BIBLIOTECA SARDA DIRETTORI COMM. SALVATORE DELOGU, CAV. ENRICO COSTA, AVV. ANTONIO SCANO Vol. I. DON ZUA ANT. BALLERO DON ZUA STORIA DI UNA FAMIGLIA NOBILE NEL CENTRO DELLA SARDEGNA Vol. 1. SASSARI GIUSEPPE DESSÌ 1894 A TITÌ. Perchè i nobili di Mamoiada non credano che io abbia voluto offenderli scrivendo questo libro, che si occupa dei loro costumi e delle loro usanze, amo dichiarare che ho attribuito a quel caro e gentile paesello tipi studiati in diversi paesi del centro dell’Isola, e ciò puramente per le esigenze del racconto. Dopo tale dichiarazione spero che nessuno vorrà riconoscere sè stesso fra i personaggi del Don Zua; che, se alcuno avrà da risentirsi con l’autore, sarà solamente perchè non è stato troppo felice nel narrare la storia pietosa del povero patrizio sardo. Nuoro, 1893. Antonio Ballero I. Sebbene fossero già le cinque del mattino nel grazioso paesello di Mamoiada si dormiva ancora della grossa. Quell’anno l’inverno aveva fatto un ingresso solenne, con una nevicata che lasciò imbiancati per qualche giorno, i tetti e la campagna, e a tutti piaceva stare mezz’ora di più sotto il tepore delle coltri, o sopra una buona stuoia distesa accanto al focolare, secondo la consuetudine della maggior parte dei popolani sardi. Era di domenica, perciò una ragione maggiore per fare uno strappo all’orario consueto, e per godere qualche minuto in più di riposo. Un bagliore incerto di stelle rischiarava appena le viuzze anguste e tortuose del paesello; e le case, non imbiancate, coi loro tetti scuri, nereggiavano cupamente, nello sfondo d’argento, di un cielo limpido e stellato, che a mano a mano andavasi tingendo col biancore dell’alba. Lo scalpitare sollecito di un cavallo, sopra il ciottolato ineguale della via principale di Mamoiada, risuonò in lontananza. Si fece mano, mano, più vicino, tanto che non sembrò che a pochi passi; qualche secondo dopo, alla svolta della strada, apparve un cavallino piccolo e allegro, tutto fumante, montato, senza sella, da un contadino incappucciato. Il passeggiero mattutino si fermò dinanzi ad una casa bassa, con piccole finestre, munite di grosse inferriate, e con un salto leggero, smontò da cavallo; si soffiò ripetutamente sulle dita, pestò i piedi per terra, e borbottando una imprecazione contro quella brezza mattutina, troppo frizzante, a mala pena, perchè aveva le mani intirizzite, riuscì a legare il piccolo animale ad una inferriata. Nell’interno della casa un abbaiare rabbioso di cani aveva già segnato l'avvicinarsi di un estraneo. C’erano latrati di tutti i toni, da quello rauco e strozzato del mastino in catena, allo squillante del botolo, piccolo e ringhioso. L’uomo incappucciato si avviò verso il portone del cortile, raccattò un sasso, e con quello picchiò parecchie volte, poi si pose a passeggiare sollecito, su e giù, battendo forte i piedi sul terreno indurito dal gelo. I cani tacevano un istante, poi ricominciavano irati ad abbajare, come se avessero voluto divorare l’importuno visitatore. Egli, vedendo che nessuno rispondeva, bussò ancora più forte e chiamò ad alta voce, chinandosi, ed appoggiando le labbra contro il buco enorme della gigantesca serratura: — Michè, o Michè, Micheeee, donna Clà, o donna Clara! Dum dum..... dum. — Donna Claaaraa!! — Almeno foste tutti morti, borbottò il povero diavolo, che tremava verga a verga pel freddo, bisogna essere proprio sordi come quella vecchia strega di donna Clara, per non sentire! Dum.... dum.... dum.... — Questi almeno li sentirete, brutti cani poltroni! Pare, difatti, che gli ultimi colpi avessero fatto buon effetto, perchè al di dentro si fece sentire una voce rauca di vecchia, che cercava di mettere un pò di silenzio fra i cani: — Passa via, Leo, Fioravà; tè, quà, Colombi, brava, tè, silenzio. Ottenuto un momento di tregua, la stessa voce dal fondo del cortile gridò: — Chi è? — Sono io, donna Clà, apra per San Cosimo, che qui fuori si muore del freddo! — Chi? — O maledetta sorda! Io.... Agostino; ho portato il cavallo! — Qual mastino? — Agostino! urlò dal di fuori l'impaziente. — Ah, Agostino! ora ho capito, aspetta, aspetta, che prendo le chiavi. — Ti prendesse un canchero! brutta sorda, almeno lasceresti per sempre il paese in pace, lasceresti; ma se Dio vuole, questa vita finirà presto; meglio fare il galeotto, piuttosto che servire simile gente! Come se noi non fossimo di carne e d’ossa come loro! Già, perchè sono nobili, perchè hanno quattro centesimi mal guadagnati, vogliono succhiare il sangue dei poveri; ma andate là, pregate che la duri a lungo, chè tanto un accidente non mancherà a voi pure, e così lascerete tutto quaggiù, avaroni sordidi. Mentre Agostino finiva di sfogare la rabbia con questo monologo, un cigolìo di chiavistelli si fece sentire nell’interno del cortile. Finalmente l'ultima stanga fu tolta, ed il portone venne aperto. Donna Clara, con un lungo tizzo ardente in mano, per rischiarare il suo passaggio nel cortile, ingombro di carri, di tronchi, di tavoloni, di canne e di mucchi di tegole e di sassi, faceva stare a posto i cani che volevano avventarsi addosso al nuovo arrivato. — Sei tu, Agostì; sei arrivato da molto? — È più di un’ora che busso, e muoio del freddo. — Ed il cavallo l'hai potuto prendere? — Sì, signora, l’ho preso; ma lo so io quanto mi è costato: fin dalla mezzanotte gli correvo dietro, maledetto ronzino: va, che me le hai fatte stirare le gambe! — Allora sarà sudato, povera bestia, e me lo lasci là fuori a gelarsi, presto, presto, portalo dentro, in istalla, che può prendere un malanno da morirne; e poi vieni in cucina, che faremo il caffè, e ti ristorerai anche tu, brontolone! — Già, il solito caffè, disse Agostino, la posatura bollita e ribollita, bella bevanda; ne faccia cataplasmi a quel sordidone del marito, vecchia strega sdentata! Intanto aveva sciolto il cavallino dall’inferriata, e lo aveva condotto sotto una tettoia; poi stropicciandosi le mani s’era avviato verso la cucina. II. Là c’era proprio ciò che faceva al caso suo. Bastava entrare dentro a quell'immensa cucina, per sentirsi ardere le membra. Agostino entrando si tolse il cappuccio, ed il lungo berretto, e salutò umilmente. Un ceppo gigantesco, una quercia tutta intera ardeva in mezzo al focolare, ampio, di granito, incassato nel pavimento. Le fiamme si sprigionavano dal tronco, crepitando, ora inalzandosi serpeggianti ed ineguali, ora stando basse ed azzurrognole, fra una nube di fumo, mandando bagliori d’incendio sulle pareti affamate della cucina. Il fumo le aveva verniciate di nero, e le fiamme si riflettevano luccicanti su quell’intonaco di fuliggine, lustro come un mobile d’ebano. A quelle pareti stavano attaccati parecchi paiuoli, neri anch’essi, che pareva stessero a metà conficcati nel muro, a guisa di palle gigantesche lanciate da cannoni smisurati; casseruole lucide e corruscanti, come grandi occhi di gatto; tripodi giganteschi, mediocri, piccoli, piccolissimi, a guisa di una famiglia intera, emigrante, di ragni, che fossero stati colti dal freddo, e fossero rimasti là gelati; diecine di spiedi, come grandi vipere attaccate per la testa; graticole, imbuti, coltellacci, vanghe, zappe, un lungo fucile a pietra, ed una gran conchiglia che serviva per corno da caccia. Il tremolare incerto delle fiamme dava anima, dava vita a tutti quegli oggetti, or dilatandone, or restringendone le ombre, tanto che pareva che gli occhi di gatto si dilatassero e si restringessero anch’essi, che i tripodi movessero le gambe, che gli spiedi serpeggiassero, che la conchiglia facesse degli sforzi per muoversi da quel posto, come un gigantesco coleottoro, che volando sia caduto supino, e cerchi di rialzarsi. In un angolo, in fondo, nereggiava una immane bocca spalancata. Dentro a quella bocca c’era un luccichio, un brillare, un lampeggiare di verde smeraldo, di giallo d’oro, di rosso sanguigno; pareva che là in fondo ci fosse una grande coda di pavone aperta, e che gli occhi delle penne avessero splendori di diamante. Quella era la bocca del forno, dentro al quale si era rifugiata una dozzina di gatti, trasparenti per magrezza, con certe schiene ad arco, nodose, con certe code secche, aguzze, come bajonette, nelle quali potevansi contare tutti gli anelli. La ritirata in massa di quelle bestie, condannate al digiuno, l’aveva causata Fioravanti, un magnifico levriero, alto e smilzo, con un muso lungo e sottile, che dimenava la coda cascante e fatta ad arco, leccando le mani d’Agostino. Fioravanti odiava i gatti, e sempre che poteva sottrarsi alla vigilanza di donna Clara, faceva finta di inseguire una lepre, e, con una dentata, stritolava la schiena a qualcuno di quegli scheletri viventi. Il forno era l’asilo più sicuro dei fuggitivi; là dentro la testa elegante di Fioravanti non si avventurava, perchè era sicuro di trovarvi artigli affilati, che difendevano per bene la piazza forte. Agostino si fermò dinanzi al focolare, col berretto in mano, non osando prender posto vicino ai padroni; perchè giusto in quel momento don Taddeo e don Sisinnio, i figli più grandi di donna Clara, si erano messi a sedere sbadigliando e stirando le braccia, sopra la stuoia, dove avevano passato la notte, accanto al fuoco. Don Taddeo, accortosi della presenza del servitore, tra uno sbadiglio e l’altro, si rivolse a lui. — Metti il berretto e siedi accanto al fuoco, Agostì, chè forse ne hai bisogno; sei venuto adesso? — Sì, signore, è una mezz’ora che sono arrivato col cavallo. — Quale cavallo? — Quello che deve servire a Don Zua, per andare a Nuoro. — Ah già, non mi ricordava più che Zua dovrà partire. E dove l’hai trovato? — Stia zitto per carità, che non ne posso più; mi ha fatto correre fino alle tanche di Gonari; saltava i muri come un capriolo, e se non mi avessero aiutato alcuni pastori d’Orani, forse starei a corrergli ancora dietro. — Eh... sì, quel ronzino è un pò vispo; poi era già più di un mese al pascolo, si capiva che doveva essere un pò restio a lasciarsi prendere. — E a che ora dovete partire? — Non lo sò, all’ora che stabilirà don Pantaleo. — Bene; vedremo che cosa saprà fare a Nuoro questo beniamino; mi pare che saranno danari gettati al fiume, sentenziò con asprezza don Sisinnio, che fino a quel momento era stato tutto occupato nello sbadigliare, nello stirar le braccia e nel dinoccolarsi le dita. — Che, vorresti forse che rimanesse ignorante come te? interruppe donna Clara, che in quel momento era intenta a cacciare un pezzo di cencio attortigliato, a mò di lucignolo, attraverso un quadrello di lardo destinato ad ardere, in una lucerna di ferro a quattro becchi. — Se io sono ignorante la colpa non è punto la mia. Perchè se, quando io e Taddeo eravamo ragazzi, fossimo stati inviati a Nuoro anche noi, non saremmo certo nella condizione in cui ci troviamo, incapaci di fare un O con un bicchiere. — Basta, quello era un tempo, e questo è un altro, interruppe donna Clara, punta dalla osservazione del figliuolo. — Fin qui vossignoria ha ragione; ma in una famiglia non si deve fare un figlio ed un figliastro: ecco ciò che dico io. Donna Clara aveva finito l’operazione, ed appressando la lucerna alla fiamma del ceppo ne accese il lucignolo, e la appese ad un ampio graticciato di bastoni, quadrato, che stava sospeso sopra il focolare, carico di grossi formaggi, messi là per prendere il fumo ed il calore. — Agostì, quando ti sarai riscaldato, mungerai la capra, disse donna Clara, rivoltasi al servitore; io intanto preparo una goccia di caffè, che farà passare anche la rabbia a Sisinnio, e prendendo una caffettiera enorme la riempì di acqua e la pose a riscaldare accanto al fuoco. La caffettiera, dopo alcuni minuti, cominciò a brontolare sordamente, poi a cantare in toni diversi, finalmente prese a gorgogliare, sprigionando dal becco una piccola colonna di vapore bianchiccio. — Badi, mamma, che l’acqua bolle, disse Taddeo togliendo il coperchio della caffettiera. — Eccomi, eccomi, rispose donna Clara, arrivando con un piccolo recipiente cilindrico di sughero, pieno di caffè macinato. Ne prese due o tre cucchiaiate e le versò dentro l’acqua bollente, poi rimescolò tutto assieme per alquanti secondi, e scostò dal fuoco la caffettiera. — Ecco fatto, esclamò tutta lieta. — Agostì. — Comandi. — Hai munto la capra? — Sì, signora, ora vengo subito. Cinque minuti dopo nell’immensa cucina di donna Clara non si sentiva altro che il crepitare del fuoco, ed i sospironi di piacere di Sisinnio, che assaporava, con voluttà da ghiottone, la famosa zuppa del caffè col latte, che lo aveva conciliato con la mamma. Intanto il giorno cominciava a spuntare, e, nella vicina chiesa parrocchiale, una campana stridula suonò la prima messa. Alcune vecchierelle freddolose e pochi paesani incappucciati, avvertiti dalla campana, uscivano di casa avviandosi verso la parrocchia. Zia Carola, passando dinanzi alla casa di zia Chischedda, che dava due mandate di chiave alla porta mal connessa del suo tugurio, le domandò: — Comare Chischè, mi pare che sia già suonato a messa, voi l’avete sentito il tocco? — Sì, comà, anzi ho visto prete Ignazio che è passato momenti fa; però abbiamo ancora qualche minuto di tempo. Io non sono andata prima per non morir di freddo in chiesa, ma mi sono alzata dalle cinque. Mi ha svegliato il servo di don Pantaleo Calarighes; pareva che volesse atterrare il portone, bussando come un indemoniato. Parmi di aver sentito che deve partire qualcuno. — Ah, sì, sì, me lo ha detto ieri comare Nicolosa Cocorosta, quando uscivamo dalla novena, che oggi sarebbe partito don Zua, il figliuolo piccolo di don Pantaleo, per andare a Nuoro a farsi dottore. — Dottore? oh ne correrà prima di bell’acqua nei fiumi! e poi, credete voi che quel moccioso di don Zua riesca a fare qualche cosa di buono? qualche giorno ce ne parleremo. Se don Pantaleo lo avesse mandato a coltivare la terra, come ha fatto per gli altri due, l’avrebbe indovinata davvero. — Ma... andate voi e capiteci qualche cosa, di quel testone di don Pantaleo; per i primi due figli, guai che gli parlassero di studi; diceva che erano tutti danari sprecati; per questo invece... — Questo è il più piccolo; il beniamino di casa, guai a toccarglielo. — Faccia, faccia, tanto i danari che ha succhiato ai poveri non se li porta certamente all’altro mondo. Così rivedendo un pò le buccie a don Pantaleo le due vecchie erano arrivate alla parrocchia ed erano scomparse nella oscurità di un’angusta porticina. III. Don Pantaleo? Chi c’era a Mamoiada che non conoscesse don Pantaleo? Qual era la famiglia che non avesse provato quali artigli egli avesse? Chi non aveva supplicato, pianto, scongiurato, piegandosi dinanzi alla sua lurida persona? Chi non aveva egli addentato, con le aguzze zanne, affilate da un’abbietta avarizia? Erano pochi quelli che in paese avevano avuto tale fortuna! Don Pantaleo adorava un solo Iddio: l’oro! Lungi dallo splendore di quel metallo, la vita per lui era nulla. Le gioie ineffabili della famiglia, il conforto intimo di aver fatto una buona azione, la gioia di aver sollevato un afflitto, erano sconosciute per lui. Dinanzi al bagliore corruscante dell’oro ei dimenticava tutto! Aveva di rado qualche slancio di tenerezza per il suo piccolo Zua, che, più di tutti, gli si assomigliava nelle fattezze; però quelle erano rare ed aride carezze. Don Pantaleo amava il suo Zua; ma il suo amore aveva un limite; la sacra fame dell’oro lo avrebbe potuto rendere inumano anche col suo figliuolo prediletto. Egli, messo nel bivio: o la morte di Zua, o la perdita delle ricchezze, oh, è certo avrebbe tenuto a queste! Don Pantaleo era nato povero; il suo genitore sebbene nobile di nascita, aveva piegato la schiena sulla zappa e sull’aratro, per tirare innanzi la vita, e morendo aveva lasciato, al suo unico figliuolo, un campicello poco fertile, ed una casupola mezzo diroccata. Ma don Pantaleo aveva un cuore di macigno ed una volontà di ferro. Lavorò, si bruciò sotto il sollione d’Agosto e si intirizzì le membra fra le nevi invernali; però egli aveva una meta: la ricchezza! La sera quando tornava al suo tugurio, sbocconcellava un pò di pane d’orzo, e dormiva sulla paglia; ma il gruzzoletto che nascondeva, sotto una pietra del focolare, tutti i giorni aumentava, e con esso aumentava la cupidigia di don Pantaleo. Dominare il paese, imporsi a tutti con la ricchezza, bene o male acquistata, spogliare il Comune dei suoi averi! ecco il suo sogno costante, la febbre che lo divorava! E quel giorno venne! Don Pantaleo cominciò ad imprestare i danari ad usure esorbitanti: chiedendo il cento per cento, angariando i poveri, ingannando i ricchi, rovinando intere famiglie, seminando la desolazione dove giungeva a metter le mani! Il suo sogno si realizzava; però la passione non poteva essere appagata, la fame era insaziabile, la cupidigia lo travolgeva ciecamente, ed egli arricchiva, arricchiva, opprimendo, spogliando, rovinando il paese. Un giorno che aveva fatto un grosso guadagno, riducendo alla miseria una famiglia di contadini, che era caduta nella sua rete, don Pantaleo s’era innamorato di donna Clara Isalle. Il lupo aveva trovato la lupa degna del suo amplesso; l’avarizia si era unita con l’avarizia, la cupidigia con la cupidigia! Che sarebbe dovuto nascere da quell’unione? Ma la natura, certe volte, ha strani contrasti. Nacquero don Taddeo e don Sisinnio, che presto diedero segni d’indole diversa da quella del padre e della madre; e perciò don Pantaleo, sprezzando quella prole indegna di lui, li condannò alla gleba, trattandoli come servi, vergognandosi che fossero suoi figli. Molto più tardi era nato don Zua. Don Pantaleo, temendo di non poter lasciare un degno erede del suo nome e delle sue opere, si studiò di instillare nella mente giovane di Zua i propri principî; però spesso si trovò scoraggiato dinanzi al tardo ingegno del piccolo figliuolo, che cresceva come un fungo, senza tendenza alcuna nè per il bene nè per il male. Parecchie famiglie di Mamoiada intanto avevano fatto tutti gli sforzi per mandare innanzi, nello studio, i propri