di maiale o di agnello. Brodo di carne? — Il popolo napoletano, lo ignora. Vino? — Alla domenica, qualche volta: bianco, l'asprino, a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi; questo tinge di azzurro la tovaglia. Acqua? — Sempre: e cattiva. IV. GLI ALTARINI. Vi meravigliate degli altarini? Vi scandalizzate della piccola processione di donne scalze e scapigliate, che portano una immagine della Madonna e salmodiano? La superstizione del popolo napoletano — oh povera gente che è vissuta così male e con tanta bonarietà, che muore in un modo così miserando, con tanta rassegnazione! — la superstizione di questo popolo ha fatto una dolorosa impressione a tutti. La credevate cessata la superstizione? 33 Come potevate crederlo? Non vi rammentate più nulla, dunque? Nel cholera del 1865 vi furono processioni di pubbliche preghiere; nel cholera del 1867, più tremendo, più straziante, che veniva dopo la guerra, da tutte le parrocchie uscirono le immagini della Vergine e quelle dei santi protettori, le processioni s'incontravano per le strade, si mescolavano: era tutto un mistero medioevale e meridionale. Come oggi Umberto di Savoia le ha incontrate, diciassette anni fa le ha incontrate il gran re Vittorio Emanuele. Nella spaventosa eruzione del 1872, per tre giorni di seguito una lava ha minacciato Napoli: le popolane sono andate al Duomo per avere la testa di san Gennaro, la volevano portare in giro per far fermare la lava. Per un momento, i nobili custodi delle reliquie e i canonici della cattedrale non gliela dettero. Al quarto giorno non uscì il sole; una nuvola fittissima di cenere copriva Napoli, cominciava a piover cenere, come a Pompei; le popolane, in tutti i quartieri, fecero 34 delle processioni, piangendo, gridando, in un tenebrore lugubre. Nel cholera 1873, più mite certo, ma sempre vivissimo nei quattro quartieri popolari, fu portata in processione la Madonna dell'Aiuto ai Banchi Nuovi, la Madonna di Portosalvo a Porto, il Gesù alla colonna, della chiesa nel vicolo della Università. O che memoria labile abbiamo tutti! E la vita quotidiana? Solo a guardarsi attorno, a osservare quello che accade, anche superficialmente, nessuno poteva lusingarsi che la superstizione del popolo napoletano fosse cessata. Di questi altarini, con un paio di ceri innanzi, ce ne sono a ogni angolo di strada, nei quartieri popolari, in certe tali feste. Li fanno i bimbi, è vero: ma le madri sorvegliano, le sorelle grandi chiedono l'obolo ai passanti, un po' ridendo, un po' pregando. Per le feste più grandi, con lampioncini alla Ottino e festoni variopinti, i popolani si quotano per un anno, e un vicolo la vuol vincere sull'altro: accadono risse, corrono coltellate per questa 35 emulazione. Queste illuminazioni sono pittoresche e fanno andare in estasi gli artisti — razza di egoisti che se ne stanno immersi nella contemplazione del loro Buddha, che è l'arte. Ancora: quando una donna si salva da una grave infermità, per ringraziare Dio, scioglie il voto di andar cercando la elemosina per tutte le case del suo quartiere; sale, scende, con le gambe malferme, con la faccia scialba, ricevendo rifiuti secchi e porte sbattute in faccia. Non importa, bisogna sopportare, è il voto. Tutto quello che raccoglie, va alla chiesa. Quando un bimbo è malato, lo votano a san Francesco: quando risana, lo vestono da monacello, con una tonaca grossolana, col cordone, coi piedini nudi nei sandali, con la chierichetta rasa. Chi non ne ha incontrati nei quartieri popolari? Del miracolo di san Gennaro, fate le alte meraviglie? Quelle vecchie abitanti del Molo che si pretendono sue discendenti, che invadono l'altar maggiore, che non lasciano accostarsi 36 nessuno, che gridano il Credo mentre si attende il miracolo, e ogni volta che lo ricominciano, alzano il tono, sino all'urlo, che si dimenano come ossesse, che lo gratificano di vecchio dispettoso, vecchio impertinente, faccia verde, quelle sono la superstizione evidente, nevvero? Ma il buon popolo napoletano, così ingenuo, così infantile, crede a tanti altri miracoli! Vi è il piede di sant'Anna che si mette sul ventre delle partorienti che non possono avere il figlio; vi è l'olio che arde nella lampada, innanzi al corpo di san Giacomo della Marca, nella chiesa di Santa Maria la Nuova, e che fa passare i dolori di testa; vi è il Crocifisso del Carmine che ha fatto sangue dalle piaghe; vi è il bastone di san Pietro che si venera nella chiesa sotterranea di Sant' Aspreno, primo vescovo di Napoli, ai Mercanti; vi è l'acqua benedetta di san Biagio ai Librai che guarisce il mal di gola; vi sono le panelle, pagnottine di pane benedetto, di san Nicola di Bari, che buttate in aria, nel 37 temporale, scampano dalle folgori. Vi sono centinaia di ossicini, di pezzetti di velo, di pezzetti di vestito, di frammenti di legno, che sono reliquie. Ogni napoletana porta al collo o sospeso alla cintura o ha sotto il cuscino, un sacchettino di reliquie, di preghiere stampate: e questo sacchettino si attacca alle fasce del bimbo, appena nato. Credete che al napoletano basti la Madonna del Carmine? Io ho contati duecentocinquanta appellativi della Vergine: e non sono tutti. Quattro o cinque tengono il primato. Quando una napoletana è ammalata o corre un grave pericolo, o grave pericolo corre uno dei suoi, si vota a una di queste madonne. Dopo scioglie il voto, portandone il vestito, un abito nuovo, benedetto in chiesa, che non si deve smettere se non quando è logoro. Per l'Addolorata il vestito è nero coi nastri bianchi; per la Madonna del Carmine, è color pulce coi nastri bianchi; per la Immacolata Concezione, bianco coi nastri azzurri; per la Madonna della Salette, 38 bianco coi nastri rosa. Quando non hanno i danari per farsi il vestito, si fanno il grembiule: quando mancano di sciogliere il voto, aspettano delle sventure in casa. E il sacro si mescola col profano. Per aver marito, bisogna fare la novena a san Giovanni, nove sere, a mezzanotte, fuori un balcone, a pregare con certe antifone speciali. Se si ha questo coraggio, alla nona sera si vede una trave di fuoco attraversare il cielo, sopra ci danza Salomè, la ballerina maledetta: la voce che si sente subito dopo, pronunzia il nome del marito. Anche san Pasquale è protettore delle ragazze da marito e bisogna dirgli per nove sere l'antifona: O beato san Pasquale – mandatemi un marito – bello, rosso, colorito – come voi tale e quale – o beato san Pasquale! – Anche san Pantaleone protegge le ragazze, ma in diverso modo: dà loro i numeri al lotto, perchè si facciano la dote e si possano maritare. Nove sere bisogna pregarlo, a mezzanotte, in una stanza, stando sola, col balcone aperto 39 e la porta aperta, e dopo gli Ave e i Pater dirgli questa antifona: San Pantaleone mio - per la vostra castità - per la mia verginità - datemi i numeri, per carità! - Alla nona sera si ode un passo, è il santo che viene, si odono dei colpi, sono i numeri che dà. Alla quarta o quinta sera di questi strani riti, le ragazze sono tanto esaltate che hanno delle allucinazioni e cadono in convulsioni. Alcune affermano di aver visto e di aver udito, alla nona sera: ma che mancò loro la fede e il miracolo non è riuscito. Tutte le superstizioni profane, sparse pel mondo, sono raccolte in Napoli e ingrandite, moltiplicate. Noi crediamo tutti