BIBLIOTECA SARDA DIRETTORI COMM. SALVATORE DELOGU, CAV. ENRICO COSTA, AVV. ANTONIO SCANO Vol. II ANT. BALLERÒ DON ZUA STORIA DI UNA FAMIGLIA NOBILE NEL CENTRO DELLA SARDEGNA Vol. 2. SASSARI GIUSEPPE DESSÌ 1894 XXVI. Pietro Barraca, che non aveva perduto l’estro poetico, dopo aver toccato con lo sprone il cavallo, per avvicinarsi alla porta d’ingresso, vi bussò forte col calcio del fucile e cantò: « Peppe Lidone, aperi « A s’amicu e Mamojada, « Chi ti battit cambarada « De zente e coro sinzeri: « Pro li dare un’ora e pasu, « Focu, binu e pane e casu (I). (I) Peppe Lidone, apri la tua porta all’amico di Mamoiada, il quale conduce seco una comitiva di amici leali, venuta a chiederti asilo, fuoco, vino, pane e formaggio. L’improvvisatore non aveva appena finito la sestina, che si schiusero gli ampi battenti del portone, ed un venerando vecchio, con la barba bianchissima che gli copriva tutto il petto, venne fuori, tenendo in alto una candela di ferro a quattro becchi, la quale gli illuminava la simpatica faccia. Senza stare troppo a pensare rispose a Pietro Barraca, cantando con voce vibrata. « A s’amicu e cumpannia « Semper sa dommo est aperta; « No est de lussu sa coperta, « Pro rizziver s’istranzia; « Però conten cosa issoro: « Pane, binu e bonu coro (I). — Oh, vecchio amico, sempre lo stesso, esclamò Barraca, scavalcando ed abbracciando fortemente zio Peppe Diego; sempre affettuoso ed ospitale. — A tutte le ore, tu lo sai, la mia casa è aperta per gli amici, e per gli amici degli amici. — E voi siate tutti i ben venuti, sebbene io non abbia ancora il bene di sapere chi voi siate; venite avanti, venite avanti, e smontate. — Tutti amici miei, disse Pietro Barraca, (I) La mia casa è sempre aperta all’amico ed alla sua compagnia. Il mio asilo non è di lusso per ricevere degnamente i forestieri; però tengano per cosa propria il mio pane ed il mio vino, ed accettino il buon cuore. presentandoli così in massa, poi prendendo don Zua per mano: — Questo è don Zua Calarighes. — Figlio di? chiese zio Peppe. — Di don Pantaleo, buon’anima, rispose Pietro. — Di don Pantaleo? Sia il ben venuto in casa mia, io conosceva molto suo padre, ed una volta ho avuto l’onore d’ospitarlo in casa; gli avevano rubato parecchi capi di bestiame, ed era passato in questi paesi cercandoli. Ma intanto io li trattengo qui, mentre tutte queste belle ragazze saranno stanche, Dio sa come. Mi compatiscano, a misura che si invecchia si diventa smemorati. Vengano pur dentro, e lascino tutto qui, che per i cavalli ci pensano i ragazzi. Difatti, sei o sette giovanotti, domestici di zio Peppe Diego, vennero fuori a prendere i cavalli dei viaggiatori. Nelle cucine sarde il fuoco non si spegne mai, nè d’inverno, nè d’estate; nè di giorno nè di notte; quando un ceppo sta per consumarsi, se ne aggiunge un altro, per alimentarlo sempre come il fuoco delle Vestali. A qualsiasi ora un viandante cerchi rifugio in una cucina sarda, è sicuro di trovarlo, assieme ad un fuoco gigantesco per asciugare i suoi panni, se sono inzuppati d’acqua, e ad una stuoia di giunchi per riposare le membra, accanto al focolare. La cucina sarda, nelle case del basso ceto, siano anche di ricchi proprietari, è la sala di ricevimento, la sala da pranzo, ed il dormitorio dei servi e talvolta anche dei padroni. Là si ricevono gli amici, invitati spesso a prender parte al desco famigliare, là si discutono le questioni di interesse privato, tra un bicchiere e l'altro di buon vino; perchè i sardi, in generale, gridano molto tra di loro, però finiscono sempre per intendersi, salvo in questioni d’onore o di vendette, nelle quali allora s’intendono col fucile alla mano. In cucina si passano le lunghe notti d’inverno, raccontando storielle ed arrostendo castagne e patate fra le bragie del focolare, mentre fuori la neve cuopre tutto, barricando perfino le porte delle case. La cucina di zio Peppe Diego Lidone avrebbe potuto ricevere cento persone, e più di trenta servi avrebbero potuto dormire attorno al focolare. Il padrone di casa offrì agli ospiti piccole sedie nane, e li invitò a sedersi. Le donne furono affidate alle figlie di zio Peppe, due fanciulle piene di giovinezza rigogliosa, e agli uomini cominciò a pensare egli stesso, facendo passare in giro un bicchiere capace di un litro, ricolmo di vino squisito. Quando gli ospiti ebbero bevuto e fu la volta del padrone di casa, egli col bicchiere alla mano, scoprendosi la testa canuta disse: — Bevo alla salute e felicità dei forestieri, che han voluto far onore a me ed alla casa mia, con la speranza di berne uno in casa loro a Mamojada, per la festa di San Cosimo; e di un fiato vuotò il bicchiere. — Alla vostra salute, e Dio voglia che ci sia dato tanto piacere e tanta fortuna, rispose don Zua. Zio Peppe Diego sapeva fare le cose ammodo; appena vide il numero dei forestieri che gli era arrivato, fece montare a cavallo un servitore, e lo mandò ad un ovile vicino, per uccidere quattro agnelli, i migliori del gregge, mentre Arega, la vecchia fantesca di casa, faceva il suo ingresso fatale nel pollaio, tirando il collo a parecchi sultani di quell’harem pennuto. A don Zua, il quale godeva il rispetto di tutta la comitiva dei suoi compaesani, zio Peppe usava mille attenzioni, e mentre lo aveva accompagnato in una camera pulitissima, per togliersi la polvere del viaggio, Pietro Barraca ed i compagni, tutta gente fatta alla buona e senza esigenze di sorta, avevano aiutato i servi di zio Peppe Diego ad infilare gli agnelli in certi spiedi enormi lunghi e larghi come spadoni antichi. Due ore dopo, in una camera attigua alla cucina, si dava l’assalto a parecchi giganteschi piatti di maccheroni conditi senza risparmio. Brecce enormi furono fatte da tutti i lati, fra quelle montagne di pasta fumante, e tutto il materiale scavato, precipitava nelle gole avide di quella gente piena di salute, di forza e di appetito. Alla carica ci si era andati in silenzio, e direi quasi con religiosa venerazione. Il primo a rompere il silenzio fu Pietro Barraca, che era stato il più sollecito all’assalto. — Buoni, per San Mauro vescovo, esclamò asciugandosi i baffi umidi con la salvietta, valevano più di cento teste di preti consacrati! Gli uomini risero del paragone, e le donne più per sistema che per convincimento, protestarono in favore del clero. — Al diavolo la sottana! riprese Pietro, io con questo principio, mi son trovato sempre bene; in casa mia il prete non c’entra che quando mi tocca di battezzare il marmocchio, che, per mia disgrazia, annualmente mi regala mia moglie; il mese scorso, fu il settimo; ma se dura così, un giorno o l’altro sarò costretto di abbandonare il tetto domestico, per non sapere più come mantenere quella ciurmaglia. — Cuor contento il ciel l’aiuta, soggiunse don Zua. — Fino a un certo punto io sto con lei, santo Dio; ma anche il cielo si stancherà della intemperanza di mia moglie, perchè io, veh! sono innocente come Maria Vergine. Oh me lo saprà dire lei, don Zua, quando, da qui ad alcuni anni, comincierà ad averne tre o quattro attaccati ai calzoni, di quei marmocchi mocciosi, vedrà, vedrà che divertimento! — È forse sposo, don Zua? chiese una delle figlie di zio Peppe, sebbene fosse già al corrente degli amori del nobile Calarighes. — No, grazie al cielo, rispose egli, guardando Boella in un certo modo, che voleva dire: non lo sono, ma vorrei esserlo tanto volentieri! — Non è sposo, aggiunse ammiccando Pietro; ma c’è temporale in aria, e parmi che San Mauro, che guarisce gambe e risana teste, farà anche questo miracolo; che ne dite voi, comare Boè? A togliere Boella dall’impiccio giunsero gli agnelli, arrostiti stupendamente, e ben disposti dentro ampi taglieri. Essendo questo un argomento di grande importanza, tutti gli occhi si concentrarono sui taglieri, e nessuno pensò più alla risposta che avrebbe dovuto dar Boella. In breve anche gli agnelli furono divorati, e parecchi bottiglioni di vino eccellente sparirono, portando una schietta allegria nei commensali. Fu allora che cominciarono a fervere le discussioni, i racconti di caccia, le descrizioni della Sardegna, i confronti e gli apprezzamenti. Si parlò di cavalli, di corse, di inimicizie sarde, di banditi, di fucilate, di tradimenti e di battaglie. Zio Peppe Diego che aveva combattuto volontario nel 1848, non potè fare a meno di mostrare la cicatrice di una ferita al petto riportata a Goito, e raccontando il fatto pianse di gioia. — Evviva zio Peppe Diego, gridò don Zua, il quale si era sentito pieno di entusiasmo, un pò per il racconto del vecchio, ed un pò per i frequenti baci dati al bicchiere. — Evviva! evviva! risposero tutti in coro. L’indomani mattina all’alba gli ospiti di zio Peppe ripartivano per San Mauro. XXVII. Addossata al principiare dell’erta che chiude la pianura sottostante s’erge la chiesuola campestre di San Mauro, nera e screpolata, quasi protetta dal campanile di pietra. Da lungi si sarebbe detta un antico castello medioevale. Il muro di cinta, coi suoi due ampi portoni situati uno ad oriente, e l’altro ad occidente, e quella sessantina di casette nane (muristenes), le quali vengono abitate dai fedeli che vanno a fare la novena, accoccolate tutte intorno alla chiesa coi loro tetti oscuri, o pieni d’erbe, contribuivano a dare vieppiù l’aspetto di castello alla chiesa. Fuori del ricinto sacro era sorto un vero paese; centinaia di carri, trasformati in abitazioni, chiusi con lenzuola e con coperte di lana davano l’idea di lontane barche con le vele spiegate, sciamanti in un mare di verdura. Quante tende! quante baracche di frasche! quante capanne di stuoie! Nella pianura un formicolìo irrequieto, uno spandersi, un ammassarsi compatto di folla vociante. Migliaia di cavalli montati da arditi cavalieri, correvano in tutte le direzioni, saltando muri, varcando fossi, superando siepi; armenti intieri di bovi, rincorrentisi e cozzanti con le corna terribili. Squilli di campane, fucilate, nitriti di cavalli, muggiti di buoi, canti allegri e voci di rinvenditori, si confondevano nell’aria, formando un assieme simile al brontolìo del tuono. Nel cielo un sole splendido illuminava questa scena, che apparve maestosa agli occhi della comitiva, la quale finita l’ultima salita del lungo viaggio, era arrivata alla sommità di una collina verdeggiante, d’onde si poteva dominare tutto il sottostante spettacolo della festa. I viaggiatori si fermarono a contemplare da lungi quel grandioso paesaggio, e per qualche istante nessuno aprì bocca. La chiesuola, le casette, i carri, le capanne, le migliaia di costumi sfavillanti al sole, le corse sfrenate dei cavalli focosi, visti da lungi offrivano allo sguardo, il più bello, il più grandioso, il più ricco dei quadri, ove il colore fosse stato gettato a grandi pennellate, senza risparmio, con un’arte insuperabile, inarrivabile. — Meritava il viaggio da Mamojada? domandò Pietro Barraca, come se fosse stato egli l’autore di tutto quello spettacolo. — Bello, stupendo, disse don Zua, diventato