figliuoli, e don Pantaleo invidiando quei giovani studiosi, si accorse del grande errore commesso, condannando all’ignoranza i suoi primi figli, ed osò concepire delle speranze sopra il suo piccolo Zua. Egli temeva che l’istruzione avesse potuto avere la rivalsa sulla ricchezza, e paventava l'ora della riscossa. La sua famiglia, cresciuta ignorante, sarebbe stata sopraffatta da altre menti più colte, e la supremazia, per la quale egli aveva tanto combattuto, sarebbe stata perduta per sempre dai suoi. IV. Sisinnio si era separato a malincuore dall’ampia scodella del caffè e latte, dopo averne sorbito l'ultima goccia, e s’era messo ad attizzare il fuoco. Taddeo aveva acceso una pipa foderata con lamina d’ottone, e fumava silenzioso, mentre donna Clara andava attorno per la cucina, preparando le bisacce per la partenza di Zua. Un passo grave si udì nella camera attigua alla cucina, accompagnato da potenti schianti di tosse cavernosa, come se uscisse dal fondo di una cisterna. Sisinnio si accoccolò in un angolo e Taddeo sputò dentro la pipa per spegnerla, esclamando quasi con terrore: — Ecco il babbo! Giusto allora comparve don Pantaleo. Era un omone adiposo; un paio di occhiali azzurri a reticella gli nascondevano completamente gli occhi affetti da una oftalmia incurabile; sulla faccia floscia e pallida gli si leggeva chiaro che da qualche mese non s’era più lavato. Un berrettone nero, di pelo, gli nascondeva la testa, e si fermava sulle orecchie, dietro le quali spiccavano rotonde due mosche di Milano. Un ampio cappotto turchino adorno di cordoni, e largamente macchiato di grasso, copriva tutto quel carname e quei cenci. Questi era don Pantaleo, il vampiro temuto di Mamoiada, l’incarnazione dell’avarizia spietata. Che ore sono? domandò don Pantaleo appena entrato in cucina. — Han suonato poco fa le sette, rispose donna Clara, insaccando la poca biancheria di Zua dentro a una federa di guanciale. — E voi due, poltronacci, che state a far quà? credete che io vi mantenga per fare i vagabondi? non vi pare ancor tempo d’andare al lavoro? — Oggi è festa, tentò d’obiettare Taddeo. — Ma che feste mi vai cianciando! chi lavora prega, e chi non lavora non mangia; fannulloni! Parmi che ieri notte abbia detto che oggi bisognava seminare l’aglio nell’orto, ed io non voglio mai ripetere le cose due volte, avete inteso sì o no? o volete che vi spacchi la testa a bastonate, mascalzoni che siete! Taddeo e Sisinnio, prevedendo imminente il temporale, prima che il padre dalle minaccie venisse ai fatti, mogi, mogi, si alzarono, e presero la via della porta, passando, per quanto era possibile, lontani dal bastone di don Pantaleo, che pareva avesse tutta la buona volontà di farlo risuonare sulle loro spalle. Poi rivolgendosi a donna Clara. — Tu questo potevi farlo prima che venissi io; ma sì, bisogna che venga io, a veder tutto, ad ordinare tutto; tu non ci sei per niente in casa. Oh, se aspettassi i tuoi comodi starei fresco! in due mesi, questi cialtroni ci metterebbero alla porta; ma per Iddio, fintanto che avrò gli occhi aperti quel giorno non lo vedrete; state facendo di tutto per farmi crepare; però io ho la pelle più dura di quello che voi crediate, e poco a poco vi metterò al passo tutti, dovessi mandarvi via, dal primo all’ultimo, a chiedere l’elemosina. Infine son io che vi mantengo, non sono le vostre rendite: sono i miei sudori che state scialacquando, pregate che vi duri, perchè il giorno che perdo la pazienza guai, guai a tutti! Donna Clara capì che non bisognava fiatare; c’era temporale in aria, e don Pantaleo in quei momenti diventava brutale. Se gli facevano perdere le staffe, stando a contrariarlo, diventava violento, ed era capace di tutto. Donna Clara lo aveva imparato a conoscere a proprie spese; ma prima che fossero arrivati a mettersi d’accordo, i paiuoli e le casseruole appese lungo le pareti della cucina, avevano, molte volte, ripercorso tristemente le note cupe delle bastonate che donna Clara aveva ricevuto sulla schiena, e le sue alte grida di dolore. Si dice che sbagliando s’impara; donna Clara aveva imparato invecchiando, e ricevendo sulle spalle grassoccie tutte le conseguenze dell’ira di don Pantaleo. Aveva capito che bisognava far sempre come egli voleva, che non intendeva d’essere mai contrariato; che non pativa risposte aspre ed insolenti. E ce n’era voluto del tempo! Lei, nervosa di temperamento, piuttosto pettegola, abituata fin da bambina a comandare tutti in casa sua, a non vedersi mai disobbedita, sulle prime era stata restìa; s’era impennata ed aveva tentato di ribellarsi; ma l’eloquenza brutale delle manaccie pesanti di don Pantaleo aveva finito per persuaderla. Ora non fiatava più; lo lasciava sfogare senza rispondergli mai, perchè sapeva che era l’unico mezzo per calmarlo. Anche questa volta il rimedio ebbe il suo pronto effetto: don Pantaleo gridò ancora un poco, li chiamò tutti ladri, ingrati, traditori, poi, stanco, affogò gli ultimi avanzi dell’ira in una grande scodella di caffè e latte, che la moglie, in silenzio, gli aveva posto innanzi. Don Pantaleo, come Sisinnio, dinanzi ad una zuppa abbondante si commoveva, e per qualche momento dimenticava tutto, tuffando il muso intabaccato dentro la scodella. V. — E Zua? chiese, più calmo. — Zua non s’è alzato ancora, rispose donna Clara, indifferente, come se avesse dimenticato tutti i complimenti che, due minuti innanzi, le aveva fatto il marito. — Pure bisogna farlo alzare, diavolo, altrimenti tra una cosa e l’altra, passerà la mattina; passerà la sera, e non partirà neanche quest’oggi. Capisco che quel povero ragazzo è tuttora convalescente, e quest’anno non rimedierà certo ai due mesi che ha già perduto, pure, bisogna che tenti, che si sforzi, che faccia di tutto per non lasciarsi superare da quest’altri cenciosi di compagni. Ora tutti si vogliono far dottori; guarda un pò, anche Pietro Palitta ha mandato il figlio a Cagliari! che te ne pare? se alzasse la testa la buon’anima del padre, che cosa ne direbbe? vedendo il nipote tenuto come un gran signore, mentre egli, povero diavolo, appena, appena, tirava la vita rappezzando ciabatte! Mah; le pentole hanno fruttato al figliuolo, ed ora fa lusso! un giorno o l’altro scommetto che si farà chiamare: don Pietro Palitta! — Peccato che ora i titoli di nobiltà costino molto cari, altrimenti sono certo che avrebbe il coraggio di farsi fare cavaliere; pentolaio miserabile! E, sì, abbiamo un bel dire noi, chi si fa avanti però è il forestiere, noi staremo sempre terra, terra; noi, nati nobili, non saremo mai nulla, in confronto a questi, che arrivati in paese nella miseria, sono venuti ricchi senza saper come. — E sai che cosa ha risposto, Pietro Palitta, giorni fa a Marco Muschittu che gli chiedeva se fosse vero che la figlia fosse sposa col figlio di don Mattia? — Che? — Che egli non voleva, in casa sua, cavalieri senza fondo nei calzoni; che se aveva l’ambizione di maritare la figlia con un nobile, coi suoi danari, ne comprerebbe a fasci di questi cavalieri senza cavallo; intanto però non sanno a chi contarlo, che Mariannica, la figlia maggiore ha sposato un cavaliere. — Fanno finta di disprezzarci, disse donna Clara, e poi, se qualcuno dei nobili cerca d’imparentarsi con loro, non possono più capire nella pelle. — Credi che se Taddeo, o Sisinnio, chiedessero una delle figlie di Pietro Palitta, non li accoglierebbero a braccia aperte, sebbene ora se ne burlino, perchè zappano le patate, ed arano la vigna? — Oh, vorrei vedere anche questo, proruppe con rabbia don Pantaleo, vorrei vederla cotesta pentolaia, in casa mia. Che ne direbbe il paese? sarebbero giunti a un bel punto i Calarighes! ci riderebbero in faccia tutti! ma per San Cosimo, nostro protettore, vivo io, quel giorno non lo vedrà mai Pietro Palitta; no, non lo vedrà, chè meglio li vorrei vedere tutti stesi in sepoltura i miei figliuoli; un figlio di Pantaleo Calarighes non può sposare la figliuola di un pentolaio arricchito! Nella nostra famiglia non entrò mai una ragazza che non fosse di nascita eguale alla nostra. Anche noi siamo stati battuti, è vero, dai colpi della sorte. Ricchissimo un tempo, mio padre è morto nella miseria; ma sempre fiero, sempre lo stesso. Ora pare che la fortuna si sia schierata un’altra volta in nostro favore, noi non siamo poveri! Oh il grande errore, di non aver fatto studiare quei due ragazzi! Ma già, sarebbero stati soldi sprecati; non avrebbero fatto mai niente; la loro inclinazione era ai lavori della terra. Che male c’è poi? sono contadini, benissimo; ma nelle loro vene scorre il sangue dei Calarighes! Ciò che non hanno fatto i due primi lo farà l’ultimo. Zua ha dell’ingegno, e si farà onore. Oh come sarei felice di vederlo un giorno mettere il piede sul collo anche a cotesti dottori, figli di plebe arricchita! davvero, morrei contento, non mi importerebbe più di vivere, perchè sarei sicuro che vivrebbe la mia memoria ed il mio nome. Mentre don Pantaleo dava sfogo a tutta la bile da lungo accumulata, non potendo soddisfare altrimenti l’invidia bassa che lo divorava per Pietro Palitta, il quale non aveva altro torto verso di lui, tranne quello di essere in pochi anni diventato ricchissimo, don Zua, dopo essersi annunziato con un rimbombante strascicar di scarponi, sul tavolato della camera attigua alla cucina, comparve nella porta, illuminato dalla fiamma del ceppo. Don Pantaleo aveva ragione di tenerlo caro più degli altri due figli! Zua era un don Pantaleo in ventiquattresimo: un don Pantaleo di 12 anni. Le stesse gote piene, la stessa bocca aperta goffamente, lo stesso naso smisuratamente grosso; in una parola egli era fatto a imagine e somiglianza del padre. Aveva una calotta che somigliava ad un zucchettino da prete, troppo piccola per coprire, neanche in parte, un testone allungato, coperto da lunghi capelli irsuti, che non avevano avuto la fortuna di passare attraverso i denti di un pettine. Un abito di rigatino oscuro a mala pena conteneva il suo corpo, che già dava segni di precoce sviluppo; dai calzoncini anch’essi troppo stretti, aperti di dietro, usciva fuori la camicia, di colore ambiguo, come una grande foglia di lattuga, ed i piedi sparivano dentro due scarponi ferrati, che egli teneva ancora slegati, coi legacci a strascico fra il sucidume sparso per terra. Appena entrato in cucina chiamò la madre da un canto e le disse sottovoce, tanto che donna Clara si fece ripetere due o tre volte la domanda: — I fichi secchi dove sono? — Oh, li ho conservati io; non è questa però l’ora di mangiar fichi secchi, rispose donna Clara, vieni, cuore mio, e prendi il caffè e latte, poi ti darò i fichi. No, no, ora, ripetè don Zua, scrollando ripetutamente le spalle, e nascondendo il muso allungato, contro l’avambraccio, sopra un pezzo di manica, lucente, per il doppio ufficio che era destinata a fare di moccichino e di salvietta; no, li voglio ora, li voglio. — Andiamo, figlio mio, sii buono, te li darò dopo. — No, ora, ora, li voglio, e si buttò a sedere per terra, dimenando le gambe, come se nuotasse, e ripetendo sempre con tono piagnoloso: No, ora, ora. — Via, daglieli, disse don Pantaleo impazientito, non lo vedi che è più testardo di un somaro? — Che mi fa, darglieli ora o dopo? mi duole però che li mangi senza prendere un pò di cosa calda, specialmente oggi che deve viaggiare; se poi gli viene di nuovo la febbre.... — Non verrà, non li mangio, disse Zua che s’era accorto che la madre veniva a transazioni. — Va bene, eccoli, e si appressò ad una cassa nera tutta piena di incisioni, di rilievi, rappresentanti, uccelli, mai esistiti, fiori, che non si troveranno mai nel regno vegetale, mostricciatoli, segni cabalistici, geroglifici, ornati, il sole, la luna, un firmamento intiero; una cassa dove era stata riunita tutta l’arte primitiva dell’intaglio e del rilievo di uno sconosciuto artista d’Aritzo: paese celebre in Sardegna appunto per la fabbrica di simili casse enormi, che occupano una superficie di tre metri quadrati, e che sono capaci di contenere tutto il vestiario di una compagnia intera di commedianti. Donna Clara dopo averne sollevato a stento con le due mani il pesante coperchio, facendo leva con la testa, riuscì ad appoggiarlo al muro; poi scomparve con tutto il busto dentro quella voragine. Si intese un gemito, la parte anteriore della cassa scricchiolò, e poi ricomparve il corpo di donna Clara che per lo sforzo era diventata pavonazza. — Eccoti i fichi secchi, e buttò a Zua, che era ancora seduto per terra, un centinaio di fichi infilati in uno spago, a mò di rosario. Egli li prese e se li mise attorno al collo, poi s’alzò tutto lieto d’aver vinto, e rivolgendosi alla madre. — Ora voglio la zuppa. — Bravo, figliuolo mio, così mi piace, non mangiar quella robaccia, che ti fa venir la febbre. Donna Clara non s’era accorta che Zua ne aveva già ingoiato mezza dozzina quasi senza masticarli. VI. Dopo la messa delle nove, tutti i conoscenti, i vicini di casa, i congiunti, i pochi impiegati del paese, contadini, e pastori, legati tutti a Don Pantaleo con vincoli di debito, di inscrizioni ipotecarie e di vendite con patto di riscatto, si credettero obbligati di andare a salutar don Zua prima della partenza; credendo con ciò di fare piacere a donna Clara, e di intenerire un poco anche don Pantaleo, perchè chiudesse un occhio sopra una scadenza, o un ritardato pagamento. Così, per più di un’ora e mezza, fu un continuo sfilamento, lungo il cortile, di nobili in decadenza o del tutto decaduti. Taluni, sepolti dentro cappotti che sembravano garitte, abbottonati rigorosamente, celavano sotto quel provvido indumento i gomiti, che scappavano fuori dalle maniche sdruscite, e non davano campo ai maligni, di potersi domandare come mai un nobile potesse essere ad un tempo anche sanculotto. Altri credendo indecente il cappotto di tutti i giorni per andare alla messa maggiore, e per far visita in casa Calarighes, avevano messo fuori certe anticaglie di abiti d’estate, raggrinzati, attraversati da mille pieghe, puzzanti, un miglio lontano, di pepe, del quale erano stati abbondantemente cospersi, per essere preservati dalle tignuole, dentro le profondità inesplorate delle casse d’Aritzo. Molti di questi abiti, lucidi e verdi come una sottana da viceparroco di villaggio, in certi punti, troppo esposti allo sfregamento, avevano preso trasparenze di canovaccio; perciò, i fortunati proprietari di essi, che ne avevano visto, domenica, per domenica, cadere gli ultimi fili, sotto l’inesorabile crine della spazzola, evitavano di sedersi dicendo che avevano bisogna di stirar le gambe, mentre forse avevano una voglia matta di riposarsi. La rigidezza di quella mattina di dicembre, e l’estrema leggerezza degli abiti estivi, dava a quegli eleganti poveri paesani certe intonazioni violacee di barbabietola, da far compassione. I nasi erano diventati lambicchi, ed attraverso allo sbattere dei denti or continuo ora alternato, la voce prendeva diverse inflessioni, e le parole uscivano spezzate come se tutti fossero diventati balbuzienti. Le dame, (nome col quale in Sardegna si chiamano ancora le nobili) altere della loro nascita, vestite con l’abito di festa, tutto rosso, passavano a stento fra la popolaglia ammassata nella piazzetta della casa di don Pantaleo, premendo, in quella ressa, le carni abbondanti, ed i seni enormi erompenti dal corsetto. Qualcuna aveva sfidato le dicerie e la critica del paese, ed aveva smesso il costume sardo, vestendo abiti signorili, quando, quarant’anni prima aveva fatto il viaggio di nozze fino a Sassari o fino a Cagliari. Quegli abiti di seta verde o azzurra, a grandi sbuffi, con guarnizioni di velluto, i quali avevano, da lunga pezza, perduto il colore, ma non una linea della loro forma, venivano indossati solo nelle occasioni solenni, assieme alle relative crinoline. La partenza di don Zua aveva reclamato l’abito di seta, e nel cortile di don Pantaleo molte crinoline subirono irreparabili avarie, fra le canne ed i rottami ammucchiati. Donna Clara riceveva le visite nella sala; così veniva chiamato un camerone vasto, circondato all’intorno di sedie grossolane e di oleografie a colori abbaglianti, inchiodate al muro, fra mazzolini di semprevivi gialli, foglie secche di palma e ramoscelli d’olivo. In un canto eravi un canterano in istile d’Aritzo, sopra al quale erano disposte simmetricamente due righe di chicchere bianche, a fiori azzurri, e dentro a ciascuna di esse un limone, che aveva già da molto perduto il profumo e la freschezza. Sul canterano appeso ad un chiodo, un grande specchio, che non serviva più all’uso al quale era destinato, un po’ per le ingiurie del tempo ed un po’ per quelle delle mosche, ridotto per conseguenza ad una inutile lastra oscura di vetro, contornata da una cornice, che un tempo era stata dorata, ma che ora pareva d’ebano. Di rimpetto al canterano, un divano che poteva anche trasformarsi in lettuccio, ricoperto da una fodera di lana a grandi fiori gialli. Finalmente, in un angolo, un armadio tinto in rosso, sul quale erano messe in ordine parecchie dozzine di aranci, una vecchia fisarmonica ed un ombrello di seta verde. Era là che donna Clara riceveva il fiore dell’aristocrazia di Mamoiada, con gran sussiego, e con una soddisfazione intima di quell’omaggio che le veniva reso. Don Pantaleo non aveva voluto ricever nessuno, e sbuffava in cucina, vomitando improperi contro tutti quei ladri, che gli facevano delle visite, quando egli non ne voleva; ma che non si lasciavano mai vedere il giorno fissato per pagargli gli interessi dei suoi capitali. Egli aveva lavorato per quei pidocchiosi, che sarebbero morti di fame; ma sempre boriosi; ci voleva altro che della boria, oh sarebbero stati freschi, se credevano di burlarlo con quelle cerimonie; egli era stato anche troppo indulgente con quella canaglia; ora non ne poteva più, l’usciere avrebbe appianato le cose. E mentalmente don Pantaleo, riandava i suoi crediti. Il Sindaco cinquecento lire che non avrebbe più vedute: meno male che c’era quella