quanti alla jettatura. Non parliamo dell'olio sparso, dello specchio rotto, del cucchiaio in croce col coltello, della sottana posta alla rovescia che porta fortuna, dei soldi mercati (gobbi), dei ragni, degli scorpioni, della gallina: superstizioni vecchie, chi se ne occupa? I napolitani credono ancora alle sibille: vi è una Chiara Stella, 40 alle Cento Grade, verso il Corso Vittorio Emanuele, una siè Grazia al vicolo di Mezzocannone, famosissime: e molte altre minori. Si pagano cinquanta centesimi, due lire, venti lire. I napoletani credono agli spiriti. Lo spirito familiare napoletano, che circola in tutte le case, è il monaciello, un bimbetto vestito di bianco quando porta fortuna, vestito di rosso quando porta sventura. Una quantità di gente mi ha affermato di averlo visto. In piena Napoli, alla salita di Santa Teresa, una bellissima palazzina non si affitta mai: per vent'anni l'ho vista chiusa, poichè è abitata dagli spiriti. Il napoletano crede agli spiriti che danno i numeri agli assistiti: gli assistiti sono una razza di gente stranissima, forse in buona fede forse scrocconi, che mangiano poco, bevono acqua, parlano per enigmi, digiunano prima di andare a letto e hanno le visioni. Vivono alle spalle dei giuocatori: non giuocano. Talvolta i giuocatori delusi bastonano l'assistito, poi gli cercano perdono. Anche i monaci hanno le 41 visioni. Ce n'era uno famoso a Marano, presso Napoli: ci andava la gente in pellegrinaggio. Un altro, giovane, era al convento di San Martino: anche famoso. Talvolta i giuocatori sequestrano il monaco, lo battono, lo torturano. Uno ne morì. Prima di spirare pronunziò dei numeri: li giuocarono, uscirono, mezza Napoli vinse al lotto, poichè il Roma aveva riportati questi numeri. Il popolo napoletano, specialmente le donne, crede alla stregoneria. La fattura trova apostoli ferventi: le fattucchiare, o streghe, abbondano. Una moglie vuole che suo marito, che va lontano, le resti fedele? La strega vi dà una cordicella a nodi, bisogna cucirla nella fodera della giacchetta. Si vuole avere l'amore di un uomo? La fattucchiara vi arde una ciocca di capelli, ne fa una polverina, con certi ingredienti: bisogna farla bere nel vino all'uomo indifferente. Si vuol vincere un processo? Bisogna legare, moralmente, la lingua dell'avvocato contrario: fare quindici nodi ad 42 una cordicella, chiamare il diavolo, uno scongiuro terribile. Si vuol far morire un amante infedele? Bisogna fare un pignattino di erbe velenose, metterle a bollire innanzi alla sua porta, nell'ora di mezzanotte. Si vuol far morire una donna, una rivale? Bisogna conficcare in un limone fresco tanti spilli che formino un disegnino della sua persona, e attaccarvi un brano di vestito della rivale e infine buttare questo limone nel suo pozzo. La fattura ha uno sviluppo larghissimo; tutta una letteratura strana, talvolta ignobile, di scongiuri e di preghiere; ha una classificazione, per le anime timide e per le anime audaci; ha una diffusione in tutti i quartieri; ha un soccorso per tutte le necessità sentimentali e brutali, per tutti i desideri gentili e cruenti. Ecco tutto. Cioè, non è tutto. Esagerate venti volte quello che vi ho detto: forse non sarete nel vero. Questo guazzabuglio di fede e di errore, di misticismo e di sensualità, questo culto esterno così pagano, questa idolatria, vi 43 spaventano? Vi dolete di queste cose, degne dei selvaggi? E chi ha fatto nulla per la coscienza del popolo napoletano? Quali ammaestramenti, quali parole, quali esempi si è pensato di dare a questa gente così espansiva, così facile a conquidere, così naturalmente entusiasta? In verità, dalla miseria profonda della sua vita reale, essa non ha avuto altro conforto che nelle illusioni della propria fantasia: e altro rifugio che in Dio. V. IL LOTTO. Ebbene, a questo popolo eccezionalmente meridionale, nel cui sangue s'incrociano e si fondono tante gentili, poetiche, ardenti eredità etrusche, arabe, saracene, normanne, spagnuole, per cui questo ricco sangue napoletano si arroventa nell'odio, brucia nell'amore e si consuma nel sogno: a questa gente in cui l'immaginazione è la potenza dell'anima più alta, più alacre, inesauribile, una grande fantasticheria deve essere concessa. 45 È gente umile, bonaria, che sarebbe felice per poco e invece non ha nulla per essere felice; che sopporta con dolcezza, con pazienza la miseria, la fame quotidiana, l'indifferenza di coloro che dovrebbero amarla, l'abbandono di coloro che dovrebbero sollevarla. Felice per l'esistenza all'aria aperta, eredità orientale, non ha aria; innamorata del sole, non ha sole; appassionata di colori gai, vive nella tetraggine; per la memoria della bella civiltà anteriore, greca, essa ama i bianchi portici che si disegnano sull'azzurro, e invece le tane dove abita questa gente non sembrano fatte per gli umani; e dei frutti della terra, essa ha i peggiori, quelli che in campagna si dànno ai porci; e vi sono vivande che non assaggia mai. Ebbene, provvidenzialmente, per un lato, il popolo napoletano rifà ogni settimana il suo grande sogno di felicità, vive per sei giorni in una speranza crescente, invadente, che si allarga, si allarga, esce dai confini della vita 46 reale: per sei giorni il popolo napoletano sogna il suo grande sogno, dove sono tutte le cose di cui è privato, una casa pulita, dell'aria salubre e fresca, un bel raggio di sole caldo per terra, un letto bianco e alto, un comò lucido, i maccheroni e la carne ogni giorno, e il litro di vino e la culla pel bimbo e la biancheria per la moglie e il cappello nuovo per il marito. Tutte queste cose che la vita reale non gli può dare, che non gli darà mai, esso le ha, nella sua immaginazione, dalla domenica al sabato seguente; e ne parla e ne è sicuro, e i progetti si sviluppano, diventano quasi quasi una realtà, e per essi marito e moglie litigano o si abbracciano. Alle quattro del pomeriggio, nel sabato, la delusione è profonda, la desolazione non ha limiti: ma alla domenica mattina la fantasia rimbalza, rinfrancata, il sogno settimanale ricomincia. Il lotto, il lotto è il largo sogno che consola la fantasia napoletana; è l'idea fissa 47 di quei cervelli infuocati; è la grande visione felice che appaga la gente oppressa; è la vasta allucinazione che si prende le anime. * ** Ed è contagiosa questa malattia dello spirito: un contagio sottile e infallibile, inevitabile, la cui forza di diffusione non si può calcolare. Dal portinaio ciabattino che sta seduto al suo banchetto innanzi al portoncino, il contagio del lotto si comunica alla povera cucitrice che viene a portargli le scarpe vecchie da risuolare; da costei passa al suo innamorato, un garzone di cantina; costui lo porta all'oste che lo dà a tutti i suoi avventori, i quali lo seminano nelle case, nelle officine, nelle altre osterie, fino nelle chiese, anzi specialmente nelle chiese. La serva del quinto piano, a destra, giuoca, 48 sperando di non far più la serva; ma tutte le serve, di tutti i piani, giuocano, tanto la cameriera del primo che ha venti franchi il mese, quanto la vajassa del sesto, che ne prende cinque, con la dolce speranza di uscir dal servizio, cosi duro; e si comunicano i loro numeri, fanno combriccola sui pianerottoli, se li dicono dalle finestre, se li telegrafano a segni. La venditrice di frutta, che