poeta, perchè sentiva l’alito caldo e profumato di Boella, la quale per veder meglio, si era appoggiata mollemente contro la sua spalla, tanto che i riccioli dei capelli di lei, mossi dalla brezza, andavano a folleggiare sul collo del giovane innamorato, producendogli un vellicamento soave, indefinibile. — Questo è niente però, vedrete quando saremo là in mezzo, che chiasso, che vociare; e stiamo attenti, per non separarci; sarebbe un guaio, perchè non ci potremmo più trovare, sapete? — Non ci mancherebbe altro, disse don Zua, già disperato alla sola idea di perdere Boella in mezzo a quel pandemonio. La fanciulla capì il pensiero di don Zua, e gli strinse nascostamente la mano, quasi per rassicurarlo. Quella tacita promessa pose il cuore in pace dell’innamorato don Zua, il quale dato di sprone al cavallo disse: — Andiamo; come se si fosse finalmente deciso ad affrontare il pericolo della folla, sicuro che il suo tesoro era messo in salvo. XXVIII. Un’ora dopo i nostri Mamojadini, preso possesso della casetta, che avevano avuto la cura di assicurarsi fin da un mese prima, e posti in luogo sicuro i propri cavalli, e liberi da ogni pensiero, si decisero a frammischiarsi anche loro in quel mare vivente della festa. Il primo pensiero fu di andare a ringraziare il Santo, perchè li aveva assistiti nel viaggio. Ci volle del bello e del buono prima di poter penetrare in chiesa! I fedeli si riversavano dentro la spaziosa chiesa, a torrenti, pigiandosi, urtandosi, stringendosi, senza lamenti, senza brontolii. Tutti volevano vederlo quel gran santo che faceva camminare i paralitici, che rendeva la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti. Ed egli, il buon frate, vescovo, guardava dall’alto della sua nicchia, tutto quel popolo prostrato dinanzi a lui, col suo eterno sguardo sorridente. I ferventi fedeli si inginocchiavano ai suoi piedi, deponendo sull’altare centinaia di doni votivi: trecce lunghissime di capelli neri azzurreggianti più fini della seta, capelli biondi più dell’oro; braccia, mani, gambe, piedi, poppe e candele di cera bianchissima, legate con nastri ricchi di seta; cuori d’argento, teste scolpite rozzamente nel legno, quadretti malamente dipinti, rappresentanti i miracoli operati dal santo, per la guarigione degli ammalati. I doni votivi si ammucchiavano sull’altare, sugli scalini, nelle cappelle vicine, dando alla chiesa tutta l’apparenza di un bazar in liquidazione. Don Zua, tenendo per mano Boella, e seguito dal resto della compagnia, si avanzava lentamente, tra la folla inginocchiata, e a mano, a mano, andava guadagnando terreno. Quando fu vicino all’altare s’inginocchiò con Boella e pregò; pregò caldamente S. Mauro, che esaudisse il suo voto più ardente, che gli concedesse Boella. Anche Boella pregò; ma le sue preghiere erano ferventi come quelle di Zua? Dentro al cuore l’occhio umano non vede. Prima di andar via dalla chiesa don Zua furtivamente trasse di tasca un gran cuore d’argento e lo depose sull’altare. L’uscir dal tempio non fu meno disagevole dell’entrare, perchè l’onda umana continuava, continuava sempre, incessantemente a versarsi dentro la chiesa. Era un’onda di colori vivaci, di broccati sfavillanti, di lini bianchissimi, di sete e rasi corruscanti, un tutto tempestato d’oro e di gioielli, tutto ricchezza, tutto barbagli di pietre e di metalli preziosi. Era una colonna che si avanzava continuamente, interminabile, di fanciulle bellissime, di spose procaci, di vedove piene di tentazioni, e miste a loro, vecchie dai profili adunchi, di un’orribile bruttezza, rese vieppiù ributtanti dal confronto delle bellezze giovanili; uomini fieri del Capo di sopra, con le lunghe barbe spioventi sui corpetti (zippones) rossi, o turchini, o color mattone; facce tonde, liscie, accuratamente rase, degli indigeni del Campidano dall’incedere rispettoso ed umile; ragazzi laceri, con certe teste arruffate, ove non era mai passato il pettine, vecchi curvi dagli anni, tutti lavorando di gomiti per arrivare a baciare l’altare del Santo. Quando don Zua potè mettere, assieme a Boella ed ai compagni, il piede fuori dalla chiesa respirò per soddisfazione. La scena là fuori era tutta diversa, totalmente cambiata. Intorno, intorno alla chiesa, fabbricate contro il muro di cinta, erano le tettoie per i negozianti di telerie, seterie e chincaglie, accorsi alla festa. Là c’era una gara tra di loro, per esporre con gusto i migliori broccati, le sete più fini, i fazzoletti più eleganti, gli scarlatti più costosi. Quelle rustiche tettoie, in quei giorni, si trasformavano per incanto, in veri salotti orientali, ricchi di drappi di seta, di broccati d’oro e d’argento, di damaschi preziosi. Le fanciulle accorrevano a sciami, gaie, vezzose, piene di incanti e di seduzioni, rovesciavano tutte le stoffe, discutevano coi venditori, andavano via, poi tornavano per comprare l’oggetto preferito. In un angolo sotto alla tettoia eranvi gli immancabili Aritzesi con le sorbettiere piene di limonata gelata (carapinna) sempre pronti, gentili, e servizievoli, studiandosi di contentare gli avventori, arsi dal sole e dalla vernaccia. Più in là i chincaglieri girovaghi napoletani, col lotto, con la rosa della fortuna, con la pesca miracolosa; pescando, con mille furberie, i popolani più ingenui. Dopo i napoletani, due lunghe file di donne di Tonara, rivenditrici di turrones, povere vittime, in tutte le feste isolane, dei lazzi e degli scherzi osceni degli ubbriachi; condannate a stare giorno e notte, sempre sul chi vive, accanto al loro tavolo, senza prendere un’ora di sonno, un minuto di riposo; pallide, sparute, bruciacchiate dal sole. Più in fondo un ampio tendone di tela bianca, ove si mostravano, attraverso alla lente, le solite vedute, le solite fucilazioni e i soliti funerali. Una donna, sfinita dalla febbre, batteva rari colpi stanchi, sopra una gran cassa sfondata, chiamando, con voce semispenta, il pubblico; ed un omone permanentemente ubbriaco, intascava i danari pagati dagli avventori stuzzicando di tanto in tanto, con parolacce, la povera infelice a gridar più forte. Fuori, dinanzi alla tenda una scimmia incatenata ad un ramo d’albero, coi suoi lazzi faceva ridere a crepapelle un mondo di ragazzi cenciosi, che si divertivano a tirarle pietruzze di nascosto. Quà e là le tende dei rivenditori di vernaccia e di dolci. A ogni passo un Gavoese, che assordava i passanti, col tintinnìo dei campanacci e degli speroni da vendere. Dappertutto un vociare incessante, assordante, che misto al sole caldissimo, alla polvere che si sollevava a nuvoli, al continuo via vai, stordiva tutti i festaiuoli, che non si saziavano mai di girare, di vedere, di ammirare, senza tregua, senza riposo. Fuori dal ricinto, il chiasso era più spaventevole. Là avevano piantato le loro tende gli Isilesi, i quali si avevano formato una specie di cittadella, coi paiuoli, che a centinaia avevano portato colla speranza di smerciarli. Per attirare il pubblico percuotevano sui paiuoli, cosicchè pareva che cento campane suonassero contemporaneamente. I Milesi, questi nomadi dell’isola colle loro ceste, a cono tronco, piene di muggini arrostiti, incartocciati nelle foglie pallide dell’asfodelo, empivano l’aria colla incessante cantilena monotona: pisci, pisci cottu. Scendendo giù verso la pianura si innalzavano le capanne dei Milesi venditori d’aranci e di vernaccia. Sotto quelle capanne eleganti, fatte con stuoie di canna, rutilavano mucchi enormi di bellissimi aranci, accanto alla immancabile botte della bionda vernaccia. Il sollione favoriva i Milesi, perchè in quella caldura soffocante, le capanne venivano prese d’assalto, per godervi un pò d’ombra, ed i frutti dorati sparivano a centinaja. Il laborioso milese non perdeva mai la testa, serviva tutti, trovando per ognuno una buona parola, senza dimenticare di dare un’occhiata al frugalissimo desinare, che egli cucinava in un canto. Di sotto a quel momentaneo rifugio si godeva lo spettacolo della festa in tutta la sua splendidezza. Le baracche di frasche sparse a centinaja per la pianura, ove il popolino faceva baldoria, formicolavano di gente piena di allegria; i carri ricoperti con lenzuola, trasformati in dormitori per la notte ed in sale di ricevimento per la giornata, erano un vivajo di bellezze rare, perchè albergavano centinaja di ragazze stupende di tutta la Sardegna. Più in fondo, nella pianura c’era la fiera del bestiame. Ma quella era una vera battaglia! Chi si poteva avventurare fra quelle migliaia di buoi! fra quei cavalli bizzarri, montati da cavalieri impazziti addirittura? Pure mai una disgrazia, mai un avvenimento che abbia potuto turbare l’allegria della festa. Questo frastuono non cessava neanche la notte; cambiava forma, ecco tutto; allora cominciavano i canti degli improvvisatori, le gare poetiche, i balli disordinati degli ubbriachi, al suono delle fisarmoniche stonate. Così per tre giorni e per tre notti senza tregua di un minuto. La festa si chiudeva, come anche oggi, con la processione. Parecchi squadroni di cavalieri, come se attendessero il segnale del torneo, aspettavano nervosi e impazienti lo scampanìo che annunziasse il muoversi della processione. Dopo tanto dal campanile echeggiò lo squillo delle campane, e la processione si mosse, partendo dalla chiesa. In testa erano i fedeli a cavallo, con labari e bandiere, a capo scoperto, tutti ordinati costringendo i focosi animali ad un passo lento e regolare; poi i confratelli col Santo, dietro a loro il rettore di Sorgono, con una gran cappa di broccato d’oro, modulando le preci, in toni nasali; appresso una infinità di uomini, tutti senza berretto, con certe selve di capelli irti e scomposti, recitanti il rosario in cantilena. Seguivano miriadi di donne di tutta l’isola, coi loro brillanti costumi, i quali spiccavano splendidamente nello sfondo verde smeraldo della collina dirimpetto alla chiesa. Il mormorìo monotono, il canticchiare sommesso delle preghiere si diffondeva per l’aria tiepida, assieme al canterellìo delle campane, ed allo scoppio di bombe, di fucili e di pistoloni, sparati durante il passaggio della processione. Molti avevano voluto godere il pittoresco spettacolo da lontano, e perciò avevano preso d’assalto tutte le alture, tutte le punte più eminenti. Gli alberi erano carichi di spettatori, numerosi come gli stornelli; il campanile della chiesa, i carri, tutto, tutto era stato invaso dalla gente, pigiata, serrata, aggruppata come le mosche sopra un dolce. La processione era uscita dal portone d’oriente, detto di Sorgono, e dopo venti minuti rientrava per quello d’occidente, detto d’Ortueri, appunto perchè sono rivolti verso questi due paesi. La vera lotta fu allora, per entrare in chiesa, e per ricevere l’ultima benedizione. Chi arrivò ad averla, oh è certo che la pagò ben cara; perchè quegli urti, quegli spintoni, quel sentirsi soffocare, quel sentirsi venir meno, fra le strette furiose di quel popolo fanatico, sarebbero stati sufficienti a pagare anche un posticino di