benedetta ipoteca sopra l’orto. Don Simone cinquanta quarti di grano; donna Veronica, venti scudi; don Ciriaco, trenta; don Daniele, cinquanta starelli d’orzo; signor Vittorio, oh quello poi, bisognava rovinarlo per sempre e bella e finita; diavolo, erano già due anni che lo menava per il naso, con le lagrime, coi lamenti, con le promesse, senza che si venisse a concludere mai nulla: fortuna che possedeva la casetta, altrimenti si sarebbe trovato con un pugno di mosche. — Tanti saluti a don Pantaleo, disse in quel momento il Sindaco, che assieme agli assessori si congedava da donna Clara. — Va che te le ricambierò io, per natale, i saluti, se non paghi, e sì, che voglio saluti io, voglio danari, voglio: che non li ho rubati, io, per scialacquarli voi! Due ore dopo don Pantaleo e don Zua partivano da Mamoiada per Nuoro; il primo pieno di speranza che il suo diletto si facesse onore; il secondo carico di fichi secchi, di mele, di panetti dolci, di castagne e di sudiciume. VII. Ott’anni dopo la partenza famosa di don Zua per Nuoro, la piazza della parrocchia di Mamoiada formicolava di gente. Un predicatore dei più rinomati del Logudoro, s’era prodotto col panegirico di S. Antonio di Padova, facendo molte citazioni latine con voce altisonante, prodigo di gesti e di grandi colpi al pergamo, i quali rimbombavano cupamente assieme alla voce nasale dell’oratore, sotto le volte oscure dell’antica chiesa, piene di ragnateli. Il predicatore ora appollaiandosi, ora aprendo le braccia, come un grande avoltoio che volesse spiccare il volo, aveva, a furia di parabole e di minacce, stordito ed annoiato il popolo che l’ascoltava senza capirlo. Quando ebbe finito un gran sospiro di soddisfazione uscì da tutti i petti. La gran porta della chiesa fu spalancata, ed un torrente di persone si riversò fuori, prima compatto, poi mano, mano allargandosi, spandendosi per la piazzetta, che in un momento fu rallegrata dai mille colori vivi di quei costumi ricchissimi, sfavillanti per i ricami d’oro e d'argento. Il sole, cadente dietro la lontana montagna di Gonari ne incendiava la vetta, dandole la esatta apparenza di un vulcano in eruzione. Alcuni dei più baldi giovanotti del popolo si riunirono in mezzo alla piazza; si strinsero insieme, e portando la mano alla guancia per far rimbombare di più la voce, intonarono una cantilena che marcava il tempo del ballo sardo. Sulle prime nessuno si moveva. I giovani si eccitavano l’un l’altro, nessuno voleva cimentarsi per il primo, nessuno ardiva invitare da solo una ragazza. Poco a poco i più arditi cominciarono a stringersi in catena, e a dondolare il corpo con la cadenza del canto. La catena a mano a mano si allargò; qualcuno trascinò dolcemente una ragazza, che faceva la ritrosa, nascondendo col grembiale ricamato, il bel volto tinto di carminio pel pudore, e per la contentezza. L’esempio fu contagioso. I giovanotti presero coraggio, e corsero ad invitare quelle ragazze bellissime, le quali non si facevano più pregare. Ogni momento si distaccava dal gruppo delle donne una ragazza, che impaziente non aspettava di essere invitata, poi due, poi tre, dieci, venti, infine tutte, con un salto allegro di gazzella, si incastravano in quella catena circolare di danzanti. L’immenso circolo aveva tutti i colori di una ricca tavolozza, e tutte le bellezze che si possano sognare. Si dice che le più belle ragazze della Sardegna sieno quelle di Mamoiada e quelle di Cabras; è certo che chi avesse visto quel ballo tondo avrebbe proclamato bellissime quelle di Mamoiada; perchè sarebbe stato impossibile trovare altrove più correttezza di linee, più opulenza di forme statuarie, occhi più belli, più profondi, più neri o più azzurri, labbra più coralline, denti più perlati e gote più rasate. L’occhio si perdeva fra tante bellezze, incerto sopra quale posarsi e la mente si abbandonava ad un sogno ardente pieno di voluttà e di desiderio. L’ampio cerchio danzante or si allargava lentamente, insensibilmente, con piccole oscillazioni con leggeri dondolamenti; ora si restringeva rapidamente, vertiginosamente. Nel centro la cantilena continuava sempre, or mossa or rallentata, senza tregua, senza stanchezza. Le dame, vecchie e giovani, godevano di quell’allegro divertimento del popolo, dalla casa di donna Veronica, prospiciente sulla piazza, pigiate in tre balconi di legno, simili ad ampie gabbie di pollami. Le vecchie criticavano il saltare ardito di questa bella ragazza, ed il discorrere animato di quell’altra col tale e tal altro giovine, che le stava daccanto; le ragazze invece invidiavano le popolane, alle quali era permesso quello spasso pubblico, e si dolevano della nascita nobile, che impediva loro di divertirsi tutto l’anno come le figlie del popolo. Il Sindaco, gli assessori, i consiglieri comunali, il brigadiere dei carabinieri comandante la stazione, il maestro di scuola, e gli altri nobili e signori del paese, formavano crocchio a parte, sopra un’altura che dominava tutto lo spettacolo. Il Sindaco faceva disegni per un futuro allargamento della piazza, con relativi portici; i consiglieri progressisti appoggiavano l’idea del Sindaco, ampliandola e già bilanciando le somme necessarie; i vecchi che volevano morire lasciando il paese come l’avevano conosciuto, si opponevano a queste innovazioni immaginarie, si riscaldavano nella discussione, e prendevano grossi pizzichi di tabacco, che aspiravano rumorosamente, quando mancava loro la frase per proseguire l’argomentazione cominciata in italiano, e che poi finivano malamente in dialetto. Il brigadiere s’attorcigliava i bei baffi neri, e prendeva pose teatrali, sbirciando le più belle, e facendo dei confronti, assieme al maestro di scuola, il quale impallidiva ogni volta che Tafana, alla quale già da molto faceva un po’ di corte con infelice risultato, passava accanto a loro sgranando un paio d’occhioni neri, sfavillanti, in faccia al brigadiere, che le susurrava parolette dolci. Gli altri che non prendevano parte alle discussioni, accennavano col capo, approvando o negando, a seconda che lo sguardo del Sindaco o di qualche altro padre coscritto si rivolgeva verso di loro per reclamarne l’appoggio, e ridevano rumorosamente, tanto per fare qualche cosa. Il sole intanto era scomparso dietro la montagna di Gonari, la quale spiccava maestosamente azzurrina nello sfondo d’oro del cielo. VIII. Era già mezzora che il popolo si abbandonava al delirio della danza, quando, nella strada che menava in paese dalla campagna, apparve un contadino a cavallo, che correva a spron battuto. Ad un centinaio di metri dalla piazza rallentò la corsa, prendendo il trotto, e si avviò verso il crocchio, dove c’era il Sindaco, chiamando forte: — Signor Sindaco! Signor Sindaco! Il Sindaco si avviò verso di lui sorpreso. Il contadino si piegò, ansante, sul collo del cavallo, e parlò sottovoce. Il Sindaco ascoltò meravigliato, aprì la bocca e giunse le mani in atto di disperazione, mista a sorpresa. Poi si volse al crocchio dal quale s’era distaccato, esclamando: — Signori, una disgrazia, una gran disgrazia! Il brigadiere si avvicinò sollecitamente, tutti gli altri lo seguirono, interrogando con gli occhi il Sindaco. — È morto don Pantaleo; pochi momenti fa, mentre tornava dalla vigna, un cane è saltato fuori da una siepe, quel demonio della sua cavalla si è adombrata, gli ha preso la mano, e lo ha sbalzato di sella. Il pover'uomo cadendo ha dato della testa contro un sasso e.... ed è rimasto lì. — Morto? — morto? chiesero tutti uno dopo l’altro. — Morto! ripetè il Sindaco, purtroppo, morto! oh pover’uomo! Dio, Dio, che disgrazia è questa! — Orribile! orribile! soggiunse signor Vittorio, con gli occhi lampeggianti di gioia. — Straziante! esclamò un altro. — Irreparabile! aggiunse un terzo. — Una disgrazia immensa per la famiglia e per il paese, ribattè signor Vittorio con voce alterata. Tutti si guardarono in faccia; ma tutti erano atteggiati a tristezza; signor Vittorio solo, guardava in terra per paura che gli altri gli leggessero negli occhi il sentimento di gioia che lo invadeva. Pure fra quei quindici o venti che in quel momento compiangevano la morte di don Pantaleo, non eravene uno che non ne fosse intimamente contento, e ciascuno in cuor suo aveva detto: — Finalmente! sia lodato Iddio che ci ha liberato da quell’usuraio! Intanto fra i danzanti era nato un po’ di disordine, perchè tutti avevano capito che era avvenuto qualche cosa di grave. Il canto fu soprafatto dal mormorio generale, la catena si ruppe, e tutti si strinsero attorno al Sindaco, ed ai consiglieri per saperne qualche cosa. In un momento quel crocchio di signori, che stava a guardare, era divenuto l’oggetto dell’attenzione generale. Attorniati dalla folla era diventato il mozzo di una immensa ruota; il centro oscuro di un gigantesco mazzo di fiori variopinti. La notizia si spargeva, correva di bocca in bocca, cambiata, esagerata. Ognuno la contava a modo suo, ognuno la circondava di episodi, ognuno la dipingeva con le tinte più vivaci di che poteva disporre la sua fantasia. Luca Zerpedderi, il barbiere, disse che era don Pantaleo che aveva tirato una fucilata a donna Clara. — Non è vero, interruppe Proto Bocco, macellajo, è donna Clara che ha buttato don Pantaleo nella balza. — Ma che balza vai spacciando, gridò Emanuele Barracellu, il carbonaro, perchè inventi queste cose? va a sentire ciò che dice il brigadiere; è il toro di don Pantaleo, che gli ha dato una cornata nel ventre e lo ha finito. — Bella anche questa, cantò nel naso Mattia, il sagrestano, siete una massa di credenzoni tutti! — Quell’infelice di don Pantaleo è caduto da cavallo, ecco questa è la verità: me lo ha detto adesso il vicario, che tornava anch’egli dalla vigna, e che è arrivato appena in tempo, per dirgli un credo ed un’avemaria all’orecchio. — Insomma chi è morto? chiese allegramente un giovinastro che era servo dei carabinieri, don Pantaleo, o donna Clara? — Donna Clara! — Non è vero, don Pantaleo! — Tutti e due! — Oh povera gente! esclamò con tono canzonatorio il giovinastro, peccato, questa sera, pel dolore ne beverò mezzo litro di più! — Bravo, Bambarru! gridarono due o tre in coro. Le donne, più curiose, andavano, venivano, si insinuavano tra la folla, chiedendo a tutti, per sapere i particolari del fatto. — Va bene che non si meritava molto, disse zia Stefania, a zia Veneranda, pure è stata una morte troppo crudele, Dio ne liberi ogni cristiano, e si fece il segno della croce. — Povera famiglia! — Povera famiglia poi no, li vorremmo noi, i danari e le terre che lascia alla famiglia! — Tuttavia. — Sentite, comà, Dio mi perdoni, ma io penso che d’ora innanzi staranno più tranquilli in casa sua. — Credo che abbiate ragione, a ciò che si dice, non era un angelo. — Un angelo? Un diavolo! un diavolo sciolto dalle catene, in fede di comare che vi sono. — Basta, Dio vede quel che fa. Tali discorsi, e simili a questi si tenevano in tutti i capannelli che si erano formati qua e là nella piazzetta. Poco a poco però la gente come sopraggiungeva la notte, cominciò a sparire, e dal campanile della parrocchia, quella sera, l'angelus squillò più allegro e più vibrato del solito. IX. La notte stessa, il corpo di don Pantaleo, con la testa sformata, pel colpo che aveva dato ad un gran sasso, fu trasportato in paese su di una barella di frasche, improvvisata sul luogo della disgrazia. In un momento la casa fu piena di pianti e di alte grida; non di donna Clara e dei figli, poveretti, che in quel momento avevano tutto perdonato a don Pantaleo, e non piangevano sopraffatti dall’orribile fine che gli era toccata; ma di alcune donnicciuole del vicinato, accorse colla speranza di nascondere sotto la gonnella, quanto sarebbe loro capitato fra le mani, in quei momenti di confusione, in cui l'occhio vigile di donna Clara non poteva sorvegliarle. I congiunti dei Calarighes pensavano pei funerali, che si sarebbero dovuti fare l’indomani sera, alle quattro precise. Quella sera fin dalle tre, la campana dei morti cominciò i rintocchi funebri, e la piazzetta della casa dei Calarighes cominciò a gremirsi di curiosi. Poco a poco arrivarono tutti i conoscenti ed i congiunti lontani, poi il maestro di scuola, guidando una ventina di ragazzetti scalzi con la bandiera abbrunata, poi giunse il Sindaco con tutti i consiglieri. Il Sindaco aveva messo l’abito nero ed il cappello a tuba: la moda di entrambi risaliva a parecchi lustri addietro. Don Simone, il più vecchio degli assessori, invidioso del sindaco, aveva messo anch’egli il cilindro; una specie di colubrina, che gli ballonzolava sulla parrucca mal ferma, e che faceva contrasto con una giacca di panno verde, ed un paio di calzoni di tela bianca, con una pezza sotto il ginocchio destro. Signor Vittorio aveva spazzolato l’eterno berretto di seta in forma di tegame, aveva rivoltato uno sciallino, che portava abitualmente a mo’ di cravatta, e con un po’ di calce, raschiata dal muro, aveva reso lucido e brillante, un marengo finto, che funzionava da spilla, per tener fermo lo sciallino. Un tintinnìo di speroni e di sciabola annunziò il brigadiere, il quale aveva colto l’occasione al volo, per indossare la gran tenuta. Egli salutò militarmente, e tutti s’inchinarono silenziosi, come se fossero stati in chiesa. Il Sindaco gli stese la mano tristamente, ed il brigadiere alzò le spalle e chiuse gli occhi, e con la mano sinistra accennò il cielo sospirando. — Purtroppo! purtroppo! mormorò fra i denti il sindaco, il quale probabilmente pensava se fosse possibile far cancellare l’ipoteca, senza saldare il debito per il quale aveva dato in garanzia l’orto; quella maledetta donna Clara era più furba del diavolo! Un salmodiare lontano lo distrasse dal suo pensiero; erano i tre preti del paese che venivano in coda ad una poco numerosa confraternita. Prete Ignazio, poveretto, il quale doveva ancora a don Pantaleo venti franchi, che si aveva fatto prestare, sotto condizione di restituirgliene trenta, dopo sei mesi, per farsi una sottana nuova: che la vecchia si poteva appendere ad un fico, aveva fatto tutto il possibile per riunire molti confratelli; ma tutti s’erano rifiutati: si fosse fatto seppellire dai corvi e dai cani, l’usuraio! Non s’era però scoraggiato, e a furia di girare aveva reclutato una diecina di pezzenti del paese, e comprandoli con un bicchiere di vino, prossimo a diventare aceto, li aveva indotti ad accompagnare, al cimitero, la salma di don Pantaleo. Pietro Palitta, il nemico giurato del morto, era venuto anch’egli spintovi dalla curiosità. — Quante stranezze! quante finzioni in questo mondo! pensava. E dire che di tutti questi nobili e signori che sono qua, non ve n’è uno che senta proprio intimamente, ciò che dimostra nel viso! dire che tutti sono felici che sia morto don Pantaleo, perchè tutti erano suoi debitori e che ora fanno finta di esserne disperati! Oh che commedie, che commedie in questo paese! Nel crocchio dei signori, improvvisamente, fu uno starnutire generale, che nessuno sapeva spiegarsi; ma la sapeva bene don Antonio Fraizzu, arrivato in quell’istante, la causa di quella infreddatura comune: egli pochi momenti prima, aveva scosso due once di pepe dal suo abito delle grandi occasioni, di vellutto color nocciuola. Non ci mancava più nessuno. Il Rettore di sotto agli occhiali sbirciò i presenti, e con un cenno al sagrestano, gli fece capire che non voleva star lì ad attendere. A quell’ordine silenzioso, la voluminosa cassa coperta di drappo nero, listato d’oro, fu portata fuori. La presero in sei. Pietro Palitta, che stava sempre ad osservare disse all’orecchio di Peppe Pistichinzu, negoziante di pelli di pecora: — Guardate, compà, hanno preso la cassa quelli che più gli dovevano; anche signor Vittorio, che razza d’impostore! — Lasciate fare, rispose Pistichinzu, ci perdono anche quella fatica, perchè deve pesare certo qualche cosa, il corpo del vecchio usuraio. Forse crederanno che la famiglia, per questo servizio, perdonerà i loro debiti. — Hum, donna Clara prima si fa seppellire viva! Il Rettore, finito il de profundis, asperse la bara d’acqua benedetta, ed accennò che si incamminassero. Il corteo si mosse silenzioso. A quando a quando, per l’aria tepida risuonava in tono nasale ed annoiato un undis, un eam, un domine, delle preci dei morti, che si perdevano in lontananza, assieme al bisbigliare delle poche donne che seguivano il feretro, portando i ceri accesi. X. Zame Laddara, il beccamorti, appena vide che il corteo funebre si avvicinava, scavalcò il muricciuolo cadente del cimitero, e saltò dentro; poi si avvicinò alla porta d’ingresso. Tolse un trave che era appoggiato ai due battenti, già da molto fuori dai cardini, tolse anche questi e ad uno, ad uno li appoggiò al muro internamente. La piccola confraternita di pezzenti irruppe rumorosa nel cimitero, sbandandosi qua e là. Spaventati da quel vociare improvviso là dove tutto taceva, alcuni corvi si alzarono gracchiando, e parecchi cani fuggirono saltando il muro quasi sbigottiti d’essere stati sorpresi mentre violavano gli avanzi di quei poveri morti. Il cimitero era troppo in cattivo stato! I cardi, la malva, le ferule, il rovo e mille altre erbe, crescevano alte e rigogliose, coprendo le croci nere, sparse in tutto il cimitero, molte delle quali spezzate e rovesciate. In un angolo, nel verde cupo dell’erba, biancheggiava un mucchio d’ossa disseppellite, e buttate in quel canto, in un eterno oblio, ludibrio dei cani, dei corvi e delle intemperie. Quei teschi, bianchissimi, pareva che guardassero irati, con le occhiaie tristi, cupamente vuote, perchè a loro era niegata anche la sacra pace del sepolcro. Grossi lucertoloni verdi uscivano da quelle occhiaie, spaventati, e si nascondevano fra l’erba. Qualche teschio, smosso da loro, perdeva l’equilibrio, e rotolava sopra le altre ossa, con uno scricchiolio triste come un singulto. Alle pareti di cinta, nere e solcate da grosse fenditure, qualche corona di fiori secchi, ingialliti, e un paio di lapidi di marmo, dalle quali il