sta sotto il sole e sotto la pioggia, giuoca, e dal suo angolo di strada in giù, la moglie del sarto che cuce sulla porta, la moglie dello stagnino affogata dal fetore del piombo, la lavandaia che sta tutto il giorno con le mani nella saponata, la venditrice di castagne che si brucia la faccia e le mani al vapore e al calore del fornello, la venditrice di noci che ha le mani nere sino ai polsi per l'acido gallico, tutte queste donne credono nel lotto, giuocano fedelmente, ardentemente al lotto. Nella stanza stretta, dove otto o dieci ragazze lavorano da sarte, e il bimbo della sarta 49 dorme nella culla e in un angolo frigge il lardo nel tegame sul focolare, una dà i numeri, una seconda ne ha degli altri, la maesta sa i veri, tutte costoro giuocano. Le pettinatrici del popolo, le cosidette capere, dal grembiule arrotolato attorno alla cintura, dalla testa scapigliata, dalle mani unte, che pettinano per un soldo al giorno, portano in giro i numeri alle loro clienti, ne ricevono in cambio degli altri, sono il gran portavoce dei numeri. In tutte le officine dove gli operai napoletani sono riuniti a un lavoro lunghissimo così male retribuito, il lotto mette radici profonde; in tutte le scuole popolari giuocano le maestre e giuocano le alunne grandicelle, in comitiva, riunendo i soldi della colazione. Dove sono riunite, a vivere male, le disgraziate donne di cui Napoli ha così grande copia, il lotto è una delle più grandi speranze: speranza di redenzione. 50 * ** Ma non credete che il male rimanga nelle classi popolari. No, no, esso ascende, assale le classi medie, s'intromette in tutte le borghesie, in tutti i commerci, arriva sino all'aristocrazia. Dove ci è un vero bisogno tenuto segreto, dove ci è uno spostamento che nulla vale a riequilibrare, dove ci è una rovina finanziaria celata ma imminente, dove ci è un desiderio che ha tutte le condizioni dell'impossibilità, dove la durezza della vita più si fa sentire e dove solo il danaro può esser rimedio, ivi il giuoco del lotto prende possesso, domina. Segretamente, giuocano tutte le ragazze da marito che non hanno un soldo di dote; giuocano tutti i numerosi impiegati al municipio, alle banche, all'intendenza, al dazio consumo; tutti i pensionati che non possono vivere con 51 la pensione e che non avendo nulla da fare, fanno la cabala, studiano la scienza negromantica del lotto, giuocano disperatamente e hanno sempre il libretto in pegno; tutti i commessi di negozio, che guadagnano quaranta lire il mese, sanno i numeri certi e li giuocano ogni settimana. Grande reddito al lotto lo danno i magistrati: pagati miserevolmente, essi che rappresentano la più grande equità morale, esposti a tentazioni che respingono con una inflessibilità degna di maggior premio, provvisti di molti figli, rovinati dai traslocamenti, la loro debolezza, la loro speranza consiste nel lotto. I piccoli commercianti che si dibattono continuamente con le cambiali e fanno una lotta quotidiana col fallimento, finiscono per aggrapparsi a questa tavola molto incerta del lotto; i grandi giuocatori di borsa, che vivono sopra il taglio di un rasoio e son capaci di ballarci sopra un waltzer, a furia di febbre del giuoco, assaggiano volentieri la speranza del lotto. Tutti 52 questi sintomi del male saliente alle classi dirigenti mi constano, per avervisto, udito, compreso e intuito. Le signore dell'aristocrazia giuocano, un po' per burletta, un po' con la speranza di un nuovo braccialetto, un po' per l'oppressione di una nota di sarta che il marito non salderà mai. Anche quelli che dovrebbero esserne salvi, perchè abituati al male, perchè ci stanno sempre in mezzo, gli impiegati dei banchi-lotto, i postini, non possono resistere alla tentazione. Onde, alle quattro del sabato, tutti quelli che sono più ammalati, non possono resistere e si recano all'Impresa, in una stretta strada fra la via Pignatelli e la via di Santa Chiara. Ma tutte le serve, le venditrici, le operaie e gli operai, le ragazze e gl'impiegati non possono muoversi di dove sono. E allora un monello parte, va al più vicino posto del lotto e prende i numeri: tutti aspettano. Le persone più franche si fanno sulla porta e alle finestre: 53 le vergognose restano dentro, tendendo l'orecchio. Il ragazzo torna correndo, affannato, si pianta alla bocca del vicolo e grida i numeri con voce stentorea: — Vintiquattro! — Sissantanove! — Quarantaroie! — Otto! — Sittantacinche! Silenzio universale: tutti impallidiscono. * ** Ma come tutti i sogni troppo pronunziati, il lotto conduce alla inazione ed all'ozio; come tutte le visioni, esso porta alla falsità e alla menzogna; come tutte le allucinazioni, esso conduce alla crudeltà e alla ferocia; come tutti i rimedi fittizi che nascono 54 dalla miseria, esso produce miseria, degradazione, delitto. Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l'acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l'acquavite di Napoli. VI. ANCORA IL LOTTO. Il lotto ha una prima forma letteraria, rudimentale, analfabeta, fondata sulla tradizione orale come certe fiabe e certe leggende. Tutti i napoletani che non sanno leggere, vecchi, bimbi, donne, specialmente le donne, conoscono la smorfia ossia la Chiave dei sogni a memoria e ne fanno speditamente l'applicazione a qualunque sogno o a qualunque cosa della vita reale. Avete sognato un morto? - quarantasette - ma parlava - allora quarantotto - e piangeva - sessantacinque 56 - il che vi ha fatto paura - novanta. Un giovinotto ha una coltellata da una donna? - diciassette, la disgrazia - diciotto, il sangue - quarantuno, il coltello - novanta, il popolo. Cade una casseruola dal suo chiodo, ammala un bimbo, fugge un cavallo, compare un grosso sorcio: numeri, subito. Tutti gli avvenimenti, grandi e piccoli, sono considerati come una misteriosa sorgente di guadagno. Muore una fanciulletta di tifo; la madre giuoca i numeri, escono, ella esclama: m'ha fatte bbene pure murenne! Una moglie parla dell'amore che le portava suo marito che è morto; poi soggiunge malinconicamente, che se questo amore fosse stato grande, egli le sarebbe comparso in sogno, per darle i numeri e se n'è scordato, è un ingrato, poichè lui lo sa che essa è poveretta e dovrebbe aiutarla. Salvatore Daniele squarta la Gazzarra: biglietto; il popolo dice: chella è mmorta, mo, almeno ce refrescasse a nnuie che simmo vive. Salvatore Misdea ammazza sette soldati: 57 biglietto. La legge ammazza Misdea: biglietto. Su le porte, nei bassi, alle cantonate, i numeri sono discussi da comitati e sottocomitati; il biglietto è stabilito. Non esce: avevano sbagliato, dovevano mettere questo numero e quest'altro, che sono usciti. Questa scienza della smorfia è così profonda, così abituale, che per dare del pazzo a qualcuno si dice: è nu vintiroie (ventidue, matto), e crescendo man mano la collera, tutte le ingiurie avendo un numero relativo, si dicono in gergo del lotto. Una donna dà un pugno a un'altra, e le rompe la faccia; davanti al giudice, si scolpa, dicendo: m'ha chiammata sittantotto; il giudice deve prendere la smorfia e vedere a che corrisponde di oltraggioso quel numero. 