paradiso. I cavalieri fecero ancora tre volte il giro della chiesa; però questa volta con una corsa quasi vertiginosa, poi si sparpagliarono rumorosamente giù per la pianura. La festa era finita. La fine della processione era il segnale della partenza. In un momento tutti avevano preparato le bisacce, sellato i cavalli, e per parecchie ore non si vedeva altro che gente a cavallo, partire, partire, dandosi degli addio clamorosi, delle cordiali strette di mano, dei baci lunghi, augurandosi di vedersi l'anno venturo. Ce ne era qualcuno che spingeva la commozione fino alle lagrime, ma lo sapeva zia Nannedda, la nuorese che vendeva il vino d’Oliena a due franchi al litro, il motivo di quella commozione. Le tettoie di frasche cadevano, le capanne di stuoie venivano disfatte, le ricche botteghe scomparivano, ed i carri dormitorî si mettevano in moto lentamente, dondolando, come bastimenti che uscissero dal porto a vele spiegate. Dei clamori della festa non rimaneva che un mormorìo sordo, moribondo; qualche nitrito di cavallo, qualche muggito di bue, e in lontananza qualche canzone senza entusiasmo. Quel grande spazio ove si erano passati tanti giorni di allegria schietta e di festa generale, ora andava seppellendosi in un abbandono triste. Pareva un villaggio abbandonato da un popolo di emigranti; qua e là qualche mucchio di paglia, e qualche fuoco semispento, che mandava al cielo una lunga colonnetta di fumo cenerognolo. Lontano, in tutte le direzioni, perdentisi fra le penombre crepuscolari e fra la grigia tristezza della sera, andavano scomparendo i vivaci colori dei superbi costumi, e S. Mauro, col sopraggiungere della notte, si addormentava di un sonno che doveva durare un anno. XXIX. — E tu attenderai fino a quando io abbia conseguito ciò che brami? — Sì, attenderò. — Lo giuri? — Lo giuro! — Per la memoria della tua buona madre? — Sì, te lo giuro per la memoria della mia povera madre, disse Boella quasi lacrimando, io attenderò, e quando tu avrai adempito alla tua parola, io manterrò la mia, sarò tua moglie! — Oh grazie, grazie, Boella, mille grazie, tu sei un angelo, questa per me è troppa felicità, oh come te ne sono riconoscente, quanto t’amo! Con questo giuramento e con questo scambio di promesse era finito il lungo dialogo, che don Zua e Boella avevano tenuto sotto voce durante la prima ora di strada. Don Zua si era finalmente deciso a spiegare apertamente le sue intenzioni a Boella, la quale ne era già stata preparata dalle poche parole dettele da don Zua il giorno della partenza per San Mauro. Lei aveva fatto mille obiezioni, creato mille difficoltà, presentato, con fine astuzia, mille ostacoli a don Zua; gli aveva parlato del ridicolo al quale sarebbe andato incontro, sposando lei, figlia del popolo, mentre avrebbe potuto, col suo nome, sposare la più ricca ereditiera del circondario, e finalmente aveva finto di lasciarsi vincere; ma ad un patto; che egli sarebbe tornato agli studi, per farsi maestro di scuola, o segretario comunale. I nobili di Mamoiada lo avrebbero così dovuto ammirare; e l’umiliazione di sposare una ragazza di condizione inferiore alla sua, avrebbe perduto le sue tinte più forti; e dinanzi a quella potenza di volontà, la sua sarebbe parsa una bizzarria giovanile, e null’altro. Ma in fondo in fondo Boella non la pensava così; era la superbia di ragazza viziata, che le faceva parere disonorevole il coltivare la terra, in colui che sarebbe dovuto essere suo marito. Se era riuscita nel suo intento, cioè di sposare un nobile, non voleva che gli altri si burlassero di lui vedendolo curvo sopra la zappa. Zua, accecato dall’amore, non aveva potuto leggere, negli occhi di Boella, la passione che l’agitava; ed era facilmente caduto nell’inganno, prendendo per amore, ciò che nella bella fanciulla non era altro che freddo calcolo. O lui, o un altro, per Boella, era cosa indifferente, secondaria, purché fosse nobile. La mamma glielo aveva cantato, facendole la ninna nanna, quando la cullava piccina: « De cavalleris isposa, « T’appo a bider, a manna, « Prus bella de sa rosa « Prus sottile e sa canna. « Chin bestes de broccau « Asa andare a isposare « Su cavalleri istimau, « A pedes de s’artare. « Asa a esser su tesoro « De sa bezzesa mia, « Dormi, vida e coro, « E reposa a ninnia. (I) Lei non li aveva sentiti quei versi, dettati dal grande amore della madre; la quale era morta, poveretta, senza che si fosse avverato il vaticinio; però il padre suo tenne a mente quelle strofe indimenticabili, e glie le aveva insegnate per ricordo della povera mamma. Perchè dunque non si sarebbero dovute avverare le predizioni della cara morta? Per don Zua non sentiva nessun amore, era vero; ma che? per questo se lo avrebbe dovuto lasciar scappare? l’amore sarebbe venuto poi, convivendo assieme; non era l’amore che faceva la casa; quante ne aveva viste lei di ragazze che s’erano maritate, così, per amore, e poi avevano finito a bastonate coi mariti! Lei non era una pitocca, e perciò non aveva paura della miseria; ma appunto per questo poteva e doveva aspirare ad un nome che facesse dimenticare la sua nascita umile. Don Zua poi non era povero, oh tutt’altro! (I) Quando sarai grande, io ti vedrò sposa ad un cavaliere, più bella di una rosa, più snella di un canna. Tu andrai a nozze vestita con abiti di broccato per sposare, a piedi dell’altare, l’amato cavaliere. Sarai il tesoro della mia vecchiaia; dormi cuor mio, vita mia, e fa la nanna. così, riunendo i loro due patrimoni, in paese sarebbero diventati una potenza. Oh che gusto, che gusto, vedere schiattare di rabbia, quelle zitellone nobili, che per superbia non la salutavano neanche, quando per caso si trovavano all’uscita dalla messa! Ma perdevano il tempo nell’essere superbe loro, i mariti erano rari, gli anni passavano, e le rughe crescevano; e non tutti i giorni capitavano in paese guardie forestali disperate, e carabinieri che dovevano andare in congedo, per coglierli nella pania, e costringerli a sposarle, quelle zitellone di quarant’anni! Le avrebbe fatte inviperire davvero, quelle anticaglie da museo! — Perdina! esclamò Pietro Barraca, siamo già a Sorgono, in un’ora! si cammina come il vento, si cammina, e se domani i cavalli avranno questa buona voglia, in sette ore, da Tiana, saremo a Mamoiada. A due tiri di schioppo, il campanile di Sorgono s’ergeva maestoso sopra i tetti affumicati del paese, circondato completamente da pittoreschi boschetti di castagni e nocciuoli, di un verde cupo, che si perdeva in lontananza, fra il viola oscuro delle montagne, nuotanti nelle penombre dorate dai riflessi del tramonto. — A Sorgono si passa diritti? chiese don Zua. — S’intende, rispose Barraca, bisogna profittare di questo po’ di luce per fare la discesa di Terramala, perchè al buio ci sarebbe da rompersi per lo meno, una gamba. Le donne avrebbero voluto dire un’avemaria nella chiesa di Sorgono; ma la dichiarazione di Barracca fece cambiar loro di opinione. La comitiva attraversò il paese, quasi spopolato, perchè tutti erano andati alla festa, e sarebbero tornati la sera, tardi, a piedi. Dalla chiesa usciva qualche vecchierella sgranando il rosario, e sotto ad una tettoia fabbricata contro il muro della chiesa, parecchi dei vecchi ottimati del paese, a turno mettevano in giro la tabacchiera, e si godevano lo sfilare dei forestieri che tornavano dalla festa, rammentando i begli anni passati. In un minuto, Sorgono, questa capitale della Svizzera sarda, come si volle chiamare, questo paese ricco di castagne, di vino buono, di cavalieri, di dame, e di popolane clorotiche, veniva attraversato da un capo all’altro, lasciando un triste senso di disinganno nel passeggiere che di questo villaggio meschino, aveva sentito parlare come di un paese pieno di delizie. All’uscita del paese i Mamoiadini scantonarono in una viottola a sinistra, che s’inerpicava su per la collina. Una viottola scavata nel sabbione dal lungo passaggio degli uomini e delle acque. I macchioni del rovo e del corbezzolo vi avevano intessuto sopra una fitta volta verde, tanto che la luce non vi penetrava che a sprazzi. Quella salita che non durò molto, andò a finire in un altipiano d’onde si dominava tutto il paesello, che cominciava a macchiarsi di grandi ombre, nuotando in un mare di nebbia e di fumo bianchiccio. Dato un ultimo addio a quelle terre ospitali, i viaggiatori s’internarono nell’oscurità del bosco fittissimo, e dopo un’ora e mezza entravano in Tiana che era già immerso nel sonno; ma la casa di zio Peppe Lidone era aperta a tutte le ore. Egli, il buon patriarca, questa volta non si era lasciato cogliere alla sprovveduta, perchè, aspettandoli da un momento all’altro, aveva fatto preparare una cenetta, che, a giudicarne dagli odori che uscivano dalla cucina, avrebbe ristorato un morto. Mille furono le domande e mille le risposte, sugli avvenimenti della festa. Zio Peppe Diego ne fece la descrizione di quarant’anni addietro, quando egli giovinetto di sangue bollente aveva vinto il palio col suo cavallo sauro pomellato. Quello era un cavallo! Un marchese di Cagliari, la volta, gliene aveva offerto 200 scudi e in quei tempi 200 scudi eran qualche cosa; ma non ne aveva voluto sentire neanche la proposta, perchè quando lo inforcava era sicuro del fatto suo. Si cenò allegramente e via a letto, perchè l'indomani bisognava viaggiare tutto il giorno. Gli altissimi letti di legno, coi cortinaggi bianchi a guisa di baldacchini, per un po’ scricchiolarono, poi, tutti, stanchi dai divertimenti della festa, dormirono profondamente. Don Zua solo vegliò. L’immagine di Boella e l’eco lusinghiera delle sue promesse, non gli lasciarono prendere riposo. XXX. Che don Zua fosse il fidanzato di Boella, a Mamoiada, lo sapevano anche i santi di legno, che erano in chiesa. I nobili avevano rabbrividito di orrore, per quel traviamento di don Zua, ed il popolo invece lo aveva innalzato al cielo. Quello era davvero un giovine di cuore! Non erano forse tutti figli di Dio e di nostra Signora? Perchè ci doveva essere quella differenza tra cavalieri e plebei? Gesù Cristo che era figlio di Dio, era forse nato nobile? non era nato in una stalla? Galantuomini bisognava essere, ecco, ed allora si era davvero nobili, ed aver buon cuore coi poveri; perchè nel mondo si era tutti uguali, si era! Anche il Rettore le aveva predicate, più di mille volte, queste cose! Ma sì che i cavalieri davano ascolto al Rettore! andavano in chiesa per adocchiare le belle ragazze, colla intenzione di poter portare poi la disperazione ed il disonore nelle famiglie. Quando si era saputa di certo la notizia, del futuro matrimonio, da Filomena Dringhili, la quale era cuore ed anima con Boella, i giovinetti del paese, a don Zua, gli avevano fatto perfino una serenata! C’erano Pettaneddu, che suonava la fisarmonica come un angelo, e Duanu che improvvisava in un modo, in un modo! stornelli (muttos) così belli non ne avevano cantato più, da quando s’era sposata Grazia Lugore, con quel Toscano che se l’aveva portata via