tempo aveva cancellato il nero delle iscrizioni. Tutto il resto era in un doloroso abbandono che stringeva il cuore, e che rendeva più amara l'idea della morte! Il Sindaco, entrando, notò che la porta era crollata, e toccando col gomito un assessore: — Don Simò, guardi, guardi; che indecenza! neanche una porta! — Mi pare che ora sia lei, l’incaricato per la manutenzione delle opere pubbliche; mi faccia il favore, ne prenda nota. Don Simone si mostrò anch’egli inorridito, e fece un nodo ad un lembo del moccichino a quadri rossi e turchini, e mise un pezzo di carta nella tabacchiera. Dopo la sorpresa della porta, toccò quella dei cani che scappavano. Altra dimostrazione di orrore del sindaco, e conseguente nodo al fazzoletto, con relativo pezzo di carta nella tabacchiera di don Simone. Quando arrivarono vicino alla fossa, don Simone aveva fatto, del fazzoletto, una specie di berretto, come costumano i ragazzi, facendo un nodo alle quattro cocche del moccichino, ed aveva empito la tabacchiera di pezzetti di carta. La bara fu deposta sopra il mucchio della terra tolta dalla fossa, e tutti i presenti la circondarono. Il rettore borbottò le ultime orazioni, spruzzò la cassa con l’aspersorio, e con uno sguardo ordinò al segrestano di togliere da quella la fodera di velluto. In quel momento si sentì un piccolo mormorio: era signor Vittorio che si faceva avanti. Signor Vittorio, oltre alla virtù di saper fare dei ricorsi anonimi, contro i brigadieri, che venivano a comandare la stazione, ed ai maestri di scuola, che avevano la sfortuna di non andargli a genio, aveva la prerogativa di scrivere un discorso funebre per ogni persona che moriva. Anzi le male lingue dicevano che avesse un zibaldone con un indice, indicante a che pagina si trovasse questo o quel discorso, per la morte, per esempio, di un assessore o di una fanciulla di 15 anni. Non si poteva dunque supporre che egli, da uomo furbo, qual credeva di essere, si lasciasse scappare questa occasione di portare a cielo la memoria di don Pantaleo, nella speranza che i figli e la vedova facessero finta di dimenticare che egli era loro debitore di parecchie centinaia di lire. Fattosi vicino alla cassa, tolse dalla tasca del corpetto un astuccio d’ottone e ne tirò fuori un paio d’occhiali che inforcò, dopo aver girato attorno uno sguardo sospettoso, che brillò nei suoi occhietti maligni, più del marengo che teneva a segno lo sciallino. Poi trasse fuori un grande portafoglio giallo, l’aperse e cercò in mezzo ad un fascio di carte; ne tolse una piegata e rimise il portafoglio in tasca. Sebbene egli fosse già abituato a far quella parte, l’emozione gli tinse di rosso le guance rase di fresco. Spiegò la carta, e dopo aver tossito e scaracchiato lesse: — Signori, «Cosa bella e mortal passa e non dura» Liete arridean le speranze.... Uno scoppio generale di riso a stento soffocato, ed il sindaco che gli tirava un lembo dell’abito lo fecero interrompere. Anch’egli allora capì la ragione di quella ilarità: aveva cominciato il discorso funebre che sei mesi prima aveva letto per la figlia quindicenne di don Ciriaco. Tutto turbato e confuso ricercò in mezzo alle carte che aveva intascato, e come Dio volle trovò quella che cercava. Si ricompose, soffiandosi il naso per prender tempo, e poi lesse. Fu un discorso lungo, pieno di elogi per don Pantaleo; lo chiamò padre della patria, colonna di sostegno del paese, aiuto dei bisognosi; in una parola signor Vittorio volle ancora una volta confermare il detto: bugiardo come un discorso funebre. Mentre uscivano fuori dal cimitero alcuni dei più spiritosi si congratularono con lui, ed egli fingendo di accettare i complimenti rispose: — Se capiterà un’altra volta, il discorso lo farete voi, e vedremo come ve ne uscirete. — Speriamo che sia per te, disse sotto voce, il maestro di scuola, che aveva ricevuto una lettera di rimprovero fresca, fresca, dall’ispettore: in seguito ad un ricorso, il quale egli sospettava fosse partito da Signor Vittorio. XI. In seguito alla morte di don Pantaleo, don Zua fu subito richiamato da Cagliari, dove studiava già da qualche anno. Che cosa avesse egli fin allora studiato, nessuno mai aveva potuto saperlo, e neanche i suoi compaesani, che studiavano fuori, ne avevano potuto dire qualche cosa. Don Zua, creduto un genio dal padre, aveva fatto il piacer suo; aveva trovato il modo di fargli sborsare molti danari, con mille scuse, e passava la vita allegramente. Nei primi tempi della sua andata a Nuoro era stato per lunga pezza lo zimbello dei compagni di scuola, i quali molto più piccoli di lui, ma molto più svelti, si divertivano a tirargli la camicia che gli spuntava eternamente dai calzoni; ad attaccargli code di carta agli abiti, ed a tirargli pallottole di carta masticata. Quelle lezioni giornaliere, continue ed umilianti, poco a poco lo avevano scosso, ed avevano operato in lui un certo cambiamento. A mano a mano si era andato dirozzando, tanto almeno da proteggersi contro gli scherzi di mal gusto dei compagni. Aveva sentito decantare dal figlio della padrona di casa, il quale era stato studente a Cagliari, le bellezze di quella città; egli lo aveva ascoltato a bocca aperta, non perdendo una parola di quelle descrizioni esagerate, ed ogni giorno si era acceso, un po’ più, dalla voglia di andare anch’egli a vedere quel mondo nuovo! Questa idea non gli lasciò più pace; ed una volta che don Pantaleo era andato a Nuoro, per visitarlo, gli seppe strappare la promessa che lo avrebbe mandato a Cagliari, per proseguire gli studi. Don Pantaleo però aveva messo una condizione grave: quella cioè dell’approvazione, al primo esame, alla classe superiore. Questo veramente non entrava nei voti di Zua, perchè egli solo sapeva che per passare al primo esame, bisognava studiare parecchio; poiché durante l’anno, s’era steso al sole d’inverno, e aveva dormito all’ombra di un mandorlo fronzuto, nei pomeriggi caldi dell’estate; tuttavia uno sforzo si poteva fare; e lo avrebbe fatto! Si trattava niente di meno di veder Cagliari, quella terra promessa, ove, il figlio della padrona di casa, aveva visto tante cose, e ne aveva fatto tante altre; dove c’era il mare, coi bastimenti più grandi di una casa! più grandi della cattedrale; i quali correvano sulle onde, per mezzo del fuoco e dell’acqua! Ci sarebbe andato con la ferrovia, in vagone, tirato da una macchina sbuffante, come una bestia misteriosa! Tutto ciò per lui aveva del soprannaturale perchè non ne capiva nulla; e moriva dalla voglia di vedere tutte quelle cose, le quali, descritte, lo avevano sbalordito e che sognava continuamente anche quando era desto. Non si sa come; ma il miracolo Zua lo aveva fatto. Era passato al primo esame e don Pantaleo aveva dovuto mantenere la promessa. I fratelli non avevano potuto darsene pace! Perchè dovevano loro far da servi, lavorando la terra, mentre Zua se la viveva da gran signore, in città, a Cagliari! C’era bisogno di mandarlo a Cagliari, mentre a Nuoro avrebbe potuto studiare ancora quattro o cinque anni. Per appagare un capriccio di quel bestione, li spendeva i quattrini, il padre, mentre per loro era tutto lesinato, tutto dato a malincuore. La volta che Sisinnio aveva speso dieci lire a San Cosimo, il padre per poco non lo mangiava vivo, mentre per Zua altro che venti, e cinquanta, e cento lire spendeva, inutilmente ogni mese! Queste lamentazioni però erano fatte tra di loro due, perchè conoscevano a che punto arrivasse l’ira del padre; specialmente dal giorno che Taddeo per una semplice allusione a quelle parzialità, aveva avuto un occhio violaceo, per più di un mese, in conseguenza di uno schiaffo di don Pantaleo. Zua a Cagliari, sulle prime rimase sbalordito, poi, abituandosi alla vita di città, fece delle conoscenze, con altri studenti, che avevano fiutato il merlo da pelare, e correndo da un divertimento all’altro non pensò più a nulla. Quando, alla fine dell’anno, riportava la dovuta boccia trovava sempre la scusa pronta per persuadere il padre; il quale si era abituato a vedere in lui una vittima del rigore insensato dei professori. Zua a Cagliari aveva subito l’influenza degli amori dal balcone, ed invagitosi di una ragazza, aveva cominciato a sentire il bisogno di vestire decentemente, se non elegantemente. Quando tornava a Mamoiada era ammirato come un figurino di Parigi, ed i giovani del paese, che non avevano mai spinto il piede al di là di Nuoro, lo invidiavano segretamente, perchè, le domeniche, coi loro abiti spelati, diventavano più ridicoli in confronto di Zua, il quale li guardava dall’alto in basso, pavoneggiandosi nelle sue vesti nuove, che avevano qualche cosa di città. XII. La morte improvvisa di don Pantaleo doveva portare un gran cambiamento nella vita dello spensierato Zua. Egli, partito precipitosamente da Cagliari, era arrivato a Mamoiada, disperato di non aver potuto abbracciare un’ultima volta il padre, che egli amava, sebbene abusasse molto di lui, inventando ogni genere di storielle, pur di potergli strappare dei danari. I primi giorni fu inconsolabile, poi il tempo aveva finito per arrecargli un pò di conforto. Però passava le giornate chiuso in casa a leggere qualche romanzo, rifiutando qualsiasi svago, evitando la compagnia di tutti e stando costantemente al capezzale di donna Clara, la quale da qualche settimana teneva il letto, per una grave malattia di cuore. I fratelli non gli dicevano mai nulla, e Zua sebbene avesse capito che gli erano ostili non aveva saputo darsene la ragione. Ma la spiegazione non tardò molto ad averla. Donna Clara, sebbene non guarita perfettamente, s’era alzata da letto; però quella grave malattia aveva lasciato profonde tracce in lei. Non era più la donna energica di una volta; la madre che faceva tremare Sisinnio e Matteo, ad ogni minimo indizio di ribellione; il morbo le aveva tolto tutto: la robustezza del corpo e la forza della mente. Ora era un essere senza volontà, una macchina che si reggeva per miracolo, e che al più piccolo urto si sarebbe spezzata. Sisinnio e Taddeo avevano visto quel cambiamento repentino, e avevano deciso di approfittarne. Zua doveva essere la loro vittima, l'invidia, per tanto tempo repressa, avrebbe avuto il suo libero sfogo; non più preferenze, non più parzialità; da quel momento sarebbero stati tutti uguali. Zua, se così gli piaceva, avesse pure continuato a fare il signore; ma a sue spese, col proprio sudore, non con le fatiche loro. Oh l'avrebbero voluto vedere allora, come si sarebbe potuto mantenere a Cagliari, vivendo di rendita! Le terre bisognava coltivarle perchè rendessero, e se egli andava via, i suoi beni non gli avrebbero reso niente, perchè si sapeva come andavano le proprietà affidate a mani estranee; non se ne sarebbe ricavato il tanto per pagare le imposte. La congiura tra i due fratelli maturava, ed il tempo in cui don Zua sarebbe dovuto ripartire si avvicinava. Un giorno Zua riunì Sisinnio e Taddeo, e spiegò loro che aveva deciso di ripartire per continuare gli studi; che aspettava il loro parere per combinare ogni cosa, onde l’andamento della casa non potesse essere minimamente danneggiato. Fu allora che scoppiò il grido della riscossa dei due fratelli maggiori! Non ebbero più ritegno, rinfacciarono al povero Zua tutto quello che avevano sofferto per lui; gli dissero che egli aveva passato da gran signore molti anni della sua giovinezza, mentre loro avevano curvato la schiena sull’aratro, per procurargli quei piaceri; che l’ora della stanchezza era giunta. Andasse pure, partisse quando voleva, essi non potevano impedirglielo; ma che pensasse d’onde poter prendere i danari, perchè non gli avrebbero mai inviato un centesimo. Se la madre aveva dei danari da buttar via con lui, padronissima, lo facesse pure; ma da loro non sperasse nulla. Zua aveva pensato ad una sfuriata dei fratelli, ed aveva preparato le armi per combatterli; ma non aveva neppure immaginato che l’attacco dovesse essere così violento. Tentò di persuaderli pronunziando qualche parola di scusa; niente: i fratelli si avevano turato le orecchie con le mani, e gli dichiararono che sarebbero stati inutili tutti i tentativi. Ricorse alle preghiere, dicendo che lo avrebbero rovinato, rifiutando di aiutarlo a proseguire la carriera incominciata. Taddeo e Sisinnio gli risero in faccia, domandandogli che dichiarasse francamente quali erano gli studi che fin allora aveva fatti, e in che corso si trovasse. Zua non seppe che rispondere; la domanda era stata troppo concisa, ed egli non era preparato a quest’ultimo colpo. Balbettò qualche parola, cercò di architettare qualche piccola fiaba; ma si confuse di più ed i fratelli lo lasciarono, dicendogli che era tempo che anch’egli facesse qualche cosa, per sé e per la famiglia, che il lavorare la terra non lo avrebbe mai disonorato, bensì la vita del vagabondo, consumando gli averi proprii e gli altrui. XIII. Erano passati parecchi mesi dal giorno in cui Zua aveva avuto la certezza che per lui era finita la vita brillante della città. Egli aveva tentato tutti i mezzi, escogitato tutti i ripieghi possibili, per fuggire, una buona volta, da quel suo maledetto paese, che ora gli era diventato odioso; però non aveva potuto far breccia in nessun posto. La porzione dei suoi beni non fruttava, perchè non era coltivata, ed egli viveva alle spalle della madre, la quale anche lei s’andava consumando, assieme agli ultimi suoi risparmi. Sebbene in paese tutti credessero che don Pantaleo avesse lasciato sacchi d’oro alla famiglia, in casa non avevano potuto mai trovare un centesimo, neanche dopo aver messo sotto sopra tutto, ed aver scassinato ogni cassa ed ogni armadio, nella speranza di trovare il tesoro di don Pantaleo. L’infelice non avrebbe mai potuto pensare di andare a morire in mezzo ad una strada, con la testa schiacciata contro un sasso, e perciò non aveva mai detto a nessuno il suo segreto. I figli sospettavano che il vicario sapesse dove erano nascosti i danari, perchè egli solo aveva sentito le ultime parole di don Pantaleo; ma non era che un semplice sospetto, e non potevano cavarne alcun costrutto. Così alla famiglia non rimanevano che i terreni e i crediti; però in quei tempi i terreni rendevano poco, ed i creditori non più spaventati dal terribile don Pantaleo, facevano orecchie sorde alle frequenti domande degli eredi. Un mattino anche donna Clara spirò mentre raccomandava ai figli di citare signor Vittorio. Da quel momento Zua restò solo. Quella sventura impreveduta gli diede un colpo terribile che lo accasciò. Come avrebbe fatto per l’avvenire, senza aiuto, senza consiglio? Chi lo avrebbe indirizzato nell’amministrazione di quel pò di patrimonio che gli era toccato? Egli, ignaro di tutto, senza pratica alcuna negli affari della campagna, non sapeva dove metter le mani. Avrebbe avuto bisogno di uno che facesse le sue veci, che sorvegliasse tutti i lavori, che facesse fruttare le sue terre. Ma come, ma dove trovarlo in quel paese maledetto, fra quei compaesani maligni che gli voltavano le spalle appunto quando la stella dei Calarighes accennava un’altra volta a voler tramontare? Che colpa aveva egli verso i fratelli, se il padre li aveva trattati diversamente di lui? Perchè si sarebbero dovuti vendicare? Zua nella solitudine della sua casa si abbandonava a simili pensieri, incapace di prendere una determinazione qualsiasi. Rifuggiva dall’idea di doversi adattare egli stesso a lavorare la terra. Come avrebbe potuto soffrire in pace quell’umiliazione? che cosa ne avrebbero detto i cavalieri di Mamojada, che egli per tanto tempo aveva quasi disprezzato? Oh come avrebbero riso di lui! quanta soddisfazione! quale rivincita si avrebbero preso! lo avrebbero pagato con la stessa moneta. Avrebbe avuto egli il coraggio di uscire in paese, coi buoi aggiogati al carro, col cavalluccio carico di cipolle e di patate, con le zappe ed il picco sulle spalle? Egli destinato a grandi cose! Povero padre suo, se avesse potuto rizzare la testa dal sepolcro e l’avesse potuto vedere in quello stato, mentre aveva riposto in lui tutte le più belle speranze! Ma era possibile dunque che Iddio permettesse simili cose? La fortuna lo avrebbe dunque sempre perseguitato in tal modo? Le settimane ed i mesi intanto passavano, ed egli continuava a fare un grosso buco, nel pò di monete che la mamma gli aveva lasciato di nascosto, senza che ne sapessero gli altri due fratelli. Un giorno la vecchia serva, l’unica che gli fosse rimasta fedele, venne a dirgli che non c’era più pane in casa. Zua pose mano alla borsetta che custodiva gelosamente in seno e ne trasse l’ultimo scudo. Consumato quello non rimaneva più niente. O vendere i suoi terreni, o piegarsi a coltivarli. Molte notti di seguito vegliò, pensando a quel difficile problema, che la sorte contraria gli proponeva. Un’aspra battaglia si combatteva nell’animo suo; o l’umiliazione presente, o la miseria futura. Era poi un gran disonore come egli credeva, l’amministrare il proprio patrimonio, ed il coltivare le sue terre con le sue mani? Non sarebbe stato peggio il vendere a brano a brano le sue proprietà, e restare poi completamente povero, costretto a maggiori umiliazioni, per campare la vita? L’idea del suicidio non gli era mai balenata. Don Zua non aveva quel coraggio; la morte lo aveva sempre spaventato. XIV. Una mattina don Zua si alzò pallido come un cencio; andò sotto la tettoia del cortile, dove un cavalluccio magro stava attaccato ad una greppia vuota, e lo sellò. Margherita, la vecchia serva, vedendolo porre la sella al cavallo, aperse tanto di bocca. — Don Zua, che miracolo? da che parte spunta il sole quest’oggi? — Cara mia, con te, lo sai, non ho segreti; la necessità fa correre i vecchi, dice il proverbio. In casa non c’è più un centesimo, e.... bisogna procurarne in qualche maniera, se non si vuol morire di fame. Non ho potuto diventar dottore, mi farò contadino; il lavoro non disonora, è vero Margherita? che ne pensi tu? — In quanto a questo, don Zua, lei grazie al cielo, non va certo al soldo altrui, e se