58 * ** La cabala esiste più per le classi superiori che per le inferiori: ma essa vi discende. Certo, nel popolo non si comprano i numerosi giornali cabalistici, settimanali, dagli strani titoli: il vero amico, il tesoro, il fulmine, il rivelatore, il corno d'abbondanza, che costano dieci lire all'anno di abbonamento, compilati da una redazione ignota; nè il popolo corrisponde con quei professori di matematica che abitano al vico Nocelle, dodici, o a San Liborio, quarantaquattro, o vico Zuroli, tre, e che dànno, nelle quarte pagine, la fortuna a chi paga le dieci lire. Ma qualche cosa vi trapela: il tal signore sa i numeri, lo aspettano nella strada, gli mettono in mano un paio di lire e quello si contenta: è un piccolo affare. L'assistito (dagli spiriti) è un cancro che 59 rode le famiglie borghesi, un convulsionario pallido che mangia molto, che finge di avere o ha delle allucinazioni, che non lavora, che parla per enigmi, che fa credere a delle macerazioni crudeli e che vive alle spalle di coloro che lo venerano. Ma, dalla casa borghese, per mezzo della cameriera, del servo, della lavandaia, la reputazione dell'assistito arriva nel popolo: e l'assistito vi estende la sua azione mistica, fantastica, vi raccoglie dei guadagni piccoli, ma insperati, vi fa degli adepti e finisce per camminare nelle vie, circondato sempre da quattro o cinque persone che lo corteggiano e studiano tutte le sue parole. * ** Ma il grande aiutatore del popolo, la provvidenza del popolo, la sua fede, la sua credenza incrollabile, è il monaco. Il monaco sa i numeri: 60 questo è il domma. Se non li dice, è perchè il Signore gli ha proibito di aiutare i peccatori; se li dice, e non escono, è perchè nel giuocatore è mancata la vera fede; se li dice e vengon fuori, la novella si spande in un minuto, il povero monaco resta afflitto da una popolarità pericolosa. È come l'artista che ha fatto un capolavoro: guai se non continua a farne, egli è perduto. Il monaco che ha solamente fatto prender un ambo, ha speranza di viver quieto: ma colui che ha dato tre numeri e sono usciti tutti tre, stia in guardia. Cercheranno di sedurlo in tutti i modi, coi doni, coi regali di denaro, con le offerte, con le messe, con le elemosine; lo faranno pregare dai bimbi, dalle donne, dalle nonne vecchie; l'aspetteranno in istrada, alla porta della chiesa, presso il confessionale, alla porta del convento; andranno a raccomandarsi a sua madre, a suo fratello, a sua zia; lo assedieranno mattina e sera; lo bastoneranno; lo sequestreranno, torturandolo; lo lascieranno morire di fame, perchè almeno in 61 agonia dia i numeri. Sono cose accadute. Spesso, per salvarsi, un monaco si fa mandare da un paese all'altro, dal suo superiore; scompare, il popolo dice che se lo ha portato via la Madonna. * ** Il popolo napoletano giuoca per quanto più ha denaro. Per quanto sia povero, trova sempre sei soldi, mezza lira, al sabato, da giuocare; ricorre a tutti gli espedienti, inventa, cerca, finisce per trovare. La sua massima miseria non consiste nel dire, che non ha pranzato, consiste nel dire: Nun m'aggio potuto jucà manco nu viglietto; chi ascolta ne resta spaventato. Fra il venerdì sera e il sabato mattina, è tutto un agitarsi di gente che vuol giuocare e che non ha; gli operai si fanno anticipare una giornata, le serve rubano orrendamente 62 sulla spesa, i mendicanti nelle vie crescono smisuratamente dal venerdì al sabato, quello che si può ancora vendere, si vende, quello che si può impegnare, s'impegna. Anzitutto vi sono i biglietti popolari da giuocare, quelli che si giuocano sempre, perchè è una tradizione, perchè è un obbligo, perchè non se ne può fare a meno: l'ambo famoso, sei e ventidue; il terno famoso, cinque, ventotto e ottantuno; il terno della Madonna, otto, tredici e ottantaquattro. Questi terni, per fortuna del governo, non escono che ogni venti anni: quando è uscito, dopo moltissimi anni di attesa, l'ambo sei e ventidue, il governo ha pagato due milioni di piccole vincite, di cinque e di dieci lire l'una; e tutta Napoli si è coperta di tavolelle, vale a dire che tutti hanno pranzato o cenato con la vincita, per ricominciare a giuocare, la settimana dopo, con maggior ardore. E ognuno ha il suo biglietto speciale, che gioca ogni settimana, da anni ed anni, con una fede che mai non crolla: un lustrascarpe ne 63 giuocava uno da trent'anni e glielo aveva lasciato in eredità suo padre, morendo, insieme con la cassetta per lustrare: erano usciti degli ambi, tre o quattro volte, in trent'anni; il terno mai. Un portinaio ne giuocò uno, per quarantacinque anni, senza prendere mai nulla: la prima settimana, che, per un caso singolare, se ne scordò, il terno uscì — il portinaio morì di dolore. E vi è sempre il biglietto del grande avvenimento, rissa o suicidio, revolverata o veleno; e infine vi è il biglietto cabalistico, quello strappato all'assistito o al monaco. Questi quattro biglietti bisogna giuocarli a ogni modo; rappresentano una media variabile da cinquanta centesimi a due lire la settimana. Quando il napoletano non ha più che due soldi, li va a giuocare al gioco piccolo o lotto clandestino. 64 * ** Per lo piú le mezzane di questa grande frode, sono le donne. Una di queste, sudicia, lacera, porta in una lunga tasca, sotto la gonnella, un registro: viene il giocatore o la giocatrice, deposita due soldi e dice i numeri: in cambio ha un pezzetto di carta sporca dove sono scritti col lapis i numeri e la promessa, invariabile: uno scudo l'ambo, quaranta scudi il terno. La donna compie il suo giro nel quartiere, t utti la conoscono, tutti sanno che mestiere fa, tutti l'aspettano: denunziarla? Nessuno l'oserebbe, è una benefattrice. Questi introiti sono larghi, naturalmente a furia di due soldi si arriva a centinaia e centinaia di lire: i tenitori di gioco piccolo arricchiscono quasi tutti. Alla Riviera s'incontrano degli equipaggi di 65 ricchi borghesi, arrivati a quello col lotto clandestino; si conoscono perfettamente le persone ma esse non compaiono, hanno i loro agenti. Il popolano ha una cieca fede in questi tenitori di gioco piccolo: ma bene spesso, nel pomeriggio del sabato, se il tenitore ha da pagare molte vincite, si affretta a sparire, con tutti i suoi registri, e non paga nessuno. Che importa? La settimana appresso un'altra donna ricomincia il suo giro e la gente ci capita di nuovo, come attratta invincibilmente. Che delizia per chi giuoca e per chi prende i quattrini, frodare il governo! Ogni tanto la questura arresta quattro o cinque di questi agenti, di queste mezzane, li condanna al carcere, alla multa; che importa? Scontano la pena, pagano la multa, escono, ricominciano da capo con più ardore. Vi è chi è stato condannato cinque volte per gioco piccolo: e ha un palazzo e si lagna della persecuzione del governo e la sua condanna la 66 chiama na disgrazia. L'aver messo il biglietto a due soldi, non è valso nulla, pel governo: la frode ha continuato, più fiorente, appoggiata su questa grande allucinazione. * ** Ora la statistica porta: che nei giorni di giovedì, venerdì e sabato avvengono maggiori furti domestici; che in questi tre giorni si fanno più pegni al Monte di Pietà; che in questi tre giorni le agenzie private di pegni sono affollatissime; che in questi tre giorni, ma specialmente nel pomeriggio del sabato, avvengono maggiori risse; che infine le cose più brutte, più laide, più ignobili e più violente avvengono in questo fatale periodo, e che in questi giorni il popolo napoletano si mette