subito, togliendo a Mamoiada il suo più bel fiore. C’era accorso il vicinato, e don Zua aveva invitato tutti, senza risparmio, trovando per ogni persona una parola di ringraziamento. La notizia correva pel paese, e ciascuno vi aggiungeva un particolare. Zia Chischedda, accoccolata sul limitare della porta, dall’alba alla notte, filava grosse conocchie di stoppa, e faceva la sentinella, non lasciandosi sfuggire niente di ciò che succedeva in casa di don Zua, riservandosi il diritto di raccontare le cose, a modo suo, infiorandole di quante bellezze le venivano in mente. Quante cose non aveva visto la vecchierella, con gli occhi dell’immaginazione! Il corredo di sposa, che don Zua aveva fatto preparare per Boella, gli anelli, con certe pietre verdi come occhi di gatto; due bottoni d’oro, per la camicia, grossi come due noci; spilloni tempestati di diamanti: fazzoletti di seta, fatti venire apposta da Cagliari; scarpette ricamate, con la punta ricurva; perfino i guanti, come le signore! e l’ombrellino? col bastone d’avorio, che si piegava in due, piccino, piccino, da potersi quasi mettere in tasca, più bello assai di quello della figlia di donna Veronica, che pure era stato portato dal continente! cose, cose da far strabiliare! Le donnicciuole si fermavano volentieri con zia Chischedda, la quale pareva pagata appunto per raccontare quelle fandonie. — E i parenti che ne pensano? aveva chiesto zia Dorotea. — I parenti? se lo mangerebbero vivo, se fosse possibile, comare mia; ieri sono andati in casa di don Zua i fratelli, che erano due anni, da quando fecero la divisione, senza metterci piede. E sapete perchè ci andarono? Niente di meno che per dirgli che disonorava il nome dei Calarighes, sposando quella villana, che se era diventato matto rimettesse la testa a partito, che quella ragazza era una.... Ma dite voi, comà, se eran cose da dire, calunniare una ragazza onesta! — Ed egli? — Oh, lasciatemi stare, che li ha accolti come si doveva, ha risposto che non doveva prender consiglio da nessuno, che avrebbe fatto il piacer suo; che non lo stessero a seccare di più, perchè li avrebbe fatti mettere alla porta come due cani rognosi. — E se ne sono andati come eran venuti? — Come cani bastonati, comare mia; don Sisinnio, uscendo dal portone, s’è voltato indietro, ed ha sputato dentro al cortile dicendo: Bastardo! Vi sembran cose da farsi? insultare così la memoria della propria madre? tutto le si poteva dire a donna Clara, buon’anima; ma quello poi no; era onesta come nostra signora del Rosario! — Oh è certo che i fratelli non se la potranno portare in santa pace, con la superbia che hanno! — Pure, volere o non volere, don Zua farà il suo capriccio, e ben fatto; solo per non darla vinta a quella razza maledetta, di cavalieri spiantati! Se non altro, Boella è una ragazza onesta; mentre di quelle dame non si dice molto bene; ed io le so le cose, perchè non sono nata ieri; in settantacinque anni ne ho visto di belle, e se dovessi raccontare la storia, degli amori segreti di queste superbe dame ce ne sarebbe da scrivere un libro più grosso del breviario di prete Ignazio. Ma ora son cose passate, ed a me non interessa punto di immischiarmi nei fatti altrui. — Chi ha la rogna se la gratti. — Proprio. — Statevi con buona salute, comà. — Andate con Dio, e quanto vi ho detto stia con noi, non voglio avere da questionare con loro, io. — Ma vi pare? ho mangiato anch’io pane di sette forni, come si dice. — Delle volte senza volerlo.... — Ma che? mi prendete per una bambina? state, state pur tranquilla; come se l’aveste raccontato al muro. — In buon’ora. E zia Dorotea se ne andò, sicura di tenere il segreto, fino a che non avesse trovato un’altra conoscente alla quale confidarlo, mentre zia Chischedda attendeva che fosse passata qualche altra comare, per raccontarle, in gran confidenza, la stessa storia. Don Zua intanto non perdeva tempo. Aveva fatto un taglio di noci colossali, e ne aveva ricavato il tanto per poter vivere modestamente a Nuoro, per un anno; e dopo aver affidato ad un onesto contadino vecchio amico di famiglia, la coltivazione delle sue terre, si dispose per la partenza. Queste operazioni furono fatte tanto in fretta, che la stessa Boella ne restò meravigliata, e per un momento, di fronte a tanta abnegazione, provò qualche palpito d’amore per don Zua. Don Zua partì. Partì felice perchè Boella gli aveva rinnovato le promesse ed i giuramenti, e solo, quando voltandosi indietro, non vide più la cupola color di piombo, della parrocchia, sentì il gran vuoto che si faceva nel suo cuore. Solo allora s’accorse che dietro a sè lasciava quanto di più caro gli restava al mondo! Voltò il cavallo per fissare ancora una volta quella linea azzurrina degli alberi che serravano l’orizzonte, e dietro ai quali c’era la casetta bianca di Boella; il suo occhio si posò a lungo su quello sfondo amico, e solo si riscosse quando due lagrime calde gli caddero sulle mani. — Matto! disse a sè stesso, sono peggio di un ragazzo! non è forse mia? non posso tornare sempre che vorrò vederla per dirle che l’amo sempre, sempre? Addio, Boella; addio, amor mio, tornerò degno di te. Una cornacchia s’alzò gracchiando spaventata, da un fico, e battendo l’ali con tardo volo s’andò a posare lontano sopra una roccia. Don Zua seguì con l’occhio il volo del sinistro uccello, quasi involontariamente, e ne ebbe un brutto presentimento. — Maledetta, disse, sarai tu forse presaga di sciagura? e la mano andò istintivamente al petto, per cercare la medaglia, che Boella gli aveva donato. La portò alle labbra e si sentì quasi rassicurato. Il viaggio fu triste. Zua rivide i folti boschi di querce, ove si divertiva tanto a spaventare le gazze, quando altre volte, da studente, aveva fatto quella strada; rivide la fonte che li dissetava nelle arsure estive, e che don Pantaleo salutava, solendola chiamare la sorbettiera dei passeggeri; rivide la gran roccia foggiata a tettoia, che li aveva riparati, l’ultima volta che il babbo lo aveva accompagnato a Nuoro, e ne ebbe una stretta al cuore. Povero babbo, quanto era felice quel giorno! quante speranze aveva riposto in lui! quanti sogni! Il sole cadeva lentamente, incendiando i monti lontani, ed i campanili della cattedrale di Nuoro, come due grandi braccia alzate al cielo, chiedenti pietà, cominciarono a distinguersi chiaramente, spiegando maestosi nel fondo verde oscuro delle querce di Ortobene. XXXI. Erano già passati alcuni mesi, dall’arrivo di don Zua a Nuoro. Egli s’era rinchiuso nella sua cameretta d’onde non usciva che per andare a prender lezione da un professore, il quale lo preparava a dar gli esami di maestro elementare. Il suo corpo ed il suo spirito, abituati alla vita libera della campagna, soffrivano in quella volontaria prigionia, ma la sua volontà era ferrea. Quando era stanco di studiare pensava a Boella, quella era la sua ricreazione; ed in quel pensiero costante, prendeva lena, prendeva forza, per studiare di più. L’amore per la bella fanciulla gli aveva fatto fare in pochi mesi, ciò che non era riuscito a fare in tanti anni, quando viveva don Pantaleo. Non ci poteva essere dubbio; don Zua all’esame sarebbe riuscito il primo. Egli affrettava, col pensiero, quel momento, in cui sarebbe potuto tornare con la sua bella patente, per deporla ai piedi di Boella, come un paladino medievale, i colori dell’avversario vinto, ai piedi dell’amata castellana. A Mamojada Boella non faceva certo la stessa vita. L’amore per don Zua era l’ultimo suo pensiero; se pure qualche volta ci pensava. Continuava a farsi corteggiare, da tutti gli adoratori, e non mancava mai ad un ballo, nella piazzetta della chiesa. I compaesani tutti i quali sapevano che aveva promesso fede a don Zua, non perdevano l’occasione di criticarla, e di dirne ire di Dio. Ma era quello un fare da zitella fidanzata? chi si era mai vista andare ai balli, senza che ci fosse lo sposo? A che tempi si era venuti! continuando così, anche le mogli si sarebbero un giorno permesse d’uscire di casa senza la compagnia dei mariti. Ai nostri tempi, dicevano le vecchie, una ragazza fidanzata, quando lo sposo non era in paese, non andava neanche alla prima messa, non andava! E là si ricordavano i matrimoni andati in fumo, e le conseguenti inimicizie, e fucilate e morti d’entrambi i partiti. Ecco ciò che avevano fatto i continentali, che si erano accasati in paese! Prima si era gridato allo scandalo, perchè lasciavano tanta libertà alle loro donne, e poi tutti avevano allentato il freno! — Se fosse stata mia figlia, aveva detto zio Salvatore, il quale assisteva al ballo, seduto sopra un muricciuolo, con zio Taneddu e zio Pasquale, l’avrei accompagnata a calci fino a casa; e con la pipa, che aveva tra le mani, fece una gran croce in terra, per attestare che diceva il vero, e per affermare che l’avrebbe fatto. — Chi glielo avrebbe detto, vent’anni fa, a Marco Santoru, quando andava alla giornata, che avrebbe maritato la figlia con uno dei Calarighes! disse zio Pasquale. — Oh state tranquillo, compà, rispose zio Taneddu, se fosse stato vivo don Pantaleo, questo non sarebbe successo. — Avete ragione. — Mi pare però, aggiunse zio Pasquale, che quel don Zua è predestinato a morire incoronato. Diavolo, avere gli occhi chiusi fino a questo punto, poi! Scommetto che l’avrebbe lasciata anche Bambarru, se l’avesse vista fare questa vita! — A proposito, ora che avete nominato Bambarru, disse zio Taneddu, mi viene in mente il suo padrone. — Che? — Che? — Ma stia tra noi, veh! perchè non ne sono certo, e non voglio calunniare nessuno io, che ho poco da vivere, e non voglio dannarmi l’anima; mi hanno detto che il brigadiere fu visto, l’altra sera, entrare in casa di Boella, dalla parte dell’orto. — Possibile!? — Diavolo! — E c’è rimasto dentro più di due ore, quindi ne è uscito pacificamente per la stessa via. — Ma, e chi l’ha visto? chiese zio Pasquale, non potendosi convincere di quanto aveva sentito dire. — Chi l’ha visto ha gli occhi buoni, e non ha nessun interesse a dire una cosa, quando non è vera; chi l’ha visto, proseguì zio Taneddu, voltandosi intorno ed abbassando la voce, è Ciccio Maria, il mio servo. — Ah, brutta strega! — Mala femmina! — E don Zua, quel babbeo, che se ne sta a Nuoro ad acchiappar le mosche; se avesse continuato a fare il fatto suo qui, a Mamojada, l’avrebbe pensata meglio. Ha tagliato quei noci, che sembravano castelli! e venduti poi.... per una miseria.... per un boccone di pane! Piante, che un anno con l’altro, davano tanto frutto, da campare una famiglia. — È predestinato, è predestinato, ripetè in cantilena zio Pasquale, e contro il destino ci può Dio solo! — Io so che gli hanno fatto anche delle lettere anonime, disse zio Taneddu, dove gli raccontavano tutti questi fatterelli. — Ed egli? — Egli non ci ha creduto, e non si è neanche curato di venire ad accertarsene. — Che cosa gliene importa? aggiunse malignamente zio Salvatore; egli ha lasciato un buon fattore, per zappare la vigna, il brigadiere ha