lavora la terra, è terra sua. Del resto che cosa fanno qui tutti i cavalieri? non lavorano forse la terra, per campare la vita? Certo che, così di rendita, non c’è nessuno in paese che possa vivere. Oh lo diceva anche don Pantaleo, buon’anima, che di rendita viveva solo il conte Viale. Io non l’ho conosciuto; ma doveva essere un gran riccone quel conte, altro che i nobili di qui! Vada, vada, don Zua, che solo il rubare fa disonore, all’uomo; il lavoro onesto no. — E.... scusi, che intenzioni ha? — Ecco: ieri, quando tu eri a lavare al fiume, sono venuti in casa parecchi negozianti di legnami, che vorrebbero tagliare dieci o venti noci, dall’orto; mi dispiace privarmene, ma il bisogno incalza, e siccome mi pagano subito, vado e conchiudo l’affare senz’altro. — Vada, vada, e.... buona fortuna, riprese Margherita, aprendo il portone, perchè ne uscisse don Zua il quale era già montato a cavallo. I pochi oziosi, che si scaldavano in piazza, al sole primaverile, non furono meno meravigliati di Margherita, vedendo don Zua andare in campagna, a cavallo. In un momento tutto il paese lo seppe. Signor Vittorio uscendo dall’ufficio di conciliazione dove aveva difeso, con poca fortuna, la causa di una vecchia, alla quale i barracelli avevano staggito l’asinello, sorpreso in flagrante pascolo in un prato seminato ad orzo, si imbattè in don Ciriaco che tutto lieto gli disse: — Signor Vittò, dunque lo ha sentito? — Se l'ho sentito! ero io che difendevo l’asino e la vecchia; ma diciamo la verità queste sono infamie, il conciliatore dovrebbe essere più giusto, che ne dice lei? — Ma io non parlavo punto del suo asino, parlavo di don Zua. — Oh.... to! quasi, quasi, indovinavo perchè tra l’asino di cui si parlava, e lui vi ha poca differenza; che c’è dunque di nuovo? — È uscito in campagna, a cavallo, con una scure, ed una zappa dentro la bisaccia; lo hanno visto don Simone e don Eusebio. — Come? s’è dunque svegliato dalla sonnolenza? pare che non gli convenga, di starsene chiuso in casa senza far nulla! Oh vedrà, vedrà, don Cirì, un giorno o l’altro uscirà con l’aratro sulle spalle, come i fratelli. Don Ciriaco punto da questa osservazione di signor Vittorio, perchè gli succedeva spesso di intrattenersi con simile strumento campestre, esclamò, subito: — Perchè? forse crede lei che ciò gli faccia disonore? È meglio lavorare la terra che andare a truffare il prossimo, come fa.... qualche altro. In quel momento passava la vecchia dell’asino, difesa da Signor Vittorio. Appena lo vide gli corse incontro con le mani ai fianchi: — Imbroglione, imbroglione, erano queste le promesse che mi aveva fatto? Non ero io contenta di pagare il danno, senza pagare altre spese? — Ma che colpa ci ho io se.... — Che colpa ci ha? ed ha il coraggio di parlare a questo modo, dopo che mi ha mangiato uno scudo, che io mi ho tolto dal cuore, rubandolo alla mia famiglia, persuasa dalle sue parole. Non è stato lei che mi ha assicurato che avevo ragione io, che il conciliatore mi avrebbe assolta? Imbroglione, miserabile! Signor Vittorio, rosso come un peperone per la vergogna, si voltò ad un crocchio di curiosi che si erano fermati lì ad ascoltare; — Tenete bene a mente come questa donna mi ha ingiuriato, nella pubblica piazza, chè gliela voglio far pagar cara. — Va, imbroglione, che se mi cerchi ti faccio fare la fossa! — Tenete a mente anche questo, minacce di morte con premeditazione ed agguato; tenete bene a mente, che la cosa finirà nella corte di Assise. La vecchia intanto si allontanava voltandosi ogni tanto, per minacciarlo, con la mano scarna. Egli per la confusione, si asciugava il sudore con un fascio di carte scritte, tingendosi così di nero la faccia, e destando l’ilarità di tutti i presenti. Don Ciriaco, non volendo servir da testimonio, si aveva aperto un varco tra la folla, ed era andato a nascondersi nella botteguccia di Mastro Corriattu, per osservare, tutto ciò che accadeva, dal vetro rotto di una finestra piccola come una feritoja. XV. Il ghiaccio era stato rotto! Don Zua, per la prima volta che era uscito in campagna, aveva cominciato a fare qualche cosa. La sera era tornato a casa con due buoi, che aveva trovato a pascolare abusivamente nel suo orto. Li aveva aggiogati assieme con una cordicella, e poi se li era messi avanti al suo ronzino. Entrando in paese aveva cercato di giungere a casa sua, passando per i vicoli più solitari; ma questa volta Don Zua aveva proposto ed i buoi disposto; erano passati per la via principale, credendo di andarsene in casa propria, e don Zua, non volendo perdere la dovutagli indennità fece forza a sè stesso, e si rassegnò a seguire le due bestie, mandandole avanti con disinvoltura, stimolandole con una verga, come se stesse a guidare una coppia di cavalli inglesi. Tutto il nobilume di Mamoiada, era riunito nel solito piazzale della maldicenza, a fare la critica a quanti passavano, ed a pungersi vicendevolmente, con frizzi mordaci; perchè di tutti quanti sebbene ogni sera si riunissero insieme non ve n’erano due che andassero d’accordo. Guai a chi per un bisogno qualunque, fosse costretto a separarsi, pel primo, dal crocchio; era sicuro che gli altri gli avrebbero detto corna alle spalle. Tutti perciò evitavano di separarsi per i primi, e quasi sempre il crocchio si scioglieva completamente al tocco dell’avemaria. Don Zua dovette passare proprio dinanzi a quella riunione di maldicenti, e sebbene fosse convinto che nessuno tra quelli valesse menomamente più di lui, una fiamma di vergogna gli bruciò la faccia. Don Eusebio, appena lo vide, fingendo di scherzare gli disse: — Come, don Zua, s’è fatto boaro tutto in una volta, e gli studi? Zua impallidì per la rabbia; però seppe frenarsi: — Per studiare ci vogliono danari, caro don Eusebio, ed io non ne ho; anzi, ora che torna a proposito, la prego di sistemare quella piccola pendenza che esiste ancora; perchè non più tardi d’ieri, ho trovato la scrittura che lei aveva fatto al povero mio padre; e, sa, mi dispiacerebbe di dover mandare l’usciere in casa sua. Don Eusebio non si potè esimere dal ricevere quella lezione, così, in pubblico, e cercò di nascondere con uno schianto improvviso di tosse, le ultime parole di Zua; ma fu inutile perchè tutti le avevano udite; e siccome molti fra quelli erano oppressi dalla stessa malattia, chi per una scusa chi per l’altra si allontanarono, momentaneamente, finchè don Zua non fu scomparso nello svolto di una strada. Passato il pericolo, i fuggitivi si riavvicinarono, con circospezione, al resto della comitiva. Fu allora che cominciarono le maldicenze di tutti, i frizzi pungenti, le allusioni sarcastiche, gli insulti triviali contro il povero don Zua, che tanto non poteva rispondere perchè assente. — Pare che il piccolo lupo abbia succhiato il vero latte dell’usuraio, esclamò don Eusebio, il quale non poteva mandar giù le parole di Zua; — però se crede di diventare ricco come il padre, strozzando la gente, l’ha sbagliata; prima di tutto, perchè non ha nè l’ingegno, nè la fermezza di don Pantaleo, mal’anima; in secondo luogo perchè nessuno si lascerà più prendere per la gola. — A costo di vendere il pò del patrimonio, aggiunse don Simone. — Cerca di sfogare la rabbia con noi, perchè, dai banchi dell’Università, deve tornare a piantar cavoli e patate, fece don Vittorio, il quale era stato condannato, dal pretore di Fonni per il debito verso gli eredi Calarighes. — Ma di quale Università parla lei, se quel poveretto non ha fatto neanche la quarta elementare? interruppe il sindaco con disprezzo. Così continuarono a chi poteva dirne di più, mentre altri due o tre, un pò discosti dal gruppo principale, commentavano la scenetta della vecchia con signor Vittorio. Passato quel primo quarto d’ora di vergogna, don Zua aveva preso coraggio; e tutti i giorni se ne andava in campagna, e colà cominciava ad addestrare le membra signorili alla durezza della vanga. Quando la sera tornava a casa, dopo una lunga giornata di lavoro, sentiva con più dolcezza l’ora del riposo, e provava un’intima soddisfazione di non essere stato ozioso, e d’aver guadagnato qualche cosa. Mentre prima andava nelle campagne più lontane, per non essere visto da nessuno, ora si adattava anche a visitare l’orto, che possedeva là, a due passi dal paese. I primi giorni s’aveva fatto portare la zappa ed un abito vecchio da Margherita, ed egli l’aveva seguita, facendo girare, fra le dita, una canna d’india, ultimo segno dei passati splendori. Poi aveva cominciato ad uscire di casa, con l’abito vecchio; il giorno appresso, prese egli stesso la zappa, portandola a bilancia, come soleva portare la mazza, e così a mano a mano, andò abituando il paese alla sua metamorfosi. Una mattina, dopo averci pensato per molt’ora, prese una risoluzione energica, e spalancato il portone, uscì coi buoi aggiogati e coll’aratro sulle spalle. In paese qualcuno mormorò ancora; gli scagliarono gli ultimi dardi della maldicenza; però le cattive lingue non ebbero eco. Il lavoro onesto di don Zua, più che di disprezzo, lo andava sempre più circondando di rispetto. Egli viveva lontano da tutti i nobili di Mamoiada, perchè li conosceva maligni e pettegoli. Le ore d’ozio le passava sotto alle grandi e fresche ombre delle querce immense, nella collinetta che sovrastava all’orto, godendone la frescura quando il sole bruciava i fiori ed ingialliva le messi. Quelle piante erano diventate la sua famiglia; di là vedeva la distesa uguale e piana dell’orto coltivato con le sue mani. Il suo occhio, contento abbracciava le lattughe dalle foglie di un verde pallido, ondeggiate come l’acqua di un laghetto; i cavoli verde cupo, turchinicci, azzurreggianti, sparsi al suolo come un branco di tacchini appollaiati in mezzo alla terra quasi nera; l'indivia con le foglie frastagliate, bucherellate, stese nell’oscuro delle aiuole come un gran tappeto di merletti, fantasticamente intessuto: in fondo, nel confine dell’orto, una miriade di cipolle, con le loro punte aguzze, come una selva di baionette portate da migliaia di soldati invisibili, pronti alla difesa di tutta quella vegetazione. Quelle lattughe, quei cavoli, quelle indivie, quelle cipolle, gli parlavano, gli sorridevano, lo salutavano coll’ondeggiare delle foglie, smosse leggermente dalla brezza. Egli capiva quel susurrare sommesso, ed il suo occhio esercitato correva, da un punto all’altro dell’orto, passando in rivista ogni piccola pianticella; scopriva i dolori ed i patimenti di quella sua famiglia verdeggiante, ed accorreva sollecito, ad innaffiare, con lo spruzzo sottile come la nebbia, fresco e rigeneratore, ogni pianticella appassita; ed era felice, quando poco dopo, vedeva rizzarsi quelle foglie, prima quasi secche. La sera, quando toglieva la cateratta dalla balza, ricolma d’acqua limpida, che s’inoltrava gorgogliando, serpeggiando, quasi circondando d’argento fuso ogni pianta, Zua, ritto in mezzo alle ortaglie, con una piccola zappa in mano, scrutava con l’occhio attento, per vedere che ogni lattuga avesse la sua porzione d’acqua, ed ogni cavolo fosse abbondantemente dissetato. La terra bruciata dal sole, beveva, beveva, avida, l’acqua rigeneratrice, e Zua, lieto, con la bocca affannosa e con gli occhi sbarrati, mandava sempre, acqua, acqua, finchè, la sua terra le sue piante ne fossero sazie, soddisfatto come se egli stesso fosse bruciato dall’arsura estiva, e si dissetasse ad una fonte freschissima; parlando alle lattughe, parlando alle indivie, alle rape, alle cipolle; esortandole tutte, a bere, a bere, ad inebbriarsi di quella frescura. Da tutta quella verdura, da quell’umidore, saliva al naso di don Zua un profumo acuto e penetrante che gli solleticava le papille, scuotendogli ogni fibra, inebbriandolo, invadendolo tutto, abbandonandolo ad una sonnolenza soave, ad una voluttà inesprimibile, nota a lui solo. La sera, dopo che s’era fatto buio, faceva l’ultimo giro nell’orto, dandogli un addio muto ed affettuoso, guardandolo con occhio tenero e contento, e se ne partiva quasi con mestizia. XVI. Era uno dei primi giorni d’aprile; il sole tramontava in una gloria di colori, ed un profumo soave di fiori invadeva l’aria. Era uno di quei tramonti che invitano gli animi alla pace serena, all’amore tenero e dolce, alle inebrianti voluttà dei sensi; una di quelle sere in cui si sente il bisogno di amare qualcuno, di abbracciare il corpo flessuoso di una fanciulla adorata, di suggere l’amore dalle sue labbra provocanti ed appassionate. Don Zua nell’orto zappava. Il suo corpo, curvo sulle lattughe, ne beveva le esalazioni piene di sonnolenza e di languore e zappava, zappava, lentamente, invaso anch’egli dalla spossatezza e dal torpore di quelle sere profumate di primavera. Una voce armoniosa di donna lo scosse. — Buona sera, don Zua. Zua si rizzò sulle gambe aperte, spinse indietro il cappellaccio che lo riparava dal sole, e guardò dalla parte d’onde veniva la voce. Dietro la siepe dell’orto, tra le fave verdi, intravide, come un gigantesco papavero, il corsetto rosso di Boella (Raffaella). Boella era la figlia unica di zio Marco Santoni, uno dei contadini più ricchi del paese. Ella era la più bella giovinetta di Mamojada, tutti lo dicevano, e non eravi persona, che vedendola passare, non si voltasse ad ammirarla. Ognuno al vederla non si poteva trattenere dal dire: — Come è bella! Che vezzosa fanciulla! È un angelo venuto di cielo in terra! Boella si sapeva vezzosa ed ammirata, ed ogni volta che se lo sentiva dire, le sue guance, dal piacere, si tingevano di vermiglio. In paese i giovani contadini non osavano chiederla in isposa, sebbene tutti, dal primo all’ultimo, ne fossero innamorati, per paura di un rifiuto; i cavalieri, da un lato avrebbero voluto sposarla, un pò perchè era bellissima, e più di ogni altra cosa, perchè, con la sua dote, c’era da rimettere in piedi i patrimoni andati a male; ma poi li tratteneva dal farsi avanti, l’idea della loro nascita. C’era da farsi lapidare dagli altri nobili, se nella loro casta fosse entrata una fanciulla plebea. Perciò tutti le facevano la corte, ma nessuno tentava l’impresa. Boella accettava la corte di tutti con civetteria; ma specialmente quella dei giovani nobili, perchè nel suo cervellino matto, di ragazza viziata, c’era entrata un pò d’ambizione, ed il suo costante pensiero, ed il sogno più ardentemente vagheggiato era quello di sentirsi chiamare, un giorno, donna Boella! Non le sarebbe importato nulla che il suo futuro marito fosse stato brutto, purché avesse avuto il titolo di cavaliere, ed un impieguccio qualsiasi; non voleva cavalieri che coltivassero la terra! — Le ho detto buona sera, ripetè Boella, vedendo che don Zua non le rispondeva. — Buona sera, bellissima Boella, disse Zua, buttando la zappa ed avvicinandosi alla siepe di bianco spino, buona sera, scusami sai, non ti aveva ancora visto, la prima volta che mi hai salutato; che fai qui sola? — Non sono sola, sono col babbo, poi fossi stata anche sola, non c’è paura che mi porti via nessuno; chi vuole che si curi di me, fossi stata una bella ragazza, meno male, ma non c’è questo pericolo. - Tu sei la più bella creatura che io abbia visto, esclamò sinceramente Zua, che la guardava abbagliato da tanta bellezza. — Matto, esclamò sorridente Boella, e buttò addosso a don Zua, una buccia di fave, mangiandone ad uno, ad uno i grani, per mettere in mostra due righe di dentini perlati, piccini, piccini, come denti di bambino, loro Signori non sanno far altro che complimenti. — A chi li merita, aggiunse Zua. — Basta, basta, don Zua, altrimenti finirei per crederlo anch’io, ed allora guardandomi nello specchio, sarei infelice di essermi illusa troppo facilmente. — No, lo specchio non è traditore, è forse t’avrà ripetuto più di mille volte, ciò che io non t’ho detto che una sola. Don Zua aveva saputo esser galante con la bella popolana, e forse avrebbe continuato, se Boella non lo avesse interrotto cambiando discorso. — Sa ciò che mi è accaduto ieri? Zua la fissò negli occhioni neri, con uno sguardo interrogativo. — Ancora un poco, ed oggi si sarebbe parlato di me come di una cosa passata. Fortuna che le pelli grame rasentano sempre il pericolo e non ci cadono mai dentro. — Dunque tu hai corso un gran pericolo, chiese don Zua, tra il serio ed il faceto. — Grave? non glie l’ho detto, ancora un secondo e sarei andata all’altro mondo, all’inferno sa. — Al cielo, vorrai dire, gli angeli tornano là, d’onde son venuti. — O smette, o non racconto più il fatto. — E sia, ascolto. — Come dicevo.... m’aiuti lei, dove era rimasta? cioè, non avevo cominciato ancora, peggio per lei che mi ha interrotta. Zua la guardava in estasi, incantato di quella voce armoniosa, di quei vezzi fanciulleschi, pieni di civetteria. — Ora glielo spiego in due parole: — Ieri mattina sono andata all’orto, quello vicino al paese; ho visto che un rosaio si disseccava, perchè tutti ci eravamo dimenticati di innaffiarlo, e sono andata ad attingere una secchia d’acqua dal pozzo. Quel pozzo che abbiamo fatto scavare poco tempo fa e che non è ancora finito; l’ha visto? Zua accennò di sì. — Ci hanno messo due o tre tavole sopra perchè nessuno possa caderci dentro, io mi fidai sopra una di quelle tavole, e mentre tiravo su la secchia.... crac, la tavola tarlata, si spezzò in due, proprio nel mezzo, ed io giù, dentro al pozzo. Ho fatto a tempo ad afferrarmi all’altra tavola e allora: Aiuto, aiuto, gridai con tutto il fiato che avevo in corpo. Meno male, passava di là il brigadiere, è accorso e mi ha salvata. Ah, ah, ah, è stata proprio curiosa; per un pelo non me ne volavo diritta all’inferno, perchè chi ha fatto spezzare la tavola è solo il peso dei miei peccati, non quello del mio corpo; ci crede ora che io dovevo andare all’inferno? ah, ah, ah! Don Zua era diventato pallido per l’emozione provata in seguito al racconto della giovinetta, che in quel momento rideva come si trattasse della cosa più lieta di questo mondo. — Avrei voluto essere io al posto del brigadiere! lui fortunato! — Bah! bella fortuna, sta fresco se non