nelle mani dell'usura: il vero cancro, di cui muore. VII. L'USURA. Una povera donna ha bisogno di cinque lire per pagare il padrone di casa, va a cercarle in prestito da donna Carmela che dà il denaro cu a credenza. Prima di andarci esita molto, ha paura e vergogna, ma visto che non può fare diversamente, si decide. Donna Carmela è una donna grassa e grossa che esercita per lo più una professione di lusso, rammenda merletti, trapuntisce le grandi coltri di bambagia che si usano in Napoli, coperte di 68 toletta rossa, ricama in oro sul velluto: infine una professione per la forma, che la lascia godere di lunghi ozii; ma la sua vera professione è il prestar quattrini alla povera gente. Donna Carmela è verbosa e affettuosa in questo primo colloquio con la povera donna: la rincora, la compatisce, se occorre, le confessa di essere stata egualmente alle strette, e la manda via tutta racconsolata, con le cinque lire, vale a dire con quattro lire e mezzo. Il prestito è fatto per otto giorni, l'interesse è di due soldi per lira, si paga anticipato: quindi sulle cinque lire, la povera donna lascia cinquanta centesimi. Gli otto giorni passano, le cinque lire da restituire la povera donna non le ha, allora, tutta rossa di vergogna, prega donna Carmela di contentarsi di un'altra settima d'interesse, cinquanta centesimi: donna Carmela non dice nulla e intasca i dieci soldi. Così passano quattro, cinque, fino a dieci settimane, senza che la povera donna abbia mai potuto riunire le cinque lire: e ogni lunedì 69 le tocca pagare l'interesse del dieci per cento ogni otto giorni: e dopo la quinta settimana donna Carmela è diventata una iena, bisogna pregarla perchè non gridi, perchè non faccia delle scene, essa vuole il suo denaro, vuole il sangue suo, l'interesse non le serve, le servono i quattrini del capitale. Sulla soglia delle porte, nei bassi, alle porte delle officine, ogni sabato, ogni lunedì si ode la voce irosa di donna Carmela: essa dal mattino è in giro per esigere, ricoglie, e fa tremare uomini e donne, con il suo tòno alto e imperioso. In un posto ha da esigere una lira, in un altro due, in un altro cinque: e non osano ribellarsi a lei, non avendo da pagarla, non osano ribellarsi, potendo aver sempre bisogno di lei. Quella donna grassa è implacabile, sa la sua forza, sa la sua potenza: se una serva non paga, essa minaccia di fare uno scandalo con la padrona, se una donna non paga, essa minaccia di dirlo al marito, se un operaio non paga, essa sa l'indirizzo del capo di officina a 70 cui va a denunciarlo. Ella è astuta e cauta, audace e sboccata: ella resta sempre nella posizione di una benefattrice a cui codesti ingrati rodono le fibre e bevono il sangue. E infatti nessuno le dà una coltellata, nessuno la bastona, nessuno la insulta, e quel che è più forte ancora, nessuno ha il coraggio di negarle i quattrini: l'onestà del popolo napoletano non è neppur capace di truffare una usuraia. Non le danno neppur torto nelle sue escandescenze: e cercano sempre di mansuefarla. Quando una povera donna napoletana ha bisogno di un grembiule, di un vestito, di un fazzoletto da collo, di un paio di camicie, non avendo quattrini per comperarlo, si decide ad andare da donna Raffaela che dà la robba cu a credenza. Quest'altra usuraia prende a basso prezzo tela e percallo e fazzoletti di cotone dei negozi: e li rivende alla povera gente. Ogni oggetto, naturalmente, è pagato molto più caro del suo valore: primo guadagno. Poi, come all'altra usuraia, bisogna pagare l'interesse 71 del dieci per cento alla settimana sulla somma. Questi debiti, complicati continuamente, pesano sulla esistenza delle povere donne per mesi e mesi: talchè, molto spesso, il grembiule si è consumato, la veste è lacera, le camicie sono bucate, la povera donna ne ha pagato tre volte il valore, e il debito rimane sempre uguale; donna Raffaela è furibonda, ella grida come una energumena, vuole strappare dal collo della donna il fazzoletto che le ha venduto, vuole scioglierle dai fianchi il grembiule e va gridando: Chesta è robba mia! T'aie arrobbato lu sango mio! Come l'altra, ella finisce per incassare quattro o cinque volte il capitale; come l'altra, ella è necessaria alla povera gente, la quale non reagisce mai contro queste violenze; come l'altra, ella non arrischia mai che piccoli capitali, preferendo di far piccoli e molti affari, dove non vi sono rischi, a grossi affari che offrono sempre, dei pericoli. Le agenzie private di pegni e spegni rappresentano 72 l'usura organizzata in un modo legale. Queste agenzie non sono, come negli altri paesi, succursali del Monte di Pietà, che debbono conformarsi alle tariffe del grande istituto di misericordia; ma sono speculazioni debitamente autorizzate e viventi con capitali proprii. Per lo più sono esercitate da donne, profondamente sottili nella loro volgarità e nella loro ignoranza, e vengono messe su con pochi capitali. Anzitutto, in queste agenzie, l'oggetto è depreziato vilmente, specie se non è oro: e il primo guadagno è su questo. Vi si paga un fantastico diritto di registro, poi un tanto per la cartella, poi l'interesse anticipato per un mese, tutto questo così complicato, così bene salvaguardato, così apparentemente legale, che questa agenzia esige il cinque per cento d'interesse al mese, senza che nessuno abbia il diritto di lagnarsi. So di una moglie d'impiegato che dovette impegnare il suo unico vestito di seta, il vestito delle nozze, che era costato duecentocinquanta lire, in una di queste 73 agenzie tenuta da una grossa donna Gabriela; n'ebbe trentasei lire, di cui ritirò soltanto trentuna, lasciandone cinque per l'interesse, la cartella e il diritto di registro. Per sei mesi, tremando che non le vendessero il suo vestito e non avendo le trentasei lire, le toccò pagare, ogni mese, cinque lire, vale a dire che restituì i quattrini presi: al settimo non ebbe neppure quelle cinque lire e il vestito fu venduto. Accorse, per vedere almeno di prendere il di più, poichè il vestito era nuovo e si era dovuto vender bene: invece era stato liberato per trenta lire, almeno così apparve dal libro. Ebbe poi il piacere d'incontrare donna Gabriela al teatro col suo vestito indosso e carica di ori e di gioielli, ricomprati all'agenzia. Poichè molte di queste donne amano sovraccaricarsi degli oggetti che hanno in deposito e più di una popolana vede passare l'impegnatrice che va alla passeggiata, portando al collo il laccetto d'oro che ella ha dovuto impegnare, alle orecchie gli orecchini di una vicina, e sulle spalle 74 il mantello di velluto della signora del terzo piano: e dietro le porte, dietro le finestre, quando l'impegnatrice passa, vi sono dei sospiri repressi, delle lagrime inghiottite, dei pallori subitanei: l'impegnatrice sembra un idolo indiano, a cui si sacrifichi oro e sangue. Alcune impegnatrici, più astute e più calcolatrici, impegnano di nuovo, ma al Banco, gli oggetti di oro e di valore, guadagnandoci ancora, poichè il Banco dà onestamente il terzo del valore ed esse neppure il quinto: così aumentano i loro capitali e mettono gli oggetti al sicuro. Ma perchè — si domanda — la povera gente non si rivolge ai due Banchi dello Spirito Santo e di Donnaregina? Perchè si fa spogliare da queste agenzie? Gli è che a questi Banchi governativi il tramite è molto