buoni fianchi e non si stanca presto. — Si dice che il mese entrante prenda il congedo, e si stabilisca qui a Mamojada. — A far che? chiese zio Pasquale. — A far che? ma non sapete che quello lì, adesso, prende belle migliaia di scudi dalla massa, e con gli scudi farà molte cose a Mamojada! Non lo avete visto sempre, che i forestieri nel nostro paese, trovano il paradiso terrestre, e ci mettono radici? Vedrete, vedrete! — Povero don Zua! conchiusero i tre vecchietti, alzandosi, ed abbandonando la piazzetta, che il ballo era finito, e tutti sparivano chiacchierando e ridendo forte, nelle viuzze strette che andavano a grado, a grado, riempiendosi d’ombra. XXXII. — Spergiura! spergiura! traditrice! aveva gridato don Zua, pallido come il fior della cenere, strappandosi i capelli; spergiura! e singhiozzante s’era buttato sul lettuccio, nascondendo il volto fra i guanciali. Margherita, la serva fedele, con gli occhi lacrimosi, in un canto, rispettava silenziosa quell'ineffabile dolore. La causa della disperazione dello sventurato don Zua, era facile comprenderla. Boella, dimentica delle promesse fatte, aveva accolto le proteste d’amore del bel brigadiere, e si era a lui fidanzata. Il brigadiere si era congedato, e fra poco si sarebbero celebrati gli sponsali. Questa notizia si era sparsa in un momento a Mamoiada; e sebbene sul principio non ci si prestasse fede, nessuno ne ebbe più alcun dubbio, quando, una domenica mattina, il rettore lo annunziò pubblicamente in chiesa. Fu allora che Margherita, senza attendere oltre, era corsa a Nuoro, e ne aveva dato la notizia a don Zua, che ne era rimasto schiacciato. Le lagrime, presto, si inaridirono nei suoi occhi, nè più un lamento gli uscì di bocca. Il dolore lo aveva soprafatto, al punto che non aveva più forza di piangere. — Ed ora parmi inutile che lei continui a starsene a Nuoro, osò dire Margherita, a me parrebbe bene che se ne tornasse a Mamoiada, ove la sua presenza è necessaria; lei sa meglio di me che l’occhio del padrone ingrassa il cavallo; tutte le sue terre han bisogno di essere vigilate, perchè, si sa ciò che se ne trae, quando sono affidate a mani estranee. Don Zua sorrise mestamente. Che gli importava più delle sue terre? non aveva egli perduto tutto, perdendo Boella? sarebbe potuto vivere a lungo senza di lei? — Non mi risponde niente? insistè Margherita. — Che vuoi che ti risponda? fa tu, disponi tu, per me è indifferente, restare o partire, la mia vita non può avere più speranze, non più piaceri, non più sogni d’amore; mi ha portato via tutto, eppure io l’amavo tanto! Ma perchè tradirmi così vilmente, perchè lusingarmi, perchè farmi vivere nella speranza del suo amore? Oh, donna vile, quanto t’amai, ora t’odio e ti disprezzo! — Glielo aveva ben detto io, che quella ragazza l’avrebbe fatto piangere! io la conosceva, perchè avevo più esperienza di lei e.... — Taci, Margherita, taci, per pietà; non parlarmi più di lei, fa conto che io non l’abbia mai conosciuta, mai amata.... forse riuscirò a dimenticarla, forse le perdonerò anche tutto il male che mi ha fatto. — Don Zua, il perdono è delle anime grandi, è una azione degna di un cuore come il suo; Dio castigherà la cattiva azione e premierà la buona. — Dio! sempre Dio! ma chi è dunque questo Iddio che gode nel veder soffrire una povera creatura che non lo ha offeso, una creatura che non ha nessun torto... tranne quello di aver troppo amato? Dov’è questo Dio così giusto, così pietoso, così clemente? orsù, dimmelo tu che ci credi, tu che lo adori; dimmelo, orsù, dimmelo perchè io lo rinnego! E son io che parlava di perdono! perdono per chi? per una scellerata che ha distrutto il mio cuore, facendosi beffe di me, dell’amor mio! no, il mio perdono sarà la vendetta, implacabile, crudele; sì, crudele, come fu lei; dovessi morir di fame, dovessi chiedere da sfamarmi ai miei nemici, dovessi morire in mano del carnefice, lei non sarà felice, lo giuro; lo giuro per la memoria di mia madre! Margherita rimase sbigottita dalle parole di don Zua, credendo che egli avesse perduto la ragione, e si fece il segnale della croce. Zua capì il pensiero di lei. — Rassicurati, Margherita, rassicurati, io non sono pazzo, sono infelice, sì, niente altro che infelice; eccomi ora nuovamente calmo, il dolore mi aveva fatto un po’ esaltare; ma vedi, adesso son ritornato tranquillo. Partiamo dunque, poiché vuoi così, è giusto che i miei compaesani, i miei congiunti, quei nobili avidi di novità, godano l’ultimo atto del dramma. Anche questo era destino. XXXIII. Sebbene don Zua fosse entrato a Mamojada, di notte, pure la notizia non durò molto a propagarsi, e l’indomani tutto il paese lo sapeva. Lo seppe anche Boella; ma non se ne impensierì. Non ne morrà, aveva pensato; un’altra, fra poco, occuperà il posto che avevo io nel suo cuore, e tutti saremo contenti. Lei non doveva sposare un uomo che non amava; se un giorno gli aveva promesso di sposarlo, aveva avuto troppa fretta, e s’era lusingata perchè don Zua era nobile; ma poi ci aveva pensato sopra, e s’era accorta che non lo avrebbe potuto amare mai. Così ella cercava di giustificare, verso sè stessa, la cattiva azione che aveva fatta. Mancavano ancora pochi giorni al dì degli sponsali, ed in casa di Marco Santoru si impazziva per i preparativi. Tutta la casa era stata imbiancata a nuovo, ed avevano dato la tinta alle finestre ed alle porte. In cucina non si accudiva ad infornare pani dolci, e mille altri pasticci. Per l’occasione erano state reclutate tutte le amiche di famiglia. Il lavoro era stato distribuito, e chi impastava la farina, chi la gramolava, chi ne foggiava i pani in mille guise. Filomena Dringhili era la direttrice. Bisognava vederli quegli uccelli di pasta, che pareva volessero spiccare il volo, via dal canestro; quei pesci dorati che facevano pensate al mare; quelle rose, quei fregi, quegli ornati, fatti con impareggiabile maestria! Centinaia di cuori di pasta, ridotta a fogli sottilissimi, come la carta, ripieni di pasta di mandorle, punteggiati con succo di prezzemolo e di zafferano; diecine, ventine di canestri, pieni di torte, cariche di farfalle dorate e d’uccelletti variopinti; i papassinos (pani dolci fatti con farina, mandorle, noci ed uve passe) con la loro cappa bianca, di zucchero, come canonici con l'ermellino; i gattos (nome forse derivante dal francese chateau, appunto perchè a questo genere di dolci, fatti di mandorle cotte col miele e con lo zucchero, si dà la forma di castelli di chiese ecc.) con le loro torri oscure, con le loro guglie, con le loro cupole corruscanti d’orpello, adorne di grosse confetture; in fine mucchi giganteschi di biscotti, di amaretti, e di mille altre lecornie. Boella con le maniche rimboccate, mettendo in mostra il candore di due braccia adorabili, correva dall’una all’altra, aiutando tutte, assaggiando ogni cosa, scherzando, folleggiando come una bimba. Tutto quel lavorio era per lei; oh! non avrebbe certo sfigurato, il babbo lo aveva detto che non voleva badare a spese, perchè di figlie da maritare ne aveva una sola, e perciò voleva che la festa fosse stata proprio di lusso. Egli, zio Marco, s’era incaricato di preparare i vini, e ne aveva saputo stanare dei buoni! In un magazzino che gli serviva di cantina, nereggiavano allineati, con le loro etichette bianche, e con tanto di tappo sigillato con ceralacca, centinaia di bottiglioni e di damigiane. Dentro a quelli c’era il vecchissimo di Oliena, il quale da nero era diventato bianco, pieno di potenza, come il cognac; il gradevole vino dell'Ogliastra del color del rubino; la vernaccia di Solarussa e di Siniscola, bionda come l’ambra; la malvagia di Bosa, indimenticabile dopo che s’è bevuta; il moscato d’Alghero, dolce come un bacio di fanciulla; il nasco e la monica del Campidano di Cagliari, e quanto di più scelto, e di più squisito, avessero potuto dare le viti tanto preziose di tutta la Sardegna. Don Zua, dopo il suo ritorno a Mamojada, s’era rinchiuso nella sua cameretta, e non ne era più uscito. Margherita qualche volta osava entrare da lui con qualche scusa, tentando di farlo parlare, di farlo uscire dal mutismo al quale s’era condannato; ma era fiato perduto! L’infelice viveva in un altro mondo, nè si accorgeva della presenza di Margherita, non muovendosi che per versarsi colmi bicchieri, di acquavite, che trangugiava di un fiato, cercando, in quella bevanda perniciosa, l’oblio dei suoi dolori. Una notte don Zua aveva bevuto più del solito. Fuori il vento fischiava lugubre, fra i rami ischeletriti degli alberi, ed un nevischio fino, turbinando copriva a poco a poco i tetti, e le strade del paese. Dagli occhi di don Zua uscivano foschi lampi, e la sua faccia livida era increspata da un sorriso feroce. Si alzò d’improvviso dalla sedia e battendo un pugno sul tavolo, con l’occhio fisso nel vuoto, balbettò raucamente: — Boella Santoru, vivi felice col tuo diletto, finchè ne avrai il tempo; tu hai voluto lacerare, distruggere il mio cuore; ebbene, vedremo se saprai distruggere la potenza dell’inferno! Al rumore del pugno battuto da don Zua, sul tavolo, Margherita, la quale sonnecchiava accanto al focolare, si svegliò di soprassalto, ed accorse alla camera del padrone. — Ha chiamato? — No, cioè si; hai foraggiato il cavallo? — Sissignore, rispose tremante la vecchia, vedendo la faccia scomposta di don Zua. — Bene, nel mentre che io vado a sellarlo, preparami la bisaccia, con un pò di pane e formaggio, e due bottiglie d’acquavite. — Ma, scusi, è diventato matto? dove vuole andare con la notte che fa? — Margherita, tu sai che quando io decido una cosa nessuno può arrestarmi dal farla, questa volta poi non mi fermerebbe neanche Dio. — Ma lei morrà! — Morrò? disse don Zua con un sogghigno; femminuccia! credi dunque che io morrò perchè tira un pò di vento, perchè la neve cade ghiacciata? ma non sai che io brucio, che dentro a me c’è un fuoco che mi divora, un fuoco che mi sosterrà fino a quando il mio odio, la mia vendetta non sarà soddisfatta; fino a quando non vedrò con questi occhi, morire chi ha distrutto la mia felicità? Oh, sì, allora morrò, allora solo sarò felice di finire questa misera vita! Va, Margherita, obbedisci. Un colpo di vento sbattacchiò con violenza il portone dietro a don Zua; ed egli con una bestemmia si pose in cammino, colla sola compagnia del suo fido fucile, e della violenta passione che gli bruciava il cervello. Della sua partenza misteriosa non se ne accorse neanche zia Chischedda, la quale, sebbene avesse l'orecchio fino, non aveva potuto sentire lo scalpitìo del cavallo, attutito dall’alto tappeto della neve caduta. XXXIV. Cammina! cammina! era la voce della fatalità che perseguitava l’Ebreo errante; cammina! cammina gridava a don Zua, il desiderio della vendetta. E via, per viottole scoscese, per boschi intricati, per pianure fangose, spinto dalla furia del vento, flagellato dai ghiacciuoli che la bufera gli sbatteva in faccia, quasi per schernirlo. I bagliori dell’alba lo scossero dai suoi pensieri