gliene capita altra al mondo di fortuna, lei non avrebbe fatto nè più nè meno di ciò che ha fatto il brigadiere. — È vero, mormorò quasi tra sè don Zua; ma forse tu, qualche volta, avresti pensato a me. — O perchè vuole che pensi a lei? sarei troppo vanitosa se mi mettessi di simili idee per la testa; io sono una povera popolana, e lei è nobile. I cavalieri non si possono abbassare fino a noi. Bella figura farebbe con una moglie contadina! Vada, vada là, che in paese ci sono delle dame, belle e ricche; io non la farei felice. Zua non ascoltava più le parole della fanciulla; un pensiero dolce accarezzava la sua mente, e un’emozione che fino a quel momento non aveva mai provato gli diede una stretta al cuore. — Che fa ora? pensa al brigadiere o al pozzo? — Penso a te, a te sola. — Ci sarà sempre tempo, riprese, scherzosamente, Boella; ora stia ancora a sentire, non ho finito. — C’è qualche altra cosa ancora? — Sicuro, c’è la parte bella; quando mi son vista salva, ho fatto subito voto di andare a far orazione a San Mauro di Sorgono; non ora; alla fine di maggio, quando vi sarà la festa. Così potrò fare un viaggio, e due servizî; adempirò al mio voto e.... e mi divertirò un poco. Vuol venire anche lei? Via, faccia il voto; vedrà, vedrà come ci divertiremo! dunque, vuol venire? Negli occhi di Zua brillò un lampo di gioia. — Se voglio venire! te ne do la mia parola d’onore fin da questo momento. Anzi, se accetti, e se non sono indiscreto, t’offro di portarti in groppa al mio cavallo. — Patto fatto, esclamò Boella, battendo le mani, se non altro farò un pò stizzire le dame di Mamoiada, oh che gusto, che gusto! — Boella, gridò in quel momento il babbo di lei, dall’altro lato del campo, se vogliamo andare son pronto. — Eccomi, vengo; poi rivolta a don Zua: — Dunque siamo intesi, non resta altro che combinare per il viaggio, a rivederci, e... pensi a S. Mauro. E leggera come una gazzella, correndo fra le fave verdi, scomparve agli occhi di Zua che stette ancora qualche tempo fissando, con l'occhio immoto, il punto ove era scomparsa la gentile vicina. XVII. La notte, quando Zua tornò a casa, rispose sbadatamente alle mille domande con cui lo assaliva, tutte le sere, Margherita. La vecchia voleva essere quotidianamente informata se i fagiolini crescevano, se le fave erano troppo mature, se le lattughe erano ancor tenere, e di cento altre cose. Don Zua, che passava tutto il giorno fra quelle ortaglie, gliene faceva descrizioni lunghe, fino all’ora di andare a letto, e la vecchia lo ascoltava a bocca aperta, perchè don Zua, diceva ella, non è un orticoltore volgare, egli toglie i semi dai libri e li pianta secondo le regole della grammatica. Quella sera però, fu poco soddisfatta delle risposte del padrone, e quando questi, appena ebbe cenato, se ne scappò via per andare a letto, disse tra sè: — Oggi il padroncino non è al solito, no; gli deve essere successa qualche cosa; guarda, guarda, non ha mangiato neanche tutte le patatine; pure erano eccellenti, fritte col lardo, come piacciono a lui, belline, rosolate in color d’oro, croccanti come lo zucchero. Del resto, la gioventù, si sa, in primavera è sempre svogliata; me ne ricordo bene io, quando ero in fiore; ma, pazienza; oh mio Dio signore! Zua era andato presto a letto, perchè aveva bisogno di star solo, di pensare a lei, di rivederla con gli occhi della mente, di parlarle col cuore. Ma perchè gli avevano fatto tanta sensazione le parole di Boella? Pure non era la prima volta che l’aveva vista, che l’aveva sentita parlare, che aveva scherzato con lei! Perchè aveva sentito quella stretta al cuore quando l’aveva vista allontanarsi, e sparire fra le fave, come se lei si portasse via una parte della sua anima? Perchè gli aveva lasciato quella tristezza tenera e dolce, quella voglia inesplicabile di piangere? Perchè non le aveva potuto dire neanche addio, quando era fuggita via come una colomba? In vita sua, non ricordava d’aver provato mai tanta emozione per una donna. A Cagliari, una volta, s’era innamorato di una signorina; una contessina, che lo aveva fatto soffrire molto, perchè non ne aveva mai voluto sapere di lui; ma non aveva sentito quel dolce e misterioso palpito, che ora lo faceva pensare costantemente a Boella! Che ne fosse innamorato? Nella vita l’innamorarsi è un istante, basta vedersi! E se ne fosse davvero innamorato? che male c’era? Non era forse padrone della sua volontà? Di che avrebbe temuto? della critica dei parenti e degli altri nobili di Mamoiada? Oh egli quella critica l’aveva sfidata, da molto tempo, non se ne curava più! si sentiva, di molto superiore a loro, perchè era incapace di far male ad una mosca, e se ne viveva tranquillo, nel suo guscio. Che gli importava a lui, se Boella non era nobile? era contadina, ma onesta; non potevano dirle ciò che s’era detto, e si diceva tuttora, in paese, sul conto di donna Veronica, di donna Carolina, di donna Michela, di signora Sinforosa, che si erano fatte protagoniste di romanzetti assai scandalosi. Tutto questo non glielo potevano dire certamente a Boella; lei non aveva fatto entrare mai nessuno dalla finestra nè aveva nascosto gli innamorati sotto il letto come quelle superbe dame! Che gli interessava poi, dicessero tutto ciò che volessero i nobili, egli avrebbe fatto il suo gusto. Boella però avrebbe acconsentito a sposarlo? Non si poteva mai sapere come avrebbe preso il suo amore. Le ragazze, certe volte avevano idee stravaganti, si facevano un certo concetto del matrimonio! Poteva essere innamorata di un altro! Oh sarebbe stato ben doloroso! Ma in paese non s’era detto mai niente. Quali idee si metteva in testa! Se fosse stata innamorata non gli avrebbe proposto di andare assieme a S. Mauro, e non avrebbe accettato l’invito che le aveva fatto egli, di portarla in groppa al suo cavallo! E quelle parole che gli aveva detto quando se ne andava: Pensi a.... San Mauro! Forse volevano dire: Pensi a me. Poteva sapere egli se Boella avesse provato le stesse sensazioni provate da lui mentre si parlavano attraverso la siepe? Chi sapeva che anche lei non si fosse innamorata? E Zua si fermava di più in questo pensiero. La speranza di essere riamato da Boella lo rendeva felice. Finalmente dormì; ma il sonno fu breve perchè ebbe una brutta visione. Sognò che Boella era caduta di nuovo nel pozzo; ma il pozzo era pieno di fiamme. Tra le fiamme vedeva la figura del brigadiere, il quale afferrato ai piedi di Boella si sforzava di tirarla nel baratro. La meschina si dibatteva; ma inutilmente. Il brigadiere più forte, riuscì a stringerla fra le braccia, e baciandola in bocca, con le labbra di fuoco, andava mano, mano, scomparendo tra le fiamme. In quel punto Margherita entrò spaventata nella camera di don Zua e lo svegliò. — Nostra Signora del Carmine! mi ha fatto una gran paura, sa! — Che c’è stato? chiese Zua, svegliandosi ancora sotto l’impressione del brutto sogno. — Che c’è stato? e lo domanda a me, che tremo ancora come una foglia, dallo spavento? debbo domandarlo a lei, che gli è successo! si è messo a gridare: — Aiuto, aiuto, la stanno uccidendo, salvatela, per carità, salvatemi Boella! e un mondo di cose che non ho potuto capire, perchè le pronunziava come se qualcuno cercasse di strozzarlo. Io sono accorsa, pensando ad una disgrazia, e, meno male, sia lodato il cielo, non era che un sogno. — Un brutto sogno sai, Margherì; guarda, ne ho ancora la pelle d’oca. — Oh lo credo, lo credo; ma mi dica un poco, chi era quella Boella che stavano uccidendo, e che lei voleva salvare a tutti i costi? — Ma, va un pò a pescarla! sarà Boella Santoni; mi sarà venuta in mente, perchè ieri a sera l’ho vista nell’orto e le ho anche parlato, fece don Zua affettando indifferenza, ma tirandosi le coltri fin sopra gli occhi, per nascondere a Margherita il rossore, che gli copriva la faccia. A Margherita però, che lo aveva ballato in grembo, quando era fanciulletto, non gliela passava sotto al naso, don Zua; e la buona vecchia si spiegò in un momento le distrazioni della notte precedente; ma per allora, fece finta di non aver capito niente, ed uscì per portare il caffè al padrone. XVIII. Da quel giorno la pace aveva lasciato per sempre il cuore di Don Zua. Negli ampi quadrati dell’orto l’erba cresceva rigogliosa, invadendo, coprendo, soffocando le ortaglie. L’occhio di don Zua non vedeva più quelle povere cose terrene; si spingeva su, in alto, nell’azzurro, varcava i campi sconfinati dell’ideale, dietro a un bell’angelo che gli aveva aleggiato d’intorno, che gli aveva sfiorato il volto, con le lunghe ali dorate; ma che si allontanava sempre fra una nube luminosa. Quella visione costante gli toglieva ogni volontà. Egli avrebbe voluto correre come altre volte, in aiuto alla sua famiglia verdeggiante, nell’orto; avrebbe voluto sradicare quelle erbe nocive, avrebbe voluto liberare le tenere foglie dalle strette mortali della gramigna; ma quando parevagli di aver preso una seria risoluzione, quando tentava di scuotersi, una mano ignota lo fermava, una forza arcana, più potente della sua volontà, lo legava al suo pensiero costante. Una passione ardente si era abbarbicata al suo cuore, come le gramigne si erano intrecciate fra le sue ortaglie. Quella passione lo distruggeva lentamente; succhiava a stilla, a stilla tutto il suo sangue; di lui non rimaneva che una larva, come dell’orto non rimaneva che un tratto di terra squallido, pieno di erbacce inutili, che avevano succhiato tutta la linfa fecondatrice, di quella terra vergine, che alimentava tanta rigogliosa ricchezza. I begli occhi di Boella avevano bruciato il cuore di don Zua; ed egli godeva nel sentirsi distruggere, a brano, a brano, da quell'amore segreto, che non ardiva svelare a lei. Ma perchè era diventato tutto in una volta così timido? Perchè sentiva una fiamma cocente avvampargli il viso, ogni volta che il corsetto scarlatto di Boella spiccava allegramente tra il verde delle fave? Quale cambiamento in un mese! La voce di Boella che egli, prima, ascoltava indifferente di dietro la siepe, ora gli scuoteva ogni fibra. La melodia di quella voce armoniosa lo ammaliava, lo legava a quella siepe incantata, irta di spine acute, fra le quali, egli nell’estasi amorosa in cui lo immergeva la voce di Boella, si lacerava le mani, attaccandosi a quelle spine, che lo separavano dal suo amore. Boella era là, sempre lieta, sempre sorridente, sempre civettuola; ogni giorno più bella, più affascinante di prima. Ella s’accorgeva dell’effetto che i suoi occhi facevano sul povero don Zua, e ne godeva, soddisfatta. Vedeva il poveretto consumarsi, bruciato da quel fuoco lento, e tutti i giorni, con uno sguardo appassionato, con una frase oscura, ravvivava, accresceva, ingigantiva, quella fiamma distruggitrice. La popolana era fiera di vedere un nobile, schiavo di un suo sguardo, buttarsi ai suoi piedi, se ella l’avesse voluto, adorandola come una santa, implorando un po’ d’amore, null’altro che un po' d’amore. E don Zua era diventato lo schiavo di Boella! Qualche volta, quando ella lo aveva guardato più languidamente del solito, quando gli aveva lasciato intravedere un po’ d’amore, con qualche parola più dolce, più affettuosa, egli tornava felice alla sua cameretta. Nelle lunghe ore insonni riandava, col pensiero, ogni parola, ogni gesto, ogni sorriso, della fanciulla; baciando e ribaciando qualche fiore secco, che ella gli avea donato ancora ricco di profumo e di freschezza; e premendo sul cuore una piccola medaglia che gli aveva dato lei, dicendogli che l’avesse tenuta cara, perchè gli avrebbe portato fortuna. Egli da quel giorno aveva creduto alla potenza di quel talismano, che la fanciulla aveva vinto, in una lotteria improvvisata da un merciaiuolo girovago. Quando qualche pensiero di gelosia veniva ad offuscare le sfolgoranti visioni delle sue notti agitate, trovava un gran sollievo baciando il talismano. Però il sogno, il brutto sogno in cui parvegli che il brigadiere rapisse Boella, gli aveva lasciato un triste ricordo. Non poteva essere quella visione un triste presagio? Non poteva essere un annunzio di future sventure? Il ricordo del brigadiere, accorso a salvare Boella, non avrebbe potuto far cambiare in amore il sentimento di riconoscenza che era nel cuore della fanciulla? Quante volte non si erano visti dei casi simili? Il brigadiere poi era un bel giovane, nobile anch’esso; ed avrebbe potuto fare breccia, nel cuore vergine di Boella. Egli era costretto a riconoscere la sua inferiorità, non si illudeva. Ma Boella non aveva parlato sempre con indifferenza del brigadiere? Era proprio un gran matto a crearsi di simili fastidi; faceva tutto il possibile per addolorarsi, per martoriarsi il cuore! Già, la colpa era la sua, ci voleva tanto poco, a dichiararsi alla fanciulla. L’occasione gli si era presentata tutti i giorni, e non aveva avuto il coraggio di dire una parola. Dopo tutto non era meglio sapere se Boella lo amasse, se volesse essere sua moglie, piuttosto che vivere in quella dolorosa incertezza? A zio Marco Santoru non gli sarebbe sembrato vero, di dargliela in isposa; perchè una certa ambizioncella l’aveva; e quasi tutti i loro terreni erano confinanti. Non avrebbero fatto altro che atterrare i muri, per far casa comune. Da quel lato non temeva certo una repulsa. Bisognava affrontare Boella! ecco: stava lì la difficoltà. Però bisognava decidersi! — Oh come la vita sarebbe trascorsa lieta, vicino a quella incantevole fanciulla, che sarebbe stata sua, solamente sua; bevendo la voluttà dalle sue labbra sanguigne, l’amore da quegli occhioni dolci, sovranamente belli, pensosi come occhi di madonna! Don Zua, in quell’ebbrezza snervante del pensiero, passava le notti di maggio, piene di profumi voluttuosi, arso da una febbre amorosa, che a mano a mano degenerava in delirio, in pazzia. XIX. Ad arrestare, in parte, la distruzione fisica e morale di don Zua, erano giunti gli ultimi giorni di Maggio, tempo della partenza per la festa di S. Mauro. Don Zua aveva pensato con ansia, notte e giorno, a quella partenza affrettandola col pensiero; sognando il felice momento in cui il corpo gentile e flessuoso di Boella si sarebbe stretto fortemente al suo, quando, sullo stesso cavallo, avrebbero fatto quel lungo viaggio. Pensando a quel contatto della donna amata, don Zua aveva nel sangue certi ribollimenti strani che gli davano le vertigini, il suo corpo veniva invaso da una prurigine voluttuosa, da contrazioni nervose, che lo facevano fremere tutto. Sì, avrebbe sentito il tepore, il profumo, l’abbandono del corpo di Boella; avrebbe stretto a lungo quella manina bianca, morbida, al suo seno, e l’avrebbe costretta dolcemente a sentire le forti pulsazioni del suo cuore. In quel viaggio si sarebbe spiegato con lei; le avrebbe detto tutto, tutto. A misura che il giorno della partenza si avvicinava, don Zua si affaticava nel preparare l’occorrente. Aveva fatto apposta un viaggio, fino a Nuoro, per farsi tagliare i capelli e la barba, e per acquistare un abito di velluto color uva passa, un cappello bianco a larghe falde, ed un paio di stivaloni alti fino al ginocchio. Quella era la tenuta che, secondo lui, avrebbe fatto un grande effetto, anche sull’animo di Boella. Tornato a Mamoiada si occupò esclusivamente della pulizia del cavallo, delle staffe e specialmente degli speroni, che diventarono lucidi come l’argento. Il giorno prima della partenza don Zua era già pronto completamente, e non aspettava che l’avviso di Boella. Ogni colpo che sentiva, battuto al portone, credeva che fosse zio Marco Santoru, venuto per combinare l’ora ed il punto della riunione; Margherita starnutiva, ed egli saltava un palmo sulla sedia, perchè gli pareva che di fuori avessero chiamato: Don Zua! il gatto rovesciava sul cassone storico d’Aritzo, un setaccio appeso al muro, ed egli correva a vedere se qualcuno bussasse alla porta. Non poteva stare un minuto fermo; andava alla stalla e visitava il cavallo, che pacificamente divorava il foraggio bastevole per tre. Zua, di quei giorni, avrebbe fatto mangiare per forza il suo cavallo, perchè non voleva fare brutta figura con Boella; poi passava in rivista la sella, la briglia, le staffe, gli speroni; raccomandava a Margherita, per la centesima volta, le stesse cose, non parlandole che di Boella e di zio Marco Santoru. Margherita, che, dal famoso sogno di Zua, aveva capito molto, non ebbe più il minimo dubbio, e vedendo don Zua in orgasmo, sorrideva maliziosamente credendo ad una passioncella passeggiera. — Dunque che ne pensi tu, Margherì, di Boella Santoru, ti pare una buona ragazza? Margherita, che rammendava i calzoni vecchi di don Zua, si tirò gli occhiali sulla fronte, e sospese il lavoro, guardandolo fisamente in volto, con due occhietti grigi, penetranti e scrutatori. — Che le dirò? la Boella la credo un’ottima ragazza, un po’ guasta, un po’ viziata dal padre; si sa, figlia unica; e sopra tutto non parmi una giovinetta seria; oh, tuttaltro, la credo, anzi, leggera, assai leggera; ma già; ha sedici anni, e bisogna compatirle molto, crescendo, si farà, anche lei, seria come tutte le altre. Don Zua ascoltava, evidentemente contrariato nel suo pensiero. — Forse tu sei un po’ troppo severa con quella ragazza; voi donne fatte all’antica, certe volte, giudicate troppo rigorosamente quelle piccole abitudini, quei difettucci, che richiede il tempo in cui viviamo. Oh se tu vedessi le ragazze di città! quelle ti parrebbero davvero leggere! scommetterei che ne rimarresti scandolezzata; quella che a te, nel nostro villaggio, sembra leggerezza, in città la si direbbe.... che so... ruvidezza. — Tutto ciò che vuole, don Zua; però, quella ragazza, che del resto io ritengo buonissima, ha delle idee, che non si confanno al suo ceto. Le piacciono un po’ troppo i cavalieri, e disprezza i suoi pari; cosa che non sta bene, perchè è certo che un cavaliere non va proprio a sposar lei, sebbene sia bella e ricca. — E se ce ne fosse uno di cavaliere, che volesse sposarla, che ne diresti tu Margherì? — Meno male, ci è arrivato