lungo — e molta gente non ha pazienza, non sa come fare, vuole sbrigarsi presto, è presa da una necessità urgentissima e preferisce entrare in una delle prime agenzie che trova, dove la servono 75 subito, senza formalità e senza molte parole; gli è che in questi Banchi governativi la pubblicità è sempre grande, e una persona timida vi arrossisce di vergogna e preferisce entrare nella penombra discreta delle agenzie private, dove tutto sembra fatto con una grande segretezza; gli è che il venerdì ed il sabato, perchè il popolo napoletano deve giuocare al lotto, o ha giuocato, la folla è così grande che i Banchi governativi non bastano più e il popolino si riversa nelle agenzie private. Ora, calcolate. Ogni vicolo ha la sua donna Carmela, ogni strada ha la sua donna Raffaela, ogni angolo di piazza ha la sua agenzia autorizzata; e in certe strade nere, ogni tre botteghe s'impegna. Calcolate, moltiplicate, moltiplicate, pensate alla miseria, pensate al lotto: da un lato l'avidità e la furberia: dall'altro l'onestà e l'ingenuità. Di questo cancro, l'usura, che tutto alimenta, agonizza in una infelicità infinita la gente napoletana. VIII. IL PITTORESCO. Alla mattina, se avete il sonno leggiero, fra i tanti rumori napoletani, udirete uno scampanio in cadenza che ora tace, ora incomincia dopo breve intervallo: e insieme un aprire e chiuder porte, uno schiuder di finestre e di balconi, un parlare, un discutere a voce alta dalla strada e dalle finestre. Sono le vacche che vanno in giro per un paio d'ore, condotte ognuna da un vaccaro sudicio, per mezzo di una fune: le serve comprano i due soldi di 77 latte, attardandosi sulla soglia del portone, litigando sulla misura; molte per non aver il fastidio di far le scale, calano dalla finestra un panierino dove ci è un bicchiere vuoto e un soldo, e da sopra protestano che è troppo poco, che il vaccaro è un ladro e fanno risalire il panierino con molta precauzione per non versare il latte; poi sbattono rabbiosamente le finestre. Queste vacche si fermano innanzi a ogni porta, nel loro giro mattinale: dove le serve dormono ancora, il vaccaro grida forte acalate u panano; se non sentono, batte forte il campanaccio della vacca. È un quadro pittoresco, mattinale: quelle vacche tutte incrostate di fango, quel vaccaro dalle mani nere che sporcano il bicchiere, quelle serve scapigliate e discinte, quelle comari dalla camiciuola macchiata di pomidoro. L'altro lato del quadro è nel pomeriggio; dalle quattro alle sei, uno scampanellìo acuto e fitto: sono le mandre di capre che scorrazzano 78 per tutte le vie della città, ogni branco guidato da un capraro con un frustino. A ogni portone il branco si ferma, si butta a terra, per riposarsi, il capraro acchiappa una capra, la trascina dentro il portone per mungerla innanzi agli occhi della serva, che è scesa giù; talvolta la padrona è diffidente, non crede nè all'onestà del capraro, nè a quella della serva; allora capraio e capra salgono sino al terzo piano, e sul pianerottolo si forma un consiglio di famiglia per sorvegliare la mungitura del latte. Il capraro e la sua capra ridiscendono, galoppando, dando di petto contro qualche infelice che sale e che non aspetta questo incontro: giù, alla porta è un combattimento fra il capraro e le sue capre per farle muovere, fino a che queste prendono una corsa sfuriata, massime quando si avvicina la sera e sanno che ritornano sulle colline. In tutte le città civili, queste mandre di bestie utili ma sporche e puzzolenti, queste 79 vacche non si vedono per le vie: il latte si compra nelle botteghe pulite e bianche di marmi. A Napoli, no: è troppo pittoresco il costume, per abolirlo. Nessun municipio osa farlo. La gran riforma, in venticinque anni, è stata che non potessero girare per le strade i maiali, come era prima permesso. * ** Un'altra cosa molto pittoresca, è il sequestro delle strade, fatto per opera dei piccoli bottegai o dei venditori ambulanti. Che quadri di colore acceso, vivo, cangiante, che bella e grande festa degli occhi, che descrizione potente e carnosa potrebbero ispirare a uno dei moderni sperimentali, troppo preoccupati dell'ambiente! Per via Roma, la più importante strada della città, il tratto da San Nicola alla Carità, fino alle Chianche della Carità, vale a 80 dire, due piazze, due lunghi marciapiedi, sino alle otto della mattina è abbandonata ai venditori di frutta, di erbaggi, di legumi, un contrasto di fichi e di fave, di uva e di cicoria, di pomidoro e di peperoni, e un buttar acqua, sempre, uno spruzzare, uno scartare la roba fradicia; dopo le otto, quel tratto è un campo di battaglia di acque fetenti, di buccie, di foglie di cavolo, di frutta marcite, di pomidoro crepati, tanto che, come la mano fatale di mistress Macbeth, che tutte le acque dell'Oceano non potevano lavare, quel tratto di strada, via Roma, malgrado le premure degli spazzini, non arriva mai a detergersi. Intanto il grande mercato di Monteoliveto, li presso, resta semi-vuoto, con la malinconia dei grandi fabbricati inutili; quello di San Pasquale a Chiaia è addirittura chiuso; il venditore napoletano non vuole andarci, vuol vendere nelle strade. Tutto il quartiere della Pignasecca, dal largo della Carità, sino ai Ventaglieri, passando per 81 Montesanto, è ostruito da un mercato continuo. Ci sono le botteghe, ma tutto si vende nella via; i marciapiedi sono scomparsi, chi li ha mai visti? I maccheroni, gli erbaggi, i generi coloniali, le frutta, i salami, e i formaggi, tutto, tutto nella strada, al sole, alle nuvole, alla pioggia; le casse, il banco, le bilancie, le vetrine, tutto, tutto nella via; ci si frigge, essendovi una famosa friggitrice, ci si vendono i melloni, essendovi un mellonaro famoso per dar la voce: vanno e vengono gli asini carichi di frutta; l'asino è il padrone tranquillo e potente della Pignasecca. Qui il romanzo sperimentale potrebbe anche applicare la sua tradizionale sinfonia degli odori, poichè si subiscono musiche inconcepibili: l'olio fritto, il salame rancido, il formaggio forte, il pepe pestato nel mortaio, l'aceto acuto, il baccalà in molle. Nel mezzo della sinfonia della Pignasecca, vi è il gran motivo profondo e che turba; la vendita del pesce, specialmente del tonno in pieno sole, su certi banchi inclinati, 82 di marmo. Alla mattina il tonno va a ventisei soldi e il pescivendolo grida il prezzo con orgoglio: ma, come la sera arriva, per il declinare dell'ora e della merce, il tonno scende a ventiquattro, a una lira, a diciotto soldi; quando arriva a dodici soldi, la gran nota sinfonica del puzzo ha raggiunto il suo apogèo. La Pignasecca non può mai essere pulita; nessun municipio ha mai osato dichiararla via di sbarazzo. Il quartiere del Sangue di Cristo, detto piuttosto o sanghe de galline, per rispetto al nome del Redentore, se ne ride del municipio. Del resto, tutto questo è bellissimo pel pittore e pel novelliere. * ** Nulla più pittoresco che la strada di Santa Lucia, di esclusiva proprietà dei signori pescatori 83 e marinai, intrecciatori di nasse e venditori di ostriche; nonchè delle loro signore mogli, venditrici di acqua sulfurea e di ciambellette, cucinatrici di polipi e friggitrici di peperoni; nonchè dei loro signori figlioli, in numero indefinito, nudi e bruni come il bronzo. In quella strada, all'aria aperta, tutto