dolorosi, appunto quando s’internava nel foltissimo bosco di Montemannu vicinissimo a Sorgono. La paura che qualcuno lo vedesse, ed un senso di pietà verso il suo povero cavallo, il quale aveva già camminato quasi dieci ore, senza prender mai respiro, lo spinsero a fermarsi. Il biancore pallido del mattino, penetrando fra i rami spogli di foglie, completamente coperti di neve, dava alcunchè di fantastico e di misterioso al bosco. Il vento era cessato, ed un silenzio sepolcrale era subentrato agli schianti furiosi e rimbombanti della bufera. Le lunghe ghirlande dell’edera, intrecciate da una pianta all’altra, e coperte di neve, avevan prese mille forme di merletti fini, candidissimi, ed accrescevano originalità a quei rami bianchi di alabastro, simili alle stalagmiti di una grotta, ove da cento secoli, non fosse penetrato il piede umano. La grotta di Nettuno ad Alghero, si sarebbe disabbellita, in quel momento, agli occhi di un osservatore che poco prima avesse visto la foresta di Montemannu, coperta dalle nevi di dicembre, in quel quieto pallore dell’alba. Ma don Zua era insensibile a quelle bellezze fantastiche della natura! Egli, con l’occhio esercitato dell’uomo della campagna, in breve seppe scoprire un luogo nascosto e riparato, per potervi passare, non visto, la giornata, e ne prese possesso. Colà, la macchia era tanto folta, che la neve non vi era potuta penetrare. Sotto agli ampi macchioni di corbezzoli, dai frutti vampanti, nel verde lucido delle foglie, era a metà nascosta una specie di spelonca, formata da parecchie rocce sovrapposte l'una a l’altra, così bene, che ci si poteva stare al sicuro, da qualunque uragano. Don Zua liberò il cavallo della sella, lasciandogli pascolare liberamente la molle erbetta, che cresceva sotto alle macchie del lentischio e del corbezzolo; ed egli acceso un buon fuoco nella spelonca, per sgranchirsi le membra intirizzite, dopo aver bevuto abbondantemente dell’acquavite, oppresso dal sonno e dalla stanchezza si addormentò. Qual era la meta di don Zua in quel viaggio? forse la chiesa campestre di San Mauro, nella speranza che il Santo miracoloso gli ridonasse l’amore di Boella? Oh no certo, don Zua da qualche giorno non credeva più alla potenza di Dio e dei Santi. Egli, vedendo inutili le sue preghiere ferventi, s’era votato corpo ed anima al diavolo, e nella foga della disperazione, la sua mente, correndo alle superstizioni del volgo, si era ad un tratto persuaso intimamente, che ciò che non aveva voluto fare il cielo dopo tante preghiere, lo avrebbe fatto la strega di Allai, per la miseria di pochi scudi. Allai (I) è un paesello nel centro della Sardegna, tra Samugheo e Fordongianus fabbricato (I) M. Valéry nel suo libro Voyages en Sardaigne parlando di Aliai dice: « A une heure de Fordongianus est le petit village d’Allai, de cinq cents habitants, mal saine, peu agrèable, au fond d’une vallèe quasi sulle sponde del Tirso, è celebre per la sua miseria, per le sue febbri micidiali, per l’argenteria della chiesa, la quale dicesi provenga dall’antico villaggio di Barbaggiana, ora distrutto, e per una famosa strega, la quale dicevasi avesse corrispondenza col diavolo in persona. La fama della strega era volata per tutta l’isola, e dai punti più lontani accorrevano segretamente a lei, per consultarne gli infallibili responsi. La vecchiarella dispensava ai credenzoni, che andavano a consultarla, ricette, polveri misteriose, fiale miracolose, mostricciatoli di cera, o di cenci, o di sughero, trafitti con spilli, in questa o quell’altra parte del corpo, a seconda del sortilegio. Chi veniva a lei con qualche scudo in tasca, o con un cavallo di provviste, era sicuro di tornarsene indietro soddisfatto; ma tutto ciò con la più gran segretezza, perchè altrimenti l’evocazione non avrebbe avuto effetto, e le conseguenze del sortilegio sarebbero state nulle. Con tali raccomandazioni, la vecchia fattucchiera si metteva al sicuro, dalle indagini della polizia, e dava maggior importanza alla sua arte misteriosa. que forment quatre monticules. Une tradition rapporte que l’argenterie de la paroisse provient de l’ancien bourg de Barbaggiana abandonnè, détruit, elle peut ainsi offrir quelque interét sous le rapport de l’art. Don Zua aveva dormito buona parte della giornata, e si era destato intirizzito dal freddo, perchè il fuoco, già da lunga pezza, erasi spento. Soddisfatto che la giornata fosse passata senza che egli se ne fosse accorto, ravvivò il fuoco, e mangiò un poco delle provviste che gli aveva preparato Margherita. Il cielo si andava coprendo di certi nuvoloni neri, ed una tramontana frizzante intirizziva le membra. — Coraggio, disse a sè stesso don Zua, sarà questo l’ultimo sforzo; fra sei ore avrà deciso il destino; e si preparò a riprendere il suo viaggio. Quella fu una notte terribile! In tutto il Sarcidano, e in tutto il Mandrolisai la ricordano ancora con spavento, e si fanno il segnale della croce quando ne parlano. Nei paesi crollarono le case a centinaia, molti campanili caddero, atterrati dal fulmine; nei boschi, le piante secolari sradicate come giunchi, e i fiumi strariparono, travolgendo tutto, nella furia delle onde. Come si salvò don Zua? Neanch’egli sarebbe stato buono a raccontarlo! Fu la fatalità! pensò mentre in lontananza cominciava a distinguere il paesello illuminato, a volte, da un pallido raggio di luna che tratto, tratto, veniva offuscato da certi nuvoloni neri, fuggenti; ultimi avanzi dello spaventevole temporale allora quasi cessato. Chiunque fosse andato ad Allai, sebbene non vi fosse passato mai, era certo di non sbagliare, cercando l’abitazione della maga. Ognuno era informato a puntino sulla località ove era situato l’alloggio misterioso, il quale aveva fatto correre dei brividi freddi per le ossa a molti, al solo pensiero di dovervi entrare. Tutti la dipingevano allo stesso modo, solitaria, sopra un’altura, quella casetta di mattoni crudi, di fango impastato con paglia; quasi cadente, con un finestrino circolare affumicato, e con la porticina nera e bassa, dove non vi passava neanche un nano. Sul tetto come la fuliggine ci si posava tutte le sere una coppia di gufi, bianchi, come la faccia della morte, e vi ripetevano per più ore il loro luttuoso singulto. Ogni buon cristiano del paese, obbligato a passare per di là di giorno, si faceva il segno della santa croce, e mormorava sotto voce una avemaria; di notte poi non vi era barba d’uomo che osasse avvicinarcisi. La maga era contenta di quelle vane paure; perchè in tal modo, i compaesani, tutti pezzenti, non l’avrebbero mai disturbata, e lei avrebbe esercitato senza inconvenienti, il suo mestiere, coi credenzoni degli altri paesi. Don Zua al chiarore incerto della luna riconobbe subito la casetta, e vi diresse i suoi passi. Nel paese non si sentiva anima viva; qualche latrato rauco di mastino, e lungi il rombo continuo e minaccioso del Tirso, ingrossato dalla piena, che si frangeva contro le sponde, travolgendo tronchi d’alberi e sassi enormi. Dopo aver legato il cavallo al tronco di un fico là vicino, don Zua si appressò alla porticina e bussò sommessamente. Uno schianto cavernoso di tosse, ed un ringhio sordo di cane, gli risposero. Di lì a poco, sentì un fruscìo internamente, poi lo scricchiolìo della finestra che si apriva. In quel momento una freccia di luna forò le nubi, ed andò a illuminare il finestrino. Don Zua, sebbene fosse coraggioso a tutta prova, rabbrividì, ed i capelli gli si rizzarono sul capo; là davanti a lui, incorniciata dal finestrino circolare, stava la testa della maga; una orribile, ributtante testa di vecchia! — Chi cerca? che cosa vuole? — Cerco di voi, perchè ho bisogno dell'opera vostra, rispose don Zua, che aveva superato quel momentaneo senso di paura. — Allora ha sbagliato strada, disse la maga, dubitando del nuovo venuto. — Son sicurissimo di non sbagliarmi, perchè chi mi ha indirizzato vi conosce molto bene; guardate, conoscete voi questo? e fece vedere alla vecchia una borsetta circolare che egli teneva appesa al collo; questo è il segnale di riconoscimento che a Nuoro mi ha dato Viperona. Non furono necessarie altre spiegazioni; la maga aveva riconosciuto la borsetta di Viperona, la quale era stata sua allieva, e che da Nuoro, ove era sorvegliata dalla polizia, mandava i clienti alla maestra d’Allai, colla quale poi divideva i proventi. — Aspetti, disse la vecchia, e rinchiuse lo sportello, quindi aperta con precauzione la porta, fece entrare Calarighes nel lurido tugurio. Non creda il lettore di trovare nell’abitazione della strega, il corvo spennato, i gufi imbalsamati, i pipistrelli inchiodati al muro, i vasi pieni di vipere velenose, le storte, i lambicchi, i crogiuoli, e quanti altri utensili misteriosi si sarebbero trovati nel gabinetto del Conte di Cagliostro; no, la maliarda d’Allai, non usava che le carte e qualche polvere innocente. Quanta miseria, in quel piccolo spazio! In un canto, un tizzo ardeva lentamente, mandando qualche bagliore all’intorno. Mezzo sepolti fra la cenere un cane ed un gatto entrambi trasparenti per magrezza. Da un’altra parte, vicino al fuoco, un mucchio di cenci, che probabilmente serviva di letto alla strega. Più in là una vecchia cassa tarlata, ed annerita dal fumo, una anfora di terra ed uno sgabello di ferule incrociate. Un pezzetto di straccio acceso, fatto passare attraverso un pezzo di lardo che stava dentro ad un fondo di bicchiere, illuminava cupamente la tana. In paese si diceva che la vecchia, nel suo antro, nascondesse un tesoro; ma che c’era un diavolo incatenato per custodirlo, e guai a chi avesse osato di andarlo a toccare; però le dicerie si fermavano lì: nessuno aveva mai visto nè il diavolo, nè il tesoro. La maliarda, dopo essersi assicurata che nessuno la spiasse nei dintorni, chiuse la porta in silenzio, ed offerse a don Zua l’unico sgabello. — Buona donna, ho poco tempo da perdere; vorrei ripartire subito, perciò prego che vi sbrighiate; e poi quasi tra sè: — se ritardo di un giorno li troverò sposati. Alla vecchia non sfuggirono queste ultime parole, ed abituata a quelle visite improvvide, a quelle ore, di giovani come don Zua, capì per filo e per segno di ciò che si trattava, e pensò che vi era qualche scudo da guadagnare. Quindi facendo finta di non aver capito si accoccolò vicino al fuoco. — Brutto tempo è vero? disse, brutto tempo per noi, poveretti! Quest’inverno, se continua a questo modo, si muore di fame. Don Zua non poteva star fermo sullo sgabello; capì che la vecchia voleva prima i danari, e messa la mano alla borsa ne trasse qualche scudo, che le gettò in grembo. — Dio lo rimuneri, nobile signore: Dio lo rimuneri. — Ma se vi ho detto che ogni minuto per me è contato, che non ho tempo da perdere! — Eccolo servito, disse la vecchia, trascinandosi verso la cassa, e tornando con un mazzo di carte sucide e scolorite. Le mescolò e poi ne gettò tre da una parte e sette dall’altra. Aggrottò le ciglia e disse: — Lei è un amante infelice, e la ragazza che