lei stesso, e ciò mi consola, perchè mi dimostra che lei mi ritiene degna di una sua confidenza. Questa confidenza che lei vuol farmi ora, io la sapevo già da molto. Bè, lo dica francamente, lei è innamorato di Boella, ed ora vorrebbe anche sposarla! Zua fu meravigliato della perspicacia della vecchia, ma allo stesso tempo fu felice di poter confidare, ad una persona amica, la sua passione. — Ebbene.... sì, hai indovinato; io amo Boella, e se ella vuole, la sposerò. Margherita diventò pensosa, un istante, e poi abbassando la voce, come se temesse che qualcuno potesse ascoltarla, esclamò concitata: — Se vuol dare retta a me, che gli voglio bene come una madre, si leva questa idea dal capo, perchè un giorno o l’altro dovrebbe pentirsene. — Se lei vuol prender moglie, in paese ci sono molte ragazze che si stimerebbero fortunate ed onorate d'essere prescelte da lei; ragazze nobili dico, uguali a lei, e sebbene più povere di Boella, molto più bene educate, e più.... — E più? insistè Zua impazientito. — E più serie, e meno vane e meno civette di quella pazzarella, innamorata di sè stessa. — Ma credi dunque tu, che io possa essere felice con una di quelle stupide dame, che tu mi decanti tanto? Possibile che anche nella tua testa sieno penetrate coteste idee barocche! Che importa a me che Boella non sia nobile, quando io l’amo? non hai dunque ancora capito, che io, questi nobili, quasi tutti miei congiunti, li disprezzo, perchè sono indegni della mia amicizia, perchè hanno goduto delle mie disgrazie, e mi hanno riso in faccia, quando son tornato a lavorar la terra! Che hanno fatto essi per me? chi di loro mi ha minimamente aiutato? Oh persuaditi, Margherita, che quando io dico una cosa, non la dico per ridere; io sposerò Boella, o nessun’altra: al cuore non si comanda. — Lei solo è padrone della sua volontà, disse Margherita di mal umore, perchè aveva capito, con dispiacere, che don Zua sarebbe stato irremovibile; — pensi prima a quello che sta per fare; questo è il consiglio che gli dà una vecchia, che ha molta esperienza del mondo; perchè, veda, m’è doloroso il doverglielo dire; ma un giorno o l’altro, quella ragazza la farà piangere; ed ora faccia lei, uomo avvisato..... — Mezzo salvato, grazie; io credo invece di essermi completamente salvato dalle unghie delle tue care dame. Un picchiare sommesso al portone, giunse in buon punto per interrompere quel discorso increscioso per entrambi. Margherita uscì per vedere chi fosse, e poco dopo introdusse zio Marco Santoru. Era questi un vecchietto arzillo, di buon umore, il quale in quel momento non capiva nella pelle per l’allegria, avendo saputo che don Zua s’era offerto di accompagnare, a San Mauro, la sua Boella. Ce ne volle prima che don Zua riuscisse a fargli rimettere il berretto in testa e a farlo sedere. Il povero vecchio confuso, da tanta buona grazia di don Zua non sapeva d’onde cominciare il discorso, per combinare la partenza. Don Zua lo tolse d’impaccio dichiarandogli che egli era pronto per qualunque ora, che in quel caso toccava alle donne il comandare. Zio Marco Santoru temendo d’essere stato già troppo indiscreto, si alzò, e inchinandosi goffamente disse: — Dunque, se a vossignoria torna comodo, domattina, alle cinque, si potrebbe partire, così disse Boella. — Alle cinque? benissimo, io alle quattro e mezzo sarò in casa vostra pronto. Zio Marco Santoru avrebbe voluto protestare; ma Zua, versandogli un bicchiere di eccellente vino d’Oliena, gli chiuse la bocca, dicendo: — Sicuro, è necessario che venga una mezz’ora prima, perchè bisogna che vostra figlia mi dia quei pochi oggetti, che dovrò mettere nella mia bisaccia; perchè come siamo stati intesi con lei, e se voi lo permettete, ella verrà in groppa al mio cavallo. In quel momento la voce di don Zua tremava; ma non se ne poteva certo accorgere zio Marco Santoru che piangeva per allegrezza, pensando che un nobile, qual’era don Zua Calarighes lo trattasse come suo pari; cosa che, al contadino arricchito faceva allargare il cuore per tenerezza e per riconoscenza. — E sia come vuole vossignoria, e beviamo alla sua salute, disse zio Marco quando si fu un po’ rimesso. — Alla vostra, rispose Zua, toccando col suo il bicchiere del futuro suocero, e bevette. XX. La notte precedente alla partenza don Zua non dormì. Il pensiero della sua futura felicità, il desiderio inquieto di dimostrare tutto il suo amore a Boella, occupò le ore della notte, tanto che quando dal campanile gli arrivò vibrato lo squillo dell'orologio che batteva le tre, ne fu ad un punto sorpreso e lieto. — Diggià, pensò don Zua, accendendo un lumicino ad olio, posato sopra una tavoletta assicurata al muro con due chiodi, credevo che la notte dovesse essere più lunga! Allora cominciò a vestirsi. Quella mattina don Zua fu ricercato nella teletta! Aveva rintracciato una camicia inamidata, residuo della sua vita da studente, tutta profumata di spigo e di mele cotogne, la sola profumeria che si avesse sempre permesso la buon’anima di donna Clara; e la indossò, stando a disagio, col collo imprigionato nell’alto colletto inamidato, che egli aveva smesso già da parecchio. Trovò anche una cravatta verde; ma dopo averla misurata, non gli parve degna di un viaggio e di una festa, e la tolse, sostituendola con un fazzoletto di seta azzurra, che assicurò al collo con un grosso anello d’oro, nel quale era incastonata una corniola, che era stata sempre l’orgoglio di don Pantaleo. Poi indossò l’abito color uva passa, e calzò gli stivaloni nuovi, ai quali erano stati già attaccati gli speroni, che col loro tintinnìo svegliarono Margherita. La vecchietta avrebbe dormito volentieri ancora un poco, ma fu costretta ad alzarsi per preparare il caffè al padrone. Don Zua domandava ad un frammento di specchio, incollato al muro l’impressione del suo abbigliamento; ma non riusciva a vedersi che un occhio e la metà del naso, sovrastante ad una selva di peli castagni, che funzionava da barba. L’unico vetro della finestra gli diede in parte la risposta che gli aveva rifiutato il frammento, ed egli ne parve soddisfatto. Anche Margherita, quando lo vide, al bagliore del focolare della cucina, ne parve assai meravigliata. — Buon giorno, don Zua, quest’oggi sembra proprio uscito da una scatola, pare che vada a nozze, pare; quest'oggi la figlia di Marco Santoru non si lascerà parlare da nessuno, chi sa come si gonfierà, le parrà di essere già diventata donna Boella Calarighes; oh mondo, mondo! Don Zua volendo evitare una nuova discussione con Margherita, andò a metter la sella al cavallo. Una elegante sella di velluto azzurro, ricamata in oro, che il fu don Pantaleo quarant’anni innanzi aveva adoperato quando fece il viaggio di nozze con donna Clara, nei paesi vicini. Fatta quest’ultima operazione don Zua tornò in cucina, prese il caffè per non fare dispiacere a Margherita, non perchè ne avesse voglia, e si fece portare la bisaccia che aveva preparato dalla notte precedente. Anche quella era la bisaccia, mi sia concesso di chiamarla nuziale, di don Pantaleo; bianca, a fiori rossi ed azzurri, con guarnizioni e ricami e fiocchi e cordoni pendenti. Con un salto don Zua fu a cavallo, e, dato di sperone alla bestia, uscì caracollando dal portone che Margherita aveva prima spalancato. Lo scalpitìo del cavallo sul ciottolato della via risuonò per qualche tempo, in lontananza, e quando Margherita non lo sentì più, rinchiuse il portone dicendo a sè stessa: — Chi l’avrebbe detto, che un angelo come don Zua dovesse andare a finire fra le grinfe di quel demonio in gonnella! Devono averlo stregato per bene, i begli occhi di Boella! oh povero ragazzo, che Dio gliela mandi buona! Certo che se viveva don Pantaleo le cose sarebbero andate diversamente, e quella stracciona non avrebbe mai messo piede in casa dei Calarighes. Toccherà anche a me di tribolare nella vecchiaia, mentre credevo di morire tranquilla in questa casa, dove ho vissuto sempre; faccia Iddio ciò che vuole; però io non starò certo a servire quella vanagloriosa, perchè un giorno o l’altro la finiremmo male. Iddio c’è per tutti e penserà anche per me. XXI. In casa di Marco Santoru s’erano alzati da parecchio. Allo scalpitare del cavallo di don Zua si aperse una finestra, e la testa leggiadra di Boella apparve agli occhi del giovane innamorato illuminata fantasticamente dallo splendore bianchiccio dell’alba. — Babbo, babbo, apri, esclamò la bella fanciulla, con una dolcissima inflessione di voce, — è don Zua — e scomparve dalla finestra per andargli incontro. Marco Santoru era volato ad aprire la porta, e Zua, che aveva legato il cavallo ad un anello conficcato nel muro, entrò nella casa del plebeo, accolto come un principe, fra gli inchini umili di zio Marco, ed i sorrisi provocanti ed incantatori di Boella. Il patrizio di Mamoiada non trovò una parola per salutarli; l’apparizione sfolgorante di Boella gli aveva chiuso la voce nella strozza. E Boella era proprio sfolgorante! Quanta ricercatezza, quanta raffinatezza, quanta civetteria in quell'acconciamento! Dal corsetto di scarlatto, aperto sul davanti, erompeva un seno modellato stupendamente, che la camicia candida, sottilissima, lasciava indovinare fresco e sodo, sorretto da un bustino trapunto ad oro, che finiva con due lingue acute, come due foglie di rosa, che stessero lì a proteggere quei fiori delicati. Un gonnellino, pure di scarlatto, a pieghette piccolissime, delineava le forme statuarie dei fianchi della fanciulla, e pietosamente scopriva due piedini brevi, imprigionati dentro piccole scarpette a punta, ricamate di seta. Boella s’accorse della impressione potentissima che aveva fatto sopra don Zua, e ne arrossì pel piacere; poi vedendo che il povero giovine non poteva trovare una parola da rivolgerle, fu lei che cominciò il discorso, mettendo in mostra il tesoro dei dentini perlati, con un sorriso incantevole. — Don Zua, lei ci colma di gentilezze, noi non meritavamo tanto onore, e non sapremo mai ricompensare in nessun modo il disturbo che si ha voluto prendere. Don Zua, che a poco a poco si rimetteva, prese un pò di coraggio. — Ma ti pare? Boella, io avevo fatto una promessa, e la mantengo, come tu mantieni il tuo voto; e se non fossi stato contento certo non avrei accettato la gentile offerta che mi hai fatto. — Dunque è stata questa pazzarella di mia figlia che gli ha portato questo disturbo, s’arrischiò a dire Marco Santoru, che era in estasi, e dico un disturbo perchè un viaggio da qui a S. Mauro è lungo e disagioso; la festa sarà bella e santa; ma la fatica della strada è troppa. — Non ne parliamo più, caro zio Marco, fece Zua in tono scherzevole, o comincio a credere che vi dispiaccia la mia compagnia. — Vossignoria lo fa per ridere, lo vedo bene, però gli posso giurare, da buon cristiano, che l’onore che ci fa questa volta, noi non lo dimenticheremo mai: e se per caso avesse qualche volta bisogno dell’opera mia, si ricordi che ha un servo fedele. — Andate là, zio Marco, che quel giorno non è lontano, perchè ho in mente di domandarvi un gran favore; per ora però non ne parliamo, ci sarà tempo dopo, al ritorno da S. Mauro, disse Zua rivolgendo a Boella uno sguardo lungo, quasi per farle capire che il favore prima doveva chiederlo a lei. Ella aveva capito troppo, e chinò gli occhioni sfavillanti, dopo aver posato su don Zua uno sguardo dolcemente amoroso, che valeva mille promesse. In quel momento lo scalpitare di parecchi cavalli e voci allegre rimbombarono nella via; un istante dopo fu bussato alla porta, ed una robusta voce mascolina, fra le risate della compagnia cantò: « Non pesas dal su lettu, sonnicrosa, « Pro oscurare sa luche e sas istellas, « Chin s’isplendore tuo, frisca rosa, « Reina in Mamoiada, de sas bellas? « Pesatinche a nos dare s’abbardente, « Fulgidissima istella risplendente. » (I) Un applauso generale accolse i versi cantati dall’improvvisatore, ed egli bussando nuovamente alla porta: — Olà! dormiglioni, che si fa lassù? non vi pare ancor tempo di alzarvi? la strada è lunga, ed il sole brucia, in questa stagione. — È quel matto di compare Barraca, col resto della comitiva, fece Boella guardando dalla finestra, e poi sporgendosi fuori: — Un minuto e siamo con voi; o volete smontare e venire su a prendere un pò di caffè? — Caffè? al diavolo questo decotto femminile, acquavite perdio, e a cavallo; presto, presto, comare Boella, se volete che beva alla vostra salute, e che vi dica un’altra volta che voi siete la regina delle belle del paese. — Possibile che neanche coll’incanutire vogliate (I) Dormigliona, perchè non t’alzi ancora dal letto ad oscurare la luce delle stelle, con lo splendore che tu mandi, o fresca rosa, regina delle belle di Mamojada? Alzati, o fulgidissima stella risplendente, per offrirci un poco d’acquavite. mettere un pò di senno? oh povera comare Domenica con un mobile come voi! — Ecco, ecco; ma che c’entra ora comare Domenica, non mi parlate di lei, che l’ho lasciata alle prese con quel nido di marmotte, che s’erano già tutte svegliate, e cominciavano a gridare perchè volevano la colazione! sono scappato come un disperato! — Poveretta, lei deve stare a tribolare mentre voi andate a divertirvi! — A divertirmi? peggio per lei che mi ha fatto fare il voto di andare alla festa, quando avevo quei maledetti dolori reumatici. — Dovevate condurre anche lei. — Gesummaria! e quella canaglia di bambini a chi si lasciava? Vedrete, vedrete, comà, quando c’entrerete anche voi in quel bagno, se sarete così pronta nell’andare alle feste. — Dio me ne liberi, io non voglio prender marito; ho fatto voto di restar zitella. — Voti da marinaio, comà, poi in paese si comincia a dire una certa storiella; non so se mi sono spiegato abbastanza; basta, vedremo, San Mauro farà il miracolo; non è vero? E lei, don Zua che ne dice? Don Zua, che era già sceso giù nella strada, con Marco Santoru e con la figlia, faceva finta di accomodare qualche cosa nella bisaccia, per nascondere il rossore che gli saliva al viso, e fece mostra di non aver sentito. In quel frattempo, Marco Santoru passava in giro l'acquavite ad una diecina di uomini che erano tutti a cavallo, vestiti a festa, col fucile a tracolla, quasi tutti con una donna in groppa al proprio cavallo; e Boella correva dall’una all’altra salutando tutte le sue amiche, che si chinavano per dirle all’orecchio qualche paroletta allusiva a don Zua. Ella le ascoltava sorridente, cercando di schermirsi; ma contenta intimamente, che si cominciasse a sapere in paese che don Zua era seriamente innamorato di lei. XXII. Dopo pochi minuti la comitiva era pronta per la partenza. Zio Marco Santoru dopo essersi assicurato che la figlia stava comoda, in groppa al cavallo di don Zua, provò se la porta di casa fosse ben chiusa; e poi salito sopra un sedile di pietra situato vicino alla porta, montò a cavallo con una leggerezza da giovinetto di vent’anni. Pietro Barraca allora dando di sprone al cavallo aprì la marcia, intuonando una canzone improvvisata. Fatta mezz’ora di strada, la comitiva prese una viottola sabbiosa che si internava in un bosco fitto e nero, di querce altissime. Dall’una all’altra immense cortine di liane e d’edera cadevano a sbrendoli, a festoni, a ghirlande, avvolgendo i tronchi giganteschi con ricami fantastici. Il sole che era spuntato da poco, non penetrava che a sprazzi fra quel verde fogliame, che stormiva cupamente, smosso da una brezza fresca, profumata dagli effluvi di giglio e di menta che salivano su, da un fiumicello, frangentesi fra rocce altissime, coperte di musco e di verzura. Gli uccelli, in quella dolce pace, facevano una gran festa: che fischiettìo, che garrire, che gorgheggiare, che svolazzare allegro! Le libellule dorate, a voli, a nugoli, si inseguivano tra gli ampi macchioni, dileguandosi, ricomparendo, per nascondersi di nuovo, svanendo in lontananza come nebbia lumeggiata d’oro dai raggi del sole. Quanto amore, quanta pace serena, quanto profumo soave in quelle solitudini del bosco! Ogni ramo fronzuto nascondeva famiglie intere di innamorati, sotto ogni foglia si intesseva un idillio, zampillava una canzone; dappertutto baci, dappertutto carezze! Gli uccelli, le farfalle, le piante, i rami, le foglie si baciavano, si amavano, si davano liberamente, completamente all’amore, alla voluttà! Quei canti, quegli idilli, quei profumi innebrianti invadevano il cervello di don Zua, che sentiva il contatto caldo del bel corpo di Boella, la quale si appoggiava con abbandono sulle sue spalle. Il cavallo aveva rallentato il passo, e a quando a quando si fermava, per brucare i ciuffi d’erba fresca che crescevano sotto agli ampi macchioni. Zua più volte aveva aperto le labbra per pronunziare una parola d’amore; ma la voce gli era rimasta in gola, e non ne era uscito che un sospiro. Boella se n’era accorta, e con fina civetteria disse: — Perchè sospira così forte, don Zua, si direbbe che ha lasciato il cuore a Mamoiada, e che ora siasi pentito di essere venuto alla festa con noi; se è così, non faccia complimenti, io cambio cavallo e lo lascio in libertà. — Boella, proruppe don Zua, deh! non parlar così! sono due mesi che l’immagine tua non mi abbandona più, che mi segue dappertutto, la notte e il giorno; due mesi che io non vedo che te, perchè ti porto scolpita nel cuore. Non ho mai osato parlarti dell’amor mio, perchè avevo paura d’offenderti, perchè temevo una tua ripulsa; ora tu l’hai voluto, tu mi hai costretto a confessarti ciò che avrei voluto tener celato a me stesso; Boella, non sii crudele, non uccidermi. Mi ami tu? rispondimi, mi ami? Vuoi esser mia? Boella non rispose; ma la sua manina strinse fortemente quella di don Zua, ed egli se la portò con passione alle labbra. Il cavallo intanto aveva lasciato la viottola, e brucava l’erbetta verde di uno spianato, protetto dall’ombra di folte querce. In quel momento un galoppare frettoloso richiamò alla realtà gli innamorati. Era Pietro Barraca che tornava indietro per cercarli. — Che, giovanotti, se si continua di questo passo, arriviamo a S. Mauro l'anno