si fa: il bucato e la conserva di pomidoro, la pettinatura delle donne e la spulciatura dei gatti, la cucina e l'amoreggiamento, la partita a carte e la partita alla morra. La strada di Santa Lucia appartiene ai luciani, che fanno il loro comodo. Le quattro viottole cieche che salgono da Santa Lucia verso la collina, valgono i fondaci del quartiere Mercato, per il luridume: i cavalcavia uniscono le case pencolanti e sbuzzanti, le cordicelle vanno da un balcone all'altro, un lumicino innanzi a una Madonnina nera illumina soltanto la viottola, dove va a cadere tutto il sudiciume di quella gente. Non vi è più marciapiede, verso il mare: i luciani se lo pigliano tutto, per le nasse e per 84 le fiasche dell'acqua sulfurea. Nell'estate, anzi, dormono sul marciapiede o sul parapetto e brontolano contro colui che osa passare e svegliarli. Verso le case, non ci si accosta nessuno: lì, per scherzo, volano i torsi di spighe e le buccie dei fichi, e le cantine mettono le tavolelle pei bevitori, nella via. I luciani sopportano che il tram passi per la loro via, ma ci bestemmiano contro, spesso e volontieri, poichè è una usurpazione della loro strada: le venditrici di acqua sulfurea paiono tanti uomini vestiti da donne, con gli zoccoli dal tacco alto, la gonna corta legata sullo stomaco, le rosette di perle sostenute con un filo nero all'orecchio, perchè non si spezzi il lobo pel peso. Sono naturalmente rissose e brutali: vi dànno a bere l'acqua per forza, litigano ogni minuto fra loro, rubandosi gli avventori. Sono indomabili: per poterle governare, il delegato del quartiere deve essere anche un luciano, che le pigli a male parole. 85 Una volta, due di esse bastonarono fino all'estenuazione una guardia municipale che voleva loro assegnare una contravvenzione: è vero però che il giorno seguente si quotarono per aiutarne la madre vecchia, mentre il figlio era all'ospedale. Ma Santa Lucia, tutta pittoresca, resta sempre fuori delle leggi d'edilizia e d'igiene: è un borgo fortificato. Forse il colera non vi avrà fatto strage: vi è il mare e vi è il sole. Ma che mare nero, untuoso! Ma qual putrefazione non illumina quel sole! * ** È pittoresco per un amante del colore, veder girare, di sera, per via Roma, un carretto disposto a mensa, su cui, in tanti piattelli, 86 vedi dei castelletti di fichi d'India, sbucciati: un uomo spinge il carretto, una lampada a petrolio vi fumiga, il carretto si ferma ogni tanto. Riparte, lasciando talvolta dietro di sè le bucce spinose e sdrucciolevoli. È drammatico assai, per un novelliere, girare dopo mezzanotte: e trovare degli uomini che dormono sotto il porticato di San Francesco di Paola, col capo appoggiato alle basi delle colonne: degli uomini che dormono sui banchi dei giardinetti in piazza Municipio; dei bimbi e delle bimbe che dormono sugli scalini delle chiese di San Ferdinando, Santa Brigida, la Madonna delle Grazie, specialmente quest'ultima che ha una scala larga e certi poggiuoli ampi: nel centro di via Roma. Può piacere all'uno e all'altro, che giusto a due passi da via Roma, vi sia il Chiostro di San Tommaso d'Aquino, dove non ci sono più monaci, ma che è un piccolo fondaco, una piccola Corte dei Miracoli, con le sue viuzze nere, i suoi budelli, le sue vinelle, e le sue 87 botteghe brulicanti di ombre e le sue case brulicanti di poveri e d'infelici. Ma in realtà è molto triste, molto crudele che tutto questo esista ancora, e che creature umane lo subiscano e che uomini di cuore sopportino che questo sia. IX. LA PIETÀ. Quando una popolana napoletana non ha figli, essa non si addolora segretamente della sua sterilità, non fa una cura mirabile per guarirne come le sposine aristocratiche, non alleva un cagnolino o una gattina o un pappagallo come le sposette della borghesia. Una mattina di domenica ella si avvia, con suo marito, all'Annunziata, dove sono riunite le trovatelle: e fra le bimbe e i bimbi, allora svezzati o già grandicelli, ella ne sceglie uno con 89 cui ha più simpatizzato, e, fatta la dichiarazione al governatore della pia opera, porta con sè, trionfando, per lo più la piccola figlia della Madonna. Questa creaturina, non sua, ella l'ama come se l' avesse essa messa al mondo; ella soffre di vederla soffrire, per malattia o per miseria, come se fossero viscere sue; nella piccola umanità infantile napoletana i più battuti sono certamente i figli legittimi; di battere una figlia della Madonna, ognuno ha un certo ritegno; una certa pietà gentilissima fa esclamare alla madre adottiva: puverella, nun aggio core de la vattere, è figlia de la Madonna. Se questa creatura fiorisce in salute e in bellezza, la madre ne va gloriosa come di opera sua, cerca di mandarla a scuola o almeno da una sarta per imparare a cucire, poichè certamente, per la sua bellezza, la bimba è figlia di un principe: in nessun caso, di miseria o d'infermità, la madre adottiva riporta, come potrebbe, la figliuola all'Annunziata. E l'affezione, scambievole, 90 è profonda come se realmente fosse filiale; e a una certa età il ricordo dell'Annunziata scompare e questa madre fittizia acquista realmente una figliuola. * ** Ma vi è di più: una madre ha cinque figli. Il più piccolo ammala gravemente, ella si vota alla Madonna, purchè suo figlio guarisca; ella adotterà una creatura trovatella. Il figlio muore; ma la pia madre, portando al collo il fazzoletto nero che è tutto il suo lutto, compie il voto, lagrimando. Così, a poco a poco, la creatura viva e bella consola la madre della creatura morta, e vi resta in lei solo una dolcezza di ricordo e vi fiorisce una gratitudine grande per la figlia della Madonna. Talvolta il figlio guarisce e il primo giorno in cui può uscire, la madre se lo toglie in 91 collo e lo porta nella chiesa dell'Annunziata, gli fa baciare l'altare, poi vanno dentro a scegliere la sorellina o il fratellino. E fra i cinque o sei figli legittimi, la povera trovatella non sente mai di essere una intrusa, non è mai minacciata di essere cacciata, mangia come gli altri mangiano, lavora come gli altri lavorano, i fratelli la sorvegliano perchè non s'innamori di qualche scapestrato, ella si marita e piange dirottamente quando parte dalla casa, e ci ritorna sempre, come a rifugio e a conforto. * ** Un caso frequente di pietà è questo: una madre troppo debole o infiacchita dal lavoro ha un bambino, ma non ha latte. Vi è sempre un'amica o una vicina o qualunque estranea 92 pietosa che offre il suo latte; ne allatterà due, che importa? il Signore ci penserà a mandarle il latte sufficiente. Tre volte al giorno la madre dal seno arido porta il suo bimbo in casa della madre felice: e seduta sulla soglia, guarda malinconicamente il suo figlio succhiare la vita. Bisogna aver visto questa scena e avere inteso il tono di voce sommesso, umile, riconoscente con cui ella dice, riprendendosi in collo il bimbo: u Signore t'u renne la carità che fai a sto figlio. E la madre di latte finisce per mettere amore a questo secondo bimbo, e allo svezzamento ci soffre di non vederlo più: e ogni tanto va a ritrovarlo, a portargli un soldo di frutta o un amuleto della Vergine; il bimbo ha due madri. lo ho visto anche altro: una povera donna andava in servizio, non poteva tenere presso di sè il suo bimbo, lo lasciava a un'altra povera donna, che orlava gli stivaletti e lavorava