lei ama deve sposare un.... — Brigadiere! esclamò involontariamente don Zua. — Io non posso vedere il grado, le carte non me lo dicono, mi dicono però che è militare: ecco qui il fante di spade. È un bel giovane, più bello di lei — Purtroppo! purtroppo! gemette don Zua, torcendosi le mani. — Devono sposare fra breve, continuò la maga, sempre fissando le carte. — Dite il vero? si sposeranno? — Le carte non lo assicurano; però ci sono molte disposizioni in vostro sfavore. — Oh me infelice! ma per pietà, ditemi, voi con la vostra potenza, potreste scongiurare questo matrimonio? parlate! — Forse, rispose la maliarda con mistero, ma.... Don Zua fece scorrere qualche altra moneta. — Sì, lei merita proprio d’essere ben servito, perchè è generoso come un re; però avrà il coraggio di fare tutto ciò che io gli consiglierò? — Andrei.... all'inferno! — Benissimo, disse la vecchia, intimamente contrariata da quel coraggio. — Benissimo, allora lei è sicuro del fatto suo. Ora stia bene attento alle mie parole: — Lei vuol essere vendicato dell’oltraggio che gli vien fatto? Zua accennò di sì. — Per conseguenza sarebbe contento anche se morissero entrambi? Il giovane stette un pò perplesso, pensando che la Boella del suo cuore sarebbe dovuta morire e poi disse: — Sì, muoiano entrambi, poi toccherà a me. — E sia, mormorò la strega, prima però giuri che manterrà il segreto, e presentò a don Zua un rosario nero. Egli vi pose sopra la mano destra: — Lo giuro per la memoria della mia povera madre. — Ed ora, ci pensi bene, è deciso a far tutto? — Sì, tutto! — Mi dia il suo fazzoletto. — Don Zua glielo diede, e con esso si lasciò bendare gli occhi. — Stia fermo, e non tenti di guardare, perchè altrimenti la magìa non avrebbe effetto. — Zua lo promise. La maliarda allora si avvicinò ad un angolo del tugurio, ne tolse con precauzione la terra che copriva una piccola cassetta, l’aperse, e ne trasse fuori due statuette di cera, malamente plasmate, raffiguranti un uomo ed una donna; quindi rimise tutto nel primiero stato, e permise a don Zua di togliersi la benda. — Ecco, disse la vecchia, una parte della magìa, e borbottando sottovoce delle parole incomprensibili piantò sette spilli, là dove sarebbe dovuto essere il cuore dei due fantocci. — Queste, lei le dovrà sotterrare vicino al limitare della porta degli sposi, in modo tale che entrambi uscendo ed entrando debbano passarci sopra. — Se non è che questo, disse don Zua, contento di una cosa tanto semplice. — Non è tutto; ora resta il più difficile. Perchè la magìa riesca bisogna calmare lo Spirito della notte che la seconda, col sacrifizio dell’acqua del teschio. Lei dovrà andare nel cimitero del suo paese, e quando sarà suonato l’ultimo tocco della mezzanotte, con la mano sinistra dovrà dissotterrare il teschio di una fanciulla sedicenne, morta da due a cinque anni. Don Zua tremava a verga, ed i denti gli battevano per un brivido di freddo, che gli invadeva tutta la persona. — Quando l’avrà dissotterrato, continuò, con voce cavernosa, la strega, lo prenderà, sempre con la mano sinistra, lo bacerà tre volte, facendo il giro della fossa e pronunziando le parole: Satan, gloria, amen; poi uscirà dal cimitero con lo sguardo sempre rivolto alla sepoltura della fanciulla. Tornato a casa farà bollire, per un’ora, il teschio nell’acqua presa da un fiume, e quindi andrà a versarla là dove avrà prima sotterrato le due statuette di cera. Se lei farà appuntino quanto io gli ho detto, l’esito sarà sicuro, gli sposi cadranno morti, prima che abbiano ricevuto la benedizione del prete. E tacque, raggomitolandosi sopra il mucchio dei cenci, vicino al fuoco, sicura che don Zua non avrebbe mai osato di fare quanto gli aveva consigliato; e felice di aver guadagnato, con tanta facilità, una diecina di scudi. Don Zua uscì, con gli occhi stralunati, e con la testa in iscompiglio, dal tugurio, inforcò il cavallo e scomparve silenzioso nell’ombra. Cammina! cammina! gridava anche a lui la voce della fatalità. XXXV. Fin dalla mattina, prestissimo, in casa di zio Marco Santoru, c’era un via vai, un gridìo, uno sbattere di porte, un movimento da non si dire. Zio Marco correva, da un punto all'altro della casa, con slanci da giovinetto. — Zio Marco, manca una caffettiera! — Zio Marco, bisogna preparare i vini bianchi! — Zio Marco, i biscotti dove vanno messi? — Zio Marco, è ora di avvisare il signor rettore. Egli aveva una risposta per tutti, e la sua opera era, per ogni faccenda, immediata. Attorno a Boella vi erano tutte le amiche più intime. Se Filomena Dringhili era maestra nel saper dorare un pane dolce, e nel saper plasmare con la pasta un pesce, od un uccello, non lo era meno, nel saper ben disporre i merletti di una camicia, ed i fili di corallo di una collana. Boella uscì dalle mani di quelle ragazze, bella come un gioiello. Le amiche se la guardarono con compiacenza; e Filomena non potè trattenersi dall’abbracciarla. — Come sei bella così, o Boella! vorrei essere io, il tuo futuro sposo, ti mangierei a furia di baci! — Adulatrice, rispose la fanciulla, arrossendo di piacere per quel complimento, il quale aveva per lei assai valore, appunto perchè fatto da una ragazza, che, per bellezza, non era certo da disprezzarsi. — Il Campidanese ci ha tolto la gemma di Mamoiada, aggiunse con celata ironia, zia Rosaria, la quale era stata partigiana degli amori di don Zua, e che vedeva mal volentieri il matrimonio di Boella col Campidanese, come lo chiamava lei. Don Tottoi Taquisara, l'ex brigadiere, lo sposo di Boella, era infatti di un paese della Marmilla, la qual regione della Sardegna, dai montanari del Capo di Sopra, appunto perchè è una vasta pianura, viene chiamata col nome generico di Campidano. Don Tottoi discendeva da una famiglia di antica nobiltà, però andata a male, e per questo aveva preso la carriera delle armi, la quale, in dodici anni di servizio, gli aveva creato una posizione modestamente comoda. Il naso fino del carabiniere lo aveva aiutato nello scoprire le belle forme della figlia di Marco Santoru; ma quel che lo aveva fermato di più era stato la dote di lei, abbastanza cospicua per un cavaliere caduto in bassa fortuna. E chiudendo un occhio sui natali plebei della sua futura sposa, aveva deciso di appoggiarsi a quella sicura antenna, nelle vicende burrascose della vita, ed eravi riuscito, sacrificandone un altro: il povero don Zua! Quel giorno il sole, dopo tanta neve caduta, splendeva maestoso, dal cielo serenamente azzurro, luccicando sui tetti bianchi, trasformando, ogni sasso, ogni sporgenza, ogni tegola in vero brillante. Ogni momento, un corsetto rosso, od un gonnellino di scarlato, sbucavano dalle viuzze che conducevano in casa di Marco Santoru. Erano gli amici, ed i congiunti invitati, che venivano per il corteo nuziale. Zio Marco Santoru aveva voluto invitare anche i cavalieri. — Mia figlia sposa un cavaliere come loro, disse a Pietro Barraca, il quale gli aveva fatto osservare che lo avrebbero criticato. — Fate come volete, compà. E gli inviti erano stati mandati, scritti con un bel rondino dallo stesso don Tottoi. I cavalieri non si facevano pregare, quando si trattava di mangiar bene, bever meglio, e criticare il prossimo. All’ora fissata nessuno mancava. Si rividero gli stessi cilindri e gli stessi abiti, portati pel funerale di don Pantaleo; qualche riflesso verdognolo di più, e qualche novella opera distruggitrice cominciata dalle tignole; tutto il resto era identico; cioè no, prendo errore, don Simone aveva cambiato parrucca, perciò era costretto a tener continuamente una mano al cilindro, per paura che il crine della parrucca, ancora restio a prender piega, non glielo facesse saltare per terra. Un sagrestano, con la gran zimarra rossa, venne correndo ad avvisare che il rettore attendeva. Quell’avviso di bocca in bocca corse fino alla camera di Boella, la quale ne ebbe un sussulto. Si guardò, ancora una volta, nello specchio, e si avviò in mezzo a due sue cugine, vestite anch’esse da spose, perchè così era il costume (sas accumpanzadoras). Fuori attendeva già lo sposo con gli amici. Egli, secondo le prescrizioni del rettore, da tre giorni non vedeva la bella sposa. Quando gli apparve, raggiante di gioventù, d’allegria e di bellezza, un fremito di voluttà gli corse per la schiena, e non potè trattenersi dal correrle incontro sorridente. La fanciulla chinò il capo ed arrossì ponendoglisi a lato; allora il corteo partì. La messa non fu certamente da sponsali di povera gente. Il rettore aveva messo la cappa delle grandi solennità, e dietro all’altare, l’organo, sotto alle dita di signor Concu aveva avuto dei gemiti, delle modulazioni, dei trilli che avrebbero commosso un macigno. Finalmente l’ora solenne suonò, ed il fatale sì degli sposi fu pronunziato. Finita la messa, cominciarono gli auguri ed i baci in chiesa, e quindi si avviarono. Dalle finestre e dalle porte fu un piovere continuo di piatti di grano addosso agli sposi. Mentre don Simone aveva, per un istante, abbandonato la falda del cilindro per soffiarsi il naso, si ebbe una bella manata di grano in testa, ed il preistorico tubo andò a rotolare in mezzo al fango. Signor Vittorio, il quale guardava in alto, per ripararsi da un possibile colpo di piatto gli passò sopra schiacciandolo senza pietà. Don Simone diede un gemito, e per il resto della giornata non ebbe un sorriso. Come avrebbe fatto per l'avvenire? e di quei cilindri, certo, non ne vedevano più; che pelo! che leggerezza! In casa di Marco Santoru fu un vero assalto ai dolci, ed i vini corsero a rivi. I doni (sos presentes) si succedevano senza tregua; per lo più consistevano in un canestro di grano, nel mezzo al quale era a metà sepolta una caraffina di vino bianco, avente per turacciolo un mazzo di fiori. Le amiche della sposa, oltre al grano, le mandavano belle coppie di galline bianche con ricchi nastri al collo e con pendenti cuciti ai bargigli, e colombi e tortore infiocchettate. I pastori giungevano portando sulle spalle, bei montoni con le corna dorate, e deponendoli in terra auguravano agli sposi di possederne a migliaia. Qualche orfeonista non mancava, e spasimi di fisarmonica si sprigionavano da tutte le porte e da tutte le finestre. Il pranzo fu qualche cosa di indimenticabile! C’erano i porcellini di latte, gli agnelli teneri, le pernici squisite, le beccacce impagabili, le trote del Gologone, le anguille del Grumene, e chi più ne ricorda più ne dica. Certo è che il rettore, sotto la sottana, aveva sbottonato il panciotto, allentato i calzoni e le mutande, allargato la fascetta, e si faceva vento con la salvietta, cercando di portare un pò di refrigerio al sotto-barba, imperlato dal sudore. Erano delle sbuffate generali, dei gorgoglii grassi, dei visi paonazzi; uno sbracalìo che non si era mai visto, neanche dinanzi ad un consiglio di leva. Signor Vittorio, neanch’egli ci mancava al pranzo, fece un tentativo di epitalamio; ma fu obbligato a ricacciarlo in gola, appunto perchè lo aveva prevenuto don Ciriaco, il