venturo! Don Zua, stimoli di più il suo cavallo e non lo risparmi troppo. Se crede, Boella può montare in groppa al mio, forse si cammina più svelti. Don Zua capì la lezione, e rosso come un papavero, diede di sprone al cavallo, raggiungendo subito la comitiva. In fondo nell’orizzonte, s’ergeva alta e cupa la montagna di Gonari, con la chiesuola in cima, indorata dal sole, simile ad una gigantesca piramide egiziana, sulla quale stesse accovacciata una sfinge mostruosa. Un branco di caprette bianche pascolava sparso nel bosco, arrampicandosi sui greppi tagliati a picco. Disturbate nella loro quiete solitaria, dal rumoroso passaggio del piccolo drappello dei viaggiatori, prima fuggivano spaventate, facendo squillare vivamente i campanacci, e poi, quando si credevano sicure, si fermavano voltandosi indietro, a guardare i passeggeri coi grandi occhi dolci. Il fiumicello strepitava sempre fra le rocce, e i cespi di menta mandavano sempre i loro acuti profumi. XXIII. Gavoi! esclamò trionfalmente compare Barraca, scuotendo i compagni di viaggio, da quella specie di sonnolenza in cui li avevano immersi il sole caldo e le esalazioni del bosco. Tutti si arrestarono, fissando lo sguardo nel punto indicato da Pietro Barraca, che diritto in arcione pareva uno scopritore di nuove terre e di nuovi mondi. Lontano, lontano, infatti, appena visibile fra i vapori erranti del mattino, si distingueva il campanile lungo e nero di Gavoi. — Ancora un paio d’ore di strada, è vero? chiese don Zua. — Oh scommetto che lei, se lo si lasciasse fare, ne impiegherebbe cinque, rispose allegramente Pietro Barraca, ecco ciò che vuol dire esser giovani e voler troppo bene al proprio cavallo. Oh giovanotti, giovanotti! alla sua età, in compagnia di Boella, anch’io avrei impiegato qualche giorno, da Mamoiada a S. Mauro; ma ora il burchiello si regge malamente in acqua, che ne dite voi compare Santò? — Compà, voi siete un gran matto, ecco ciò che dico io. — E un gran maligno, aggiunse Boella, rossa come una ciliegia. — Bè, allora beviamoci sopra, disse comicamente Pietro Barraca, estraendo da un’enorme bisaccia, una immane zucca piena di vino, sulla quale erano incise artisticamente tutte le avventure di Giove. — Alla salute degli sposi, esclamò Barraca appressando la zucca alle labbra. — Evviva, risposero tutti in coro; ma poi, dopo un momento di riflessione, Marco Santoru domandò: — Di quali sposi volete parlare, compà? — Di San Giuseppe e della Vergine santissima, compà, io ho detto abbastanza; voi bevete e datemene nuove; è vero Oliena di tre anni, vino per la festa, cari miei, vino da sposi, non è vero, don Zua? — Bella zucca, disse don Zua, tanto per dare una nuova piega al discorso, bella, bella assai; volete farvi un amico? — Senta, don Zua, in questa zucca ha bevuto mio padre, quando sposò mia madre buon’anima, che era la più bella ragazza di Mamoiada, io l’ho ereditata per diritto di primogenitura, ed avevo fatto proponimento di cederla a mio figlio come blasone di famiglia; che vuole? ognuno ha le sue idee; però adesso cambio d’opinione. — Il giorno che lei sposerà.... quella ragazza che noi conosciamo, lo voglio fregiare dell’ordine della zucca! — Evviva gli sposi! — Evviva, evviva! — E avanti in cammino, aggiunse Pietro Barraca, rimettendo l’enorme zucca nella bisaccia, da qui ad un'ora ne avremo bevuto un bicchiere a Gavoi! Pietro Barraca non aveva calcolato male la distanza, perchè i festaiuoli dopo un’oretta entrarono a Gavoi. Senza smontare fecero una breve sosta, dinanzi ad una porticina, in cima alla quale era innastato un cencio rosso a brandelli, accanto ad una tavoletta accartocciata dal sole, sulla quale si leggeva malamente: OSTERIA DELLA CAMPAGNA CON VINO D’OGLIASTRA Gli uomini, lusingati da quest’ultima parte dell’insegna, bussando con la canna del fucile contro la porticina, svegliarono il padrone di casa che sonnecchiava sopra una scranna, e comandarono parecchi litri; alle ragazze fu subito apprestato il classico rinfresco dei contadini sardi, il così detto bianco e rosso, dal padrone dell’osteria, un vecchietto poco pulito, per fare il mestiere di tavoleggiante, ed affetto da congiuntivite cronica. Però l’arsura che bruciava la gola di quelle ragazze piene di fuoco, non lasciò loro il tempo di fare delle considerazioni troppo spinte sulla pulizia dei bicchieri, e trangugiarono avidamente la bevanda freschissima. — Fresca? chiese l’uomo dalla congiuntivite. Boella accennò di sì. — Chi sa quanti la desiderano, anche in città, l'acqua di Gavoi! riprese l’oste, se l'avessero a Cagliari non prenderebbero più di quei sorbettacci, che costano un occhio e rovinano lo stomaco; mentre qua, gli Aritzesi, per la festa di S. Antioco, ne vendono anche a cinque centesimi l’uno. Zio Marco Santoru interruppe le considerazioni dell’ometto sudicio, per pagare il conto, e Pietro Barraca riaprì la marcia. — A rivederci in buona salute, disse zio Marco, intascando il resto dello scudo che aveva dato, e contandolo in saccoccia, perchè l'oste non s’accorgesse della sua diffidenza. — Dio lo voglia, e buona festa. — Grazie. Gavoi presentava poco di notevole ai viaggiatori, malgrado l’altissimo campanile, nero, col suo secolare caprifico in cima. Il paese s’inerpicava su per la ripida costa di un colle verdeggiante, e le casette nere, di granito, e di fango coi tetti oscuri, pareva stessero là attaccate per miracolo, come giganteschi nidi di rondine. Nella piccola traversata dentro il paese, non si videro che poche donne, col loro cappuccio rosso, sedute al sole, malgrado il gran caldo, intente a filare, od a cercare, chi sa che cosa, nelle teste arruffate dei loro bambini seminudi e sporchi: qualche vecchio, accovacciato per terra, fumando religiosamente la pipa foderata con lamina d’ottone, con una cannuccia di noce istoriata, colla punta del coltello, nelle lunghe ore di noia; e pochi giovani, che si incalorivano giuocando alla morra, gridando come disperati. Nelle convalli risuonava, cupo, lo squillo del corno da caccia, formato, come in tutta la Sardegna, da una grossa conchiglia, alternandosi con le voci lontane dei battitori. Dopo queste distrazioni del momento, la comitiva, ripresa la campagna, parlò un pò di Gavoi, delle sue famose fabbriche di speroni, del secolare campanile, orgoglio dei Gavoesi; ma a poco a poco la conversazione cadde e il silenzio fu solo interrotto a quando a quando, da qualche sbadiglio rumoroso dei più affaticati dal viaggio. XXIV. — Accidenti! proruppe Pietro Barraca smascellandosi con uno sbadiglio, non posso più reprimere gli sbadigli! fossi un giovinetto innamorato, e avessi una bella fanciulla in groppa al cavallo direi che sono sbadigli d’amore insoddisfatto; ma con cinquant’anni suonati non c’è più da illudersi; ora che ci penso però parmi che sia effetto di una certa languidezza di stomaco, la quale comincia a farsi sentire; che ne pensate compare Santò? — Penso che la ruota ha bisogno d'essere unta, perchè giri, e già da parecchio anche io pensava come voi; ma attendeva che fossero stati i giovani a proporre la colezione, per paura d’essere canzonato se l'avessi fatto io. — Oh stiamo freschi noi, poveri vecchi, se aspettiamo che venga l'appetito a questi giovinotti; non vedete che mangiano con gli occhi? non vi accorgete che questa brava gente vive tutta d’amore? Scommetterei la mia zucca di famiglia, contro un soldo, che don Zua, per esempio, non ha voglia d’aprir bocca; e neanche Boella. — Invece noi si muore di fame, ribattè don Zua, non è vero, Boella? — Oh certo, disse la fanciulla, e voi, compare, avete perduto la vostra zucca. — Sì, se avesse scommesso qualcuno con me; ma già, voi, per farmi perdere, eravate capaci di mangiare, anche senza averne voglia; però, se si farà quel tale matrimonio, presto o tardi sarà cosa vostra. Zio Santoru fece finta di non sentire, e gli altri, per riguardo a don Zua ed a Boella, lasciarono passare inosservato il frizzo di Pietro Barraca. — Intanto ci perdiamo in chiacchiere, riprese don Zua, ma non si pensa a far colezione. — Spero che non vorrà fermarsi qui, sotto al sole, rispose Barraca, mentre lassù vi è tutta quella grazia di Dio. A pochi tiri di schioppo al di là di un fiume, che si doveva guadare, nereggiava la gran massa di un bosco, pieno d’ombra e di erba fresca. I cavalli ne sentirono l’odore e lo salutarono con un nitrito di gioia, affrettando l’andatura. Di lì a un quarto d’ora la comitiva irrompeva chiassosa nel bosco. Centinaia di colombi selvatici fuggivano spauriti dalle cime delle querce altissime, e le gazze, volando da un ramo all’altro, incominciarono un chiaccherìo insolente, quasi adirate d’essere state disturbate nella loro pace domestica. Il bosco susurrava leggermente, perchè i buffi, freschi e profumati, del vento, facevano stormire le sue giovani foglie. L’appetito stuzzicava tutti della comitiva; perciò, smontato ognuno da cavallo, mentre le donne pensavano di rinfrescare i bei visetti, arrossati dal sole, nell’acqua chiara e freschissima di una fonte, che scaturiva sotto un’immensa roccia, completamente coperta di musco, a mille colori, gli uomini si adoperavano per liberare i cavalli dalle ampie bisacce, colme di pani, di aranci, di dolci per la festa. Là, presso alla fonte, una quercia colossale gettava la sua ombra protettrice, per una ventina di metri tutt’intorno, fecondando con la sua frescura, migliaia di margherite candidissime. Pareva che la natura avesse pensato di far crescere colà, vicino a quella fonte freschissima, quella quercia, che doveva essere il rifugio ambito di molti viaggiatori, nella caldura afosa dell’estate. E Pietro Barraca che molte volte s’era ristorato sotto quelle ombre, in un minuto dispose l’occorrente per la refezione. La colezione fu allegra, tanto più perchè la zucca storica di Barraca, seguita da molte altre di minori dimensioni, faceva molto spesso il giro della mensa; e volere o no il buon umore spuntò piano, piano in tutti, anche nei più stanchi. Le donne, dopo il pasto, s’erano ritirate tutte in disparte, e pispigliavano soffocando il riso coi grembiali, quando riuscivano a far arrossire don Zua, il quale aveva fatto di tutto per avvicinarsi a Boella, scartandosi dal crocchio degli uomini, che fumavano la pipa, o schiacciavano un sonnellino, appoggiando la testa sulle selle. Don Zua avrebbe voluto dire mille cose, avrebbe voluto mostrarsi disinvolto dissimulando ciò che sentiva in cuore; ma riusciva sempre più a confondersi, in mezzo a tutte quelle ragazze che conoscevano perfettamente il suo segreto. Boella era raggiante di gioia e di bellezza. Quel po’ di sole preso nel viaggio aveva leggermente rosato le sue guancie vellutate aggiungendo grazia al suo viso. A quando, a quando posava lo sguardo dolcemente su don Zua, affascinandolo ognora più, rendendolo sempre più suo schiavo. Nella dolcezza di quel riposo le ore erano passate veloci, e la sera cadeva. Lontano, sulla costa del monte, Gavoi incendiato dal fuoco di quel tramonto primaverile, naufragava in un mare di luce e di colori. Fu dato il segnale della partenza, e ciascuno si preparò per rimontare a cavallo. Due minuti dopo la comitiva si rimetteva in cammino, in mezzo ad un bosco foltissimo di querce, che li accompagnò fino ad Ovodda. Ovodda è un altro dei tanti paesi della Sardegna, condannati all’oblio eterno. Qualche centinaio di casette annerite dal tempo, sparse qua e là disordinatamente, su per una piccola pianura. Anche colà le solite donne accovacciate in terra, sul limitare delle porte dei propri tuguri, gli stessi bambini seminudi e sporchi, ruzzolanti fra la polvere della strada. Alla porta di una casetta, la quale all’aspetto pareva avesse una certa importanza, un panciuto appuntato dei carabinieri, fumava con voluttà una grossa pipa di terracotta mandando certe boccate di fumo abbondanti come nuvolette. Egli vide da lungi la comitiva, ed indovinò che fra quel nugolo di camice bianche e di corsetti rossi, doveva nascondersi qualche bel visino. Diede una ravviatina al pizzo che gli copriva a metà il petto, coperto da molte medaglie, di grasso, e trattenendo il respiro, cercò di obbligare la pancia canonicale a restringersi, imprigionandola dentro la giubba, prima pacificamente sbottonata. Quando i Mamoiadini gli passarono davanti: — Buona festa, gridò, facendo loro un cenno d’addio pieno di protezione, e poi rivoltosi agli ultimi, che erano don Zua e Boella: Un’avemaria anche per me, forse San Mauro mi porterà fortuna, se intercede una bella ragazza come te. Don Zua, il quale cominciava a vedere un rivale in ogni carabiniere fu sdegnato del complimento arrischiato del pingue appuntato, e fremette di rabbia; ma si limitò a rispondere semplicemente con uno sguardo sprezzante. — Per San Domenico, come lo ha guardato! esclamò un gobbetto, intento a rattoppare un paio di ciabatte vecchie, seduto sul limitare della porta di una casupola dirimpetto alla caserma, — pareva se lo volesse mangiare! — Eh l’amico dev’essere lo sposo di quella gioia di bambina, povera farfalla in bocca a un rospo! — Che, gli fa gola forse? — Bah, non dico che sia da disprezzare un bocconcino come quello; però se mi ci metto.... — Oh lei caccia selvaggina migliore in paese, senza che vada a scovarla altrove, riprese il gobbetto, che conosceva il debole dell’appuntato; si vede che lei è nato sotto buona stella, non io povero sventurato. — E via, in paese si dicono tante cose sul conto mio; ma non è vero niente, qualche piccola avventura, che non vale la pena neanche di ricordare; cose che a noi militari succedono tutti i momenti. — Eh, lo so, lo so, la divisa piace alle donne, e si dice che Chicca, si sia lasciata abbagliare dallo splendore dei suoi bottoni. — Fa silenzio, gobbo maligno, e vieni qui che ti voglio affogare in un litro di vino, così non parlerai più. Il gobbetto sorrise tra sè, malignamente, e tutto lieto d’aver raggiunto lo scopo, si trascinò sulle gambette storte, fino alla caserma, ed entrò dentro a riscuotere il prezzo delle sue adulazioni. XXV. Da Ovodda a Tiana la traversata non è lunga, poco più di mezz’ora di strada, e si giunge a quest’altro paesello, più infelice dei primi, precipitato dentro un fosso, sebbene pittorescamente circondato da boschetti di noci, nocciuoli e di castagni. A Tiana come in certi altri paesucoli della Sardegna, perduti in un bosco e dimenticati anche dai deputati provinciali, il passaggio di un forestiere a cavallo, dentro il paese, in ispecie se di ceto signorile, era in quei tempi argomento di mille discorsi, di mille supposizioni. La notte cadeva umida e serena, e fra i bagliori del crepuscolo, giù, in fondo al valloncello, la compagnia dei festaiuoli cominciò a distinguere il paese. Dai tetti neri come la pece si innalzavano lunghe colonne di fumo, che pareva stessero immobili, perchè non tirava un alito di vento. Un mormorio confuso di campanacci e di canti pastorali si sentiva in lontananza; ma a misura che i viaggiatori si andarono avvicinando, il mormorio diventò più chiaro, i canti si ripercossero nitidi e freschi per la convalle, accompagnati dal tintinnio dei campanacci delle caprette che rincasavano, e lo squillo dell’avemaria pioveva dal campanile sul quieto paesello, serenamente dolce, come una cantilena. All’ingresso del paese i viaggiatori si fermarono. — È tempo di decidersi, disse Pietro Barraca, si rimane a Tiana, o si va a dormire nel bosco? — Si va nel bosco, rispose subito don Zua, il quale, come ogni innamorato, era attirato da un sentimento di poesia, a passare una notte nel bosco, vicino alla sua amante, per bearsi a contemplarla nel sonno, illuminata dai raggi pallidi della luna. — Nel bosco, nel bosco, aggiunsero alcuni altri; là non si dà seccatura a nessuno, e domattina si parte all’ora che più ci piace. — Adagio, adagio, giovinetti, obbiettò zio Marco Santoru, che fin allora era stato in silenzio, — per noi, una notte nel bosco è la cosa più geniale del mondo; quattro tronchi nel fuoco, un sorso di vino, una fumata, e via, cadesse anche la neve a palate; ma per queste ragazze la faccenda è diversa; non sono punto abituate, e non vorrei che qualcuna domani si svegliasse con la febbre! — Oh le delicatine! fece Boella, in tono canzonatorio, — perchè non ci chiudete addirittura in una nicchia, come la madonna del Rosario? — Lo sapeva io che tu dovevi dir qualche cosa, ripetè zio Marco; però quando hai solamente un doloretto di testa, ci vuole un santo per trattarti. Che dite voi, compare Barrà? — Voi avete ragione da vendere; per noi, tant’è, il bosco o il letto; ma questi gingilli han da essere custoditi come meritano; a Tiana, a Tiana! Don Zua, paventando per la salute di Boella, lasciò da parte le fantasticherie poetiche e diede ragione ai vecchi. — Quel che parmi un po’ scorretto si è che tutti dobbiamo andare in casa del vostro amico, compare Barrà, di Beppe Diego Lidone, parmi abbiate detto; diamine siamo sedici individui e nove cavalli, la mi pare una sconvenienza davvero. Non sarebbe bene che gli uomini andassimo a dormire in campagna? — Ma vi pare? Si vede che non conoscete Peppe Diego; la sua casa è un convento, e nelle sue stalle ci sta una mandra di cavalli. Quando monsignor vescovo fa il giro pastorale per la cresima, va sempre in casa sua; e persuadetevi che quella razza di gente non va mai sola; sono come la peste! ha sempre dietro di sé uno stormo di pretonzoli e di canonici panciuti, che mangerebbero la parrocchia, se fosse di pasta di mandorle! Via, scacciate ogni dubbio, e venite con me, e persuadetevi che sarete bene accolto, forse meglio di me. — Poiché è così andiamo, conchiuse zio Marco, ed affidiamoci alla generosa ospitalità del vostro amico. — Generosa davvero, proprio da Sardo; oh vedrete, vedrete, che uomo; vi tratta subito col cuore alla mano, come se foste nati nella stessa casa, e vi conosceste da cinquant'anni; la sua casa è vostra; persuadetevi che non vi metterà in soggezione. Eccoci arrivati, quella casa bianca è la sua. Fine del I. Volume Sassari, Prem. Stab. Tip. Dessì