in casa, cioè nella strada. Ella metteva i due bimbi, il suo e quello della sua amica, nello 93 stesso sportone (culla di vimini), attaccava una funicella all'orlo dello sportone e dall'altra parte al proprio piede, e mentre orlava gli stivaletti, canticchiava la ninna nanna per i due bimbi; mentre orlava gli stivaletti, mandava avanti e indietro il piede per cullare i due bimbi nello stesso sportone. A un'altra donna che stava in servizio, un'amica teneva il bimbo; ma veniva a portarglielo, da molto lontano, per farlo succhiare, sudando sotto il sole, con quel bimbo pesante in collo. L'intervista accadeva sul pianerottolo o in cucina: e accadevano questi piccoli dialoghi: — S'è stato coieto almeno? — Coieto si, ma tene sempe famme. — Core de mamma soia! Poi l'allattamento finiva, l'amica riprendeva il bimbo non suo, dicendogli: — Jammoncenne alla casa, ja'; core de la zia, saluta, saluta a mammà. E se ne andava tranquillamente senza mormorare, 94 mentre la madre, dal finestrino della cucina, guardava ancora una volta suo figlio. * ** È naturale che il popolo non possa fare carità di denaro al più povero di lui, non avendone: ma si vedono e si sentono carità più squisite, più gentili. Una cuoca si metteva sempre di malumore quando la padrona ordinava il brodo: era soltanto felice quando si ordinavano maccheroni o legumi o risotto, grosse e nutrienti minestre. Fu lungamente sospettata d'ingordigia, sebbene alla sua personcina malandata fosse più necessario il brodo che i maccheroni: in realtà ella dava la sua minestra, ogni giorno, ai due bimbi della portinaia, e preferiva dar loro un grosso piatto, anzichè tre cucchiaiate di brodo: ella — rimaneva senza. 95 Alla sera, quando vanno via, tutte le serve portano un fagottino degli avanzi del pranzo, quando la padrona ha la bontà di darglieli: e non servono per sè, sono per un fratellino, o per un nipote o per una madre vecchia o per qualche povera donna che non ha altro. Nessuna serva mangia mai tutto quello che le date: tre quarti, una metà, talvolta tutto è destinato a un'altra persona. E gli ammalati degli ospedali, la gente carcerata, trovano sempre una sorella, una zia, una comare, un'amica, un'amante che si torturano una settimana, per poter comperare al giovedì o alla domenica quattro aranci da sollevare la sete dell'infermo o della inferma, che lavano di notte, in fretta e in furia, la camicia del carcerato per potergliela portare il giorno seguente, lavata e stirata. Bisogna andare a vedere che cosa sono le porte degli ospedali, nei giorni di visita: e che folla femminile vi si accalca, pallida e ansiosa! lo ho visto una moglie a cui il marito era 96 morto all'ospedale, in un giorno, andare dal direttore, da quanti medici di cui potette avere l'indirizzo, dalla direttrice delle suore, dalle suore, dagli inservienti, e piangere e pregare e scapigliarsi e scongiurarli, in nome di Cristo, che non le squartassero il marito. L'idea della morte la sopportava, ma l'autopsia la esasperava. * ** Nessuna donna che, mangi, nella strada, vede fermarsi un bambino a guardare, senza dargli subito di quello che mangia: e quando non ha altro, gli dà del pane. Appena una donna incinta si ferma in una via, tutti quelli che mangiano o che vendono qualche cosa da mangiare, senza che ella mostri nessun desiderio, gliene danno parte, la obbligano a prenderlo, non vogliono avere lo scrupolo. 97 E i poveri che girano, sono aiutati alla meglio, da quella gente povera: chi dà un pezzo di pane, chi due o tre pomidoro, chi una cipolla, chi un po' d'olio, chi due fichi, chi una paletta di carboncini accesi: una donna, per fare la carità in qualche modo, lasciava che una mendicante venisse a cuocere sul proprio fuoco, sul focolaretto di tufo, il poco di commestibile che la mendicante aveva raccattato. Tanto avrebbe dovuto perdersi, quel resto di fuoco, dopo la sua cucina; era meglio adoperarlo a sollevare una miserabile. Un'altra faceva una carità più ingegnosa: essendo già lei povera, mangiava dei maccheroni cotti nell'acqua e conditi solo con un po' di formaggio piccante, ma la sua vicina, poverissima, non aveva che dei tozzi di pane secco, duro. Allora quella meno povera regalava alla sua vicina l'acqua dove erano stati cotti i maccheroni, un'acqua biancastra che ella rovesciava su quei tozzi di pane che si facevano 98 molli e almeno avevano un certo sapore di maccheroni. * ** Una giovane cucitrice era stata a Gesù e Maria, l'ospedale, con una polmonite; poi si era guarita e pallida, esaurita, sfinita, era venuta via. Pure l'ospedale, per assisterla ancora in vista di una tisi probabile, le concedeva; ogni mattina, quattro dita di olio di fegato di merluzzo, che ella doveva andare a prendere lassù. Ella capitava ogni mattina, col suo bicchiere, sino a che fu rimessa completamente in salute: e allora le dissero che non le avrebbero più data la medicina. Ella si confuse, impallidì, pianse, pregò la monaca che per carità non gli sospendesse quell'olio — e infine fu saputo che di quell'olio ella si privava per darlo in elemosina a una povera donna — la 99 quale, per miseria, superato il naturale disgusto, lo adoperava a condire il pane o a friggerci un soldo di peperoni. * ** E ancora un altro fatto mi rammento. Un giorno, al larghetto Consiglio, una donna incinta, presa dalle doglie, si abbattè sugli scalini e sgravò nella strada. Il tumulto fu grande: ella taceva, ma per pietà, per commozione molte altre donne strillavano e piangevano. E in poco tempo, da tutti i bassi, da tutte le botteghe, da tutti i sottoscala, vennero fuori camicioline e fasce per avvolgervi la povera creaturina e lenzuola per la povera puerpera. Una madre offrì la culla del suo bimbo morto; un'altra battezzò il bimbo, facendogli il segno della croce sul visino; una terza questuò per tutte le case del vicinato; una quarta, serva, si 100 offrì e andò a fare il servizio per la povera puerpera. La moglie del fornaio divise il suo letto con la puerpera: e il fornaio dormì sopra una tavola per dieci giorni, avendo per cuscino un sacco. E quella miserella piangeva di emozione, ogni volta che baciava suo figlio. COMMIATO. Qui finisce questo breve studio di verità e di dolore. Esso è troppo piccolo per contenere tutta la grande verità della miseria napoletana: troppo piccolo, sia permesso dirlo, per contenere l'umile e forte amore di un cuore napoletano. Opera incompleta di cronista, non di scrittore, uscito come un grido dall'anima, valga come ricordo, valga come preghiera. Serva per pregare chi può, per ricordare a chi deve: non abbandonate Napoli, ora che il colera è finito. Non la abbandonate di nuovo, presi dalla 102 politica o dagli affari, non lasciate che agonizzi di nuovo questo paese che tutti dobbiamo amare. Fra le belle e buone città d'Italia, Napoli è la più gentilmente bella, la più profondamente buona. Non la lasciate povera, sporca, ignorante, senza lavoro, senza soccorso: non distruggete, in lei, la poesia d'Italia. INDICE I. Sventrare Napoli . . . . . . Pag. 1 II. Quello che guadagnano . . . " 12 III. Quello che mangiano . . . . " 21 IV. Gli altarini . . . . . . . . " 32 V. Il lotto . . . . . . . . . " 44 VI. Ancora il lotto . . . . . . " 55 VII. L'usura . . . . . . . . . " 67 VIII. Il pittoresco . . . . . . . " 76 IX. La pietà . . . . . . . . . . " 88