quale dopo aver mangiato da vero sacerdote della pancia, cominciando con un gemito, aveva finito per essere portato fuori dai due collaterali, appunto perchè era stato troppo.... eloquente. Ciò produsse un momentaneo disturbo, a tavola, e signor Vittorio perdette il filo delle idee. In piazza, una folla di poverelli, scaldandosi al sole, attendevano ansiosi gli avanzi del suntuoso pranzo, solleticati dai profumi che uscivano dalla cucina di Marco Santoru, e quasi prendendo parte a quell’allegria, a quelle risate clamorose, a quel gridìo lieto, che prorompeva fuori, come un torrente, ogni volta che si apriva la porta, per recare nuovi cibi, e nuovi vini a quei pantagruelici. Dal cielo azzurro, il sole riversandosi a torrenti, dentro alle finestre spalancate, illuminava il banchetto, lasciando pietosamente nella penombra gli sposi, i quali sotto al mistero della tovaglia, avevano cominciato ad intessere l’idillio, intrecciando le mani. XXXVI. — Nostra Signora del Carmine! esclamò Margherita, quando vide, a notte, tornare don Zua, bianco più della neve, che copriva il terreno, infangato, stracciato più di un pezzente; — sembra un morto! lei è certo ammalato; vede che vuol dire non dar retta ai vecchi? chi sa, chi sa dove sarà andato! e tutto per chi? per una civetta che non è degna neanche di guardarlo in viso! — Per carità, Margherì, non ricominciamo, io sto benissimo; ho un po’ di freddo, ecco; null’altro. Accendimi un buon fuoco, e dammi un bel bicchiere di quell’acquavite meravigliosa. — E dalli, con quel veleno d’acqua vite, non lo sa, non se n’è accorto che lei non la può sopportare? prenda piuttosto una chicchera di caffè, l’ho fatto poc’anzi, se sentisse, che profumo! — Sii compiacente, Margherita, il caffè non mi lascierebbe dormire, mentre ho bisogno di riposo, sono andato tanto lontano, sai. — Come vuole che io sappia dove è andato? io in casa ci sono come la scopa; mentre se mi avesse dato retta.... ma, basta, non ne parliamo più, che è meglio.... però lei quel gran dolore non lo avrebbe avuto! — Hai ragione, hai ragione da vendere; ma che vuoi trarne tu da un matto? allora io era matto; però mi servirà di lezione per un’altra volta. — E quando si sposa quella gente? — Mah! comare Chischedda, mi disse, ieri sera, che si sarebbero sposati domani; e.... poiché l’ha detto, dev’esser vero. — Domani.... buona fortuna! disse Zua con un sorriso strano. — Ci sono invitati tutti i cavalieri ed i signori; e che lusso, mi diceva, cose, cose che non si erano mai viste, in paese! Don Zua non ascoltava più; il pensiero della sua prossima vendetta lo preoccupava interamente. Margherita cercò di trarlo un’altra volta da quel mutismo; ma perdette la fatica, Zua si ritirò d’umor nero, senza neanche augurare a Margherita la buona notte. — Sempre la stessa idea, disse a sé stessa Margherita, sempre lo stesso amore di prima, e la stessa disperazione. Ha un bel dirmi che è guarito! già, come se io fossi nata ieri l’altro! ho paura che quel ragazzo.... Dio mio, Dio mio, toglietegli voi dal capo quell’idea! Don Zua, quando fu solo, si buttò sul lettuccio e pianse. Una lotta terribile succedeva nel suo cuore. Fra poche ore egli avrebbe dovuto essere l’assassino di colei che tanto aveva amato, e che tanto amava ancora; sì, perchè l’amava, perchè quella figurina gentile l'aveva sempre là, davanti agli occhi, scolpita nel cuore. Quegli occhi eternamente sorridenti, pieni d’incanti, quegli occhi che lo avevano guardato dolcemente, che gli avevano detto mille cose divine, che gli avevano insegnato ad amare, quegli occhi indimenticabili! e fra poco egli li avrebbe fatti chiudere per sempre! Addio sorrisi, addio incanti, addio amore! La morte li avrebbe resi vitrei, immobili, senza scintille, senza lampi di voluttà, d’amore, di passione! Quella pupilla appassita, quel pallore di cadavere nelle sue guancie, poco prima così fresche, così rosate, così profumate! quella boccuccia sanguigna, coi dentini piccini, piccini, di bambino, sempre pronta al sorriso, muta, muta per sempre, fredda, scolorita, senza profumo! Avrebbe avuto egli il coraggio di diventare, in un momento, così scellerato? Assassino, assassino, gli gridava nelle orecchie, una voce misteriosa, assassino! In un attimo gli passarono attraverso alla fantasia ammalata, la sua pace serena nel lavoro, la tranquillità della sua vita campestre, rubatagli dagli occhi ammaliatori di Boella, le parole lusinghiere di lei, le promesse, i giuramenti, il suo vile tradimento, per anteporgli un altro che non l’amava come egli l’amava. Allora l’odio prevalse sull’amore, l’ira fece tacere qualsiasi sentimento di pietà, di indulgenza, di perdono, per Boella; la passione della vendetta prese forme gigantesche nel suo cuore, diventò un delirio, una frenesia. Mancava poco alla mezzanotte; il cimitero era là, a due passi dal paese; ma don Zua non volle perdere tempo. Uscì senza far rumore per non svegliare Margherita, e nascondendo una piccola zappa, sotto agli abiti, si avviò. Tacevano le voci degli uomini e dei cani! Una luna chiara e limpida si rifletteva dal cielo, sul pallore della neve caduta, inargentando le cose. Qualche nuvolone nero come l’inchiostro, incalzato da una tramontana frizzante, fuggiva, fuggiva, macchiando di grandi ombre passeggere la terra. Quell’albore lunare, quel silenzio, quelle ombre fuggenti, mettevano i brividi addosso allo sventurato don Zua. Arrivato al muro di cinta del cimitero lo scavalcò, saltando leggero sulla neve. Due anni prima era morta la figlia sedicenne di don Eusebio, e don Zua aveva pensato a quel teschio, per mandare ad effetto la malìa. La tomba era laggiù, vicino all’angolo che serviva d’ossario nell’abbandonato cimitero; e non eravi altro mezzo, bisognava arrivare fin là. Quelle centinaia di croci nere, ritte sull’immenso lenzuolo di neve, pareva che tutte gli tendessero le braccia per scacciarlo, e i suoi passi scricchiolanti sulla neve ghiacciata gli parevano delle voci sommesse, lamentevoli, che uscissero di sotterra, rimproverandogli quella profanazione. Le gambe gli tremavano, ed un sudore freddo gli rigava la fronte. Stette alquanto in forse pensando se dovesse tornare indietro; ma allora gli tornò in mente la sua vendetta incompiuta e riprese coraggio. Come potè arrivò alla sepoltura designata. Dall’orologio della parrocchia i dodici tocchi della mezzanotte squillarono lugubri, e si ripercossero tristemente nel cuore di don Zua, che cominciava ad essere invaso dall’orrore. Facendo uno sforzo su sè stesso diede il primo colpo di zappa, che rintronò secco nelle mura del cimitero; poi il secondo, il terzo, altri dieci, altri cento. La fossa era quasi scavata, e nell’oscuro della terra smossa, biancheggiò un teschio. Don Zua stese la mano per prenderlo; ma uno strano senso di ribrezzo lo trattenne. In quel momento una nuvoletta oscurò la luna, proiettando la sua ombra fugace sull’ossario. L’occhio immoto di don Zua la fissò con spavento. Ed ecco dall’angolo d’onde i teschi guardavano con le grandi occhiaia vuote, muovere l’ombra nereggiante, indefinita, che si disegnava lunga, lunga, sulla neve, colle forme di un grande scheletro avvolto in un manto funereo. Don Zua, tutto tremante tentò di rizzarsi per veder meglio l’ombra. La prima sua idea fu di fuggire; ma egli non aveva più il potere di muoversi; si sentiva inchiodato là, come una croce piantata nel suolo, continuando a fissare irrigidito l’immane fantasma, che si avanzava, si avanzava sempre, aprendosi la via fra le croci, le quali, parvegli, agitassero le braccia nere con forza, con violenza, quasi con rabbia, come se facessero mille sforzi potenti, per uscire fuori dal suolo, e correre, assieme all'ombra, contro di lui. Mille gemiti, prima vaghi ed indefiniti, poi più chiari, più vibrati, gli parve si sprigionassero da tutte quelle sepolture che lo circondavano, ed egli veniva vieppiù invaso da un intirizzimento, da una vera sensazione di ghiaccio che gli stringeva il cuore e ne impediva i suoi palpiti. Le ginocchia gli vacillavano, un gelido ribrezzo gli serpeggiò in ogni fibra, e tutta l’anima sua fu presa da orrore. L’ombra gli si avvicinava sempre. Quando non fu che a due passi da lui, egli fece uno sforzo supremo per divincolarsi da quella stretta invisibile, che lo teneva fermo a quel posto; volle gridare, volle fuggire, alzò le mani verso il cielo, chiedendo pietà, tutto il sangue gli affluì d’improvviso al cervello, e cadde rovescio dentro la fossa scavata. XXXVII. Zame Laddara, il beccamorti, non aveva perduto la sua parte, nel pranzo degli sposi; anzi, per toglierselo presto di mezzo, lo avevano servito molto abbondantemente, e prima di tutti gli altri poveri, che attendevano nella piazzetta, della casa di Marco Santoru. — Non so perchè; ma quell’uomo mi fa ribrezzo, disse zia Agata tornando, dopo aver mandato via contento Zame, — e poi, quest’oggi, la sua figura, in questa casa, mi sembrava di cattivo augurio. — Meschino, poveretto! — esclamarono alcune donne che lavoravano in cucina. Zame Laddara, rodendo con due denti superstiti, un gran pane dolce, si avviò al cimitero, chè doveva scavare una fossa, per una bambina morta nella mattinata. Sebbene fosse da molto familiarizzato coi morti e col cimitero, quando vide in lontananza il corpo di don Zua, ebbe sul principio una strana paura. Poi ridendo di sè stesso si avvicinò e toccò, quel corpo irrigidito. Don Zua! morto! possibile! Si chinò sul cadavere, lo scosse, lo toccò, non vi era dubbio! Già da molte ore la morte aveva portato nell’infelice la sua pace eterna! Povero don Zua! si ha scavato la fossa da sè stesso e poi s’è ucciso, pensò Zame, forse si sarà ucciso per non vedere Boella in mani a un altro; che matto! Dio ci dà la vita e noi ce la togliamo. Dopo aver coperto il cadavere di don Zua, col manto funebre che si dava per il seppellimento dei poveri, corse a darne avviso al Sindaco. Questi, finito il pranzo nuziale, eccitato dai fumi dei diversi vini, si riscaldava in una argomentazione teologica col rettore, il quale sarebbe andato molto volentieri a letto; ma che per salvare le convenienze ascoltava mezzo addormentato le chiacchiere insulse del sindaco. — Domandategli ciò che vuole, rispose seccato ad una serva, la quale era entrata per annunziargli che il beccamorti lo richiedeva per un negozio di somma importanza, e riattaccò il discorso. La serva tornò tutta spaventata: — Ha trovato morto don Zua Calarighes, nel camposanto! Fu una sassata in un alveare! Tutti si alzarono, abbottonandosi, in fretta, i calzoni e i corpetti; volevano uscire contemporaneamente; tutti volevano sapere. In un momento la sala da pranzo restò deserta, e la comitiva mezzo ebbra, dalla festa nuziale corse al cimitero. — Poveretto! disse Boella guardando dolcemente lo sposo. Egli le prese la testa fra le mani e la baciò a lungo in bocca. Il sole si era pudicamente nascosto dietro una nuvoletta bianca, lasciando l’angolo, dove erano gli sposi, naufragante in una propizia penombra. Fine